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Facile scenario

L’inizio del progressivo crollo del sistema capitalistico occidentale si può far risalire, simbolicamente, all’abbattimento delle Torri Gemelle nel 2001, cui il Deep State americano non fu certo estraneo.
Beninteso non sta crollando il capitalismo in sé, ma solo la sua forma occidentale, quella dell’anglosfera, sommamente individualistica.
Nell’occidente collettivo il ruolo dello Stato è incidentale, tant’è che i tanti statisti (spesso privi di vere competenze) vanno e vengono con molta disinvoltura. D’altra parte la politica deve considerarsi al servizio dell’economia (e oggi soprattutto della finanza), per cui i veri “signori del mondo” sono altrove.
Le ultime crisi del capitalismo occidentale sono tutte finanziarie: quella più significativa è esplosa nel 2008, coi subprime americani, che ha coinvolto tanti Paesi occidentali, le cui banche, ancora oggi, sono piene di titoli tossici, inesigibili.
A questa crisi, durata un decennio, gli USA hanno risposto in due modi: internamente, indebitandosi all’estremo, cioè stampando dollari a volontà, come se nulla fosse; esternamente, provocando la pandemia da Covid, attraverso i loro biolaboratori: in tal modo veniva colpito il mondo intero.
Il capitalismo è entrato in crisi sul piano industriale, poiché non è più competitivo con l’economia cinese, che pur lo stesso occidente ha contribuito a creare, nella convinzione, rivelatasi illusoria, di poter tenere la Cina economicamente sottomessa per almeno un secolo. Ora invece produce qualunque cosa a prezzi imbattibili, avendo un costo del lavoro di molto inferiore al nostro e molte più materie prime.
In questo momento sono gli USA a trovarsi in gravi difficoltà: il debito pubblico è altissimo; lo Stato sociale quasi non esiste; non vi è abitudine al risparmio, ma, al contrario, a spendere al di sopra delle proprie capacità; il petrodollaro è in fase di smantellamento grazie ai BRICS+; la perdita di fiducia nella loro solidità obbliga a tenere i tassi d’interesse molto alti (il che non fa che aumentare il debito); si stampano continuamente banconote che valgono sempre meno; ci s’illude di potersi reindustrializzare velocemente imponendo dazi anacronistici (e autolesionistici) al resto del mondo; per dimostrare che si è ancora la prima economia del mondo, si ricorre a sanzioni, embarghi, minacce d’ogni genere, destabilizzando i commerci mondiali; e naturalmente si fomentano guerre ovunque sia possibile.
L’URSS implose per l’assenza del benessere capitalistico; l’occidente sta crollando per averne avuto troppo, usando mezzi e metodi violenti, illegali, cui oggi tutti gli altri vogliono opporsi.
Dopo essere finita in bancarotta, per aver adottato il capitalismo privato occidentale, oggi la Russia, col capitalismo statale di Putin, è in netta ripresa.
Piuttosto è l’occidente a essere privo di una qualche alternativa al proprio declino. Il socialismo statale di Russia e Cina era imploso senza causare guerre a potenze straniere. Invece l’occidente collettivo sta facendo proprio il contrario, forse perché, in definitiva, non può fare a meno del colonialismo, né di scaricare all’esterno il peso dei propri fallimenti. Ha bisogno assolutamente di crearsi dei nemici. In Medio oriente sono i palestinesi (fino a ieri erano gli islamici in senso lato); in Ucraina sono i russi; in Asia sono i cinesi; in Africa i Paesi che si ribellano al vecchio e nuovo imperialismo europeo.
Con un occidente così la guerra sembra essere alle porte. Ma sarebbe un errore pensare che la soluzione ai nostri problemi possa venire dall’esterno. L’occidente deve trovare in se stesso la forza per cambiare in maniera significativa, garantendo libertà e sicurezza al resto del mondo.

Russia, Cina e Occidente collettivo

La Russia non ha assolutamente la stessa capacità della Cina di condizionare il mondo dal punto di vista economico e finanziario. Non ha sviluppato l’industria leggera quando esisteva il socialismo statale, e fino alla guerra in Ucraina non si preoccupava di dipendere dalle aziende straniere per la fornitura di tantissimi beni industriali. Ciò in quanto era convinta che, grazie alle sue enormi risorse energetiche, vendute a buon mercato, i Paesi occidentali sarebbero stati dei folli a privarsene per qualche motivo ideologico o militare.
Solo quando queste aziende sono andate via dal suo territorio, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ha cominciato a sostituirle, o in proprio o facendo entrare aziende straniere non occidentali. Ma i suoi veri progressi restano quelli sul piano militare. E naturalmente resta potente sul piano energetico, anche se le sanzioni occidentali l’hanno inevitabilmente danneggiata.
È evidente, per motivi geografici, che la UE tema militarmente di più la Russia che la Cina. Questo perché è un Paese europeo che potrebbe politicamente condizionare altri Paesi europei e che potrebbe impedire a questi Paesi di espandersi militarmente verso oriente. La teme anche perché nella UE il capitalismo statale è in via di smantellamento dagli anni ’80: cosa sempre più evidente da quando abbiamo creato l’Unione Europea vera e propria, che praticamente è in mano a delle oligarchie private.
Ma sul piano produttivo, cioè economico, il terrore per noi resta la Cina, perché fa passi da gigante in tempi brevissimi, avendo molte più risorse, umane e materiali, di qualunque altro Paese al mondo. E quando un Paese come la Cina ti entra in casa sul piano economico, finanziario e commerciale, è inevitabile aspettarsi che prima o poi ti chieda il conto anche sul piano politico.
È vero, la Russia al momento sembra avere più prestigio al mondo, in quanto combatte da sola contro l’occidente collettivo, aiuta militarmente a liberarsi del colonialismo occidentale, fornisce aiuti umanitari a chiunque li chieda (spesso a titolo gratuito), e porta avanti il discorso sul multipolarismo, condiviso da tantissimi Paesi. Tuttavia se c’è un Paese destinato a ereditare (superandoli) gli sviluppi tecnico-scientifici, economico-finanziari e commerciali del capitalismo occidentale, è la Cina. Su questo non si possono avere dubbi.
È anche vero che in Cina sembra esistere un regime più autoritario di quello russo, più lontano da quello della democrazia rappresentativa occidentale. Peraltro in Cina non si potrebbe parlare, al momento, di “capitalismo statale” vero e proprio, come l’abbiamo conosciuto noi in Europa. Sarebbe meglio parlare di “socialismo mercantile”, poiché esiste un’ideologia ufficiale, quella del materialismo storico-dialettico, statalizzata a partire dal maoismo, e revisionata, significativamente, a partire da Deng Xiaoping, che ha occidentalizzato la Cina, dando più peso all’economia che non all’ideologia. A dir il vero in Cina l’elemento del collettivismo fa parte di una cultura ancestrale. Si potrebbe anzi dire che la Cina è socialista proprio in quanto è sempre stata collettivistica.
Viceversa, il socialismo scientifico non ha più una rilevanza significativa in Russia. Semmai qui esiste un’idea di “collettivismo” non meno antica, ma più che altro nella sua area asiatica. E comunque l’ideologia di Putin non ha nulla a che fare col socialismo. Si configura di più come un “nazionalismo ortodosso”, aperto ad altre confessioni religiose, dove il patriottismo, l’eroismo, il sacrificio di sé giocano, come valori collettivi, un ruolo fondamentale. Di qui l’importanza che si concede al militarismo, arma strategica con cui difendersi dalle mire imperiali dell’occidente.
Sotto questo aspetto né la Russia né la Cina costituiscono per l’occidente dei modelli da imitare, se non negli aspetti dell’efficienza produttiva e militare. Per es. la capacità che il regime cinese ha di controllare la popolazione suscita una certa ammirazione da parte delle élite occidentali, sempre più intenzionate a trasformare la democrazia formale in una dittatura reale del capitale.
Infatti, se andiamo avanti così, il destino dell’Unione Europea (che si configura come destino di un capitalismo sempre più privatizzato imposto a tutti i Paesi che fanno parte di questa entità politica) non sarà molto diverso da quello degli Stati Uniti e degli altri Paesi dell’occidente collettivo: sarà sicuramente un destino tragico.

NEWS del 28 aprile 2025

In questa guerra russo-ucraina l’atteggiamento più curioso degli occidentali (americani ed europei in primis) è la totale incapacità ad ammettere che la Russia sul piano militare è più forte dell’intero occidente collettivo.
Sono passati oltre tre anni e non c’è stato neanche un momento in cui le forze armate russe abbiamo mostrato che in una guerra di logoramento avrebbero potuto essere sconfitte.
La guerra è rimasta sul piano convenzionale (per fortuna, bisogna dire) e la NATO l’ha persa. La Russia ha saputo tener testa, da sola, a 32 Paesi! Non solo, ma, mentre vinceva sul piano militare, si riorganizzava su quello economico-finanziario, affrontando con successo le mille sanzioni occidentali, il congelamento di 300 miliardi di dollari della propria Banca centrale, e persino contribuendo alla creazione di un mondo multipolare e di una mastodontica organizzazione come quella dei BRICS, per non parlare delle nuove relazioni stabilite con quei Paesi africani che vogliono liberarsi del colonialismo europeo.
Dunque, a questo punto, l’occidente cos’ha intenzione di fare? Vuol fare intervenire direttamente la NATO nel conflitto, mantenendolo sul piano convenzionale? Vuole trasformarlo da convenzionale a nucleare? Prima di scendere in campo esplicitamente vuole investire miliardi di capitali nel riarmo? Al momento sembra che stia chiedendo all’Ucraina di resistere il più possibile, cioè il tempo sufficiente affinché la NATO si riarmi per bene e che possa dichiarare guerra alla Russia con un esercito numericamente non inferiore a quello russo. Ma può l’Ucraina resistere altri 3-4-5 anni?
Diciamo questo perché, a leggere le proposte di pace americane ed europee, appare chiaro che non esiste un vero negoziato risolutivo. Alla Russia si chiede soltanto di retrocedere dai territori conquistati. Sul piano giuridico le si riconosce solo la Crimea. Tutti gli altri territori vengono riconosciuti di pertinenza russa solo pro tempore, nel senso che se è vero che al momento li hanno conquistati militarmente, è anche possibile che li perdano in un prossimo futuro.
Si pretende, come base di partenza per una trattativa, la fine delle ostilità, cioè l’occidente pretende una cosa come se sul campo di battaglia fosse lui a vincere. Infatti parla di un cessate il fuoco totale e incondizionato in cielo, a terra e in mare, e che il rispetto di questo ceasefire sarà monitorato dagli Stati Uniti e sostenuto da Paesi terzi, i quali non possono essere disarmati.
Un’Unione Europea altamente belligerante e perdente chiede alla Russia come deve regolarsi nelle trattative di pace. Mi chiedo se nella storia delle guerre del genere umano si sia mai vista una cosa del genere. Sembriamo un chihuahua che abbaia a un rottweiler.

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Ammettiamo una cosa inconfutabile: dai tempi dell’espansione della NATO verso est l’occidente non ha mai fatto una proposta relativa alla sicurezza generale del continente europeo, valida per tutti i Paesi che lo compongono.
Altra verità lapalissiana è che la Russia non è solo un Paese asiatico, ma anche europeo. E la sua sicurezza esistenziale non può essere decisa dagli USA, dalla UE o dalla NATO. Va decisa, come minimo, in una conferenza europea, se non internazionale, visto che non si potrebbero escludere gli Stati Uniti.
Ma poi, pensiamoci bene, considerando che i commerci si svolgono a livello mondiale, come potrebbe essere esclusa da una conferenza del genere un Paese come la Cina? Chi più di lei avrebbe bisogno che nel continente europeo fosse garantita una pace di lunga durata? Un Paese che investe centinaia di miliardi nelle infrastrutture solo per potersi espandere commercialmente nel mondo, ha bisogno come il pane di sicurezza e stabilità.
Ebbene, in Europa non ci sono neanche le basi minime per assicurare la pace nel continente. E non possiamo credere che tale pace possa essere garantita dalle sceneggiate clownesche di Trump.

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Non facciamoci illusioni. Stiamo sì assistendo, in tempo reale, alla fine del capitalismo occidentale, ma non a quella del capitalismo in sé. Si tratta solo di un passaggio di testimone da una forma a un’altra.
Nella storia del genere umano queste transizioni sono eventi naturali, anche se per lo più avvengono in maniera cruenta, poiché, quando si costruiscono potenti società schiavistiche (e anche la nostra lo è, seppure il salariato è giuridicamente libero), non piace morire nel proprio letto: si preferisce combattere il più possibile.
Si pensi al passaggio dalla civiltà greca a quella romana, che rappresentavano due forme di schiavismo privato, con la differenza che uno era basato sull’autonomia delle città-stato, che alla bisogna si univano tra loro per formare delle leghe, mentre l’altro faceva del diritto, della cittadinanza, dell’impero e del suo principe qualcosa di universale.
Lo schiavismo statale era invece rappresentato da Egitto e Persia, che nulla poterono contro i Romani, il primo, e contro i Greci, la seconda.
I Romani erano affascinati dalla cultura greca, ma questo non gli impedì di dominarli fino a quando Costantino non decise di trasferire la capitale dell’impero a Bisanzio, favorendo così un’altra epocale transizione, quella dal paganesimo al cristianesimo.
Oggi sta avvenendo la stessa cosa: Russia e Cina, dopo aver ammesso la superiorità occidentale sul piano tecnico-scientifico, ora ci stanno facendo vedere di sentirsi superiori: l’una sul piano militare, l’altra su quello economico, ed entrambe contro l’intero occidente collettivo.
Smettiamola però con le infatuazioni, con gli entusiasmi da stadio. Sempre capitalismo è. E non diventa più umano o più democratico solo perché l’iniziativa produttiva e commerciale è controllata dallo Stato; o solo perché, come succede in Cina, il capitale viene schermato o circonfuso ideologicamente dalle dottrine del socialismo scientifico, seppur con caratteristiche atipiche.
Diciamo solo che in questo momento noi occidentali dobbiamo abbassare la cresta e guardare le cose da un angolo. Anzi, se fossimo davvero intelligenti, come nel passato abbiamo dimostrato in tanti campi dello scibile umano, dovremmo iniziare a cercare qualcosa che vada oltre i soliti criteri del profitto industriale o della rendita finanziaria, che noi stessi peraltro abbiamo inventato. E questo naturalmente senza ripetere gli errori del socialismo statalizzato.

News del 26 aprile

Il 22 aprile nella regione del Kashmir indiano, un gruppo di 26 turisti è stato ucciso, tra cui cittadini provenienti da India e Nepal. Il crimine è stato rivendicato da Resistance Front, una fazione legata al gruppo terroristico pakistano Lashkar-e-Taiba.
L’India ha reagito bloccando le chiuse del fiume Indo verso il Pakistan. Islamabad considera questa violazione dell’approvvigionamento idrico come un “atto di guerra”.
Per entrambi i Paesi il bacino dell’Indo è una fonte d’acqua vitale per l’agricoltura: un accordo del 1960 regolava la distribuzione di ben sei fiumi.
L’India ha già annunciato l’espulsione di tutti i pakistani cittadini e degli ambasciatori, la cancellazione dei loro visti e la chiusura della frontiera con quel Paese. Sta pensando anche di abolire l’accordo di cessate il fuoco del 2021.
In tutto il Pakistan si stanno verificando proteste anti-indiane: la folla grida “La guerra continuerà finché il Kashmir non sarà liberato”. Il Kashmir è una regione suddivisa tra India, Cina e Pakistan, sempre fonte di tensioni sin dalla fine dell’India britannica nel 1947. Dopo l’abolizione dello status speciale del Jammu e Kashmir nel 2019, l’India ha intensificato i suoi sforzi per integrare la regione.
Il governo pakistano ha chiuso il suo spazio aereo alle compagnie aeree indiane; ha sospeso tutti i trattati bilaterali, compreso l’accordo di Simla del 1972 sulla linea di controllo.
Si ricorda che entrambe sono potenze nucleari: le atomiche indiane sono 180; quelle pakistane 170. L’esercito indiano è più del doppio di quello pakistano.
Da dove nasce questo improvviso conflitto? Dal fatto che gli USA stanno provocando un’altra guerra per procura su larga scala lungo la rotta delle merci cinesi verso l’Europa e del petrolio mediorientale verso la Cina. Infatti l’escalation è avvenuta subito dopo la visita del vicepresidente statunitense Vance in India. L’ingenuo presidente Modi è convinto di avere l’appoggio americano in caso di conflitti con Cina o Pakistan.
Il Pakistan è l’alleato militare più vicino a Pechino (è il maggiore acquirente di armi cinesi) e la Cina è il principale partner commerciale del Pakistan.
Il Pakistan rappresenta per la Cina un ponte sicuro verso il petrolio iraniano (anche Teheran è vicina a Islamabad): un ponte che Stati Uniti e India potrebbero non consentire di attraversare via mare se il confronto tra Cina e USA raggiungesse un nuovo livello.
Naturalmente queste tensioni servono anche a Washington per indurre Pechino a essere più accomodante nei negoziati sui dazi.

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Zelensky dimostra sempre più di non avere contezza di ciò che afferma. Infatti continua a ribadire che solo il popolo ucraino decide il destino dei propri territori.
Tutti i territori temporaneamente occupati, tra cui la Crimea, sono ancora considerati ucraini in conformità con la Costituzione e il diritto internazionale.
Ha poi aggiunto che le questioni territoriali potranno essere discusse solo dopo un cessate il fuoco incondizionato. Allo stesso tempo, ha riconosciuto che Kiev non ha armi sufficienti per riconquistare la Crimea, ma che esistono sanzioni e strumenti diplomatici.
Zelensky ha affermato che l’Ucraina conta sul sostegno degli Stati Uniti, così come fa Israele: ciò potrebbe includere la difesa informatica, i sistemi di difesa aerea e lo sviluppo delle infrastrutture, senza la presenza obbligatoria dell’esercito americano.
Questo presidente il cui mandato è scaduto dall’aprile 2024, ha uno strano modo di ragionare.
Non si rende conto che parte del suo popolo ha già deciso di voler stare sotto la Russia. Lo dimostrano vari referendum: quello del 2014 in Crimea e Sebastopoli; quello del 2022 a Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson.
Hanno un valore i referendum per la secessione o l’indipendenza oppure no?
Questa guerra in Ucraina sembra essere un conflitto non tanto tra Ucraina e Russia o tra NATO e Russia, quanto tra Stato centrale di Kiev e regioni periferiche espresse da minoranze nazionali. Se una minoranza chiede di separarsi completamente da un potere centrale, significa che ci sono motivi gravissimi, altrimenti non lo farebbe.
Che senso ha impedire alle proprie minoranze nazionali di chiedere aiuto alla Russia quando il governo centrale si avvale dell’aiuto dell’occidente collettivo per reprimerle? Anzi il governo golpista di Kiev è frutto del sostegno euroamericano, e senza questo sostegno non ci sarebbe stata una guerra civile, durata ben 8 anni, contro la propria minoranza russofona.
D’altronde in Ucraina è dal 2019 che non si fanno più elezioni. Cosa può sapere Zelensky degli orientamenti politici del suo popolo, che peraltro dal 2022 ad oggi si è ridotto a 33 milioni di abitanti, rispetto ai 41 d’anteguerra?
Ben 11 partiti sono stati messi al bando e centinaia di oppositori si trovano in carcere. Il governo di Kiev è solo una dittatura che lo stesso popolo ucraino dovrebbe abbattere a prescindere dall’adesione o meno alla Federazione Russa.
Immaginiamo cosa potrebbe accadere in Estonia o in Lettonia, se i governi centrali fossero altamente russofobici come quello ucraino. Là il 25% è di origine russa. Inevitabilmente si rischierebbe un replay.

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Durissima Maria Zakharova contro il Segretariato dell’ONU. In genere è più diplomatica. Ha detto:
Sin dal colpo di stato incostituzionale di Kiev del 2014, il Segretariato delle Nazioni Unite ha costantemente perseguito una politica di “doppi standard” riguardo agli eventi in Ucraina.
Non abbiamo ricevuto alcuna critica dai rappresentanti del Segretariato nei confronti dei sostenitori di Maidan, mentre il regime di Kiev ha condotto una vera e propria guerra contro i cittadini delle regioni orientali di quella che allora era l’Ucraina per oltre 8 anni.
Non vi sono state richieste da parte dei rappresentanti dell’ONU di un dialogo diretto tra Kiev e il Donbass, come previsto dalla risoluzione 2202 del Consiglio di sicurezza, che ha approvato il pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk.
Per i rappresentanti dell’ONU è diventata la norma ignorare sistematicamente le palesi violazioni da parte del regime di Kiev delle norme fondamentali del diritto umanitario internazionale, tra cui:
– l’uso di civili come “scudi umani”,
– lo spiegamento di equipaggiamento militare e l’istituzione di postazioni di tiro nelle zone residenziali,
– tortura e maltrattamenti di prigionieri di guerra e civili,
– uccisioni mirate di civili.
Quando si verificarono la “messa in scena di Bucha” e i tragici eventi alla stazione ferroviaria di Kramatorsk nell’aprile 2022; durante l’evacuazione dei civili dalla zona di “Azovstal” nel maggio 2022; dopo l’attacco terroristico al ponte di Crimea nell’ottobre 2022; quando il mondo intero fu testimone dei crimini disumani della cricca di Kiev contro la popolazione civile nella regione di Kursk in seguito all’invasione delle forze ucraine nell’agosto 2024; dopo gli omicidi mirati di giornalisti russi che prestavano servizio sia al fronte che sul territorio russo, nessuno del Segretariato dell’ONU tentò di notare nulla.
Viceversa, osserviamo regolarmente come la parte russa venga accusata di presunti attacchi deliberati alle infrastrutture civili ed energetiche dell’Ucraina. Un esempio recente sono i commenti del portavoce del Segretario generale, Stéphane Dujarric, in merito agli eventi di aprile nella città di Sumy, con considerazioni e finzioni su… una serie di attacchi alle città ucraine che “hanno provocato vittime tra la popolazione civile e una massiccia distruzione”.
Il Segretario generale si è compromesso con una serie di dichiarazioni valutative parziali sulla volontà della popolazione nelle regioni di Zaporižžja e Kherson, così come nelle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk. Secondo lui, “la decisione di annettere le regioni di Donetsk, Luhansk, Zaporižžja e Kherson non avrà alcun valore legale” e anzi “merita di essere condannata”.
Gli attuali funzionari dell’ONU dimenticano che il loro ruolo è quello di agire come custodi dei princìpi della Carta nella loro interezza, complessità e interrelazione.
Per noi è ovvio che il comportamento del Segretario generale e dei suoi subordinati è completamente incompatibile con l’essenza, la formulazione e lo spirito dell’art. 100 della Carta dell’ONU, che richiede al personale del Segretariato di rispettare il principio di imparzialità, inclusa la necessità di “astenersi da qualsiasi azione che possa influire negativamente sulla loro posizione di funzionari internazionali che sono responsabili solo nei confronti dell’Organizzazione”.
Le azioni e le dichiarazioni del Segretario generale non sono conformi all’art. 97 della Carta dell’ONU, che gli assegna il ruolo di “capo amministrativo dell’Organizzazione”. Tali funzioni non garantiscono al capo del Segretariato il diritto di rilasciare dichiarazioni politiche impegnate a nome dell’intera Organizzazione e di interpretare le norme della Carta e i documenti dell’Assemblea Generale.
In questo contesto è quasi strano parlare di un possibile ruolo di mediazione del Segretariato nella crisi ucraina.
Insomma da queste dichiarazioni così nette pare evidente che la Russia abbia intenzione di ripensare seriamente la funzione dell’ONU, o quanto meno di rimettere in discussione la credibilità del suo Segretariato.

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“Zelensky può avere la pace adesso o combattere per altri tre anni prima di perdere l’intero Paese”, ha tuonato Trump.
Però è comodo scaricare tutto su Zelensky. Inutile che Trump dica che questa non è la sua guerra ma quella di Biden. Questa è la guerra voluta dagli USA, di cui Trump è presidente. Il golpe del 2014 l’hanno organizzato loro, con prove evidenti.
Zelensky, come tanti altri nazionalisti e neonazisti ucraini, sono stati gli ingenui di turno che han creduto alle sirene occidentali, quando queste promettevano una facile vittoria contro la Russia. Adesso si sentono traditi e non sanno cosa fare. Gli stessi occidentali non sanno letteralmente come uscirne, salvando la faccia. Trump può fare tutte le dichiarazioni che vuole, può anche staccarsi dalle intenzioni degli statisti europei più sciagurati, che vogliono continuare la guerra, ma non può pretendere che Mosca si pieghi alla sua volontà.
Putin non è entrato in guerra a cuor leggero: ci ha pensato otto anni prima di farlo, poiché credeva negli Accordi di Minsk. Le condizioni dell’operazione militare speciale erano state fissate chiaramente sin dall’inizio, e non sono ancora state adempiute tutte, e non lo saranno finché l’occidente, quindi inclusi gli USA, non smetterà di sostenere la giunta di Kiev. Trump ha ragione solo su una cosa: se Zelensky non accetterà la resa incondizionata, perderà l’intero Paese. Solo che non lo perderà fra tre anni, ma molto prima.
A Putin non può interessare minimamente che Trump voglia una pace affrettata, non avendo gli USA più soldi da spendere per questa proxy war. Personalmente non credo neppure che auspichi una rimozione violenta di Zelensky ad opera di qualche killer pagato dalla CIA. Piuttosto è il popolo ucraino che deve convincersi d’aver sostenuto un regime che di democratico non aveva assolutamente nulla. Questo perché, per avere una propria sicurezza esistenziale, non può bastare alla Russia che l’Ucraina non entri nella NATO o sia smilitarizzata o il governo sia denazificato. Gli ucraini devono capire che non è in nome della russofobia che si può costruire la fiducia reciproca. E non devono neppure pensare che, siccome han perso la guerra, saranno costretti ad accettare la democrazia.

Ride bene chi ride ultimo

Trump si era divertito un mondo quando aveva detto a Zelensky, davanti ai giornalisti: “Non hai le carte per vincere”. Aveva dato sfoggio del fatto che è proprietario di alcuni casinò.
Ma sul piano commerciale ora è la Cina che gli dice: “Non hai le carte per vincere, datti una calmata”.
Infatti non c’è dubbio che le conseguenze dei dazi possono avere un certo peso per i produttori cinesi orientati all’export, soprattutto quelli delle regioni costiere che producono mobili, abbigliamento, giocattoli ed elettrodomestici per i consumatori americani.
Ma questi produttori sanno velocemente come regolarsi. Infatti la prima volta che Trump ha posto i dazi alla Cina è stato nel 2018. In quell’anno le esportazioni cinesi dirette negli USA rappresentavano il 19,8% dell’export totale della Cina. Ma già nel 2023 tale percentuale era scesa al 12,8%.
Entro il 2022 gli USA facevano affidamento sulla Cina per 532 categorie di prodotti chiave, quasi quattro volte il livello del 2000, mentre la dipendenza della Cina dai prodotti statunitensi si era dimezzata nello stesso periodo.
La Cina domina la catena di approvvigionamento globale delle terre rare, fondamentale per l’industria militare e high-tech, fornendo circa il 72% delle importazioni statunitensi di questi minerali.
La Cina mantiene anche la capacità di prendere di mira settori chiave dell’export agricolo statunitense, come pollame e soia, fortemente dipendenti dalla domanda cinese e concentrati negli Stati a maggioranza repubblicana.
I dazi praticamente avevano e ancora adesso hanno spinto il Paese ad accelerare la sua strategia di espansione della domanda interna, liberando il potere d’acquisto dei consumatori e rafforzando l’economia interna.
Hanno avuto la stessa funzione delle sanzioni nei confronti della Russia, le cui aziende hanno sostituito quelle che se ne sono andate. Inoltre hanno indotto a cercare nuovi partner commerciali.
Coi suoi dazi tariffe sanzioni embarghi crediti usurari l’occidente fa il bullo coi Paesi più piccoli, più deboli, ma con quelli più grandi e più forti trova solo un muro di gomma. Si mangia le mani per le occasioni perdute. Prepara delle ritorsioni di tipo militare, che però contro questi colossi lo metteranno al tappeto.
Noi siamo destinati a uscire dalla storia, proprio perché è la storia che vuole uscire da noi.

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Nel 2024 l’export statunitense verso la Cina ha raggiunto i 143,5 miliardi di dollari, in calo del 3% rispetto al 2023. Le importazioni dalla Cina però sono arrivate a 438,9 miliardi di dollari.
Dunque chi è più forte? Chi produce di più con una fatica immane o chi si diverte a speculare sul piano finanziario?
Si noti che nel 2000 il deficit americano nella bilancia commerciale con Pechino era di soli 83 miliardi di dollari.
Rispondendo alla domanda di un giornalista nello Studio Ovale della Casa Bianca, Trump ha già dovuto ridimensionare le sue pretese dicendo: “Il 145% è tanto. Non sarà così alto… non sarà nemmeno lontanamente vicino a quel livello. Scenderà significativamente, ma non arriverà allo zero”.
Ancora però non ha capito che con un Paese come la Cina lo squilibrio commerciale non si risolve. Per non parlare del fatto che proprio tale squilibrio ha come contropartita il fatto che la Cina (come tanti altri Paesi) sostiene il dollaro, i prestiti bancari, i titoli di stato, il bilancio e persino le borse e tutte le rendite parassitarie degli Stati Uniti.
Se Trump non si dà una calmata, la guerra commerciale si trasformerà in guerra militare, e questa volta, in maniera inedita, gli USA sperimenteranno distruzioni e devastazioni all’interno dei loro stessi confini.

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Visto che sul piano diplomatico l’intero occidente collettivo è piuttosto carente, o perché sostiene acute guerre commerciali, o perché non vuole concludere le due guerre militari in corso (quelle condotte dai due regimi dittatoriali di Kiev e Tel Aviv), siamo costretti a porci la seguente domanda: perché mai la guerra dovrebbe rappresentare un orizzonte di soluzione delle crisi generate dal capitale, che sostanzialmente sono dovute a una caduta del tasso di profitto?
Qui le risposte da dare potrebbero essere almeno quattro:
1) la guerra si presenta come una spinta non negoziabile a investimenti massivi, che possono rilanciare un’industria esangue. Grandi commesse pubbliche nel nome del “sacro dovere della difesa” possono riuscire a estrarre le ultime risorse pubblicamente disponibili per riversarle in commesse private. Di qui l’intenzione non solo di aumentare la quota del PIL riservata alla difesa nazionale, riducendo quindi quella destinata al Welfare, ma anche di usare i risparmi privati dei cittadini, depositati in banche e poste, per il riarmo europeo.
2) La guerra rappresenta una grande distruzione di risorse materiali, di infrastrutture, di esseri umani. Tutto ciò, che dal punto di vista del comune intelletto umano è una grande disgrazia, dal punto di vista dell’orizzonte di investimenti è una magnifica prospettiva. Infatti si tratta di un evento che “ricarica l’orologio della storia economica”, evitando quella saturazione di investimento micidiale per le sorti del capitale, bisognoso di autovalorizzarsi di continuo. Dopo una grande distruzione si riaprono praterie per investimenti facili, che non hanno bisogno di alcuna innovazione tecnologica: strade, ferrovie, acquedotti, case, e tutto l’indotto di servizi. Non a caso i grandi capitali cercano già ora di accaparrarsi le commesse per la futura ricostruzione, prima ancora che le guerre finiscano. La più grande distruzione di risorse di tutti i tempi – la seconda guerra mondiale – fu seguita dal più grande boom economico dagli inizi della rivoluzione industriale.
3) I grandi detentori di capitali finanziari non hanno paura di perdere il loro potere quando vi sono in atto delle guerre, a meno che non vengano espropriati da rivoluzioni popolari, che però in occidente mancano da un pezzo. Il denaro, avendo natura virtuale, rimane intoccato da qualunque grande distruzione materiale (purché ovviamente non vi sia un annichilimento planetario, ma nessuno vuole una soluzione finale del genere).
4) La guerra sembra avere il potere di congelare o arrestare tutti i processi di potenziale rivolta, tutte le manifestazioni di scontento dal basso. La guerra è un potente meccanismo per disciplinare le masse, ponendole in una condizione di subordinazione da cui non possono uscire, pena l’essere identificati come “complici del nemico”.
Per queste ragioni l’orizzonte bellico, per quanto al momento lontano dagli umori predominanti nelle popolazioni europee, è una prospettiva da prendere sul serio. Non dobbiamo pensare che una guerra possa scoppiare dall’oggi al domani. Ci vuole un certo tempo per attuarla, e non bastano né le armi né gli uomini. Ci vuole una propaganda convincente per le popolazioni che non saranno in prima linea, ma che dovranno comunque subire pesanti conseguenze.

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Chissà perché è molto più facile distruggere che costruire. Forse perché per costruire ci vuole l’impegno di intere popolazioni, mentre per distruggere bastano poche persone, cioè scienziati militari politici: pochi irresponsabili, privi di coscienza morale o che si danno intenti morali per compiere cose disumane.
Per uno scienziato costruire un ordigno particolare, che in un attimo produce un’energia immensa, è considerato un’impresa di successo, anche se sa benissimo che non avrà uno scopo civile ma militare.
La frenesia prende anche un militare che usa ordigni del genere su quanti più nemici possibili, proprio perché gli è stato insegnato che sono tutti pericolosi, tutti colpevoli di qualcosa, anche i neonati. E questa distruzione serve per evitare che muoiano i propri commilitoni. Abbiamo già visto questo film americano in Giappone, e ora lo stiamo rivedendo a Gaza.
Un politico poi, che, usando le tasse dei cittadini, chiede allo scienziato di produrre bombe di distruzione di massa e al militare di usarle contro un nemico ben individuato, non può che essere soddisfatto di sé quando vede che il nemico si arrende.
Siamo in mano a pazzi consapevoli di sé, che pensano di essere nel giusto proprio quando compiono azioni abominevoli. Se dopo una guerra costoro riusciranno a sopravvivere, come potranno essere giudicati? Come minimo, in via preventiva, il popolo che li giudica dovrebbe fare un’ammissione di colpevolezza e dire: “Questi mostri li abbiamo generati noi. Giudicandoli, giudichiamo noi stessi e tutta l’ideologia che ci ha indotti a compiere cose che ci apparivano assurdamente giuste”.

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La prima guerra mondiale è servita per distruggere i tardi imperi feudali che avevano appena iniziato a imborghesirsi: russo, prussiano, austro-ungarico e ottomano. Il grande capitalismo europeo (Francia e Inghilterra) aveva bisogno di smembrarli per meglio dominarli. Solo con la Russia non vi riuscì a causa della rivoluzione bolscevica.
La seconda guerra mondiale servì per impedire che le ultime nazioni giunte sulla strada del capitalismo (Germania, Italia, Giappone) potessero minacciare i poteri coloniali di Francia e Inghilterra, le quali però, pur uscendo vittoriose grazie all’impegno di USA e URSS, si trovarono nettamente surclassate dalla superiorità economica e finanziaria degli USA, che non avevano subìto alcun danno materiale al proprio interno, a parte il crack borsistico del 1929.
Ora sta per scoppiare la terza guerra mondiale. Ovviamente ci vorrà tempo. Ma sin da adesso è evidente, agli occhi delle potenze occidentali, chi sono i principali “Stati canaglia” dell’Impero del Male: Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. L’occidente teme anche il gruppo dei BRICS+, che, nel suo insieme, esprime una grande potenza produttiva e commerciale.
La compravendita di bunker sarà un affare colossale, al pari della fabbricazione di armi letali. I poveretti potranno illudersi coi kit salvavita. Se avranno qualche soldo in più si compreranno un rilevatore Geiger, magari in qualche negozio cinese.

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Nella prima guerra mondiale sono state eliminate più di 10 milioni di persone. Nella seconda più di 50 milioni. Nella terza potrebbero essere più di 500 milioni. Al capitale non importa molto: da tempo sostiene che siamo troppi e che non ci sono abbastanza risorse per tutti. L’ideologia è quella malthusiana.
Andando avanti di questo passo, le apocalissi finiranno solo quando saremo tornati all’età della pietra. Piccole comunità autarchiche che eviteranno di mettersi in contatto tra loro per paura di contaminarsi. Già oggi esistono comunità del genere, che non vogliono vederci neppure da lontano. Le chiamiamo “incontattate”.
In effetti se non cambiamo cultura ideologia mentalità, e ci limitiamo a un semplice pentimento morale per i disastri che combiniamo, la prossima volta sarà mille volte peggio, perché nel frattempo le armi saranno diventate più potenti e sofisticate. Né l’etica né la politica sono in grado di cambiare le cose in positivo e alla radice. Occorre una nuova visione della realtà.
E questa visione non pare possibile trovarla là dove esiste urbanizzazione, industrializzazione e finanziarizzazione. Qui è sbagliato il paradigma interpretativo, l’angolo visuale, la prospettiva.
Qui non è più questione di capitalismo (privato o statale) né di socialismo (statale o mercantile). C’è qualcosa di sbagliato a monte, qualcosa che precede le scelte politiche che si fanno a valle. È lo stile di vita che va ripensato, totalmente, integralmente.

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Certo che se ha ragione Marx quando diceva che il capitalismo ha bisogno periodicamente di distruggere le cose per poterle ricostruire, altrimenti non riesce ad autovalorizzarsi, possiamo capire il senso delle guerre e dell’odierna politica tariffaria di Trump.
A quanto pare le possibilità di trovare nuove aree di profitto all’estero si sono drasticamente ridotte per il capitalismo occidentale: praticamente c’è rimasta solo la rendita finanziaria. Vari Paesi asiatici (ma anche tanti del Sud globale) stanno pretendendo un protagonismo industriale e commerciale impensabile fino a qualche tempo fa.
L’occidente non è in grado di competere sui prezzi delle merci, poiché queste sono prodotte in condizioni troppo agevolate per i nostri standard (a partire naturalmente dal costo del lavoro, delle materie prime, dell’energia). Noi ci siamo ridotti a produrre merci per un’utenza selezionata, di livello alto.
Il problema è che da noi si deve comunque garantire un certo trend di benessere, altrimenti i poteri dominanti rischiano proteste a non finire. Di qui l’uso della guerra, che serve anche a sviluppare forme interne di dittatura politica, in grado di controllare l’intera popolazione tramite l’intelligenza artificiale.
La politica dei dazi è, se ci pensiamo, la prosecuzione dei conflitti militari (che ogni presidente americano deve da qualche parte scatenare) con altri mezzi, non meno efficaci.
Il processo di globalizzazione, che gli USA conducevano secondo lo schema “importiamo merci – esportiamo carta (cioè dollari e titoli statali)”, ha raggiunto il suo limite massimo. Ora possiamo aspettarci di tutto.

Un occidente alla frutta

Secondo il “Washington Post”, sullo sfondo del calo degli aiuti americani e dell’esaurimento delle scorte causato da anni di forniture di armi a Kiev, in Europa sta prendendo piede un nuovo modello di sostegno: investimenti non in forniture dirette di armi finite, ma nello sviluppo dell’industria della stessa difesa ucraina.
A che pro? 1) rifornire più rapidamente il fronte, risparmiando anche su trasporti e logistica; 2) utilizzare l’Ucraina come banco di prova per nuove tecnologie militari, compresi i sistemi senza pilota, nei quali i Paesi europei non hanno ancora sufficiente esperienza.
Nel complesso l’UE prevede di stanziare più di 20 miliardi di euro per il settore della difesa dell’Ucraina nel prossimo anno.
L’Ucraina viene trattata come se facesse già parte della UE e della NATO. Oltre tre anni di guerra non sono serviti a niente. Si è ancora convinti di poter vincere. Tolgono soldi agli Stati sociali della UE per aiutare militarmente un Paese destinato alla resa incondizionata. Se non è psicopatologia questa, che cos’è?

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Se le tariffe daziarie previste da Trump non verranno ridotte significativamente alla scadenza della moratoria di 90 giorni, e se nel frattempo non si saranno trovati nuovi partner commerciali, la UE subirà dei contraccolpi di notevole entità, che in questo momento nessuno può quantificare con esattezza. Anche perché qui si ha a che fare con uno statista troppo imprevedibile per essere affidabile.
Purtroppo la gran parte degli statisti europei non è all’altezza della situazione. Non ci si sente uniti come continente. Nessuno è in grado di minacciare delle ritorsioni. Non capiscono neppure, a causa dei loro pregiudizi ideologici, che all’Europa, per trovare un’alternativa convincente agli USA, converrebbe interfacciarsi con Russia e Cina, ma aggiungiamo anche India, Canada e quella associazione commerciale sudamericana detta Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), destinata ad ampliarsi.
Gli statisti europei non hanno capito che quando gli USA si trovano con l’acqua alla gola, agiscono in maniera istintiva, egoistica, senza curarsi di amici ed alleati. Sono abituati a dominare non a parlamentare. Chi non li segue, viene tagliato fuori.
La guerra tariffaria globale causerà all’UE perdite multimiliardarie. Il trasferimento delle imprese oltreoceano porterà al crollo del modello europeo di welfare universale.
Gli statisti europei dovrebbero dimettersi a catena e farsi sostituire da altri più pragmatici, ma finché non gli arriva una tegola in testa, non lo faranno.
Han compiuto errori catastrofici sin da quando compravano titoli tossici al tempo dei subprime americani. Han condotto politiche disastrose durante la pandemia. Han promosso un progetto ambientalistico troppo ambizioso per essere realizzabile. Han speso un’enormità di soldi per sostenere un Paese neonazista come l’Ucraina, destinato alla sconfitta. E soprattutto han posto assurde sanzioni alla Russia, privandosi di risorse energetiche a basso costo, di mercati di sbocco per le proprie merci, di contratti commerciali agevolati nell’immenso territorio della Federazione.
La nostra Unione Europea può anche sussistere come idea astratta, come progetto teorico, ma nella sostanza va rifatta completamente. Se resta così, è meglio uscirne.
Noi dovremmo avere un respiro che va “da Lisbona a Vladivostok”, diceva de Gaulle. Invece ci accontentiamo di guardare il nostro ombelico.

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Tutti sanno che il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina, iniziato nel 1971, passò alla storia come un modello di diplomazia visionaria in funzione antisovietica, ma anche per fare della Cina un mercato americano.
Per raggiungere questo obiettivo, Washington dovette anzitutto abbandonare la logica dell’opposizione ideologica al comunismo in tutto il mondo. In secondo luogo, dovette concedere alla Cina lo status di nazione più favorita; inoltre le truppe americane si ritirarono da Taiwan nel 1979 e Washington non garantì più ufficialmente la sicurezza dell’isola. Infine la Cina entrò come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Gli americani smisero di supportare il Vietnam del Sud e ritirarono il loro contingente militare da lì. Non protestarono neppure contro l’occupazione cinese delle isole contese col Vietnam e la cessione definitiva di Hong Kong e Macao (ultimi avamposti coloniali europei in Estremo Oriente). Persino la repressione coi carri armati delle proteste di Piazza Tienanmen nel 1989 non invertì la tendenza al rafforzamento delle relazioni tra i due Paesi.
Con una politica così liberale Washington riuscì a sconfiggere l’URSS durante la Guerra Fredda. Un simile stratagemma, a parti invertite, può ripetersi oggi? Cioè Trump può diventare un altro Nixon, favorendo la Russia contro la Cina? Gli americani non sono come gli europei: mentre pensano ai loro interessi pratici, sanno non essere troppo ideologici.
Tuttavia oggi l’intesa tra Russia e Cina è troppo forte per essere messa in discussione, anche perché è alla base della compattezza e robustezza dei BRICS+. La cooperazione economica tra i due Paesi ha raggiunto proporzioni enormi. Gli analisti prevedono che, se si realizza lo scenario catastrofico delle guerre tariffarie, il volume d’affari tra Stati Uniti e Cina sarà inferiore a quello tra Russia e Cina: cosa che due anni fa sarebbe stata impensabile.

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Sarebbe svantaggioso per la Federazione Russa avere la Cina come avversaria. I due Paesi condividono un confine di 4.209 km. Nessuno dei due avrebbe voglia di tradire l’altro, anche perché entrambi sanno benissimo che sarebbe l’occidente ad approfittarne, e in questo momento di grave debolezza degli Stati Uniti, non avrebbe alcun senso. Gli USA non possono sostituirsi alla Cina nell’interesse economico russo. E la Cina ha già fatto capire di voler rompere i ponti con gli USA finché al potere resta il folle Trump coi suoi dazi.
C’è da dire che in questo momento l’interesse vitale degli USA è almeno la neutralità della Russia in caso di conflitto a Taiwan o in qualsiasi altra parte del Pacifico. La stessa neutralità che Pechino ha dichiarato durante la guerra in Ucraina.
L’Operazione Militare Speciale ha trasformato radicalmente le forze armate russe. Il minimo coinvolgimento di Mosca nei preparativi militari di Pechino potrebbe costare caro agli Stati Uniti. In caso di blocco navale delle coste cinesi, è la Russia a poter fornire alla Cina tutte le risorse naturali di cui ha bisogno, nonché un corridoio logistico per l’Europa. Porti, ferrovie, spazio aereo russi: tutto questo sarà reso disponibile ai cinesi senza alcun problema.
Tuttavia la neutralità della Russia non è una garanzia della vittoria degli Stati Uniti nel confronto con la Cina. Diciamo che è qualcosa senza la quale gli USA perderebbero inevitabilmente.
Ma sarebbe possibile comprare questa neutralità a qualsiasi prezzo? Come minimo si dovrebbero eliminare tutte le sanzioni anti-russe e il sostegno militare all’Ucraina. Lo stanno facendo? In questo momento non ci pensano proprio. Gli USA sono ancora vittime della propria arroganza. Dopo hai voglia a dire, come fa Trump, che se fosse dipeso da lui, la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Dipende però da lui concluderla, rinunciando a sostenere Kiev. Lo sta facendo? No. E per quale motivo? Perché fondamentalmente è un ipocrita.
Chi ha armato l’Ucraina dal 2014 al 2022? Obama, Trump e Biden. Sotto Trump, nel periodo 2017-20, l’armamento dell’Ucraina è continuato senza problemi, i negoziati Volker-Surkov sul Donbass furono di fatto sabotati, e Trump chiuse un occhio sullo sviluppo del nazismo in Ucraina, sebbene fosse evidente sotto Poroshenko.
Trump ha ignorato anche la mancata realizzazione degli accordi di Minsk da parte di Germania e Francia, che li hanno utilizzati per preparare l’Ucraina alla guerra contro la Russia.
Trump è un fanfarone, non è mai stato credibile.

News di Pasquetta

Gli statisti folli della UE non vogliono riconoscere alla Russia i territori russofoni dell’Ucraina liberati dalla presenza dei criminali neonazisti di Kiev, e ora accusano Putin di voler sabotare qualunque trattativa di pace, in quanto non accetta una tregua, un cessate il fuoco.
In realtà la tregua l’ha accettata, ma Kiev non la rispetta, per cui è costretto a reagire. Quella di 24 ore per la domenica di Pasqua è stata addirittura unilaterale.
Zelensky è sempre più convinto che la UE si accollerà l’onere dell’intero conflitto, anche perché la sola NATO non potrebbe farlo se gli USA si sfilassero completamente. Solo il fatto che Trump voglia fare affari con gli ucraini per riavere tutti i soldi già prestati, inclusi gli interessi, dimostra che gli USA resteranno sempre coinvolti in questo conflitto. Eventualmente in futuro potrebbero anche minacciare seriamente la Russia, dicendo che non possono accettare o anche solo rischiare che vengano colpiti militarmente i siti o le aziende americane che in Ucraina sono oggetto di rapporti commerciali con quel Paese (il tanto agognato accordo sui minerali).
Quindi la guerra è destinata ad andare avanti sino all’ultimo ucraino, sino alla resa incondizionata di Kiev e, probabilmente, sino al ricambio degli attuali vertici della UE, cosa che avverrà subito dopo il lancio dei primi missili ipersonici russi sulle basi nucleari del nostro continente.
L’altra alternativa è che siano gli stessi europei a liberarsi degli statisti folli che li governano. Di sicuro una qualunque iniziativa militare a guida europea non potrà essere accettata da Mosca, che considera la UE direttamente coinvolta nella guerra e impegnata in appelli alla militarizzazione, che comportano ingenti spese finanziarie.

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C’è qualcosa di ridicolo nell’atteggiamento americano riguardo alla guerra russo-ucraina.
Da un lato dicono di voler riconoscere alla Russia i territori che in questo momento già possiede e assicurano che l’Ucraina non entrerà nella NATO. Come se la Russia avesse bisogno di un tale riconoscimento formale. Dall’altro però continuano a finanziare e armare Kiev, che utilizza il sistema satellitare di Musk.
Da un lato dicono che se la pace non è fattibile, loro sono pronti a sfilarsi dal negoziato. Dall’altro firmano contratti con la giunta di Kiev sullo sfruttamento delle risorse naturali dell’Ucraina.
Dicono che questa non è la loro guerra e che gli Stati Uniti hanno altre priorità. A prescindere dal fatto che questa guerra l’hanno proprio creata loro e che ora non sanno come fare per ammettere d’averla persa, ma il problema è un altro: come potranno mai sfruttare le risorse del Paese prima di raggiungere una pace definitiva? Pensano davvero che dopo oltre tre anni di duro conflitto, i russi si accontenteranno di una semplice tregua o di un negoziato transitorio, affrettato, settoriale e non globale sulla sicurezza? Pensano davvero che i russi accetteranno un qualunque negoziato senza pretendere la restituzione dei 300 miliardi di dollari congelati? Senza la rimozione delle sanzioni più assurde? Senza la riparazione del Nordstream o il risarcimento del danno? Li abbiamo forse presi per degli ingenui?
È la pazienza degli USA che ha diritto ad avere un limite o quella della Russia? Trump vuol forse lasciare agli europei il dovere di continuare questa guerra, al fine di potersi concentrare meglio sul contenimento della Cina? Lo faccia, ma per favore la smetta di dire che i motivi di questa guerra si potevano risolvere in 24 ore. Sta insultando l’intelligenza di chi ha capito come sono andate le cose. Fino adesso l’unica frase giusta che ha detto è che se la giunta di Kiev non fosse stata sostenuta dagli occidentali, la guerra sarebbe finita da un pezzo. Ebbene, che inizi il suo Paese a smettere concretamente di appoggiare Kiev. Poi vedrà che anche la UE lo farà.
L’importante è farla finita con tutta questa sceneggiata, questa infinita messinscena di cui non ne possiamo più.

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A volte Trump, con questa sua aria messianica pseudo religiosa, sembra voler essere una specie di angelo vendicatore o sterminatore. Come nell’Apocalisse giovannea. Un flagello divino inviato per punire i corrotti democratici, per riportare le cose alla normalità, reindustrializzando il Paese, cioè facendogli rivivere il suo periodo d’oro, quando la sua ricchezza dipendeva non solo dalla finanza speculativa ma anche dalla produzione in serie, quella tipica del fordismo e del taylorismo, organizzazione scientifica del lavoro più catena di montaggio, che aveva reso il Paese celebre in tutto il mondo.
Povero Trump, è un vero peccato che si sia mosso fuori tempo massimo. Mettere dazi, tariffe, sanzioni, boicottaggi, embarghi agli Stati canaglia o a quelli parassiti, quando per molti anni si è dominato il mondo grazie al dollaro convertibile in oro e poi strettamente vincolato all’uso del petrolio, sta diventando sempre più ridicolo, anzi patetico.
Trump passerà alla storia come il peggior presidente degli Stati Uniti, probabilmente l’ultimo della loro democrazia fittizia. Subirà nuovi processi, forse addirittura l’impeachment (ne ha già subiti due), e sarà già molto se non verrà assassinato, come altri quattro presidenti.
Poi verrà sostituito da una dittatura aperta del capitale, gestita direttamente dai militari, che dovranno impedire non solo la secessione dei 22 Stati federali più ricchi o più ideologici (sempre lì lì per attuarla, non sopportando più le angherie e le incapacità del potere centrale), ma anche per scongiurare una guerra civile tra povertà crescente e vergognosa oligarchia, che sicuramente sarà molto più dolorosa di quella ottocentesca tra nordisti e sudisti.
Dovranno però essere dei militari astuti, poiché non potranno imporre la loro volontà senza prima aver assicurato (naturalmente mentendo) che lo faranno per il bene del popolo. La loro capitale non potrà più essere Washington, né il Pentagono il loro centro operativo. Dovranno rompere decisamente col passato e porsi al centro della nazione, in maniera equidistante, pronti a intervenire in tempo reale ovunque le esigenze di controllo lo richiedano.
Militarismo e finanza, certamente, ma anche apparati burocratici, mediatici, di intelligence, di sorveglianza strettamente connessi all’intelligenza artificiale, per dimostrare maggiore efficienza. L’imperativo categorico sarà per la popolazione: ridurre i consumi, gli sprechi, riutilizzare gli scarti, vivere in ristrettezze, pagare le tasse per mantenere tutto ciò che serve, soprattutto a reprimere i facinorosi.
Naturalmente si riprenderanno i rapporti con la Cina. Si chiederà scusa per gli atteggiamenti irrazionali, disperati di un presidente che non sapeva quel che diceva, anche perché attorniato da consiglieri irresponsabili e incompetenti. Si supplicheranno le aziende cinesi di riempire di nuovo gli scaffali dei supermercati coi loro prodotti poco costosi, poco controllati, accessibili alla gran massa dei consumatori. E si andrà avanti così per gli anni a venire, finché qualcuno capirà che gli USA, pur con la loro talassocrazia, sono in realtà un Paese molto debole, che può essere invaso da qualunque punto cardinale delle grandi forze telluriche dell’Asia.

Occidente al capolinea

Secondo il “Washington Post” lo scenario prioritario per la pianificazione dell’esercito americano è il tentativo della Cina di annettere Taiwan. Cioè se l’esercito americano dovesse impegnarsi in ostilità su larga scala, non avverrebbe in Iran o in Ucraina, ma nello Stretto di Taiwan.
Il Segretario alla Difesa Hegseth ha dichiarato senza mezzi termini nel febbraio scorso che gli USA si trovano al cospetto di un concorrente alla pari, la Cina comunista, e questa avrebbe capacità e intenzioni di minacciare non solo gli USA qua talis, ma soprattutto i loro interessi nazionali fondamentali nell’Indo-Pacifico (si pensi al rapporto con le Filippine e con altre isole contese nel Mar Cinese Meridionale). Ecco perché sono costretti a dare priorità alla guerra di deterrenza nel Pacifico.
Se questo non è un atteggiamento imperialistico, che cos’è? Che sta facendo l’occidente? Gli USA hanno intenzione di guerreggiare con la Cina, lasciando alla UE il compito di prendersela con la Russia e a Israele quello di spadroneggiare in Medioriente? Si stanno mettendo d’accordo nel ripartirsi le zone geo-strategiche d’influenza per un conflitto risolutivo entro i prossimi anni? Si stanno impegnando in maniera decisiva in un riarmo generalizzato contro i loro nemici storici? contro il cosiddetto “impero del male”? Ma che cos’è questo: uno scenario apocalittico neotestamentario?
Oppure queste sono tutte spacconate per porre delle basi chiaramente dittatoriali all’interno dei singoli Paesi occidentali, che non sanno più come fare a garantire i livelli tradizionali di benessere?
Sinceramente parlando, ritengo che gli USA non abbiano abbastanza potere per contenere da soli l’espansione cinese, poiché Pechino sta costruendo stretti legami con Mosca. La convergenza dei due grandi imperi – russo e cinese – rende impossibile la vittoria degli Stati Uniti. Se poi le nazioni dei BRICS+ decidessero di stipulare degli accordi di tipo militare che non siano bilaterali ma multilaterali, è l’intero occidente che non avrebbe alcuna possibilità di successo.

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La leadership cinese si sta imponendo nel mondo senza particolare clamore. Noi occidentali invece, nel passato, avevamo bisogno di fare delle crociate, di diffondere ai primitivi e ai pagani la teologia del “Verbo”, cattolica o protestante che fosse. Abbiamo cercato di cristianizzare il pianeta nel momento stesso in cui cercavamo di conquistarlo.
La Cina invece appare più laica, estranea a queste pretese ideologiche. Quando si rivolge all’Asia occidentale, al Sud-est asiatico, all’Africa, all’America Latina e al Pacifico, fa capire chiaramente che non ha intenti colonialistici, come gli europei o gli americani (ma mettiamoci dentro anche i nipponici).
L’intento dei cinesi è quello di fare affari reciprocamente vantaggiosi. Creano strutture e infrastrutture, favoriscono l’industrializzazione e i servizi sociali dei Paesi con cui vengono a contatto, s’impegnano in ingenti investimenti. Lavorano sottobanco, senza esporsi mediaticamente. Somigliano alla borghesia dei tempi feudali, quando comandava l’aristocrazia terriera, che amava vivere di rendita sulle spalle dei contadini. Anche a noi occidentali piace fare i rentier.
I cinesi invece stanno cominciando a dirci che il vero potere economico-produttivo ce l’hanno loro. A noi è rimasto quello politico-militare e, in aggiunta, quello finanziario, tipico del mondo moderno. Ma stiamo diventando per loro e per l’intero Sud Globale un freno allo sviluppo, un intralcio insopportabile. Stiamo diventando obsoleti.
Sotto questo aspetto quando senti declamare e osannare le conquiste culturali e scientifiche del nostro passato, hai la netta sensazione che ci stiano guardando con pietà e commiserazione, come quando si guarda un anziano che non sa più quel che dice.
Non ci rendiamo conto che il meglio di noi l’han già preso gli altri, buttando via tutto il resto; e il meglio lo stanno usando contro di noi, per sostituirci, proprio perché noi vogliamo conservarlo come se fossimo un aristocratico medievale che vive in un giardino fiorito, mentre il resto dell’umanità non è altro – secondo quel razzista di Borrell – che una jungla.
E che dire di Trump quando accusa gli europei d’essere dei parassiti nei confronti del suo Paese? Perché loro, con la loro moneta, cosa sono e cosa pretendono di continuare ad essere nei confronti dell’intero pianeta? Ma i cinesi ci stanno dicendo che la pacchia è finita per l’occidente collettivo nel suo insieme. Facciamocene una ragione e deponiamo le armi. Per colpa nostra il pianeta ha già versato fin troppo sangue.

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La facciamo tanto grande, ma le cose si ripetono. Il capitalismo, da quello commerciale dei veneziani a quello finanziario degli statunitensi, si è sempre comportato nella stessa maniera. Il Paese che s’accorgeva di non avere più le forze per competere con un altro Paese concorrente, finiva col finanziare quest’ultimo, limitandosi a vivere di rendita sulla base degli interessi riscossi.
L’ha fatto Venezia nei confronti dell’Olanda, l’Olanda nei confronti dell’Inghilterra e questa nei confronti degli Stati Uniti. Ora Trump si è accorto che il suo Paese, se non vuole scomparire dal novero dei Paesi più potenti del mondo, non può, anzi non deve permettere che la Cina abbia un’industria superiore alla sua. Solo che ormai è tardi. La politica dei dazi è disperata, anzi patetica.
L’occidente euroamericano ha investito molto in Cina (come anche in India, Russia ecc.), sia in termini industriali che finanziari. Sembrava che tutto funzionasse, poiché anche tanti altri Paesi, inclusa la Cina, acquistavano titoli pubblici americani, che offrivano buoni interessi. Erano questi Paesi che tenevano finanziariamente in piedi l’economia americana, che altrimenti sarebbe collassata da un pezzo a causa delle proprie storture interne, dei propri individualismi esasperati.
Oggi tutto questo non funziona più. Soprattutto perché, quando si ha un debito pubblico finanziato da Paesi stranieri, si è facilmente ricattabili. Non sono i cinesi in debito con gli americani, ma il contrario. Chi un tempo era il primo della classe in termini produttivi, oggi è quasi l’ultimo, e pensava di poter restare il primo grazie alle proprie rendite finanziarie o grazie al fatto di aver trasferito le proprie aziende là dove il costo del lavoro era irrisorio, come appunto in Cina.
Ora i cinesi hanno imparato a produrre come e anche meglio degli americani (e degli europei naturalmente), e vogliono essere loro a dettar le regole. E non hanno paura dei grandi oligarchi privati, che coi loro fondi finanziari sembrano avere un potere immenso. I cinesi mostrano di non avere paura di niente e di nessuno. Si sentono un collettivo molto forte, numeroso, organizzato. Saranno loro a gestire il capitalismo nel prossimo futuro. Non aspettiamoci che sarà meglio: sarà solo diverso.

Siamo a una svolta epocale

L’amministrazione Trump ha chiaramente spostato il baricentro della politica estera americana verso l’Indo-Pacifico, identificando nella Cina la vera minaccia alla supremazia globale degli Stati Uniti.
In quest’ottica il teatro europeo appare come marginale, un retaggio del XX sec. che può essere gestito attraverso accordi tra Russia e USA. Il conflitto ucraino rappresenta un dispendio di risorse che gli USA non possono più permettersi. Per loro è stato un cattivo investimento e vogliono persino i soldi indietro con gli interessi.
Naturalmente se in quest’ultimo triennio l’Ucraina avesse vinto, sarebbe stato diverso. Il Paese avrebbe potuto essere sfruttato in tutte le sue risorse e in tutta la sua estensione.
Se veramente Trump voleva fare un favore ai suoi alleati, li avrebbe trattati con più riguardo nella recente politica tariffaria, anche perché la NATO ha una fisionomia globale e potrebbe servire in uno scontro militare con la Cina. Invece per lui la battaglia è contro il mondo intero.
Il vero problema però si pone a un duplice livello: né la UE né la NATO potranno mai vincere militarmente contro la Russia; neppure gli USA potranno mai vincere economicamente contro la Cina. Occorrono compromessi, per i quali gli USA appaiono più attrezzati della UE.
Sembra che Trump e Putin vogliano far nascere una nuova Yalta, in cui la UE assume il ruolo di un continente da sistemare, esattamente come l’Ucraina. La UE si trova nella scomoda posizione di dover gestire le conseguenze di un conflitto che altri stanno decidendo come concludere.
I missili russi sono talmente potenti e veloci che non riusciremmo nemmeno a porci la classica domanda: “E adesso cosa facciamo?”
A noi europei non resta che riprendere i rapporti commerciali con loro. Non abbiamo alternative. Dobbiamo togliere le sanzioni, riacquistare il loro gas, e restituire i 300 miliardi di dollari confiscati.
Anche l’Ucraina dovrà subire una “pace” imposta dall’alto, che lascerà Kiev con un territorio mutilato e una sovranità limitata.
Prima però dobbiamo sostituire tutti gli statisti russofobi che ci governano. Non sarà facile.

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I recenti dazi commerciali imposti da Trump non sono semplicemente misure economiche protezionistiche, ma segnali del progressivo disimpegno americano non solo dall’Europa, ma potenzialmente anche dalla NATO.
Oggi, lontano dai riflettori, Trump e Putin sembrano impegnati a definire nuove sfere d’influenza, tracciare nuovi confini, stabilire nuove regole del gioco.
In questo scenario l’Ucraina diventerà il prezzo da pagare per un accordo più ampio. Gli Stati Uniti riconosceranno il controllo russo a est del Dnepr in cambio di garanzie da parte di Mosca su altre questioni strategiche, tra cui quella irrinunciabile per la Russia: la rinuncia dell’Ucraina alla NATO.
Putin a quel punto potrà anche dimettersi, poiché avrà ottenuto ciò che non avrebbe mai permesso a se stesso di perdere: appunto l’area russofona dell’Ucraina.
In questa maniera il mondo sarà più sicuro? Dipenderà dall’occidente, che in questo momento si sta comportando come un animale gravemente ferito, che ha bisogno di cure immediate.

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La Cina metterà molto presto gli americani con le spalle al muro sul piano commerciale, dimostrando che la produzione industriale è molto più importante della speculazione finanziaria. La guerra civile sembra essere alle porte e cosa faranno gli USA per evitarla non si sa. Probabilmente concederanno più poteri alle forze armate.
Ora vediamo le sicure ritorsioni cinesi.
1. Le fabbriche cinesi producono la stragrande maggioranza dei giocattoli, dei cellulari e di molti altri prodotti acquistati dagli americani. Dal fast fashion alle console per videogiochi, tutto diventerà più costoso.
2. Qualsiasi americano il cui sostentamento dipende dalle vendite sul mercato cinese è probabilmente in preda al panico in questo momento, che si tratti di petrolio, aerei o soia (le tre principali esportazioni americane).
Durante la guerra commerciale del suo primo mandato, quando i dazi erano molto più bassi, Trump dovette spendere 28 miliardi di dollari per sostenere gli agricoltori americani.
Pechino rimane il terzo mercato di esportazione per i prodotti americani.
3. La Cina ha aggiunto 12 aziende statunitensi a una lista di controllo dell’export, limitandone le spedizioni dalla Cina, e ha aggiunto sei aziende del settore difesa e aviazione a una “lista di entità inaffidabili”, vietando loro di fare affari in Cina.
Negli ultimi anni la Cina ha perfezionato questo insieme di strumenti (controlli sulle esportazioni, liste nere e indagini) per prendere di mira singole aziende americane.
Molte delle più grandi aziende americane dipendono fortemente dal mercato cinese.
4. In risposta ai dazi di Trump la Cina ha ulteriormente limitato le esportazioni di minerali di terre rare, un settore in cui domina incontrastata.
Gli USA dipendono fortemente dalla Cina per i componenti chiave con cui producono di tutto, dai semiconduttori ai razzi e alle turbine eoliche. Un divieto assoluto sull’esportazione di alcuni metalli delle terre rare potrebbe compromettere la produzione in settori chiave.
5. La Cina è pronta a svendere 761 miliardi di dollari in obbligazioni statunitensi in suo possesso.
6. La Cina può svalutare tranquillamente la propria moneta nazionale.
7. La Cina è un mercato chiave per i film, gli sport e altri prodotti d’intrattenimento americani, e Pechino non esiterà a usare questa leva per influenzare ciò che appare sugli schermi.
Trump sta per compiere nei confronti dei cinesi lo stesso errore che gli europei hanno compiuto nei confronti dei russi.
Nell’attuale capitalismo gli oligarchi dominano incontrastati e per loro, in un certo senso, è indifferente chi governa la politica. Chissà se faranno in tempo a ricredersi?

La fine di un’epoca

A noi europei manca una guerra mondiale o una contro la Russia e saremo al tappeto. Per noi sarà l’ultima, poiché, con le armi micidiali che l’umanità ha sviluppato, non c’è bunker che tenga. Non torneremo al Medioevo ma al paleolitico: poche comunità di poche persone sparse in un intero continente, senza neppure essere in contatto tra loro, intente, come Giobbe, a grattarsi con un coccio le pustole della lebbra acquisita. E a chiedersi, sempre come lui, cosa abbiamo fatto di così grave da meritarci un castigo così grande.
Condotta da quella scriteriata della von der Leyen e da altri statisti che le somigliano, l’Unione Europea non aiuta certo gli Stati che la compongono. Anzi li obbliga a indebitarsi sempre di più per assurde esigenze militari e nel tentativo di cercare introvabili rifornimenti energetici alternativi a quelli russi, o molto più costosi per le nostre tasche e dannosi per l’ambiente.
Siamo in mano a folli che si dichiarano filo-americani anche quando gli USA fanno chiaramente capire che ci detestano e che vogliono tenerci come servi ubbidienti, come loro imitatori nel condurre un’esistenza senza Stato sociale, in mano a oligarchi senza scrupoli, coi dollari stampati negli occhi come lo zio di Paperino.
Ci stanno portando via i nostri risparmi, gli ultimi asset strategici rimasti, e poi vengono a dirci che siamo noi i parassiti, siamo noi ad avere un favorevole avanzo commerciale a loro spese, come se fosse una nostra colpa avere prodotti migliori dei loro, più competitivi, più sani e genuini.
Gli europei devono svegliarsi, devono liberarsi dei loro statisti corrotti e iniziare a costruire un continente più democratico, più autogestito, più indipendente dalle mire coloniali degli Stati Uniti, dove libertà giustizia uguaglianza non siano parole vuote.
Devono anzitutto nazionalizzare le basi NATO, ricondurle sotto il controllo degli Stati, togliere loro qualunque extraterritorialità, espellere le forze militari americane dal continente, e chiedere ai russi di negoziare la rinuncia progressiva a qualunque arma di distruzione di massa.
Morire di morte violenta, solo perché qualcuno ce lo impone, è assurdo. Far morire gli altri al nostro posto, come stiamo facendo con gli ucraini o i palestinesi e sicuramente con altre popolazioni del pianeta, è vergognoso. Solo per questo meriteremmo di scomparire dalla faccia della terra, perché non siamo degni di esistere.
Dovremmo comportarci come in certi film sentimentali, i cui protagonisti se ne dicono di tutti i colori e poi si pentono, ammettendo reciprocamente di aver detto cose che non volevano e che sono disposti a dimenticare e a ricominciare tutto da capo. Perché queste cose le vediamo solo nei film, mentre nella realtà procediamo a testa bassa con tutti i pregiudizi possibili e immaginabili?

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Dai tempi della crisi dei subprime (2007-8), i cui effetti si sono fatti sentire per un decennio, passando per la crisi pandemica (2020-21), che ha bloccato i commerci mondiali, cui è succeduta la guerra russo-ucraina (2022-25), che ha determinato la più grande crisi energetica europea, la dedollarizzazione e la nascita dei BRICS, le popolazioni occidentali son forse quelle che, anche se non muoiono sui campi di battaglia come quelle slave o palestinesi, vivono come se fossero completamente disorientate, avendo perduto le certezze di un tempo.
Infatti stanno subendo non solo una progressiva erosione dei loro risparmi e del potere d’acquisto delle loro monete, ma anche lo sgretolamento delle loro convinzioni etiche e politiche. Cominciano ad avere la netta percezione che la questione dei diritti umani e della democrazia rappresentativa siano giunte al capolinea. Che sia perché la gran parte dell’umanità non ne voglia sapere, in quanto vive valori diversi dai nostri, o perché sono due questioni che noi gestiamo con molta ipocrisia, sembra non fare molta differenza per noi. Di fatto il mondo che ci eravamo costruiti a nostra immagine ci sta facendo capire che non vuole più esistere. Ci sembra come un figlio che vuole andarsene di casa, perché ha idee diverse dalle nostre e le vuole vivere in autonomia.
La questione dei dazi appare, simbolicamente, come l’azione disperata di un padre che non si rassegna all’emarginazione. L’occidente somiglia a quelle persone che non accettano d’invecchiare e non vogliono farsi da parte. Pensano di avere ancora diritto a dire la loro, con la prosopopea dei tempi migliori, in cui noi si comandava e gli altri obbedivano.
Gli USA, abituati all’individualismo più esasperato, vogliono pensare solo a stessi: non riconoscono amici parenti alleati… Se riescono a sopravvivere affossando il mondo intero, non si fanno scrupoli. Sono scomposti, disordinati, irrazionali. S’illudono di poterci dare un colpo ai fianchi da toglierci il respiro, ma sta per arrivare l’ultimo round e i più suonati sono loro. La storia è un giudice imparziale. L’incontro non è truccato, e loro hanno perso. Delocalizzando le loro imprese, è stato come se avessero assunto sostanze dopanti, quelle finanziarie, e ora ne pagano le conseguenze. Gli altri producono beni industriali, perché hanno imparato in fretta a farlo. Noi stampiamo solo carta-moneta. Le ultime industrie veramente innovative che abbiamo prodotto, quella satellitare e quella infotelematica, ce le hanno copiate molto velocemente. Pensavamo che ci avrebbero messo un secolo, invece ci hanno lasciato a bocca aperta.
Non ammettere la sconfitta, si diventa ridicoli, anzi patetici. Militarmente la Russia è più forte (da sola è stata in grado di affrontare 32 Paesi della NATO) ed economicamente lo è la Cina, che dei dazi americani se ne fa un baffo. Dovremmo tutti prenderne atto e imparare a ridimensionarci, anche nello stile di vita.

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Mi piace Andrea Zhok, soprattutto quando dice che “Il nesso tra capitalismo e guerra è non accidentale, ma strutturale, stringente.”
Questo significa, come si è sempre detto, che di tanto in tanto il capitalismo ha bisogno di autodistruggersi per ricostruirsi, oppure ha bisogno di distruggere qualcosa per fare un favore all’industria bellica o all’edilizia.
Il problema di fondo è che il capitale ha bisogno di autovalorizzarsi di continuo, cioè ha bisogno di sfruttare profitti e interessi. Non può stare fermo. Non ha pace.
E qual è il Paese in cui ha bisogno di muoversi più che altrove? Gli USA, è evidente, che da tempo vivono basandosi sul primato della finanza. L’economia non coincide più da loro con la produzione ma con la speculazione. Il passaggio da Biden a Trump è l’espressione più eloquente che il primato della finanza, per conservarsi come tale in uno Stato ultraindebitato e in un mondo multipolare, deve per forza ricattare minacciare intimidire…
Non può esistere libero scambio quando un Paese vuole vivere sulle spalle altrui, sfruttando i privilegi del dollaro. Deve per forza esserci una guerra, anzi più di una, se condotte a livello regionale. Peccato però che in un villaggio globale una guerra regionale abbia subito effetti mondiali.
Zhok lo dice chiaro e tondo: il capitalismo non ha bisogno di una guida politica ma di essere incrementato. E, a tal fine, il commercio ha un’importanza relativa: oggi ciò che più conta è l’investimento finanziario. I grandi oligarchi si stanno chiedendo dove far fruttare di più i loro capitali, e la guerra e i risparmi altrui sembrano piatti succulenti.
Bisognerà ricordarsi di due cose quando questo momento drammatico finirà (ovviamente se ci saremo ancora): dobbiamo eliminare non solo le armi di distruzione di massa, ma anche la massa di capitali che producono distruzione.
Fonte: inchiostronero.it

Quale passaggio di testimone?

Ormai è diventato facile capire che sarà la Cina a sostituire gli Stati Uniti nella guida del capitalismo mondiale, che naturalmente non avrà una connotazione privatistica ma statalistica, sfruttando la tradizione collettivistica di quel Paese, che l’occidente ha perduto molti secoli fa.
Perché non sarà l’India, che pur è destinata ad avere più abitanti della Cina? Perché ha ancora il problema delle caste da superare. Il capitalismo crea discriminazioni, è vero, ma sono di tipo economico o finanziario: tutte le altre non le sopporta, soprattutto se intralciano l’espansione globale dei mercati. Negli USA i nordisti vinsero i sudisti non perché fossero più democratici, ma perché con lo schiavismo non si sviluppa adeguatamente l’industria, anche se poi l’industria sviluppa uno schiavismo salariale.
Oggi però gli USA sono arrivati al capolinea, perché un capitalismo prevalentemente finanziario non regge il confronto con quello industriale, non ha un sottostante credibile, tant’è che ha bisogno di infinite guerre per sostenersi. In quel Paese l’unica vera industria che funziona è quella militare, con annessi e connessi.
Ma perché non può essere la Russia a prendere il testimone del capitalismo occidentale, visto che sul piano militare appare come la più forte di tutte le superpotenze? Non bastano le sue infinite risorse energetiche? Non ha abbastanza popolazione o potere finanziario? Non è forse intenta, già adesso, a gestire il capitalismo in chiave statale?
L’unico vero problema della Russia è la mentalità, troppo condizionata da una forma antica di cristianesimo, che non ha subìto i condizionamenti del cattolicesimo e del protestantesimo. In Russia manca una cultura borghese popolare: si fanno affari solo nelle alte sfere, ad alti livelli, e prevalentemente nelle grandi città dell’area europea, quella più occidentalizzata.
Ma come si è formata una cultura borghese così diffusa nella Cina tradizionalmente agrario-collettivistica? È stata la cultura confuciana, ereditata dal partito comunista. Non è stata quella buddistica, che pur ha scongiurato, essendo fondamentalmente ateistica, la possibilità di svolgere guerre civili sotto il pretesto di qualche religione.
La cultura confuciana permette qualunque comportamento sul piano sociale, salvo uno: l’obbedienza nei confronti delle istituzioni, da quelle statali a quelle familiari. Questa obbedienza è sacra, e chi la trasgredisce può pagarne gravi conseguenze.
Chiedere ai russi di obbedire a questi livelli, li indurrebbe a credere che lo stalinismo sia risorto, ed è molto difficile che possano accettare una cosa del genere. Putin viene accettato perché ha riscattato un Paese distrutto dal capitalismo privato degli anni ’90 e perché sa difenderlo dalle minacce della NATO, ma è impensabile che in questo momento si torni in Russia a parlare di socialismo. Tutti avrebbero l’impressione che si voglia fare un passo indietro.

La prudenza della Groenlandia

In Groenlandia (l’isola più grande del mondo) alle ultime elezioni due partiti di opposizione hanno superato i due precedenti partiti di governo, guidati dal premier indipendentista Mute Egede, che sperava di imprimere una svolta più netta verso la piena autonomia dalla Danimarca.
Ha vinto una linea più prudente, che vede l’indipendenza come un traguardo lontano e da costruire senza azzardi. Han capito che non ha senso passare velocemente da una dipendenza (quella da Copenaghen) a un’altra (quella da Washington). Al momento la Danimarca garantisce circa mezzo miliardo di euro l’anno in sussidi e mantiene il controllo su difesa e politica estera.
La Groenlandia è ricca di terre rare, uranio e minerali strategici fondamentali per le tecnologie avanzate e la transizione energetica globale. Inoltre ha una posizione chiave tra l’Atlantico e l’Artico, a causa della crescente importanza delle rotte marittime settentrionali. Ma non vuole diventare un semplice pedone nella partita geopolitica dell’Artico né la prossima scommessa di Trump.
Negli ultimi anni la Cina ha tentato di entrare nel settore minerario locale, finanziando progetti e cercando di stabilire una presenza diretta, ma ha incontrato forti resistenze da parte sia della stessa Danimarca che degli Stati Uniti.
Naturalmente Trump, che ha intenzione di comprare l’isola, aveva influenzato la campagna elettorale con una delle sue solite spacconate: “faremo miliardi di investimenti”. Sembra Zelensky alla rovescia, quando questi andava a chiedere soldi in tutto il mondo per sostenere la sua causa antirussa. Trump invece li offre, ma facendo analoghe promesse mirabolanti che di sicuro non potrà mantenere, meno che mai a favore degli abitanti dell’isola, che non vogliono rischiare di diventare il nuovo terreno di scontro tra le superpotenze.

L’Africa non diventi terreno di nuove guerre tra occidente e oriente
di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Può l’Africa diventare il polo internazionale dello sviluppo e della cooperazione anziché essere un teatro di scontri e di rivalità strategica e geopolitica? In gran parte dipende, piaccia o no, dalle decisioni dell’Amministrazione Trump. In verità nel suo primo mandato l’ha ignorata o tollerata come un fardello.
Biden ha fatto lo stesso. Ad eccezione della sua partecipazione alla conferenza Onu sui cambiamenti climatici tenutasi in Egitto nel 2022. Solo alla fine del suo mandato egli ha visitato l’Angola. L’intenzione, però, non è lo sviluppo dell’Africa attraverso una genuina cooperazione, ma l’accaparramento delle sue materie prime e il contenimento delle varie operazioni cinesi sul continente.

L’oggetto della visita è stato il Corridoio di Lobito, la costruzione della ferrovia di 1.700 km per il trasporto delle materie prime dal bacino minerario, formato dall’Angola, dalle regioni meridionali della Repubblica Democratica del Congo e dallo Zambia. Come noto, tale bacino è ricchissimo di cobalto, rame, coltan e tantissimi altri minerali strategici. Il progetto è finanziato dagli Usa per quasi un miliardo di dollari, con il sostegno e la piena partecipazione finanziaria dell’Unione europea. Il programma europeo Global Gateway prevede, sulla carta, investimenti in Africa per 150 miliardi di euro. Il Corridoio di Lobito è in cima alla lista. E’ anche il principale progetto del Piano Mattei con uno stanziamento di 300 milioni di euro.
Il progetto, purtroppo, si contrappone alla ristrutturazione della ferrovia Zambia-Tanzania, finanziato dalla Cina, con lo sbocco sull’Oceano Indiano. Naturalmente le materie prime estratte in Zambia, soprattutto il cobalto, partirebbero verso i porti cinesi.

Invece di diventare una zona di conflitti, sarebbe opportuno, secondo noi, cercare un coordinamento dal quale tutti potrebbero trarne dei benefici. In particolare i paesi africani che troppo spesso sono considerati solo come produttori di merci senza alcun potere. Senza il necessario coordinamento queste vaste regioni africane potrebbero diventare una zona di vera e propria guerra per procura, proprio come in passato sono stati l’Angola e il Mozambico.

Sull’Africa si gioca anche la grande partita della disinformazione. Come la narrazione della dipendenza debitoria dei paesi africani verso la Cina che li renderebbe succubi e ricattabili da Pechino. Si tenga presente che la Cina è il terzo partner commerciale e il secondo grande creditore degli Usa. Anche qui c’è una “influenza maligna”? Non crediamo. Mentre l’interesse politico americano verso il continente sembrerebbe poca cosa, nel periodo 2019-23 gli Usa, in verità, hanno avuto una quota del 16% nella vendita delle armi in Africa rispetto al 13% della Cina.

La presenza industriale e commerciale della Cina in Africa è cresciuta enormemente da quando la Belt and Road Initiative (Bri), la cosiddetta Nuova Via della Seta, è stata proiettata verso i paesi africani, anche con la costruzione di strade, ferrovie e altre infrastrutture. Ciò ha fatto sì che la Cina sia diventata il principale partner commerciale dell’Africa con un interscambio di 282 miliardi di dollari nel 2023, quattro volte quello avvenuto tra Usa e Africa.

Negli ultimi due decenni la Cina ha prestato ai governi africani 160 miliardi di dollari per progetti che oggi rappresentano il 20% della produzione industriale africana. Comunque, la stragrande maggioranza del debito africano è dovuta a creditori occidentali. Solo sette dei 22 paesi africani in difficoltà devono più di un quarto del loro debito pubblico alla Cina.

Purtroppo, sul tema vi è un silenzio assordante, con l’eccezione di papa Francesco. In occasione dell’apertura del Giubileo 2025, il pontefice ha lanciato l’appello per una «consistente riduzione, se non proprio il totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni». In occasione della 58.ima Giornata mondiale della pace, inoltre, ha affermato che “il debito estero è diventato uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati”.” I paesi di tradizione cristiana, ha aggiunto, diano l’esempio.

Il dato sui prestiti evidenzia che l’Africa, in particolare le regioni sub sahariane, è la più negletta tra le varie nazioni. Si consideri che nel 2023 il Fmi ha concesso più prestiti al Messico che a tutti i 55 paesi africani messi insieme!
*già sottosegretario all’Economia **economista

Si rafforza il rapporto tra l’Africa e la Cina

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il nono summit del Forum of Chinese-African Cooperation (FOCAC) il 4-6 settembre a Pechino ha visto la partecipazione, oltre che del presidente dell’Unione Africana, di ben 53 paesi dell’Africa.

La grande attenzione posta dalla Cina è stata evidenziata dalla presenza del presidente Xi Jinping, che ha anche incontrato privatamente moltissimi presidenti africani. Il messaggio è chiaro: il continente africano ha per la Cina una valenza strategica. Non è una sorpresa poiché Pechino ha sempre proiettato la Belt and Road Initiative (la nuova via della seta) anche verso il continente africano.

Al summit la Cina si è volutamente dichiarata parte del Sud Globale e del gruppo dei paesi in via di sviluppo. Si è posta alla pari dei paesi africani, sostenendo il principio di non interferenza e di non ingerenza nelle loro decisioni e nei loro affari interni.

Il presidente Xi ha annunciato investimenti e aiuti finanziari per 50 miliardi di dollari in tre anni nei vari i settori economici, a partire dai grandi collegamenti infrastrutturali.

La Cina non è un ente assistenziale. E’ chiaro che beneficia in termini economici dello sfruttamento delle materie prime e alimentari africane. Nel 2023 gli scambi commerciali tra Cina e Africa sono stati di 282,5 miliardi di dollari, 100 dei quali relativi all’export di merci africane. Anche l’Africa ottiene dei vantaggi attraverso la modernizzazione delle sue infrastrutture, oltre alla partecipazione a una moderna rivoluzione agro-industriale.

Il FOCAC ha dichiarato che riconosce una sola Cina. Ovviamente, ciò avrà delle ripercussioni nelle relazioni politiche internazionali.

L’analisi dei due documenti del summit, la Dichiarazione di Beijing e l’Action Plan (2025-27), adottati all’unanimità, fa comprendere le iniziative future. La Cina e i paesi dell’Africa hanno già una rete operativa con esperti, regolamenti, incontri e progetti. Qualcosa che non esiste con gli Usa e nemmeno con l’Europa. Ogni genuina azione europea, purtroppo, è sempre minata da tipici interessi del vecchio colonialismo.

Le controparti hanno indicato i propri programmi strategici: la Belt and Road per la Cina e l’Agenda 2063 dell’Unione africana, in particolare il Programme for Infrastructure Development in Africa (PIDA), anche nella prospettiva della nascente area di libero scambio senza dazi, l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA).

Nell’Action Plan sono dettagliate le numerose iniziative da portare avanti. La Cina è già coinvolta in 21 progetti di collegamenti infrastrutturali nel continente africano e nel programma “100 industrie in 1.000 villaggi”. Si inizierà una cooperazione cinese-africana in 100 università, la creazione di 25 centri di ricerca, 50 iniziative industriali con le pmi africane, 30 progetti per l’energia. La Cina si è impegnata a togliere i dazi per i prodotti importati dai Paesi africani meno sviluppati con cui ha relazioni diplomatiche.

Inoltre, si vuole estendere l’uso di due piattaforme di pagamenti internazionali, alternative allo SWIFT controllato dagli Usa: la Pan-African Payment and Seattlement System e la Cross-border Interbank Payment System (CIPS) della Cina, anche attraverso un uso crescente della moneta cinese nelle transazioni finanziarie in Africa. Si prospetta l’aumento dell’uso delle monete locali africane.
Sono mosse difensive in rapporto alle sanzioni americane che già colpiscono molti paesi del continente. Del resto il dollaro è sempre più visto come un’arma nei confronti di chi non segue i dettami di Washington.

Rispetto alla polemica sul “debt gap”, sulla dipendenza finanziaria e debitoria dei Paesi africani nei confronti della Cina, si ricordi che i prestiti concessi da Pechino dal 2000 al 2020 sono stati di circa 700 miliardi di dollari. Oggi, il 12% del totale del debito pubblico e privato africano è detenuto da creditori cinesi. E’ una cifra importante, ma non determinante una eventuale sottomissione ai voleri cinesi .

Purtroppo, in Occidente il summit FOCAC di Pechino è stato del tutto ignorato. Non è un buon segno. Invece, si dovrebbe fare di tutto affinché l’Africa non diventi, come in passato, il continente dove si combattono “guerre per procura”!

*già sottosegretario all’Economia **economista