Top 10 del 2009, niente classifica, qualche nome, tanti esclusi

Lo sapevo, anche stavolta mi becco un bel “inclassificabile”: arriva un altro fine anno e io non mi sono preparata, anche se me l’ero ripromesso. Non sono in grado di stilare l’immancabile classifica dei top 10 del 2009. Faccio confusione con le date, tra il vecchio e il nuovo. E poi da quand’è che un disco intero mi lascia un bel segno sul cuore? Preferisco allora ricordare con gratitudine qualche nome, sganciato dal cd, dimenticandomi sicuramente di qualcuno: i Dead Weather di Jack batterista, le colonne sonore di Cave + Ellis e quella di “Milk” firmata Danny Elfman, e ancora Grizzly Bear, Kazabian, Gogol Bordello live, Antony, gli italiani Amari, “Poweri” ma non di spirito né di lieve ironia, i divertenti, fantasiosi Zero7 (grazie ad Andrea che me li ha fatti conoscere, a lui piacciono molto anche gli ultimi Air, io preferisco i primi), i giocosi e gioiosi Mum, Danger Mouse & David Lynch con “Dark Night Of The Soul” solo sul web piuttosto che l’ultimo noioso Moby. E visto il periodo, il disco di Natale di Dylan: il contrasto stridente tra le voci femminili dolcissime anni Quaranta e quella catarrosa del Bob mi fa tenerezza. Ancor di più quando cerca di cantare in latino. La scorsa estate discutevo di musica con Fefè lo scettico: non c’è niente degno di nota, si lamentava, forse le cose più belle vengono dalle donne. Nel 2009 la mia preferita invece mi ha deluso – P.J. Harvey + John Paris sono una lagna – per non parlare di Peaches, disco music di serie Z, l’ultimo di Cat Power è del 2008, ed anche Joan Wasser, quindi andiamo fuori tema e in ogni caso non griderei al miracolo. Idem per Neko Case. Sul fronte delusioni l’elenco sarebbe lungo assai, all’insegna del già sentito, e meglio. Ed anche tra gli “originali” non c’è da stare allegri, anche se Rolling Stone, a proposito di classifiche, mettere ai primi due posti gli U2 e Bruce che invece a me, che pur gli amai, han fatto pena. Per tenermi legata al 2009 chiudo con due anniversari: quarant’anni fa i Clash registravano “London Calling”. Che struggimento nel rivederli nel dvd che li riprende in studio, così giovani, sinceri, magri, naif, il produttore matto ma bravo che li incita sbattendo sedie e scale sul pavimento. Nel 2010 cade invece il cinquantenario della morte di Hendrix: che il suo spirito ci protegga…

La percezione del tempo

La nostra percezione del tempo si pone a diversi livelli.

1. Astronomico: è il sistema solare che dà un concetto oggettivo dello scorrere del tempo al nostro pianeta; e questo è su base annuale, mensile, giornaliero. Il nostro calendario del tempo può essere solare, lunare, lunisolare; possiamo avere mesi divisi in settimane o in decine di giorni; possiamo avere misurazioni quotidiane del tempo molto diverse (per ore, per gruppi di ore ecc.), ma non si può in alcun modo calcolare il tempo in maniera indipendente dal sistema solare (anche quando si usa il calendario lunare, dopo un certo periodo bisogna fare un aggiustamento per evitare le sfasature).
Il motivo di questa dipendenza oggettiva ci è ignoto: sappiamo soltanto che se agiamo in modo tale da non tenerne conto, subiamo degli scompensi: il nostro organismo, inclusa la nostra mente, subisce pericolose o innaturali modificazioni (p.es. insonnia, allucinazioni, stress…). Noi abbiamo bisogno di essere regolati da un preciso movimento del tempo (cosa che nelle donne è ancora più visibile che nell’uomo).
Il fatto stesso che esista un periodo di veglia e un periodo di sonno lo dimostra. L’assenza di luce, in maniera naturale, ci fa piombare nel sonno, come se la natura volesse dirci che abbiamo bisogno di riposare dalle fatiche sostenute nel periodo di veglia (e chi vive di notte, se non riesce a dormire di giorno, impazzisce).
Quando si dorme si ricaricano le pile della nostra esistenza: un terzo della nostra vita lo passiamo dormendo. La natura non ha bisogno della nostra attività per 24 ore al giorno. Siamo noi che abbiamo bisogno di comportarci in maniera naturale, accettando l’invito a dormire. E se è così, qualunque cosa che ostacoli questo processo, andrebbe vietata.
2. Fisico: ogni essere umano è soggetto inevitabilmente a morire. Noi possiamo anche non sapere quando siamo nati, chi ci ha messo al mondo e dove l’ha fatto, ma non possiamo sottrarci all’esperienza della morte. Sappiamo cioè, guardando i nostri simili, che, oltre una certa età, si moltiplicano vistosamente le possibilità di morire.
I processi degenerativi sono parte costitutiva del nostro fisico e dobbiamo accettarli come un fenomeno naturale. Ogni tentativo di ritardarli, di ridurli, di renderli addirittura impossibili attraverso un uso scriteriato della scienza e della tecnica (ibernazione, coma artificiale ecc.), serve soltanto ad aumentare la frustrazione, a creare ingiustificate aspettative.
Se si accetta la propria morte con naturalezza, la si affronterà con maggiore serenità, anzi come occasione di liberazione di un corpo malato, indebolito, non più in grado di rispondere alle nostre esigenze.
La morte è necessariamente il trapasso da una condizione di vita a un’altra, poiché nell’universo tutto si trasforma. Se il nostro spirito morisse progressivamente col nostro fisico, non avvertiremmo la morte come una liberazione, ma come un’inspiegabile condanna.
3. Psicologico: il tempo che viviamo è in funzione delle nostre aspettative. Questa è una caratteristica tipicamente umana, sconosciuta al mondo animale. Noi abbiamo la percezione che il tempo sia lungo o corto, leggero o pesante, intenso o noioso, a seconda di come ci poniamo nei confronti della vita.
Quanto più forti sono i nostri desideri, tanto più un tempo breve ci apparirà lunghissimo; quanto meno sono intensi, tanto più accadrà il contrario. E l’età che abbiamo sicuramente ci condiziona nell’avere uno dei due atteggiamenti: i giovani vogliono “essere”; gli anziani si accontentano di “non essere”.
Lo scorrere del tempo diventa insopportabile, ci angoscia o addirittura ci impaurisce quando i nostri desideri non si realizzano e soprattutto quando abbiamo la percezione che sia giunta la nostra “ora” (che può essere sì quella di morire, ma anche quella di andare in esilio o di nascondersi per non finire nelle mani del nemico).
Quando arriviamo ad aver paura del tempo, dovremmo chiederci che cosa fare per mutare la situazione che ci induce in questo stato d’animo innaturale. Se il tempo ci pesa, perché ci pesano le contraddizioni dello spazio in cui lo viviamo, dovremmo reagire e non comportarci come talpe, conigli o camaleonti.
Ci è dato da vivere un tempo proprio per soddisfare le esigenze identitarie dell’io, nel rispetto di quelle altrui. Chiunque ostacoli questo processo, andrebbe messo nella condizione di non nuocere.
4. Logico: spazio e tempo vengono costantemente usati nelle scienze esatte (matematica, geometria, fisica, astrofisica, chimica ecc.). Sono forme computabili, calcolabili, proprietà dell’intelletto – direbbe Hegel -, non della ragione, proprio perché una verità tende a escludere l’altra, a meno che non si arrivi a dimostrare, dopo molti ragionamenti astratti, la fondatezza di altre verità ancora. Qui lo spazio e il tempo non vengono usati per scoprire la vera essenza delle cose, ma solo le forme in cui metterle tra loro in relazione.
5. Metafisico: spazio e tempo sono categorie usate per interpretare le cause ultime della nostra esistenza, dell’origine del nostro pianeta, del suo sistema solare e di tutti gli altri infiniti sistemi solari dell’universo. E’ questo – dicono i filosofi – il campo della ragione, ma, molto più spesso, sembra il campo della fantasia, specie quando la filosofia s’ammanta di concetti religiosi.

Milano Ittaglia: per metterla in ginocchio non serve il generale Inverno, basta il caporale Un Po’ Di Neve. Mentre passa per martire tipo S. Sebastiano il Berlusconi che vorrebbe strangolare qualche regista e fa il gesto “scherzoso” di sparare a una giornalista, il presidente Napolitano ha fatto passi da gigante: per definire aggressione quella di Tartaglia a Berlusconi non ha aspettato decenni come nel caso dell’Urss contro l’Ungheria e non s’è voltato dall’altra parte come per la mattanza di Gaza


http://www.youtube.com/watch?v=cbfeGUI6Ltc&feature=rec-LGOUT-exp_fresh+div-1r-3-HM

Il lato comico è che a Milano quando c’è un accenno di neve la gente veste come se dovesse attraversare il polo Nord o la Siberia. Ovunque, cappotti e giubbottoni o pellicce esagerate, cappucci stile Natasha, guanti iper, doposcì o stivali a tenuta stagna che neppure Napoleone alla Beresina. Con un grado sotto zero i milanesi si convincono di essere tutti in Lapponia, e più sono ricchi più sono ridicoli nel loro vestire demenzial siberiano e andare anche al bar sotto casa con il fuoristrada o comunque il mega cafone macchinose galattico. Poi però, a conferma che l’importante è fare scena e fregarsene della realtà reale, far finta di essere qualcuno e qualcosa senza in realtà essere niente e nessuno, insomma sotto il vestito e i capelli niente di niente, ecco che ogni volta che nevica sul serio Milano va in tilt, 10-20 centimetri di neve – per giunta previsti da una settimana – le fanno l’effetto di 10-20 vodke a un astemio. Napoleone e l’Italia di Mussolini furono sconfitti in Russia dal generale Inverno, Milano e l’intero Strapaese sono invece regolarmente messi in ginocchio dal caporale Un Po’ Di Neve. A Washington sono caduti 60 centimetri di neve, oltre il triplo che a Milano, eppure non c’è stata nessuna paralisi. A Milano invece con una spazzolatina di neve sparisce l’acqua in posti come Rozzano, senza che nessuno sappia o dica il perché, e non reggono i trasporti, il traffico e neppure il cervello degli amministratori cittadini, come fosse già debole di suo. Ho sentito con le mie orecchie il vicesindaco De Corato, persona seria e credo anche onesta, straparlare di soli otto mezzi “spargineve” in una intervista a Radio Popolare. Solo dopo molti minuti si è accorto che stava confondendo gli autocarri spargisale con gli inesistenti “spargineve”, per fortuna appunto inesistenti: ci manca solo che a Milano già al tracollo per la neve ci fossero pure camion che ne spargono ancora. Il brutto però è che, e mi duole dirlo, anche l’intervistatore di Radio Popolare è andato avanti un bel pezzo ripetendo degli “spargineve” che uscivano dalla bocca del vicesindaco.

Non ricordo se era il1985 o qualche anno dopo, ma a Milano ci furono una quindicina di centimetri di neve e andò tutto in malora, esattamente come questa volta. Feci una inchiesta per L’Espresso in tandem con il mio collega Roberto Di Caro. Chissà se gli sono cadute le braccia anche a lui in questi giorni… Continua a leggere

Dalla Repubblica all’Impero: una transizione ancora possibile?

Con questo governo di centro-destra vien spontaneo chiedersi se stiamo assistendo agli ultimi colpi di coda della prima Repubblica o se invece non si stia formando un nuovo modo di fare politica.
In che cosa consisterebbe questo modo nuovo? Anzitutto nel fatto che il premier, una volta eletto dai cittadini, vuole considerarsi al di sopra delle istituzioni. Esattamente come gli imperatori romani, che non tenevano in alcuna considerazione le tradizionali istituzioni statali, preferendo puntare sull’esercito, su propri funzionari di fiducia, sul consenso demagogico delle masse e, indirettamente, su quello dei grandi proprietari terrieri, per i quali decisivo era il fatto che nessuna istituzione politica minacciasse il loro enorme potere economico (gli imperatori infatti si limitarono a togliere loro soltanto il potere politico).
L’esercito dava al principe la sicurezza relativa alla propria incolumità, alla società la difesa dell’ordine pubblico e all’impero quella dei confini. I funzionari, nominati personalmente dal sovrano, garantivano da possibili tendenze autonomistiche, specie nelle lontane province. Il populismo serviva invece per contrastare i reiterati tentativi, da parte delle istituzioni formalmente democratiche (la maggiore delle quali era il senato), di riprendersi il potere politico perduto o almeno di ridurre in maniera significativa quello dell’imperatore.
Il marcato individualismo degli imperatori si traduceva in un inevitabile culto della personalità, che non raramente sfiorava l’idolatria.
A quel tempo i mezzi e i modi per garantirsi il consenso delle masse erano la costruzione di imponenti edifici pubblici, la cui realizzazione richiedeva ingente manodopera, la possibilità di fare carriera politica, militare, amministrativa in maniera molto rapida, ma anche di poter frequentare luoghi di ozi e di divertimento che prima erano appannaggio di pochi, e così via. La ricchezza doveva essere, apparentemente, alla portata di tutti e nessuno doveva avere l’impressione che l’impero fosse terribilmente in crisi. Cosa che invece fu chiarissima a partire dal III secolo.
L’esigenza di una leadership imperiale assunse particolare consistenza proprio quando terminarono le imponenti rivolte schiavistiche. L’ultima significativa fu quella di Spartaco, mentre tutte quelle che avvennero nella fase imperiale, non riguardarono l’Italia, ma le province, cioè le colonie, dove il motivo prevalente era l’esosità fiscale dello Stato, che gli imperatori cercheranno di mistificare concedendo ai “provinciali” diritti pari a quelli dei “cittadini romani”.
Al tempo di Diocleziano l’esercito raggiungeva le 600.000 unità e il potere politico aveva quattro corti da mantenere (tetrarchia). Per difendere i confini dell’impero si era ripristinata la leva obbligatoria, pur senza rinunciare a un esercito di professionisti. Questo perché da tempo i ribelli interni all’impero si trovavano sempre più spesso a fare combutta coi barbari che vi premevano dall’esterno. Persino gli imperatori, piuttosto che cimentarsi in dispendiose guerre di frontiera, preferivano chiedere ai barbari di entrare nelle file dell’esercito romano, difendendo, contro altri barbari, gli stessi confini che prima cercavano di valicare.
La figura “magica” dell’imperatore non nasce per reprimere la resistenza degli schiavi, ma perché la gestione statale del senato stava mandando in rovina gli stessi cittadini romani, appartenenti a classi meno abbienti di quelle latifondistiche e imprenditoriali. Il senato non era minimamente in grado di difendere le categorie più deboli dalle vessazioni di quelle più forti, sicché, per cercare di risolvere questo problema (che fece scoppiare non poche guerre civili), invece di puntare sulla vera democrazia si preferì un’aperta dittatura.
Sotto questo aspetto le dittature fasciste che l’Europa ha sperimentato nel corso del XX sec., esprimono una sorta di “neo-imperialismo” in stile romano. Probabilmente se il nazifascismo non avesse perduto la guerra contro l’Urss, in Europa non avremmo avuto soltanto un quarantennale franchismo.
La differenza fra le dittature nazifasciste e quella che si sta profilando adesso è che le prime erano anzitutto un’espressione di forza militare, che doveva rimediare agli effetti disastrosi della I guerra mondiale e al tentativo di rovesciare il sistema borghese con una rivoluzione comunista (come già era avvenuto in Russia); la seconda invece si serve prevalentemente di strumenti mediatici, non avendo un forte nemico “in casa” con cui fare i conti. Entrambe comunque si ergono ufficialmente a difesa del popolo oppresso, frustrato nelle proprie aspettative e, ufficiosamente, a tutela del grande capitale: le prime soprattutto industriale e agrario, la seconda soprattutto bancario e finanziario.
E’ singolare tuttavia che l’imperialismo romano sia nato da esigenze tutte interne al sistema, la prima delle quali consisteva nel fatto che la riduzione notevole delle terre da conquistare (a causa dell’opposizione germanica, sarmatica, persiana ecc.), acuiva inevitabilmente i conflitti sociali interni, che non riguardavano soltanto quelli tra liberi e schiavi, ma anche e soprattutto, nella fase imperiale, quelli tra deboli e forti, all’interno della categoria dei cittadini “liberi”.
Gli imperatori non nascono perché i barbari premevano ai confini, né per le ribellioni schiavili e neppure per la resistenza dei cristiani. L’impero nasce perché il senato non era più in grado di controllare i conflitti sociali, cioè d’impedire che andasse in miseria una grande fetta della popolazione giuridicamente “libera”, vessata dai grandi proprietari terrieri, dai funzionari corrotti, dagli speculatori, dagli usurai e dal fiscalismo statale. E’ proprio questa popolazione che, mentre fino a qualche tempo prima era disposta a combattere contro schiavi, barbari e cristiani, ad un certo punto si trova a simpatizzare per costoro.
Avendo dalla loro parte gli eserciti (oggi diremmo i mass-media), gli imperatori pensavano di avere un potere illimitato e facevano di tutto per ostacolare le vecchie istituzioni di potere, che contro l’autoritarismo dei singoli sovrani opponevano quello delle vecchie classi sociali. Quanto più s’afferma l’idea di “dominatus”, tanto più la tradizionale classe dirigente cerca di liberarsene.
Gli imperatori erano apprezzati per le loro doti militari ma non erano amati dai senatori come leader politici, anche perché non avevano fatto alcuna carriera politica, spesso anzi provenivano da ceti molto umili, erano di origine non italica, tendevano – come facilmente fanno i militari – a semplificare le cose, a uniformarle, fidando nel fatto che le classi sociali alla base della loro popolarità non amavano le complicazioni della politica.
Erano uomini d’azione, che mostravano sui campi di battaglia il loro valore, sicché mentre sul piano politico preferivano applicare il principio dell’adozione nella loro successione, piuttosto che quello dinastico-ereditario, su quello amministrativo preferivano il principio della nomina personale di funzionari strettamente legati alla loro volontà.
Quello del senato e degli imperatori era lo scontro tra un arbitrio contro un altro arbitrio, e se nell’area occidentale ciò avrà effetti catastrofici per le sorti dell’impero, nell’area orientale invece la cosa si risolverà, per altri mille anni, facendo in modo che la chiesa cristiana svolgesse un ruolo di mediazione tra le istanze imperiali e la popolazione, senza che essa arrivasse a pretendere alcun ruolo politico. Cosa che nella realtà occidentale non riuscirà ad avvenire, in quanto la chiesa romana si sentirà sempre in opposizione alle istanze governative civili.
Gli imperatori furono una soluzione sbagliata a un problema mal posto. Fingendo di stare dalla parte del popolo oppresso, dapprima opponendosi ai senatori, in seguito sfruttando l’idea di una cristianità universale, essi usarono l’impero come una mucca da mungere, promettendo cose irrealizzabili e restando impotenti nei confronti della corruzione dilagante, delle tendenze centrifughe molto forti nelle province e soprattutto nei confronti della sfiducia verso le istituzioni.
Sarà proprio questo atteggiamento arrogante, assolutamente refrattario a riconoscere le cause della crisi sistemica, che indurrà le popolazioni locali a fidarsi solo di se stesse, ad abituarsi a vedere il “nemico” nella propria stessa patria e a rinchiudersi in un sistema sociale dove l’autogoverno e l’autoconsumo iniziarono a giocare un ruolo di rilievo.

Miles Davis piace ai politici Usa: deciso un tributo ufficiale a “Kind of blue” che compie 50 anni

Ogni tanto una bella notizia dal mondo della politica: la  Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato all’unanimità una risoluzione  per commemorare  il cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’album di Miles DavisKind of Blue“, considerato “patrimonio nazionale“. Il secondo ramo del Congresso statunitense vuole così omaggiare il capolavoro di Davis, nato nel 1926 e morto dieci anni fa, ed in particolare  sollecita il governo ad “adottare tutte le misure necessarie” per la preservazione e la diffusione del capolavoro jazzistico. Promossa dal deputato democratico John Conyers, la risoluzione sottolinea che il disco “ha fatto la storia della musica e ha cambiato il panorama artistico del Paese e in qualche modo del mondo intero”. Altro non aggiungo: la notizia si commenta da sè….

Ha ragione Berlusconi: Tartaglia è il frutto della campagna d’odio. Però l’odio è quello seminato a piene mani da Berlusconi stesso e dai suoi, con in testa la Lega. Non a caso gli unici felici per il brutto colpo in faccia sono proprio loro, i berlusconiani e annessi e connessi. Intanto a Milano l’odio si scaglia contro gli “anarchici” da sbattere come sempre in prima pagina, trasformando in “rapina” il rifiuto di un gruppo di studenti di pagare 600 fotocopie (comunque poi pagate) alla libreria di CL alla Statale

[Cartello a cura della Presidenza del Consiglio]

Mi pare sempre più chiaro che ad armare la mano del povero diavolo Massimo Tartaglia, che peraltro essendo un malato di mente non dovrebbe stare in galera, ma in clinica o agli arresti domiciliari, è stato l’odio anti istituzionale vomitato da tempo a piene mani da Silvio Berlusconi e dalla sua truppa di mercenari e lanzichenecchi sparsa nei partiti e nei mezzi di comunicazione, suoi privati o della Rai. Cioè di tutti noi e pagati con i nostri quattrini. Ad armare la mano dei Tartaglia è la sbraco televisivo e il dominio della pubblicità, due campi nelle mani soprattutto di Berlusconi, che hanno prodotto la subcultura da Isola dei Famosi, Grande Fratello e del successo facile: basta che fai qualcosa magari di orrendo o di effimero, ma che ti rende famoso, ed ecco che sei una star, se non altro una Noemi. A produrre i mostri è, come sempre, il sonno della ragione. Vale a dire, questo continuo illudere la gente, ormai da quasi un ventennio, che la cialtroneria e il vacuume pagano, anzi premiano e che lo sbraco sia un valore “ggiovane” e “rivvolluzzionario”. Il tutto mentre lo studio, le lauree e la ricerca sono ormai solo fonte di emigrazione o tuttalpiù di lavori di merda come stare ad appassire in un call center. Continua a leggere

Arcigay plaude al Tribunale di Milano. Diritti assicurativi anche per le coppie gay.

Brillante sentenza del Tribunale di Milano a cui si era rivolto un dipendente di una banca che si era visto negare i diritti assicurativi previsti per il suo compagno. La sentenza emessa l’altro ieri, non solo ha censurato il comportamento di chi doveva esaudire la richiesta dell’impiegato, ma ha anche affermato la necessità di interpretare estensivamente l’espressione “convivenza more uxorio” nel senso di “unione” non formalizzata, e dunque senza alcuna discriminazione in base al sesso dei componenti, fondandosi giuridicamente sull’Articolo 3 della Costituzione, enunciazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale, sugli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo; sull’Articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali UE e richiamando le moltissime risoluzioni del Parlamento Europeo, con le quali si invitavano gli Stati membri al riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto e alla lotta alle barriere discriminatorie. Continua a leggere

Ma Tartaglia era armato di duomo e crocefisso, attrezzi non proprio di sinistra, e Maroni e La Russa si sono dimostrati incapaci, altro che l’ondata di balle degli untori e dei mazzieri mediatici. A Togliatti spararono, ma non ci fu la reazione indecente stile berluscones sull’orlo di una crisi di nervi. Mentre i suoi scoppiano di odio più del solito, Berlusconi saggiamente parla di amore. Sicuri quindi che sconfesserà almeno l’odio seminato da anni a piene mani per esempio da radio Padania, eccogli qualche domanda in tema di amore

Ma Massimo Tartaglia contro Silvio Berlusconi non ha scagliato una piccola riproduzione del Duomo di Milano, cioè di una chiesa? E non gli hanno trovato nella sua borsa o valigetta un crocifisso di gesso lungo 30 centimetri? E allora come cavolo fanno i mazzieri di Berlusconi e i volenterosi untori al suo servizio a voler addebitare il gesto di quel disturbato psichico a chi non vuole più Berlusconi al governo anziché ai disturbi psichici di evidente stampo anche religioso di quel poveraccio di Tartaglia? E come mai i vari leader di “sinistra” fanno finta di non capire che chi va in giro con un crocifissone e riproduzioni di chiese può essere pericoloso a causa di possibili turbe “religiose”, tra tutte le più devastanti come dimostra a iosa la Storia? Possibile che il nanismo delle personalità dei leader della sinistra arrivi a un tal punto di bassa statura e di autocensura nei confronti di tutto ciò che sa di clero? Se si vuole per forza dare la colpa a qualcuno che ha “soffiato sul fuoco” di una mente psicolabile come quella di Tartaglia si potrebbe più realisticamente puntare il dito contro certe predicazioni clericali che da sempre divorano le menti non solo dei più deboli spingendoli ai gesti più scemi e a quelli più orrendi. Continua a leggere

Il senso della scrittura

La nascita della scrittura fu un fenomeno così importante che gli storici la fanno coincidere con la nascita delle civiltà, anzi con la storia in quanto tale, poiché là dove non esiste “scrittura” esiste solo “preistoria”.

Quando Marx scrisse, nel Manifesto, che “la storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe”, .Engels, nell’edizione inglese del 1888 di quella famosissima opera, dovette specificare, in nota, che per “storia” si doveva intendere soltanto quella che ci era stata tramandata da fonti scritte.

Come si può notare fu una svista di non poco conto, anche perché proprio nel periodo in cui venne scritto il Manifesto esistevano ancora nell’America del Nord decine di migliaia di nativi americani la cui civiltà non aveva mai conosciuto né la scrittura né i conflitti di classe. La stessa Africa, prima del colonialismo europeo ed escludendo l’area egizia, era messa nelle stesse condizioni, e così tantissime aree del pianeta, che si trovarono poi sconvolte dai viaggi di conquista delle principali nazioni europee, delle quali la più ridicola, in tal senso, fu la Spagna, che già al tempo di Colombo, pretendeva d’impossessarsi di terre altrui leggendo le motivazioni del proprio atteggiamento in una lingua, la castigliana, che nessun residente era in grado di capire.

Ma qui val la pena rileggere la suddetta nota di Engels, poiché è indicativa del fatto che gli europei erano soliti prendere coscienza delle cose solo quando loro stessi, autonomamente, lo facevano, cioè quando cominciarono a leggere studi specifici sull’argomento, non quando sarebbe bastato guardare oltre i propri confini.

“Nel 1847 la preistoria della società – l’organizzazione sociale esistente prima della storia tramandata per iscritto – era poco meno che sconosciuta. Da allora, Haxthausen scoprì la proprietà comune della terra in Russia, Maurer dimostrò che essa era la base sociale da cui presero avvio tutte le razze teutoniche nella storia, e presto ci si rese conto che le comunità paesane erano, o erano state, dappertutto la forma primitiva della società, dall’India all’Irlanda. L’organizzazione interna di tali società comunistiche primitive venne svelata, nella sua forma tipica, dalla grande scoperta di Morgan della vera natura della gens e della sua relazione con la tribù. Con il dissolvimento di queste comunità primordiali la società iniziò a differenziarsi in classi separate e, successivamente, antagoniste. Ho cercato di ripercorrere questo processo di dissolvimento in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Stuttgart 1886, seconda edizione.”

Il che, in sostanza, voleva dire che in Europa eravamo così abituati ad accettare i conflitti di classe e la scrittura che neppure riuscivamo ad immaginare un periodo, che poi si rivelerà lunghissimo, in cui le due cose non erano mai esistite.

La scrittura, in realtà, non ha più di seimila anni, esattamente come le civiltà, per cui entrambe rappresentano solo un piccolo anello di quella lunga catena della specie umana. Noi europei, a partire dalla tradizione fenicia, con cui s’inventò l’alfabeto in uso ancora oggi, abbiamo sempre considerato importante la scrittura, poiché con essa, tra le altre cose, si potevano fissare delle regole valide per tutti, ivi inclusi spesso, non sempre, gli stessi uomini di governo. O almeno ci siamo illusi che questo fosse possibile.

In particolare abbiamo saputo apprezzare che un piccolo popolo come quello ebraico si fosse dato delle leggi che, nelle intenzioni del legislatore, dovevano essere uguali per tutti, incluso lui stesso. Cosa che, p.es., non si trova tra i Sumeri (i veri fondatori della scrittura in generale, che coi loro codici – il più famoso dei quali è quello di Hammurabi – facevano chiaramente capire che l’applicazione delle leggi dipendeva da chi le violava e da chi ne subiva le conseguenze), e neppure tra gli Egizi, che consideravano i faraoni ben al di sopra di qualunque legge.

Anche gli antichi Romani avevano elaborato le leggi delle XII Tavole, ma, confrontate con quelle mosaiche, appaiono molto meno democratiche, non foss’altro che per un motivo: si permetteva abbastanza facilmente di schiavizzare un proprio concittadino giudicato insolvente.

In astratto quindi è possibile affermare che il bisogno di darsi delle regole era dettato dall’esigenza d’impedire l’arbitrio da parte di qualcuno: nel senso che la forza o l’astuzia dovevano sottostare alla ragione. Di fatto però le leggi spesso non servivano che a giustificare un abuso già praticato, dandogli una parvenza di legittimazione.

Per millenni le classi oppresse si sono illuse che bastassero delle regole scritte, condivise dai sottoscrittori, per far funzionare democraticamente una società. Mosè fu uno dei primi a rendersi conto che le leggi in sé non servono a nulla se non c’è la volontà politica di farle rispettare. E quando vide il tradimento di Aronne e di una parte del suo popolo, pensò che per applicare le sue leggi non bastava la democrazia tribale, ci voleva anche una volontà autoritaria, che punisse senza pietà i trasgressori. E fu così che sterminò una parte del proprio popolo, servendosi dell’altra metà. Aveva capito che più importante della legge era l’obbligo a farla rispettare.

Con gli ebrei non nasce solo l’ideologia della scrittura, ma anche la cultura giuridica a scopo politico. La legge diventa una sorta di divinità, un totem da adorare e tutta la cultura ruota attorno all’interpretazione che si può dare dei suoi tanti precetti. Ecco perché quello ebraico è stato e ancora oggi è un popolo di intellettuali.

Noi occidentali, in virtù della mediazione cristiana, facciamo risalire queste cose agli ebrei, ma in realtà i Sumeri conobbero la scrittura ancora prima che nascesse il “popolo ebraico”. Gli ebrei presero il meglio dei Sumeri (Abramo uscì dalla terra di Ur) e il meglio degli Egizi (Mosè uscì dalla terra dei faraoni) e lo fusero in una legislazione che ancora oggi è a fondamento di tutte le legislazioni del mondo. Non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la donna altrui… non sono forse precetti su cui si basano tutte le Costituzioni del mondo? Persino le dittature sono costrette a riconoscerli; anzi, esse sostengono che solo in maniera autoritaria è possibile far rispettare quei precetti.

La dittatura è necessaria perché in presenza della democrazia quei precetti non vengono osservati. Dunque per quale motivo “leggi scritte” e “democrazia” non riescono a stare insieme? Perché ad un certo punto, immancabilmente, la democrazia si trasforma in una sorta di anarchia e le leggi scritte, nonostante il loro indiscutibile valore teorico, non servono a nulla di positivo?

Il motivo è molto semplice. L’esigenza di darsi delle regole scritte non fa parte di una civiltà autenticamente democratica, ma solo di una che al massimo vorrebbe diventarlo e che però non vi riesce. Una civiltà, o anche solo una società democratica, non ha bisogno di alcuna legge scritta, proprio perché la democrazia o esiste effettivamente nella realtà o non esiste affatto. Non può esistere solo sulla carta e quando esiste davvero, non ha bisogno della carta per essere confermata.

Il divieto di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male venne posto quando ormai lo si stava per fare. Si pone un divieto per impedire che dilaghi un determinato arbitrio, ma è evidente che senza autoconsapevolezza il divieto non servirà a nulla, posticiperà soltanto un evento inevitabile.

Quando gli ebrei si diedero i comandamenti, lo fecero allo scopo di darsi un sistema di vita migliore di quello egizio, dove la volontà schiavista dei faraoni, dei sacerdoti e dei nobili poteva imporsi a dispetto di qualunque legge, salvo che i ceti subalterni non si ribellassero. Ma poi, invece di diminuire il valore della legge, lo si aumentò a dismisura, aggiungendo precetti a precetti, in un crescendo continuo, in modo che alla fine la società era divisa tra coloro che conoscevano le leggi per potersene servire a loro piacimento, e coloro che le subivano in tutte le maniere. I vangeli cristiani sono pieni di denunce contro l’ipocrisia di chi “diceva” e non “faceva”, di chi “faceva” secondo la legge e “disfaceva” i rapporti umani (la contraddizione più evidente era quella del sabato). Di fronte all’inefficacia di un precetto i capi giudei provvedevano a formularne un altro ancora più restrittivo, imponendo la necessità di una dittatura per farli rispettare.

In questi ultimi seimila anni la scrittura non è servita a nulla, né a far crescere la democrazia politica né a migliorare il senso di umanità. Forse avevano ragione i Sumeri quando dicevano che l’applicazione delle leggi non può essere assoluta ma relativa, a seconda di chi fa i torti e di chi li subisce: peccato che il legislatore si mettesse sempre dalla parte del più forte. Anche Marx diceva che non ha senso affermare l’uguaglianza di fronte alla legge quando nella vita si è tutti diversi.

E allora cosa fare in attesa che nasca una società o una civiltà totalmente priva di scrittura e, nel contempo, a misura d’uomo? Occorre che nella fase di passaggio si elaborino delle leggi a favore di chi ha meno, per indurre chi ha di più a rispettarle. Il segno che la democrazia sarà aumentata verrà dato dal fatto che le leggi diminuiranno.

Ma chi potrà assicurare che questa diminuzione sarà frutto di una aumentata democrazia e non invece di una trasformazione di questa in una dittatura? Per eliminare progressivamente la scrittura, e quindi le leggi, che ne sono la quintessenza, occorre che la democrazia sia rivoluzionaria e che gli artefici di questa rivoluzione vigilino anzitutto su loro stessi.

La nostra solidarietà a Berlusconi colpito in faccia da uno squilibrato. Ciò non toglie però che deve smetterla di mentire e che deve dimettersi. Ecco perché, e senza bisogno né di Spatuzza né dei Graviano

Come spiegavo a una nostra forumista nel mio ultimo commento della puntata precedente, gli squilibrati esistono in tutto il mondo, ma ciò non toglie che colpire per giunta in pubblico un capo di governo, spaccandogli un labbro e rompendogli un dente, come è successo a Berlusconi, è cosa grave e inammissibile. Per fortuna non ci sono state conseguenze drammatiche o tragiche, e per fortuna il gesto è frutto di uno squilibrato anziché dell’idiozia di un gruppetto “politico”, eventualità che avrebbe precipitato il Paese nel baratro: è chiaro infatti da troppi sintomi che nelle file del partito berluscon-bossiano non aspettano altro che poter “regolare i conti”. Immagino però che gli untori di professione soffieranno sul fuoco comunque sulle prime pagine dei giornali, e del resto Berlusconi paga bene i suoi mazzieri mediatici.

E che i suoi mazzieri si metteranno alacremente all’opara è già chiaro fin dalle prime parole attribuite a Berlusconi al pronto soccorso. Leggo infatti sul sito di un quotidiano:
“Comunque Berlusconi, riferisce chi gli ha fatto visita, si è detto “amareggiato” per “questa campagna di odio nei miei confronti. Questo è il frutto – ha spiegato – di chi ha voluto seminare zizzania. Quasi me l’aspettavo…”. Berlusconi a tutti ha ripetuto di essere stato nei giorni scorsi nel mirino di una campagna di veleni. “Tutti dovrebbero capire che non è possibile oltraggiare un presidente del Consiglio, questa è la difesa delle istituzioni”. Al di là dell’amarezza, il Cavaliere ha sottolineato di non voler minimamente farsi impressionare dall’episodio. “Sono ancora qui e non mi fermeranno””.
Per parlare così ci vuole una bella dose di irresponsabilità e di faccia di bronzo. Se c’è qualcuno che conduce una campagna di odio è proprio lui, Berlusconi Silvio, che da mesi – anomalia unica nell’intero Occidente democratico –  accusa in continuazione i magistrati – fino alla Corte Costituzionale! – e ormai anche il presidente della Repubblica.
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Il senso della felicità

Nella figura della parabola c’è un punto oltre il quale il declino può anche essere inesorabile, irreversibile. Questa è la morte. E in un certo senso la si desidera, proprio per liberarsi di quella ineluttabilità.

La morte è il desiderio di liberarsi di ciò che è insopportabile, e bene facevano gli antichi cristiani, ma anche gli antichi sumeri, egizi ecc., a vedere la morte come strettamente connessa a una rinascita. Per i cristiani il battesimo era insieme un’esperienza di morte (si veniva immersi nelle acque nere dell’inferno, del proprio passato, delle proprie colpe) e di rinascita (nello splendore del sole).

Si muore a una condizione di vita per poter rinascere a un’altra. Esattamente come il neonato, che per nascere deve prima morire alla sua condizione di feto. Basterebbe questo per capire che la vita è eterna e che non abbiamo bisogno di alcuna religione per crederci. Tanto meno oggi, dove le religioni più fanatiche o fanno della vita biologica un valore assoluto da difendere anche contro la naturalità della morte, oppure fanno della morte violenta (contro se stessi o contro il prossimo) l’unico vero significato di vita.

Si deve in realtà uscire da una forma di vita per entrare in un’altra, rispettando le regole del gioco. Questo processo infinito è determinato dalla dialettica di tesi-antitesi-sintesi. Dio non c’entra nulla, poiché il processo appartiene all’universo, all’essenze delle cose, alla loro logica interna.

Qualunque cosa si sottragga a questa legge è inesistente, è frutto di una fantasia malata, perversa. Pensare a qualcosa di perfetto solo perché statico, fisso, non soggetto al mutamento della dialettica, significa essere in malafede, ciechi per scelta, oppure terribilmente ingenui, come tutti i filosofi pre-cristiani.

Se esiste un dio, non può essere diverso dall’uomo, cioè deve per forza essere soggetto alle medesime leggi che ci caratterizzano, altrimenti per noi non avrebbe alcun senso, non riusciremmo minimamente a riconoscerci. Anche i robot sono statici e non a caso non pensiamo che siano umani, e quando vogliamo far credere che lo pensiamo è perché stiamo facendo fantasy o fantascienza. Oppure stiamo facendo degli esperimenti così banali – come p.es. quello di Turing -, che praticamente la nostra intelligenza è ridotta al minimo.

Anche quando il più grande scacchista del mondo gioca col computer più potente del mondo, si rende facilmente conto che le mosse del computer non sono mai geniali, ma sempre frutto di una memoria straordinaria, in grado di attingere, in breve tempo, a milioni di partite già giocate in precedenza dagli esseri umani. Se attingesse a partite giocate da esso stesso, perderebbe immediatamente. Invece così ha forse qualche possibilità di vincere. Non a caso Garry Kasparov arrivò a sospettare che la macchina Deep Blue avesse avuto un “aiuto” umano durante le partite e quando chiese la rivincita, l’IBM rifiutò.

E comunque l’essenza umana non è data dalla capacità di elaborare in un tempo ridottissimo una quantità enorme di dati. Questo potrebbe portare, sul piano umano, a conseguenze del tutto sbagliate, proprio perché nessun computer è in grado di tener conto dell’imponderabilità della libertà umana. Quando c’è di mezzo questa libertà, nulla è davvero prevedibile. Ed è bene che sia così.

Fa un po’ sorridere, in tal senso, la decisione della Cina di offrire mille euro in premio a chi le segnala dei siti porno onde impedirne la visione nel proprio paese. Non è forse questo un modo per sostituirsi, come governo, alla libertà di coscienza dei propri cittadini? Si può davvero garantire la libertà impedendone con la forza il cattivo uso? “Sorvegliare e punire”: non era forse questo il motto con cui si sono fatte nascere le moderne prigioni? E’ questo il metodo pedagogico per assicurare la vivibilità del bene sociale?

Per vincere il computer più intelligente del mondo è sufficiente ingannarlo, come fecero i Greci coi Troiani, come fece Sessa Ebu Daher che si arricchì semplicemente chiedendo al sovrano persiano, come ricompensa dell’invenzione del gioco degli scacchi, di avere un chicco di grano per il primo riquadro della scacchiera, due per il secondo, quattro per il terzo, otto per il quarto e così via per tutti i 64 riquadri. Gli esseri umani sono maestri nel mettere trappole.

E’ sufficiente andare oltre il fatto che il computer ragiona sempre in termini di prevedibilità, a prescindere dalla quantità di istruzioni che gli si mettono nella memoria di massa. Senza poi considerare che quanti più dati deve elaborare tanto più tempo gli occorre, mentre in certe particolari situazioni l’uomo può scegliere la cosa giusta in tempi brevissimi, fidandosi esclusivamente del proprio intuito, che si basa su un pregresso di esperienze in cui la libertà di coscienza, propria e altrui, ha giocato un ruolo enorme.

L’informatica è in fondo l’applicazione della matematica, che a sua volta è frutto di un lavoro dell’intelletto. La ragione – direbbe Hegel – è tutt’un’altra cosa, proprio perché deve tener conto dei movimenti della dialettica. S’è mai visto un politico dare piena ragione a un economista? E chi mai si fida ciecamente delle previsioni scientifiche del meteo, basate su precisi calcoli algoritmici?

Ecco perché dobbiamo uscire dall’illusione di credere che con l’informatizzazione dei dati si possa rendere la vita più umana. Quando pensiamo che il miglioramento della qualità della vita possa dipendere dal controllo delle informazioni su di essa, stiamo assistendo a un puro e semplice miraggio, che è quell’effetto ottico che inganna soprattutto i giornalisti e quanti pensano che la garanzia della democrazia dipenda dall’informazione.

Sotto questo aspetto non si può certo dire che fossero più sprovveduti gli antichi che si affidavano ai responsi di maghi e indovini. Mettiamoci per un attimo nei panni di uno di loro e vediamo se c’è qualcuno in grado di smentirci. Presto avremo a che fare coi grandi paesi asiatici che, prendendo a pretesto il fatto che nei paesi occidentali l’affermazione di un valore umano resta sempre puramente teorica, imporranno al mondo intero l’idea che, piuttosto di accettare questa contraddizione, è meglio fare in modo che i valori umani affermati in sede teorica siano pochissimi, ma coerentemente applicati in virtù di un’istanza superiore, che può essere p.es. un governo autoritario. Non dimentichiamo che nel mondo romano gli imperatori assolutistici riuscirono a imporsi sui senatori democratici semplicemente dicendo che volevano fare gli interessi delle plebi e le plebi gli credettero.

Contro questo pericolo autoritario come potremo difenderci? Rivendicando in astratto i diritti umani? L’unico vero diritto che potremo rivendicare sarà quello alla “felicità”. Quanto tutti i diritti saranno negati non resterà, paradossalmente, che questo. Ovviamente non nel senso dei costituzionalisti americani, per i quali “felicità” e “proprietà privata” erano sinonimi.

Sieyès si chiedeva agli albori della rivoluzione francese che cosa fosse il Terzo Stato: oggi invece dobbiamo iniziare a chiederci che cosa sia la “felicità”. Una definizione possibile, contro ogni forma di dittatura, politica o economica, può essere questa: felicità vuol dire ricevere da qualcuno della comunità qualcosa che in fondo avrebbe potuto darsi anche colui che l’ha ricevuta, proprio perché non era da quella cosa che dipendeva la sua vita. Detto altrimenti: felicità vuol dire che quando si riceve qualcosa da qualcuno della comunità, non si ha l’impressione che il donatore lo voglia fare per pretendere un dominio personale.

Felicità insomma vuol dire, comunque la si metta, “senso dell’autonomia”, ovvero “libertà personale”: vivere la libertà dentro una comunità, una comunità di cui ci si fida, proprio perché si è consapevoli che la divisione del lavoro viene usata non per sottomettere chi non sa fare determinate cose, ma per agevolare l’autonomia di tutti.

Qualunque specializzazione del lavoro, che comporti delle conoscenze esclusive, va contro gli interessi dell’autonomia, sempre che queste conoscenze vengano usate per beni che riguardano gli aspetti essenziali di una comunità, quelli appunto che ne garantiscono la sopravvivenza, la riproduzione.

Infatti, se vogliamo garantirci la “felicità” dobbiamo preventivamente sostenere che una qualunque specializzazione del lavoro ha senso solo a due condizioni: che resti patrimonio di tutti, che non riguardi gli aspetti essenziali di una comunità. Non ci si può fidare di chi ha troppe conoscenze e non le mette immediatamente a disposizione di tutti, a meno che non le usi per il proprio tempo libero.

Arcigay Vs Francesco Bruno che afferma: “L’omosessualità è una patologia”

Pensavamo di esserci liberati da certe diatribe scientifiche, in nome della verità, su certe attribuzioni verso l’omosessualità. Ci eravamo sbagliati. Esistono ancora uomini di cultura scientifica che trattano l’omosessualità come aberrazione, dichiarando senza peli sulla lingua che l’omosessualità non è altro che un disturbo che distacca l’uomo dalla norma. Si resta basiti a leggere quanto il noto criminologo e psichiatra Francesco Bruno dice in una intervista rilasciata al sito cattolico pontifex.roma

Alla domanda se l’omosessualità sia normalità o si tratti di patologia, il criminologo risponde:

Io ero e resto della convinzione che la omosessualità sia una patologia, una anormalità della sessualità e quindi un disturbo. Per disturbo si intende un distacco dalla realtà e non ci piove sul fatto che la sessualità abbia come primo e principale scopo la riproduzione della specie. Ora non é possibile questo evento nell’atto sessuale tra persone del medesimo sesso. Nessuno, tanto meno io, vuole fare delle discriminazioni, ma é così“. Continua a leggere

Non c’è bisogno di Spatuzza. E neppure di aspettare Godot. In un Paese civile per cacciare Berlusconi basta e avanza il tentativo nel suo primo governo di far diventare ministro della Giustizia il suo avvocato personale usato per corrompere magistrati: Cesare Previti. Che la Cassazione ha condannato in via definitiva scrivendo chiaro e tondo che la sentenza scippa Mondadori l’ha comprata in combutta con Berlusconi. Caso Boffo: Feltri ammette che avevo ragione io. Il grande “No Berlusconi Day”: opera della e-generation e del popolo del web che già a novembre dell’anno scorso ho definito come inevitabili e sottovalutati scavatori della fossa per il Cavaliere e il suo impero mediatico

“L’enorme afflusso di gente alla manifestazione per la libertà di informazione dimostra che urge una manifestazione nazionale contro il governo Berlusconi e il suo capo. Che politicamente, oltre che moralmente, somiglia ormai a un cadavere”. E’ il titolo della puntata del 3 ottobre (  http://www.pinonicotri.it/?p=1413 ), scritta al ritorno dalla grande manifestazione di Roma contro i continui attacchi al giornalismo e quindi alla libertà di stampa e alla qualità della democrazia.  Siamo stati i primi a far notare che una manifestazione nazionale contro Berlusconi e il suo governo, andata finalmente in porto il 5 dicembre, era ormai inderogabile. Piano piano se ne sono resi conto anche tutti coloro che l’hanno miracolosamente messa in piedi, organizzata materialmente e portata a buon fine, vale a dire gli altri grilli parlanti “fuori gioco” come me, ossia l’anonimo popolo del web, dei blog, dei social network  e di Facebook, la e-generation che non ha accesso alla tv e alla grande stampa e non conta nulla nei partiti. Salvo essere da questi corteggiati come portaborracce, esattamente come a suo tempo sono stati corteggiati il movimento studentesco, gli extraparlamentari, il movimento femminista, ecc., prima di essere presi a bastonate perché irriducibili al mercato della vacche che dài oggi e dài domani ha portato il parlamento e l’Italia intera nella morta gora nella quale galleggiamo annaspando sempre di più. Il ruolo di questa e-generation come scavatori della fossa per Fininvest-Mediaset e Berlusconi lo avevo già previsto e scritto in una puntata del blog nel novembre dell’anno scorso, come ho voluto ricordare nel Post Scriptum numero 2 in fondo a questa puntata.

Come è noto, Berlusconi in 15 anni si è fatto confezionare 18 leggi su misura per proteggere i propri interessi, non sempre trasparenti, e proteggere se stesso dalla giustizia, e ora tenta disperatamente con la 19esima: sepolto il lodo Alfano ci riprova con il “processo breve” oppure con la non processabilità del capo del governo finché è in carica oppure con qualche altra trovata dei suoi servitori in livrea doppia, di ministro della Repubblica italiana, che in tale veste è tenuto a fare gli interessi dell’Italia intera, e di avvocato del Signore d’Arcore, veste nella quale  in cambio di grasse parcelle si acconciano alle invenzioni di leggi e ai tentativi di altre leggi sempre più indecorosi in nome degli interessi privati del loro straricco cliente spacciati impudicamente per interesse generale. Mi chiedo se il cosiddetto ministro della Giustizia Angelino Alfano si faccia la barba ogni mattina, e se quando si rade si guarda allo specchio. Continua a leggere

Kings of convenience, Nick & Ellis, Sakamoto: andiamoci piano

Andamento lento per questo inizio di dicembre, pardon settembre…, sole caldino e brezza leggera. Easy ma niente affatto stupidini i Kings of convenience hanno sfornato dopo cinque anni di silenzio il nuovo “Declaration of dependence” tiepido come un panino con l’uvetta e altrettanto piacevole. La ricetta è sempre quella (squadra vincente non si cambia) capace però di produrre attimi sublimi, persino una canzone intera come quella d’apertura, “24-25”. Mi piace la definizione della coppia norvegese letta su Uncut: “like a married couple renewing their vows in middle”.

Vengono da e ci portano su un altro pianeta Nick Cave e Warren Ellis con un doppio da farti restare senza fiato, nel senso che ti fa spesso dimenticare di respirare tanto ti prende nella sua rarefatta malìa. “White lunar” ci regala tutte insieme le musiche scritte dai due portenti per il cinema, drammatico e western, più una manciata di scarti di rara bellezza.

Ancora più minimalista dovrebbe essere “Playing the piano” di Ryuichi Sakamoto, ma l’eco dei noti arrangiamenti orchestrali, spesso a servizio del cinema, restano udibili anche se c’è solo il pianoforte. Un esperimento più volte tentato, a volte con successo, negli ultimi vent’anni (“sindrome da Amedeo Minghi” mi suggerisce un amico musicista musicologo) e riproposto anche dal vivo, Italia compresa. L’ho sentito al Comunale di Ferrara, sul palco due pianoforti, uno suonato dal giapponese dal caschetto di capelli tutti bigi, l’altro comandato dal computer. Doveva essere una figata e invece ingessa la mano dell’uomo, gli impedisce qualsiasi voluta sbavatura, non parliamo di improvvisazione! Cui prodest? Ci avesse almeno messo un po’ di calore, di anima in più. Invece, calma piatta: non si fanno notare neppure le cover rubate alla sua Yellow Magic Orchestra, si salva il tema dall’Ultimo Imperatore suonata finalmente con pathos, immancabile “Merry Christmas mr. Lawrence” come bis per far andare tutti contenti a casa. Una parola, un saluto? Zero.

Per chi suona il minareto? Falsi allarmi e razzismi veri

Ho l’impressione che la vittoria del no ai minareti in Svizzera abbia giocato un brutto scherzo un po’ a tutti, fornendo così l’occasione a molti bei nomi di mettersi in ridicolo. La palma dell’imbecillità e dell’ignoranza va – sa usual – alla Lega Nord, con la sua proposta sanfedista di inserire il disegno della croce nella bandiera italiana e di far “votare al popolo” su minareti, croci e crocifissi. E infatti, dal momento che Bossi&C hanno sempre detto che con il tricolore loro ci si puliscono il culo, i casi sono solo due: o si puliscono il culo anche con la croce oppure si occupano di una bandiera con la quale per loro stessa ammissione c’entrano meno del classico cavolo a merenda. Questi imbecilli inoltre non sanno che solo i barbari votano contro quelli che sono diritti civili universali, il “popolo” non può abolire o pretendere una mazza su certi argomenti, se per esempio il popolo vuole il cannibalismo non per questo lo si può concedere per legge

Mi sa che molti hanno scambiato il no ai minareti con il no alle moschee. Il minareto è solo la lunga e affusolata torre della moschea, l’equivalente del campanile delle nostre chiese. Solo che al posto della campana che chiama alla preghiera o degli altoparlanti che ne diffondono il suono registrato c’è il muezzin che chiama alla preghiera o gli altoparlanti che ne diffondono la voce registrata. Con buona pace dei leghisti e tromboni alla Vittorio Messori, il no ad altri minareti non significa né che verranno demoliti quelli già esistenti, demolizione che sarebbe di puro stampo nazista, né che non verranno costruite altre moschee.
E a proposito di Messori, cattolico dall’ego smisurato, tanto da vantarsi di avere convinto lui papa Wojtyla a togliere dalla preghiera del “Padre nostro” la molto infelice frase “Non ci indurre in tentazione”, nonché accoltellatore alla schiena del già ferito (da Vittorio Feltri) Dino Boffo per farlo cacciare dalla direzione del quotidiano L’Avvenire d’Italia, a proposito dunque di Messori sono da giardino degli stralunati i suoi (s)ragionamenti sul Corriere della Sera inneggianti alla vittoria del “No ai minareti” in Svizzera.
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