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Il Vaticano è l’unico Stato che chiede una pronuncia ufficiale dell’ONU per verificare se le gestione del debito internazionale viola i diritti umani e quelli dei popoli e se limita la sovranità e l’indipendenza degli Stati indebitati

Iniziativa internazionale sul debito pubblico

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dal 2007 a oggi il debito pubblico mondiale è più che raddoppiato, passando da 28,7 a oltre 61 trilioni di dollari. Nello stesso periodo quello americano è triplicato, attualmente è circa un terzo del totale. Ogni cittadino americano ha più di 60.000 dollari di debito pubblico federale sulle sue spalle. Il record mondiale. Si ricordi che in Italia esso è di circa 38.000 euro pro capite.

Il crescente debito globale è una delle più pericolose minacce di crisi sistemiche.

Per il momento, però, sono i Paesi più poveri, e quelli impoveriti o a rischio default, ad esserne schiacciati. Finora i potenti della Terra, anche se di fatto sono i più indebitati, hanno avuto la spregiudicatezza e gli strumenti per far pagare il conto agli altri.

E’ perciò significativo che sia la Santa Sede, e non i governi, a portare all’esame delle Nazioni Unite il tema della legittimità del debito pubblico. Certamente si intravede la mano di papa Francesco.

L’obiettivo, come ci ricorda il professor Raffaele Coppola, direttore del Centro di Ricerca ”Renato Beccari” dell’Università di Bari e tra i principali coordinatori dell’iniziativa, è far pronunciare l’Assemblea Generale dell’Onu al fine di legittimare la richiesta di parere alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sulla gestione del debito internazionale per verificarne le eventuali violazioni dei diritti umani e dei popoli.

Si pone, quindi, l’esigenza di un’analisi approfondita dei fondamenti sia giuridici che etici della questione del debito. Non può diventare un macigno insostenibile per le popolazioni, né frenare lo sviluppo e limitare l’indipendenza e la sovranità di uno Stato.

Molti giuristi di varie ispirazioni stanno riflettendo sul problema del pagamento del debito da parte dei Paesi poveri e sullo stato di forza maggiore e di necessità a cui vengono sottoposti. Per lo stato di forza maggiore il non pagamento dipende da un evento incontrollabile da parte dello Stato. Lo stato di necessità, invece, giustificherebbe l’inadempienza quando il pagamento sarebbe troppo gravoso per i cittadini. Chi può pensare di affamare il popolo per pagare a tutti i costi gli interessi sul debito?

L’iniziativa presso l’Onu costituirebbe un precedente giuridico su una materia nevralgica per lo sviluppo della globalizzazione e in particolare per il rapporto fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Di conseguenza non potranno essere ignorati gli effetti deleteri della finanziarizzazione e della deregulation dell’economia.

La proposta della Santa Sede non è campata in aria ma poggia anche su un precedente importante: la risoluzione 69/319 dell’Onu del 2015 relativa ai cosiddetti “fondi avvoltoio”,  cioè quei fondi speculativi che operano in modo aggressivo sul debito dei Paesi in crisi. E’ appena il caso di ricordare che essa fu approvata nonostante il parere contrario degli Stati Uniti.

I valori esplicitati nella proposta si ispirano alla Carta di Sant’Agata de’ Goti del 1997 nella quale giuristi, uomini di Chiesa, intellettuali e laici misero a punto una serie di principi giuridici per regolare secondo giustizia la questione del debito. In particolare «il divieto di accordi usurari», il rispetto «dell’autodeterminazione dei popoli» e il divieto di «una eccessiva onerosità del debito».

Intorno all’iniziativa vaticana si sta tessendo un’ampia rete di alleanze. E’ importante in quanto  la Santa Sede ha lo status di osservatore alle Nazioni Unite e c’è bisogno che uno Stato presenti, in sua vece, la richiesta di discussione all’Assemblea Generale. E’ un ruolo che l’Italia naturalmente potrebbe e dovrebbe assumere. Sull’argomento pare esista già un’intesa di massima con il governo italiano.

Ricordiamo che l’Italia ha già avuto un ruolo meritorio nel 2000 quando il Parlamento approvò la legge 209 relativa alle «Misure per la riduzione del debito estero dei Paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati». Il significativo provvedimento nacque sull’onda del Giubileo promosso da Giovanni Paolo II durante il quale fu lanciata la campagna per l’abbattimento del debito dei Paesi poveri. 

Al riguardo si ricordi l’articolo 7 della citata legge che recita: «Il Governo, nell’ambito delle istituzioni internazionali, competenti, propone l’avvio delle procedure necessarie per la richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia sulla coerenza tra le regole internazionali che disciplinano il debito estero dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli». E’ esattamente l’obiettivo della Santa Sede. 

In merito l’Italia, non solo per il rispetto della sua legge ma anche per la sua indiscussa sensibilità per le problematiche dei Paesi in via di sviluppo, può davvero svolgere un ruolo incisivo a partire dal prossimo G7 di Taormina.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Aldo Moro secondo Giulio Andreotti

M’è capitato casualmente sotto mano un libro di Giulio Andreotti, A ogni morte di papa, edito dalla Rizzoli nel 1980. Guardando la data, non ho potuto fare a meno di cercare le pagine in cui doveva per forza parlare del delitto Moro. E infatti le ho trovate: sono le pp. 132-37, corredate da una lettera autografa dello stesso Aldo Moro. In esse sono ben chiare le motivazioni per cui i vertici della Dc rifiutarono di scendere a trattative con le Brigate Rosse.

Vediamo però anzitutto il testo di Moro, poiché le pagine di Andreotti vogliono essere una replica a quello. Moro aveva spedito la lettera, attraverso i suoi familiari, al papa Paolo VI, chiedendo sostanzialmente d’intercedere presso il governo “per un’equa soluzione del problema dello scambio dei prigionieri politici” (tra lui e qualche brigatista, anche uno solo). Rivolgendosi al papa, Moro cercava di giustificare lo scambio sulla base di motivazioni non politiche, bensì etiche: il ricongiungimento familiare. Scrive testualmente che la sua famiglia ha “necessità assai gravi”.

Politicamente sostiene un’altra cosa, e cioè la convinzione che il pontefice, facendo leva su questioni etiche, poteva influenzare notevolmente gli organi di governo: “solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine, le ragioni morali e il diritto alla vita”. Quest’ultima frase è abbastanza singolare. Al momento del rapimento, Moro era Presidente del Consiglio, un illuminato statista democristiano, il primo democristiano a dichiararsi disponibile a un compromesso politico-strategico col partito comunista, il cui segretario era Enrico Berlinguer. In quanto statista, prigioniero politico, stava chiedendo al papa d’intercedere per favorire una trattativa coi terroristi: era autorizzato a farlo in quanto statista, o stava chiedendo un indebito favore personale, in quanto cattolico e amico del papa? Stava forse supplicando di trasgredire, in via del tutto eccezionale, una regola ferrea dello Stato nei confronti del terrorismo in generale? Oppure stava semplicemente chiedendo una cosa che, quando si è in guerra con un nemico qualunque, generalmente si fa?

Leggendo la replica di Andreotti, vien da pensare che se fosse stato quest’ultimo a essere catturato dalle B.R., una richiesta del genere – stando a quanto scrive – non l’avrebbe mai fatta. Dunque che senso aveva quella lettera? Moro era favorevole alla trattativa perché era parte in causa del rapimento (in quanto prigioniero politico) o per ragioni di principio, che sarebbero potute valere per chiunque si fosse trovato nelle sue stesse condizioni?

Altre lettere, dal contenuto analogo, le aveva già spedite ai colleghi di partito e nessuno aveva accettato l’idea di patteggiare: sarebbe stata – si diceva – una forma di debolezza da parte dello Stato. Non si voleva riconoscere alcuna legittimità alle B.R. La Dc era riuscita persino a convincere i comunisti ad essere assolutamente intransigenti.

Ad un certo punto la pubblica opinione cominciò persino a pensare che l’ala più conservatrice della Dc non volesse far nulla per liberare un collega così scomodo, che si era permesso di accettare l’abbraccio “mortale” proposto dai comunisti (il famoso “compromesso storico”). Gli stessi comunisti si presentavano come il partito della fermezza, in quanto, per tutto il periodo della segreteria berlingueriana avevano cercato a più riprese di dimostrare che il loro poteva essere un partito di governo e i loro dirigenti degli statisti in piena regola, non inferiori, per legittimità e capacità, ai democristiani. Tuttavia una posizione del genere, di fronte a un caso così drammatico ed eccezionale, appariva poco giustificata.

Solo i socialisti sembravano essere parzialmente favorevoli a una trattativa. Cioè avevano capito che la richiesta di Moro aveva un suo senso. Non è da escludere che i socialisti si fossero comportati così anche per distinguersi dai comunisti, che al tempo di Craxi venivano considerati nemici peggiori degli stessi democristiani.

Ma ora vediamo come sono andati i fatti secondo la ricostruzione di Andreotti. Sarà da questa che capiremo, indirettamente, la differenza fra trattativa e fermezza. Qui intanto si può anticipare che, dopo il delitto Moro, al governo andarono i socialisti di Craxi, che gestirono lo Stato insieme alla destra democristiana di Andreotti, Forlani, Cossiga, Piccoli ecc., sino al tempo degli scandali affaristici venuti alla luce con l’inchiesta giudiziaria chiamata “Mani pulite”, che fece, in sostanza, crollare la prima Repubblica e, con essa, i tradizionali partiti parlamentari. Il crollo del craxismo non portò alla democratizzazione del sistema, ma alla nascita del suo prodotto peggiore: il berlusconismo, che elevò la corruzione a sistema.

Dovendo contattare un esponente della Dc, una volta ottenuta la lettera di Moro, a chi pensò Paolo VI di mostrarla? Proprio ad Andreotti. Lo fece incontrare con mons. Casaroli, segretario dello Stato Vaticano (la più alta personalità dopo il papa), che gli portò appunto la lettera dello statista. Le date sono importanti: Andreotti e Casaroli si erano incontrati il 20 aprile 1978, chiarendosi le idee su che cosa il papa non avrebbe dovuto dire nel suo pubblico intervento, affinché non ci fossero incompatibilità con le direttive del governo. Cinque giorni dopo Andreotti riceverà la fotocopia della lettera di Moro, cui risponderà per iscritto allo stesso papa, perché così gli era stato chiesto. Il 22 aprile Paolo VI aveva fatto l’appello per liberare Moro e aveva precisato alle B.R. di farlo “senza porre condizioni”: indirettamente era come condannarlo a morte.

Sino all’ultimo Moro era convinto di potersi salvare, altrimenti non avrebbe scritto tutte quelle lettere, chiedendo uno scambio di prigionieri, come le B.R., peraltro, gli suggerivano di fare. Ma perché l’avevano rapito, visto ch’erano disposte a liberarlo? Solo per ottenere la libertà di alcuni loro detenuti? O per avere un riconoscimento nazionale? O per impedire la realizzazione dell’intesa di governo tra Dc e Pc? Le risposte a queste domande possono solo essere ipotetiche.

È stato detto che tra le B.R. vi erano infiltrati al soldo degli americani, che volevano la fine dell’idea di “compromesso storico”, in virtù della quale i comunisti sarebbero andati al governo insieme ai democristiani, come al tempo del governo di unità nazionale, durato pochissimo, tra De Gasperi e Togliatti. Si è detto che la stessa avversione al “compromesso”, per motivi diversi, potevano averla anche i brigatisti, i quali, eliminando Moro, facevano capire che i comunisti non potevano governare insieme ai loro nemici storici, ma solo attraverso una rivoluzione politica.

Non è da escludere che Moro, vedendo il rifiuto alla trattativa da parte dei propri colleghi di partito, sarebbe uscito dalla Dc e forse avrebbe rinunciato anche all’attività politica, se avesse ottenuto la libertà. Detestava il segretario Zaccagnini per averlo indotto ad accettare delle responsabilità di governo che non avrebbe voluto. Gli scriverà inoltre di non accettare “l’iniqua e ingrata sentenza della Dc. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. (…) Chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito”.

Ma quale risposta diede Andreotti a Paolo VI? Egli scrive nel libro che, facendo un appello così drammatico a favore di Moro, il papa non solo si era “umiliato”, ma, nello stesso tempo, si era “esaltato” (p. 134). Cosa voleva dire è difficile capirlo. Probabilmente si riferiva al fatto che il papa, in quel momento, s’era sentito al centro dell’attenzione, rivestito d’un ruolo eccezionale in previsione della liberazione di Moro. Se l’appello avesse avuto effetto, l’importanza del suo pontificato sarebbe stata enorme. La condizione però era che doveva continuare a perorare la linea della fermezza adottata dal partito. Andreotti infatti fa capire chiaramente che il Vaticano non avrebbe mai dovuto intraprendere un’iniziativa che avrebbe potuto danneggiare il partito “cattolico” al governo (egli, in realtà, si riferisce agli “interessi dello Stato”, ma il significato resta uguale, in quanto la Dc, sin dalla fine del dopoguerra, s’era sempre concepita come un “partito-stato”).

Paolo VI esegue, probabile non senza travagli interiori, quello che Andreotti, uno dei principali avversari politici di Moro, gli aveva chiesto, senza neppure pensare di rivolgersi a Zaccagnini, segretario del partito, o a qualche altro democristiano, per avere conferme o smentite su quel che doveva dire. Moro non mancherà di scrivere alla moglie che il papa aveva fatto “pochino” e forse ne avrebbe avuto “scrupolo”.

Andreotti gli rispose per iscritto il 25 aprile e anche questa lettera è acclusa nel libro come documento. Anzitutto gli fa capire che la Dc aveva apprezzato enormemente il tipo d’appello che aveva fatto, in cui era stato chiesto di liberarlo senza porre condizioni. Strano questo atteggiamento da parte di un collega di partito: in pratica è come se Andreotti avesse voluto far capire che se le B.R. l’avessero liberato senza porre condizioni, la Dc avrebbe considerato ciò non tanto come un gesto umanitario, quanto piuttosto come l’ammissione di una decisiva sconfitta politica del terrorismo italiano.

In secondo luogo suggerisce al papa di credere che Moro non poteva scrivere quelle lettere in piena “libertà intellettuale e morale”, per cui non erano da prendere con la dovuta considerazione politica. Erano lettere di un disperato, che aveva accettato le condizioni delle B.R. relative a uno scambio di prigionieri solo per salvarsi la vita. Da notare, su questo aspetto, che vari appartenenti al “Comitato degli esperti” voluto da Cossiga, per esaminare la fondatezza o l’attendibilità di quelle lettere, in un primo tempo affermarono che Moro era stato sottoposto a tecniche di lavaggio del cervello da parte delle B.R. Guarda caso però i nomi di molti dei membri di quel Comitato furono poi ritrovati tra quelli degli iscritti alla loggia massonica P2, compreso quello dell’importante criminologo Franco Ferracuti, ch’era anche un agente della CIA. Cossiga ammetterà tuttavia, anni dopo, d’essere stato lui a scrivere parte del discorso tenuto da Andreotti in cui s’affermava che le lettere di Moro erano da considerarsi non “moralmente autentiche”.

In terzo luogo Andreotti ritiene chiaramente un’assurdità equiparare uno “statista rapito” (sottinteso: democraticamente eletto) con un “gruppo criminale”, per cui lo “scambio dei prigionieri” andava considerato assolutamente “inaccettabile”, né si poteva accettare l’idea che lo Stato stesse vivendo una sorta di “guerra civile” con le B.R., le quali – a suo giudizio – altro non erano che un manipolo di disperati, destinati alla sconfitta. Come in effetti avverrà subito dopo quel delitto, grazie soprattutto all’iniziativa del generale Dalla Chiesa. Tuttavia, proprio per queste ragioni, vien qui da chiedersi il motivo per cui sarebbe stato così impossibile trattare. Portando alle logiche conseguenze il discorso di Andreotti, il governo avrebbe potuto subito trarre in salvo uno statista di spicco, un politico cattolico di razza come Moro, e in più avrebbe sicuramente sconfitto, in un momento successivo, un gruppo terroristico, con scarsi agganci sociali, come le B.R. Non ci sarebbe stato motivo d’aver paura di cedere.

Andreotti usa anche l’esempio del “caso Sossi” (1) per giustificare l’atteggiamento irreconciliabile della Dc alla trattativa coi sequestratori (che, in quell’occasione, non ebbe però Moro, il quale, in una delle sue lettere dalla prigionia, ricorda d’aver fatto pressioni su Taviani per realizzare uno scambio di prigionieri). La “clemenza per forza maggiore”, nel nostro ordinamento – scrive testualmente Andreotti, non senza riferimenti al passato fascista – è “giuridicamente inesistente”. Strano un atteggiamento del genere, poiché proprio durante il “caso Sossi” lo Stato aveva fatto la promessa di liberare i detenuti richiesti dai terroristi, anche se poi se la rimangiò. Lo stesso Sossi, che, quand’era prigioniero delle B.R., s’era dichiarato favorevole a uno scambio di prigionieri, sostenne che dal punto di vista tecnico-giuridico c’erano le possibilità per risolvere il sequestro Moro in maniera diversa.

Sicuramente Andreotti una dichiarazione “supplicante” come quella del papa non l’avrebbe mai fatta, pur essendo cattolico come lui, semplicemente perché, nella sua concezione della politica, gli interessi dello Stato dovevano prevalere su quelli dell’individuo, benché, nella fattispecie, sarebbe meglio dire che gli interessi ideologici dell’anticomunismo dovevano sempre prevalere su qualunque altro interesse. Ecco perché, con una punta di malignità, sostiene che proprio nel momento in cui il papa si umiliò, finì con l’esaltarsi.

Moro non poteva essere liberato perché – scrive Andreotti – le esigenze della famiglia, degli amici e dei parenti dello statista andavano nettamente considerate inferiori a quelle che avevano gli “agenti dell’ordine”, le “guardie carcerarie”, di non vedere aprirsi le porte delle carceri, ove erano custoditi i terroristi, per uno scambio di prigionieri. Le conseguenze di un gesto del genere sarebbero state “gravissime”, in quanto non si possono fare mai eccezioni alla regola. Curioso che questo venga detto da un democristiano che fece del compromesso politico il suo cavallo di battaglia, anche se resta vero che ogni compromesso trovava in lui la sua ragion d’essere solo entro i parametri dell’anticomunismo. In tal senso le ragioni umanitarie, se avessero prevalso, avrebbero finito col negare l’obiettivo politico di fondo, quello appunto dell’anticomunismo, essendo Moro favorevole al “compromesso storico”. Per Andreotti Moro era semplicemente un irresponsabile, la cui famosa stretta di mano con Berlinguer sarebbe stata fatta pagare dagli americani.

Non a caso quando scrive che lo scambio dei prigionieri sarebbe stata una condizione che avrebbe comportato “una lacerazione non rimarginabile dei fondamenti di giustizia su cui si articola la convivenza civile”, stava dicendo le stesse cose dell’amministrazione americana, per quanto proprio gli americani siano sempre stati favorevoli, durante il periodo della guerra fredda, allo scambio delle spie e degli agenti segreti coi paesi comunisti, e le spie potevano anche essere dei killer: non si faceva alcuna differenza.

Peraltro, continuando a guardare le cose sul piano umano, Andreotti non ha dubbi di sorta nel considerare del tutto superiori alle esigenze dei familiari di Moro quelle delle vedove e degli orfani delle vittime del terrorismo. Un ragionamento davvero curioso questo, in quanto, al fine di tutelare il senso di umanità delle vittime del terrorismo, accetta che se ne sacrifichi un’altra, pur potendolo benissimo evitare.

Nella sua concezione della politica o l’umano viene subordinato ideologicamente al politico, oppure viene valorizzato astrattamente e quindi in maniera strumentale, per realizzare obiettivi non umani, ma soltanto politici e ideologici, quelli appunto dell’anticomunismo. Moro invece aveva scritto a Cossiga in una delle sue lettere: “Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile”.

Per Andreotti non aveva alcun senso lo scambio di prigionieri, in quanto, secondo lui, non esisteva alcuna “guerra”, nell’accezione classica del termine, contro i terroristi, che non potevano essere riconosciuti come “veri nemici”, al pari di una “nazione”, e che, per tale motivo, sarebbero stati, prima o poi, sicuramente sconfitti, avendo un consenso nazionale irrisorio.

Secondo lui l’unico istituto giuridico che, in quell’occasione, si poteva usare era la grazia presidenziale, ma proprio la sofferenza delle vittime del terrorismo lo impediva, e infatti Giovanni Leone non la concesse, anche se all’ultimo momento pare fosse stato disposto a firmare un provvedimento di clemenza nei confronti di un estremista di sinistra. La grazia, peraltro, doveva presupporre – secondo Andreotti – il “perdono” degli offesi, cioè dei parenti delle vittime del terrorismo: cosa che in realtà non era mai stato concesso. (2)

Per giustificare il suo atteggiamento, Andreotti si avvale anche del fatto che “l’intero Parlamento” era sulla “linea della fermezza”. Qui in realtà sta mentendo, in quanto esisteva anche un “fronte possibilista”, nel quale spiccava Bettino Craxi e che comprendeva anche il Presidente del Senato Amintore Fanfani, l’ex Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e il leader radicale Marco Pannella, incline a ritenere che un eventuale avvicinamento, allo scopo d’intavolare una trattativa per salvare la vita dello statista, non avrebbe svilito la dignità dello Stato.

Trattare coi terroristi avrebbe, secondo Andreotti, aperto la strada a una “infrenabile spirale di violenza”. Quindi, così dicendo, egli faceva capire, contraddicendosi sul piano logico, che il terrorismo andava considerato come un fenomeno gravissimo, che avrebbe potuto portare a una guerra civile o addirittura a una rivoluzione comunista. Appena poco prima aveva invece fatto vedere d’essere convinto che lo Stato fosse troppo forte per considerare le B.R. un nemico convincente. In altre parole, proprio mentre affermava che “lo scambio di detenuti rappresenta una soluzione non praticabile”, finiva con lo sopravvalutare appositamente l’effettiva pericolosità dei terroristi solo per poter eliminare uno scomodo avversario politico, ch’egli, in fondo, non aveva mai sopportato.

A ciò aggiungeva considerazioni umanitarie abbastanza pretestuose, in quanto, affermando di non potersi concedere la grazia istituzionale neppur a un solo terrorista, perché i parenti delle vittime, rifiutando di perdonare gli assassini, non l’avrebbero capita, finiva col subordinare gli interessi politici di un intero Stato ai sentimenti privati di alcuni suoi singoli cittadini. Moro, in una lettera alla moglie, qualificherà il comportamento del suo partito come “assurdo e incredibile”. Da notare che Andreotti non prevede neppure la possibilità di salvare Moro pagando un riscatto in denaro, come poi avverrà nel caso di Ciro Cirillo, componente della direzione nazionale della Dc, ostaggio delle B.R. nel 1981. Lo stesso Vaticano pare avesse intenzione di versare una forte somma di denaro.

Ci vollero altre due settimane, dopo l’appello del papa, prima che le B.R. ammazzassero Moro. Il governo confidava unicamente nel fatto che l’avrebbero dovuto liberare senza condizioni; col che i terroristi avrebbero dovuto ammettere la loro sconfitta politica nei confronti dello Stato. All’ultimo momento, in verità, la direzione della Dc incaricò il presidente del Senato, Amintore Fanfani, di fare un discorso aperto alla trattativa, ma tutti sapevano che ormai era troppo tardi.

Le B.R., abituate a ragionare in termini esclusivamente politici, non l’avrebbero mai liberato sulla base di semplici considerazioni umanitarie. Quindi, in un certo senso, la Dc e il Pc (ma anche molti partiti minori) le spingevano a restare coerenti sino in fondo, affinché dimostrassero, con la loro brutalità, di non meritare alcun consenso politico. Moro andava sacrificato sull’altare dell’anticomunismo. Gli stessi comunisti lo volevano, preoccupati di dimostrare che la loro ideologia era completamente diversa da quella delle B.R.

L’ultima punta di malignità perversa, in questa vicenda riportata nel suo libro, Andreotti la riserba allo stesso Moro, dicendo che “da quando ci sono i terroristi in azione non mi è consentito di andare nei cinema pubblici come Moro faceva con tanta soddisfazione e disinvoltura” (p. 137). Qui vuol far passare Moro per un “amico” dei terroristi, o per una persona che i terroristi ritenevano meno pericolosa di lui sul piano politico. E’ come se gli volesse togliere il diritto a considerarsi “martire” o “eroe”. Il suo coraggio ad accettare il “compromesso storico” coi comunisti andava soltanto considerato come un avventurismo irresponsabile, che avrebbe portato il paese alla catastrofe.

Vengono qui in mente le parole di Caifa, quando disse: “E’ meglio sacrificare uno solo piuttosto che perdere la nazione intera”. E fu così che Israele perse sia il suo leader politico più prestigioso che la stessa nazione.

Note

(1) Il rapimento del sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, nel 1974, fu considerato la prima azione eclatante delle B.R. e la “prova generale” per il sequestro Moro. Sossi era un magistrato di destra e aveva processato il gruppo politico di estrema sinistra “XXII Ottobre” per alcune azioni terroristiche. Quando le B.R. lo rapirono, chiesero, in cambio della sua liberazione, la scarcerazione di otto detenuti del gruppo suddetto. Cosa che in effetti fu lì lì per avvenire tramite la Corte d’Assise di Genova, che concesse d’ufficio la libertà provvisoria agli otto detenuti e il nulla osta per il loro passaporto. Senonché il procuratore della Repubblica Francesco Coco ritenne di dover pretendere, per la concessione delle condizioni dei brigatisti, la liberazione preventiva di Sossi. In quel caso le B.R. decisero di accettare. Ma siccome Coco si rifiutò poi di liberare i detenuti, le B.R. lo assassinarono a Genova l’8 giugno 1976, insieme a due uomini della scorta.

(2) Nell’agosto 1991, Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, ch’era stato, al tempo del delitto Moro, sulle medesime posizioni di Andreotti, propose di concedere la grazia a Renato Curcio, brigatista condannato come mandante dell’omicidio di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. In quell’occasione anche Andreotti concordò con Cossiga, anche se poi della proposta non se ne fece nulla.

Economia e finanza: Papa Francesco, pensaci tu! Politiche monetarie troppo accomodanti? Negli Usa spinte al protezionismo.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** * Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Papa Francesco, pensaci tu!

Mentre il mondo dell’economia si “perde in chiacchiere” sulla necessità di rivedere il sistema della finanza globale, papa Francesco ha ripreso il suo lungo percorso di riflessione per stimolare i dirigenti politici a ”realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti”.

Giovedì 16 maggio, parlando ad un gruppo di nuovi ambasciatori presso il Vaticano, ha ricordato che “mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune”.

Papa Bergoglio stigmatizza il consumismo fine a se stesso, il dominio e l’adorazione del denaro, la dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano. Denuncia “la nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, del mercato che impone unilateralmente le sue leggi e le sue regole”. Egli vi contrappone la solidarietà, l’etica, il bene comune, la convivenza e la lotta dei popoli contro la povertà.

Non si tratta di un appello moralista. E’ invece un vero e proprio manifesto che pone al centro della società e dell’economia l’uomo con i suoi valori e i suoi bisogni. Continua a leggere

In ricordo di don Andrea Gallo, amico mio e di tutti i semplici.

“Hai visto che il titolo che ho proposto io era purtroppo più indovinato del tuo? Io ho detto che il titolo del libro doveva essere “Non uccidete il futuro dei giovani”, tu preferivi “Non rubiamo il futuro ai giovani”. Vedi che il loro futuro glielo hanno non solo rubato, ma anche ucciso?”. A parlare è don Andrea Gallo, il prete da marciapiedi, come amava definirsi lui, e il libro al quale si riferisce è, appunto, “Non uccidete il futuro dei giovani”, scritto assieme nell’estate del 2011. Dopo la pubblicazione, avvenuta a ottobre, ci siamo visti più d’una volta, nella sua comunità a Genova, a Milano e a Roma a dibattiti sul libro, a Torino alla Fiera del Libro. Ci siamo anche sentiti un po’ per telefono e con qualche mail, sempre più rara perché mi diceva “non sto tanto bene”, e mi faceva arrivare qualche messaggio tramite amici. Mettendo assieme le cose dette, se ne ricava quella che può essere definita la sua ultima intervista.

Domanda – Andrea, ce la farà questo governo a raddrizzare la barca?
Risposta – Ma che dici! Per riparare ai danni, specie a quelli arrecati al futuro dei giovani, ci vorranno due o tre generazioni, cioè dai 40 ai 60 anni. Altro che un governo!

D – E cosa possono fare nel frattempo i giovani?
R – Agitarsi! Indignarsi! Ribellarsi! Ecco cosa possono e devono fare nel frattempo. Senza mai mollare. Vedi cosa è successo con la primavera araba? L’hanno trasformata in autunno, se non già in inverno.

D – Sì, ma in Italia ci sono oltre due milioni di giovani che non studiano e non solo non lavorano, ma il lavoro neppure lo cercano. Rassegnati, più che indignati e ribellati?
R – Guarda, la fase di stanca c’è sempre, ma prima o poi passa. Certo, la nostra generazione ha colpe enormi rispetto questa massa di giovani portati a starsene fermi. Le mamme sono troppo protettive. E i padri sono spariti. Che fine hanno fatto i padri? Sai quante donne mi dicono “Caro don Gallo, il problema è che sono spariti gli uomini, non solo i padri. Di fare sul serio e magari anche mettere su famiglia e far figli non ci pensano proprio, neppure da lontano. Almeno fino ai 30 anni. E noi donne quando diventiamo madri?”. Eh, sì, lo so, è dura. Troppa televisione, troppa moda, troppa pubblicità, troppi modelli e stili di vita sballati. Mica possono fare tutti le modelle e i calciatori.
Il mondo è malato, non solo l’Italia è malata, ma il mondo intero. E lo possono guarire solo i giovani. Noi vecchi abbiamo fallito. Abbiamo fatto la resistenza e dato la democrazia e il benessere all’Italia, poi però ci siamo lasciati fregare. Guarda i comunisti…. per non parlare dei piddini di D’Alema, Veltroni, Bersani.

D – E di Matteo Renzi?
R- Beh, ma lui almeno parla un linguaggio più vicino a quello dei giovani, meno burocratese, meno politichese, meno blateratore. Quando in tv nel confronto tra lui e Bersani ho sentito quest’ultimo dire che “è meglio un passero in mano che un tacchino sul tetto” mi sono cascate diciamo le orecchie a terra! Ma come si fa?! Un passero in mano?! E un tacchino sul tetto?! Ma non poteva dire “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”? Continua a leggere

Mario Monti l’Arcitaliano

E dunque alla fine Mario Monti nonostante il loden e la valigia con il trolley si è rivelato più italiano che anglosassone. Anzi, s’è rivelato proprio il classico Arcitaliano, per usare un termine caro a Giuliano Ferrara, che di arcitalianità se ne intende al punto da avere coniato il termine e da usarlo come suo soprannome nella sua rubrica sul settimanale Panorama. Arcitaliano e quindi anche discretamente vanesio. Chi accetterebbe che il dentista una volta quasi completati i lavori per i nostri denti pretendesse di continuare a occuparsene anche se abbiamo forse deciso di cambiare dentista cercandone uno più bravo e/o meno costoso? E chi accetterebbe che l’architetto o l’impresario edile una volta quasi terminata la ristrutturazione della nostra casa pretendesse di continuare a occuparsene, per giunta in coabitazione con noi, anche se abbiamo deciso di cercarne di meglio o meno cari? Certamente nessuno accetterebbe tali eventuali invasioni di campo, decisamente impensabili. Mario Monti invece più o meno questo sta facendo. Il che dimostra che non è del tutto vero che lui è un tecnico prestato alla politica per necessità di quest’ultima. Se lo fosse accetterebbe di passare la mano, con i nostri sentiti ringraziamenti, accettando quanto deciso dai padroni della dentatura e di casa con annesso guardiano, vale a dire dal parlamento e dal presidente della Repubblica. Invece ha deciso di restare in politica e mettere in piedi una coalizione di centro. Che porterebbe via voti sia alla sinistra che alla destra e lo metterebbe forse in grado di restare a palazzo Chigi. Evidentemente a Monti il premio d’ingaggio pagato come anticipo per le sue prestazioni da tecnico, cioè la nomina a senatore a vita, non è bastato.

La magistratura si è arresa alle pretese di un programma tv basate per ben sette anni su una telefonata anonima rivelatasi ovviamente falsa. E alle pretese di un cittadino vaticano, Pietro Orlandi, che ha collezionato ormai almeno 17 vistose contraddizioni

[AGGIUNTA DEL 29 MAGGIO

Per chi volesse capirne qualcosa ed essere informato sul caso di Emanuela Orlandi che tante polemiche, accuse e balle colossali sta seminando soprattutto negli ultimi tempi. E’ il video su Youtube di una mia intervista a Tele Roma 56 (ricordiamo  che Federica Sciarelli di “Chi l’ha visto?” ha insabbiato la lunga intervista che mi fece fare nel 2005):

http://www.youtube.com/watch?v=rzv1fdvd6JE&feature=plcp ]

In nessun Paese civile sarebbe stato permesso che un programma televisivo, in questo caso “Chi l’ha visto?”, potesse montare una campagna scandalistica durata ben sette anni basandosi su una telefonata anonima, del settembre 2005,  supportata man mano da “supertestimoni”, prove e ricostruzioni fasulle. E in nessun Paese civile la magistratura si sarebbe arresa a una tale campagna fino a violare un intero cimitero antico posto, come costume non solo a Roma, nei sotterranei di una chiesa. “Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare”, ha detto per telefono nel 2005 l’anonimo di “Chi l’ha visto?”. La magistratura è andata “a vedere  chi è sepolto nella cripta”, De Pedis ovviamente, ma “la soluzione del caso” non c’è. Quella telefonata oltre che anonima era anche bugiarda. Come del resto anche le ultime “clamorose rivelazioni”. In un Paese civile la conduttrice del programma televisivo “Chi l’ha visto?” sarebbe stata licenziata in tronco da un bel pezzo, in Italia ersta invece al suo posto anche dopo la clamorosa e inconfutabile dimostrazione di avere campato per 7 anni su una panzana. Anonima e panzana.

I colpi di scena e le piste si susseguono a ritmo crescente, ma il tentativo di addossare la scomparsa di Emanuela Orlandi alla cosiddetta banda della Magliana, e in particolare al suo asserito capo Enrico De Pedis è ormai crollato. Fragorosamente crollato, ove per fragore si intende non solo quello dei mass media improvvisamente scatenati come una muta di cani da caccia sulla preda, ma anche quello dei martelli pneumatici che hanno praticamente demolito i sotterranei della basilica romana di S. Apollinare alla assurda ricerca dei resti della Orlandi come fossero la famosa “pietra verde”. Martelli pneumatici il cui ossessivo baccano pareva l’esplosione della rabbia non dei magistrati, che sapevano bene non avrebbero trovato nulla, ma dei telespettatori da curva sud che confondono l’uomo De Pedis  con la figura del Dandy, il cinico protagonista di Romanzo criminale in versione libro, film e serie televisiva. Continua a leggere

LETTERA APERTA AL COLLEGA DEL CORRIERE DELLA SERA FABRIZIO PERONACI – Il pessimo giornalismo ha trasformato in una trentennale farsa a puntate quella che doveva essere la tragedia privata della scomparsa di Emanuela Orlandi

RIPUBBLICO LA STESSA LETTERA APERTA PER EVITARE CHE I FORUMISTI SI TROVINO ALLE PRESE CON ORMAI QUASI 900 COMMENTI, CHE APPESANTISCONO IL DOWNLOAD. LO SCATENARSI ANCOR PIU’ DI CIALTRONERIE E FALSITA’ DI OGNI GENERE SULLA STESSA VICENDA, ORMAI SFOCIATA NEL RIDICOLO, MI HA TENUTO MOLTO MOLTO IMPEGNATO E CONVINTO A NON CAMBIARE ANCORA ARGOMENTO, COSA CHE PERO’ AVVERRA’ NEL GIRO DI 3-4 GIORNI AL MASSIMO.

ANCORA GRAZIE PER LA COMPRENSIONE.

Egregio collega Fabrizio Peronaci,

il 21 aprile 2012 sulla pagina Facebook del gruppo denominato petizione.emanuela@libero.it – Gruppo ufficiale fondato da Pietro Orlandi è comparso il seguente tuo appello:

“UN’INVESTIGAZIONE PER EMANUELA
cari amici, chiedo un aiuto a quanti di voi abbiano tempo e un certo fiuto per l’investigazione.
In breve la questione è la seguente: sarebbe molto, molto importante riuscire a trovare riscontri sulla presenza a Roma nel giugno del 1983 (cercando su Internet o da altri fonti) del principe erede del Liechtenstein Hans-Adam.
Come io e Pietro raccontiamo nella nuova edizione di “Mia sorella Emanuela” (a pag 289), Alì Agca ha espressamente accusato Hans-Adam (ancora oggi regnante) di aver partecipato a una sorta di vertice in Vaticano avvenuto l’11 giugno 1983 (tra i presenti ci sarebbe stato anche il cardinal Casaroli), nel quale fu deciso il sequestro e il trasferimento di Emanuela nel piccolo paese del centro Europa. Se questo racconto fosse confermato da un documento che attesti la presenza a Roma in quei giorni di Hans-Adam, capite bene che avremmo trovato un riscontro fondamentale alle dichiarazioni del presunto pazzo Agca.
Io da settimane sto navigando su Seby Interlandinet, ma non ho avuto la fortuna di trovare il link giusto… Qualcuno ci prova? ciao a tutti, f.”.

Non intendo giudicarne il contenuto, ma rilevo che tale appello segue l’ennesima asserita “rivelazione” lanciata la sera prima, venerdì 20 aprile, da te e dall’avvocato Ferdinando Imposimato nel corso del programma Metropolis di RomaUnoTv dando ampio credito alle affermazioni del cittadino turco Alì Mehmet Agca, noto anche per essersi definito “unico Gesù Cristo in terra”. Affermazioni non a caso riportate – come tu stesso specifichi nell’appello – nella nuova edizione del libro tuo e del cittadino vaticano Pietro Orlandi. Questo è il link del video che su Youtube immortala il lancio delle nuove “rivelazioni”, come al solito disinvoltamente opposte alle “rivelazioni” precedenti:  http://www.youtube.com/watch?v=m4RVS0oJjQI
Premetto che non si capisce perché si insista a ingannare il pubblico continuando a presentare Imposimato come esperto che si è occupato del caso Orlandi quando era giudice istruttore a Roma, mentre invece come magistrato non se ne è mai potuto occupare perché già uscito dalla magistratura. Premetto anche che da almeno 12 anni lo stesso Imposimato ha più volte pubblicamente affermato che “rientrato Agca in Turchia, Emanuela Orlandi sarò sicuramente liberata”. S’è visto…. Premetto infine che è strano, anche dal punto di vista deontologico, che lo stesso Imposimato dopo essere stato il legale di Agca, quando questi era detenuto nel carcere di Ancona, sia infine diventato il legale della signora Maria Pezzano, madre di quella Emanuela Orlandi che lo stesso Imposimato sostiene da anni e anni essere stata rapita in favore proprio del suo ex cliente Agca. Tu non lo trovi almeno un po’ strano o che quanto meno sia un piccolo caso di conflitto di interessi? O vogliamo sostenere che il conflitto di interesse esiste solo se riguarda Silvio Berlusconi? Continua a leggere

LETTERA APERTA AL COLLEGA DEL CORRIERE DELLA SERA FABRIZIO PERONACI – Il pessimo giornalismo ha trasformato in una trentennale farsa a puntate quella che doveva essere la tragedia privata della scomparsa di Emanuela Orlandi

DATA LA PROSECUZIONE E L’AGGRAVARSI DELLE SCORRETTEZZE DA ME DOCUMENTATE IN QUESTA LETTERA APERTA E DATO IL SILENZIO DEL DESTINATARIO, RITENGO OPPORTUNO RITARDARE DI QUALCHE GIORNO IL NUOVO ARGOMENTO DEL BLOG. GRAZIE PER LA COMPRENSIONE.

Egregio collega Fabrizio Peronaci,

l’altro ieri 21 aprile 2012 sulla pagina Facebook del gruppo denominato petizione.emanuela@libero.it – Gruppo ufficiale fondato da Pietro Orlandi è comparso il seguente tuo appello:

“UN’INVESTIGAZIONE PER EMANUELA
cari amici, chiedo un aiuto a quanti di voi abbiano tempo e un certo fiuto per l’investigazione.
In breve la questione è la seguente: sarebbe molto, molto importante riuscire a trovare riscontri sulla presenza a Roma nel giugno del 1983 (cercando su Internet o da altri fonti) del principe erede del Liechtenstein Hans-Adam.
Come io e Pietro raccontiamo nella nuova edizione di “Mia sorella Emanuela” (a pag 289), Alì Agca ha espressamente accusato Hans-Adam (ancora oggi regnante) di aver partecipato a una sorta di vertice in Vaticano avvenuto l’11 giugno 1983 (tra i presenti ci sarebbe stato anche il cardinal Casaroli), nel quale fu deciso il sequestro e il trasferimento di Emanuela nel piccolo paese del centro Europa. Se questo racconto fosse confermato da un documento che attesti la presenza a Roma in quei giorni di Hans-Adam, capite bene che avremmo trovato un riscontro fondamentale alle dichiarazioni del presunto pazzo Agca.
Io da settimane sto navigando su Seby Interlandinet, ma non ho avuto la fortuna di trovare il link giusto… Qualcuno ci prova? ciao a tutti, f.”.

Non intendo giudicarne il contenuto, ma rilevo che tale appello segue l’ennesima asserita “rivelazione” lanciata la sera prima, venerdì 20 aprile, da te e dall’avvocato Ferdinando Imposimato nel corso del programma Metropolis di RomaUnoTv dando ampio credito alle affermazioni del cittadino turco Alì Mehmet Agca, noto anche per essersi definito “unico Gesù Cristo in terra”. Affermazioni non a caso riportate – come tu stesso specifichi nell’appello – nella nuova edizione del libro tuo e del cittadino vaticano Pietro Orlandi. Questo è il link del video che su Youtube immortala il lancio delle nuove “rivelazioni”, come al solito disinvoltamente opposte alle “rivelazioni” precedenti:  http://www.youtube.com/watch?v=m4RVS0oJjQI
Premetto che non si capisce perché si insista a ingannare il pubblico continuando a presentare Imposimato come esperto che si è occupato del caso Orlandi quando era giudice istruttore a Roma, mentre invece come magistrato non se ne è mai potuto occupare perché già uscito dalla magistratura. Premetto anche che da almeno 12 anni lo stesso Imposimato ha più volte pubblicamente affermato che “rientrato Agca in Turchia, Emanuela Orlandi sarò sicuramente liberata”. S’è visto…. Premetto infine che è strano, anche dal punto di vista deontologico, che lo stesso Imposimato dopo essere stato il legale di Agca, quando questi era detenuto nel carcere di Ancona, sia infine diventato il legale della signora Maria Pezzano, madre di quella Emanuela Orlandi che lo stesso Imposimato sostiene da anni e anni essere stata rapita in favore proprio del suo ex cliente Agca. Tu non lo trovi almeno un po’ strano o che quanto meno sia un piccolo caso di conflitto di interessi? O vogliamo sostenere che il conflitto di interesse esiste solo se riguarda Silvio Berlusconi?
Ciò premesso, noto che la “rivelazione” del 20 sera in tv e il suo rilancio su Facebook il giorno dopo seguono lo stesso schema di un’altra “rivelazione”, quella del 17 giugno dell’anno scorso sempre su RomaUnoTv, e rilanciata il giorno dopo da te sul Corriere della Sera. Mi riferisco alla “rivelazione” lanciata in diretta telefonica dall’asserito “ex agente segreto del Sismi” con nome in codice “Lupo”, in realtà il pataccaro Luigi Gastrini, nel corso della puntata di Metropolis visibile sul seguente link: http://www.youtube.com/watch?v=qNgtvibZGts .
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Finalmente si protesta in piazza S. Pietro contro l’omertà vaticana sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Proprio mentre dall’Olanda arriva l’ennesimo mega scandalo della pedofilia del clero e della annessa protezione vaticana

Un nuovo scandalo per la pedofilia di troppi sacerdoti scuote la Chiesa. Questa volta tocca all’Olanda, dove sotto la spinta dell’opinione pubblica, la Conferenza episcopale olandese l’anno scorso aveva deciso di istituire una commissione d’inchiesta sugli abusi commessi dai preti pedofili.  I sei membri della commissione includevano un ex magistrato, uno psicologo e doventi universitari. Presidente, l’ex ministro Wim Deetman. L’inchiesta ha riguardato oltre 800 sacerdoti  e ha indagato su quanto accaduto dal 1945 al 2000. Come già per gli Usa, Australia e Irlanda, la conclusione è agghiacciante: gli abusi si contano infatti a decine di migliaia, la Chiesa e il Vaticano li conoscevano bene, ma, come sempre, non hanno mai avuto nulla di ridire e non hanno mai preso iniziative per punire i responsabili degli abusi. Nel rapporto si legge tra l’altro:

- “Il problema degli abusi sessuali era ben noto agli ordini e nelle diocesi della Chiesa cattolica olandese, ma non furono prese le misure appropriate”;

- la Chiesa olandese e il Vaticano “pur sapendo non hanno aiutato le vittime”;

- degli oltre 800 autori di abusi “105 sono ancora vivi”.

Eppure in Italia lo spazio dedicato a questo nuovo orrore è minimo. In televisione non mi pare se ne sia parlato, e non è certo colpa di Minzolini. Nei giornali cartacei e nei loro siti online o non se n’è parlato o se ne è parlato poco e di sfuggita nelle pagine interne e nella loro parte bassa, mai in apertura. E’ interesante notare che si tratta di una omertà stranamente simile a quella che vige sempre riguardo gli abusi e i crimini di Israele contro i palestinesi.

Poco o nullo lo spazio dedicato anche a una iniziativa senza dubbio interessante, ma a mio avviso tardiva. Dopo avere raccolto via Internet oltre 40 mila firme a un appello che chiede la fine dell’omertà del Vaticano sulla scomparsa di sua sorella Emanuela, sparita a quasi 16 anni nel giugno del 1983, Pietro Orlandi ha dato appuntamento a tutti i firmatari per domenica, 18 dicembre, direttamente in piazza S. Pietro. Un gesto in apparenza talmente dirompente da apparire provocatorio. Fatto però con un ritardo di quasi 30 anni. Continua a leggere

Sbaglia chi gioisce per l’intervento (ambiguo) della Chiesa contro Berlusconi

Non credo ci sia molto da gioire perché il cardinale Angelo Bagnasco, capo dei vescovi italiani, ha finalmente detto quello che ha detto a proposito del bisogno di “aria pulita”. Premesso che di aria pulita c’è bisogno anche nella Chiesa, e in particolare a Genova visto lo scandalo del prete pedofilo don Riccardo Seppia e visto l’ostracismo anche da parte dello stesso  Bagnasco verso il “prete da marciapiede” don Andrea Gallo, ci sono alcune considerazioni da fare.
La prima considerazione è che il ritardo della Chiesa nel prendere posizione contro il degrado non solo morale che promana dal sistema Berlusconi e annesso stile di vita non è certo un ritardo casuale. E’ da oltre un anno che la Chiesa avrebbe dovuto parlare. Non agli italiani tutti, ma ai suoi credenti. Avrebbe dovuto farlo non appena venuto a galla lo scandalo dei rapporti con la minorenne Noemi di Napoli e avrebbe dovuto rifarlo non appena tracimato il liquame stappato da Patrizia D’Addario&C. Invece la Chiesa era anzi perfino propensa al perdono e alla benedizione pubblica con il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, accorso all’Aquila alla tradizionale Festa della Perdonanza per, appunto, perdonare e assolvere Berlusconi. Solo la puttanata di Vittorio Feltri su Il Giornale contro Dino Boffo fece saltare la progettata trasformazione della Perdonanza in Puttananza. Continua a leggere

La più grande escort (anche) con Berlusconi è la Chiesa, che a fronte di tanta devastazione non solo morale tace e sa urlare solo contro i poveracci alla Englaro. La verità sulla “rivoluzione libica” comincia finalmente a emergere anche sui principali giornali

Che usi avesse lo abbiamo capito al punto da averlo ribattezzato da un bel pezzo Il Chiavaliere, epiteto molto più adeguato alla realtà del titolo di Cavaliere. Ciò detto, salto a piè pari il fetido argomento “Silvio e le donne” per fare invece la seguente considerazione: strano che tutti facciano finta di non accorgersi che dalle intercettazioni telefoniche e annesse azioni risulta chiaro e tondo che NON E’ VERO che Silvio Berlsuconi non interferisce con i suoi giornali e televisioni, NON è cioè quel “mero proprietario” che ai gonzi come Veltroni-D’Alema&C è riuscito a far credere di essere in modo da potersi mettere con il loro volenteroso aiuto la legge sotto i piedi e candidarsi alle elezioni. Con le note conseguenze, sempre più a valanga e per l’esattezza a valanga di merda.
Visto che è ormai assodato che il conflitto di interessi c’è ed è in piena azione, e che invece quella del “mero proprietraio” è solo una presa per il sedere di tutti gli italiani, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovrebbe intervenire d’autorità. Non è vero che non può destituire Berlusconi da primo ministro: il Chiavaliere ha tradito il solenne giuramento fatto al monento di ricevere l’incarico, ha mentito agli italiani, ha tradito l’opinione pubblica, ha tradito e falsificato la realtà in vari campi. Soprattutto, la sua permanenza a palazzo Chigi vanifica i sacrifici, le “lacrime e sangue” che lo stesso Napolitano ci chiede, vanifica il senso di responsabilità che da qualche tempo il capo dello Stato chiede con insistenza a tutti con il paradossale risultato di salvare di Berlusconi  primo ministro, il quale oltretutto sta sputtanando l’Italia a livello planetario. Insomma, il Chiavaliere sta danneggiando gravemente l’interesse generale dell’Italia in più campi, fino a minacciarne il rimanere nell’euro e nell’Eurozona e quindi la stessa unità nazionale. Non so se ciò basti per l’accusa di Alto Tradimento, ma di sicuro ce n’è più che a sufficienza perché Napolitano inviti con fermezza e se necessario anche pubblicamente Berlusconi a dimettersi mettendo sul piatto come aut aut le proprie dimissioni. Di fronte a una mossa come questa Berlusconi sarebbe semplicemente spazzato dalla scena. Non c’è da temere che il parlamento si rifiuti di dar vita a un altro centrodestra, vista la fifa nera che i parlamentari hanno di non essere rieletti in caso di elezioni anticipate. I Responsabili alla Scilipioti non potrebbero certo mostrarsi cosi Irresponsabili da non sostenere un nuovo centrodestra perché se lo facessero confermerebbero clamorosamente che con Berlusconi non erano Responsabili quanto invece semplicemente Venduti.

A fronte di tanta devastazione della morale pubblica e privata nonché della riduzione della donna a semplice “troia”, come le chiamano il fornitore Tarantini di carne fresca e il suo cliente abituale, impressiona il silenzio del Vaticano e della Chiesa, ennesima dimostrazione dell’arte del meretricio nella quale Santa Madre Chiesa eccelle da quasi duemila anni, da sempre escort dei potenti al governo: i 3 miliardi di euro incassati ogni anni dall’imbelle Stato italiano valgono bene questo nuovo caso di prostituzione. Del resto già dopo il caso Noemi, della quale e dei cui genitori è ora più chiaro il tipo di disponbilità verso “papi” Silvio, il Vaticano per mano del segretario di Stato Raffaele Bertone era ansioso di assolvere pubblicamente il Grande Chiavaliere approfittando della festa della Perdonanza a L’Aquila. Ricordate? Quella tradizionale festa religiosa aquilana la ribattezai la Puttananza, e il pornografico abbraccio e bacio in bocca di Santa Madre Chiesa con Berlusconi non venne consumato solo perché, se non ricordo male, Vittorio Feltri  accoltellò alla schiena Dino Boffo, l’allora direttore de L’Avvenire d’Italia, quotidiano dei vescovi italiani, suscitanto l’inevitabile irrigidimento delle gerarchie. La Chiesa fa la voce grossa contro i poveracci alla Englaro e i loro diritti, ma tace vilmente di fronte agli “uomini della Provvidenza” e al denaro. Perfino Manuela Arcuri e Patrizia D’Addario sono delle educande di fronte alla sfacciataggine del meretricio vaticano, che ha degradato il cristianesimo in cattolicesimo papalino, quello che a suo tempo ha dato il disco verde sia al nazismo che al fascismo in cambio di ricchi piatti di lenticchie chiamati Concordato, che decenza vuole venga finalmente abolito anche in Italia anziché ingrassato da puttanieri incalliti.

Cambiamo argomento. Vi propongo in sequenza la lettura di alcuni articoli, a partire da quello di Guido Rampoldi su Repubblica  che a partire dal titolo – I Gattopardi di Tripoli –  smaschera clamorosamente la marea di panzane ovunque addotta per giustificare l’ingiustificabile guerra in Libia. A seguire, un articolo di Franco Venturini sul Corriere della Sera, che dimostra come, incredibile ma vero, l’Italia non sia più un Paese mediterraneo, una lettera di un lettore del Corsera a Sergio Romano e la sua interessante risposta, infine il vergognoso articolo del solito bugiardo Levy Bernard Henri, la cui boria trionfalista a fronte degli altri articoli citati suona per quello che è: pura boria narciso trionfalistica. Continua a leggere

Letizia Moratti: signora ma non Signora. Molto prona al Vaticano, al quale ha regalato la nomina degli insegnanti di religione nelle scuole italiane, ignora che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. E che “errare è umano, ma insistere è diabolico”. Lei infatti insiste

Che a rinfacciare a Giuliano Pisapia una amnistia per un furto d’auto di 30 anni fa sia una persona che, come Letizia Moratti, è entrata in politica, ha fatto il ministro ed è diventata sindaco di Milano solo ed esclusivamente grazie a un pluri indagato, pluri rinviato a giudizio e pluri miracolato da leggi fatte fare su misura come Silvio Berlusconi, e dove non poco comanda gente condannata per “aiutini” alla mafia come Marcello Dell’Utri, è il colmo. Il colmo dei colmi. Il colmo della miseria. Politica, morale e umana. E’ raggelante che il sindaco di Milano abbia tirato fuori questa storia solo alla fine del dibattito su SkyTv, sapendo bene che le regole dello stesso dibattito avrebbero impedito a Pisapia di replicare per dimostrare che si tratta di un falso. Non solo è raggelante, ma si tratta di una furbata che una persona per bene, e in particolare una signora, dovrebbe guardarsi bene dal compiere. Bene ha fatto perciò Pisapia a non accettare la stretta di mano della Moratti a fine dibattito. Vogliamo credere che la sua antagonista sia stata male informata. Ma se questo la scusa come persona privata, come sindaco di Milano aumenta la sua responsabilità del passo falso: un sindaco ha infatti il dovere di essere e apparire informato in modo pieno ed esatto, anziché sballato o approssimativo. Continua a leggere

Wojtyla “santo subito!”. Per nasconderne le colpe

Ma Wojtyla, il famoso papa polacco, predecessore dell’attuale papa Ratzinger, è davvero un beato? E può magari essere dichiarato in futuro anche santo? Si tratta francamente di domande oziose, inutili. La Chiesa può dichiarare santo e beato chi più le aggrada, esattamente come una tribù animista può dichiarare che in un baobab c’è uno spirito che fa miracoli o i buddisti e gli induisti possono dichiarare che il Tal dei Tali è – appunto – un santone e venerarlo come tale. Se c’è chi crede certe cose, affari suoi. L’importante è che non voglia costringere gli altri a credere anche loro in ciò che crede lui. Ecco perché è assurdo porsi certe domande su Wojtyla o sugli altri “santi” e “beati” dichiarati tali dalla Chiesa. Alcuni dei quali peraltro erano fior di mascalzoni, come per esempio S. Carlo Borromeo, il famoso vescovo e santo di Milano: grande cultore delle torture e dei roghi dell’Inquisizione, ha in comune con Wojtyla l’essere scampato a un attentato con una pistola dell’epoca e avere voluto interpretare l’essere rimasto illeso come un miracolo, un segno della benevolenza di Dio, quando si trattava invece solo di imperizia dello sparatore e inefficienza dell’arma usata.

Tutto ciò premesso, che Wojtyla non sia degno di essere considerato beato, e quindi tanto meno santo, perlomeno nel senso attribuito a tali termini dai laici, risulta chiaro da almeno due episodi. Il primo e senza dubbio il più grave è essere il responsabile dell’ordine imposto ai vescovi di tutto il mondo nel marzo 2003 di tacere alle autorità civili dei propri Paesi qualunque caso di pedofilia del clero. L’ordine, come ho scritto più volte, venne firmato dall’attuale papa, Ratzinger, e dall’attuale segretario di Stato vaticano, Raffaele Bertone, nella loro veste, all’epoca, rispettivamente di responsabile e suo vice della Congregazione per la dottrina della fede (ex tribunale dell’Inquisizione). Ma a volere quell’ordine, nell’ambito di un aggiornamento delle leggi vaticane relative a una serie di delitti, e a ratificarlo è stato Wojtyla. Le conseguenze sono tristemente note. Gli scandali per i casi di pedofilia del clero coperti dalle gerarchie locali sono esplosi un po’ ovunque, in Italia, negli Usa, in Australia, in Austria, in Irlanda, ecc. Negli Usa la Chiesa in vari processi ha dovuto pagare alle vittime dei preti pedofili danni per cifre totali astronomiche, e per quell’ordine del 2003 una corte del Texas nel 2005 ha accusato Ratzinger di ostruzione della giustizia. Per evitare un devastante rinvio a giudizio è dovuto intervenire l’allora presidente George Bush junior, che ha imposto l’immunità dovuta ai capi di Stato perché nel frattempo l’imputato era stato eletto papa, diventando così anche capo dello Stato del Vaticano. Continua a leggere