Dazi Usa: la lezione della Grande Depressione

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Nel discorso d’inaugurazione della sua presidenza, Donald Trump affermò: “Applicheremo dazi e tasse ai paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini.”.
Non si può liquidare come una semplificazione estrema o uno slogan elettorale. E’ un’affermazione preoccupante che rivela la mancanza di comprensione di come funziona un’odierna economia complessa, nazionale e internazionale.
Certi ideologi americani sostengono che Trump porterà a una violenta de-globalizzazione a favore di un nazionalismo economico americano esasperato, quasi autarchico. In realtà, nessun paese, tanto meno gli Stati Uniti, che voglia dettare le proprie condizioni al resto de mondo, può pensare di vivere in un progressivo isolamento e al contempo voler esercitare un dominio unilaterale.
In primo luogo, i dazi producono inevitabilmente legittime reazioni politiche ed economiche. Di solito generano dei contro dazi, proprio come con le sanzioni. Perché una nazione importante dovrebbe subirli senza rispondere? Forse si potrebbe pensare che il Canada o il Messico sarebbero indotti a sottomettersi per paura del gigante vicino. Ma la Cina? E il gruppo dei paesi Brics, tutti insieme? E, perché no, l’Unione europea? Si arriverebbe velocemente a una guerra economica globale con delle pericolosissime ripercussioni in campo geopolitico.
Solitamente i dazi sono imposti per far sì che, invece di importare certe merci, queste possano essere prodotte all’interno del proprio territorio, in questo caso negli Usa. E’ vero, per esempio, che con gli Usa la Cina ha un surplus commerciale favorevole di 270 miliardi di dollari. Anche l’Europa ha un surplus di 130 miliardi. Nell’ultimo anno la Cina ha esportato più merci negli Usa di quanto ne ha importato. Lo squilibrio è soprattutto il risultato della decennale politica americana di outsourcing, cioè la scelta di trasferire le proprie imprese in quei paesi dove la mano d’opera è a basso costo e dove si possono fare delle cose che negli Usa sarebbero vietate, per esempio dalle leggi ambientali.
Tale politica, oltre che con la Cina, è stata fatta anche nei confronti del Messico. Infatti, lungo il confine sono nate centinaia di cosiddette maquiladoras, dove imprese, spesso controllate dal capitale americano, producono per il mercato statunitense a prezzi molto ridotti. Una situazione creata dalle multinazionali americane.
Adesso, però, la domanda obbligata è: possono le imprese americane rimpiazzare velocemente i prodotti che non arriveranno dagli altri paesi a causa dei dazi? Sono in grado di farlo? E se sì, di quanto tempo hanno bisogno per creare e far operare delle imprese locali capaci di riempire il buco creato?
Gli Stati Uniti non sono la Russia. Quando, dopo l’annessione della Crimea, sono state imposte delle sanzioni, Mosca ha fatto immediatamente partire centralmente una politica di immediato sostegno alle imprese locali per rimpiazzare i prodotti bloccati e ha cercato, soprattutto con la Cina, di coprire celermente certe importazioni tecnologiche mancanti. Trump ha una politica dirigistica di questa portata? Oppure lascerà che sia il mercato a reagire? Potrebbe essere un calcolo errato.
Inoltre, i dazi sulle merci importate faranno lievitare i prezzi al consumo negli Usa. Forse nell’immediato non del 10% come i dazi imposti alla Cina. Ma senz’altro aumenteranno di alcuni punti percentuali. E di quanto lieviteranno nel tempo? Dazio non è la parola magica per far arricchire i cittadini americani né quelli di altri paesi. Al contrario, c’è il rischio di impoverimento.
Da non sottovalutare è l’effetto più generale delle restrizioni sul commercio mondiale. Basterebbe rispolverare gli studi fatti sulle conseguenze negative generate dalle politiche dei dazi imposti dopo la grande crisi di Wall Street del 1929.
Allora il governo Herbert Hoover sottoscrisse il noto Smoot-Hawley Tariff Act, la legge che impose dazi di oltre il 20% a tutti i prodotti importati. Almeno 20 paesi risposero con dei contro dazi. Dal 1929 al 1933 l’export-import americano crollò del 67% e con esso anche il commercio mondiale. Gli effetti del crack finanziario e dei dazi nei confronti del resto del mondo produssero la Grande Depressione con alta inflazione, crollo delle produzioni e milioni di disoccupati. Fu fermata soltanto dalle politiche di rilancio industriale del New Deal di Franklin Delano Roosevelt.
Qualcuno dovrebbe ricordare e spiegare tutto ciò al presidente Trump. Un aiuto a una migliore comprensione potrebbe venire anche dall’Unione europea. Siccome anche l’Ue dovrebbe essere colpita dai dazi, perché non unire le forze con il gruppo dei Brics e far arrivare al presidente Trump un messaggio chiaro a non commettere un simile errore? Non è una sfida ma un consiglio amichevole, anche un invito a guardare al mondo e a farsi carico dell’urgente assetto multilaterale geopolitico, rispetto all’attuale pericoloso disordine mondiale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’Africa non diventi terreno di nuove guerre tra occidente e oriente
di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Può l’Africa diventare il polo internazionale dello sviluppo e della cooperazione anziché essere un teatro di scontri e di rivalità strategica e geopolitica? In gran parte dipende, piaccia o no, dalle decisioni dell’Amministrazione Trump. In verità nel suo primo mandato l’ha ignorata o tollerata come un fardello.
Biden ha fatto lo stesso. Ad eccezione della sua partecipazione alla conferenza Onu sui cambiamenti climatici tenutasi in Egitto nel 2022. Solo alla fine del suo mandato egli ha visitato l’Angola. L’intenzione, però, non è lo sviluppo dell’Africa attraverso una genuina cooperazione, ma l’accaparramento delle sue materie prime e il contenimento delle varie operazioni cinesi sul continente.

L’oggetto della visita è stato il Corridoio di Lobito, la costruzione della ferrovia di 1.700 km per il trasporto delle materie prime dal bacino minerario, formato dall’Angola, dalle regioni meridionali della Repubblica Democratica del Congo e dallo Zambia. Come noto, tale bacino è ricchissimo di cobalto, rame, coltan e tantissimi altri minerali strategici. Il progetto è finanziato dagli Usa per quasi un miliardo di dollari, con il sostegno e la piena partecipazione finanziaria dell’Unione europea. Il programma europeo Global Gateway prevede, sulla carta, investimenti in Africa per 150 miliardi di euro. Il Corridoio di Lobito è in cima alla lista. E’ anche il principale progetto del Piano Mattei con uno stanziamento di 300 milioni di euro.
Il progetto, purtroppo, si contrappone alla ristrutturazione della ferrovia Zambia-Tanzania, finanziato dalla Cina, con lo sbocco sull’Oceano Indiano. Naturalmente le materie prime estratte in Zambia, soprattutto il cobalto, partirebbero verso i porti cinesi.

Invece di diventare una zona di conflitti, sarebbe opportuno, secondo noi, cercare un coordinamento dal quale tutti potrebbero trarne dei benefici. In particolare i paesi africani che troppo spesso sono considerati solo come produttori di merci senza alcun potere. Senza il necessario coordinamento queste vaste regioni africane potrebbero diventare una zona di vera e propria guerra per procura, proprio come in passato sono stati l’Angola e il Mozambico.

Sull’Africa si gioca anche la grande partita della disinformazione. Come la narrazione della dipendenza debitoria dei paesi africani verso la Cina che li renderebbe succubi e ricattabili da Pechino. Si tenga presente che la Cina è il terzo partner commerciale e il secondo grande creditore degli Usa. Anche qui c’è una “influenza maligna”? Non crediamo. Mentre l’interesse politico americano verso il continente sembrerebbe poca cosa, nel periodo 2019-23 gli Usa, in verità, hanno avuto una quota del 16% nella vendita delle armi in Africa rispetto al 13% della Cina.

La presenza industriale e commerciale della Cina in Africa è cresciuta enormemente da quando la Belt and Road Initiative (Bri), la cosiddetta Nuova Via della Seta, è stata proiettata verso i paesi africani, anche con la costruzione di strade, ferrovie e altre infrastrutture. Ciò ha fatto sì che la Cina sia diventata il principale partner commerciale dell’Africa con un interscambio di 282 miliardi di dollari nel 2023, quattro volte quello avvenuto tra Usa e Africa.

Negli ultimi due decenni la Cina ha prestato ai governi africani 160 miliardi di dollari per progetti che oggi rappresentano il 20% della produzione industriale africana. Comunque, la stragrande maggioranza del debito africano è dovuta a creditori occidentali. Solo sette dei 22 paesi africani in difficoltà devono più di un quarto del loro debito pubblico alla Cina.

Purtroppo, sul tema vi è un silenzio assordante, con l’eccezione di papa Francesco. In occasione dell’apertura del Giubileo 2025, il pontefice ha lanciato l’appello per una «consistente riduzione, se non proprio il totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni». In occasione della 58.ima Giornata mondiale della pace, inoltre, ha affermato che “il debito estero è diventato uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati”.” I paesi di tradizione cristiana, ha aggiunto, diano l’esempio.

Il dato sui prestiti evidenzia che l’Africa, in particolare le regioni sub sahariane, è la più negletta tra le varie nazioni. Si consideri che nel 2023 il Fmi ha concesso più prestiti al Messico che a tutti i 55 paesi africani messi insieme!
*già sottosegretario all’Economia **economista

La zavorra africana del debito

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Da quando il suo debito è negoziato sui mercati internazionali, il problema per l’Africa si è fatto più critico. Alla fine del 2023, il 49% del debito africano era in mano di privati, cioè di fondi, di banche e di altri finanzieri internazionali. Si prevede che salirà al 54% entro la fine del 2024. Tra il 2015 e il 2022, per 49 dei 54 paesi africani i costi medi del servizio del debito sono aumentati dall’8,4% al 12,7% del pil. Secondo l’African Economic Outlook Report della Banca africana per lo sviluppo (AfDB), nel 2024 i paesi africani dovrebbero spendere circa 74 miliardi di dollari per il servizio del debito. Rispetto ai 17 miliardi del 2010. 40 dei 74 miliardi è dovuto a creditori privati.

Il vicepresidente e capo economista dell’AfDB, Prof. Kevin Urama, intervenendo il 30 novembre alla quinta sessione straordinaria del Comitato per la finanza e gli affari monetari dell’Unione africana, tenutosi ad Abuja, in Nigeria, ha affermato: “La mutevole struttura del debito verso i creditori privati ​​comporta opportunità e sfide. Quando prendono a prestito sui mercati dei capitali internazionali, i paesi africani pagano interessi del 500% in più rispetto a quanto pagherebbero all’AfDB e alla Banca mondiale”. Si tenga presente che dal 2010 il debito pubblico dell’Africa è aumentato del 170%, in gran parte a causa dei problemi strutturali del sistema debitorio, dei recenti shock globali e delle sue note debolezze.

Una delle ragioni dell’alto costo è certamente la tendenza di utilizzare debiti a breve termine e, quindi, a interesse alti, per finanziare progetti di sviluppo a lungo termine. Lo chiede il mercato. Le implicazioni per la sostenibilità del debito nel medio e lungo periodo sono ovvie. Come conseguenza, 20 paesi africani sono attualmente in difficoltà debitorie o ad alto rischio di esserlo, rispetto ai 13 del 2010.

Sempre secondo l’AfDB il rapporto debito pubblico/pil è mediamente cresciuto dal 54,5% del 2019 al 64% del 2020 per poi rimanere relativamente stabile. Dal 2000 al 2021 23 paesi africani hanno cercato crediti sui mercati privati per un totale di 1.510 miliardi di dollari. La stragrande maggioranza del debito pubblico verso l’estero è in dollari: nel 2022 circa il 70%, mentre quello in euro solo il 14,5%. Questa dipendenza dal dollaro è diventata nefasta quando la Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse. Molti paesi coprono i deficit di bilancio non pagando, ma rifinanziando i debiti in scadenza, soprattutto verso i fornitori privati di merci e di servizi e verso i creditori istituzionali. Il pagamento degli interessi sul debito rappresenta, mediamente per l’Africa nell’ultimo decennio, il 12,7% del pil, mentre la spesa per la salute solo 1,8% e quella per l’istruzione il 3,6 %.

Nel suo Regional Economic Outlook per l’Africa sub sahariana di ottobre, anche il Fondo monetario internazionale ha dipinto un quadro preoccupante: “L’inflazione rimane a due cifre in quasi un terzo dei paesi. La capacità di servizio del debito è bassa e l’aumento degli oneri debitori sta erodendo le risorse disponibili per lo sviluppo. Le riserve valutarie sono spesso insufficienti.”. I paesi esportatori di materie prime e di petrolio sarebbero in maggiori difficoltà.

Anche per tutte queste ragioni i leader africani chiedono riforme urgenti del sistema finanziario globale. Non vogliono essere le vittime delle speculazioni finanziarie e sulle commodity. Nello stesso tempo operano per un meccanismo di stabilità finanziaria regionale, per l’utilizzo delle monete locali nei commerci interafricani e, dove possibile, con il resto del mondo. In questo processo ci s’ispira alla Nuova Banca di sviluppo (Ndb) dei Brics.

Alla luce delle tensioni geopolitiche, dei rischi climatici e delle imprevedibili tendenze economiche globali, l’eccessiva dipendenza dell’Africa dai mercati esterni sta diventando sempre più problematica. L’AfDB enfatizza, perciò, la necessità di un sistema finanziario africano più solido e resiliente e di sforzi concertati per realizzare gli obiettivi d’integrazione economica a lungo termine del continente.

Molti paesi africani, tra cui la Nigeria, la più forte economia del continente, operano per stabilire istituzioni come l’African Monetary Institute e l’African Financing Stability Mechanism, sulla scia delle esperienze europee, che sono essenziali per raggiungere la convergenza macroeconomica, la resilienza finanziaria, l’indipendenza economica e l’autosufficienza del continente africano.

Queste problematiche economiche dei vari paesi africani non possono essere sottaciute o ignorate da chi – siano essi le amministrazioni americane, l’Ue e i vari paesi europei, a cominciare dall’Italia con il suo Piano Mattei – intende avere rapporti stabili con il continente. Si tratta in particolare di quei problemi finanziari strutturali globali che hanno ricadute nei paesi dell’Africa e del Sud del mondo. Sottovalutarli e non affrontarli vuol anche dire favorire un’incontrollata emigrazione di massa con i suoi effetti destabilizzanti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’Africa è stanca di essere povera

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’attenzione del mondo economico internazionale verso l’Africa sembra essere in crescita esponenziale. Lo si è visto recentemente all’incontro dell’Africa Investment Forum (Aif), organizzato dalla Banca Africana di Sviluppo (AfDB) a Rabat, in Marocco. Erano presenti 2.300 investitori e delegati provenienti da 83 paesi. In discussione sono stati più di 37 progetti di investimento, alcuni dei quali di rilevanti dimensioni, in tutti i settori economici, dalle infrastrutture all’agroalimentare, dall’energia alla gestione idrica e all’estrazione mineraria.

Quest’anno lo sponsor principale è stato il lontano Giappone, presente con oltre un centinaio di aziende, tra le quali le più importanti corporation dell’energia e dei nuovi minerali, le cosiddette “terre rare” d’importanza strategica.

Da sottolineare che nel 2025 due importanti appuntamenti economici africani, tra cui la Conferenza ministeriale per lo sviluppo africano, si terranno proprio in Giappone. Il paese del Sol Levante è anche il più grande contributore di prestiti agevolati della Banca Africana di Sviluppo, con un interesse specifico nei settori dell’agricoltura, anche attraverso l’utilizzo di nuove avanzate tecnologie.

Il che vuol dire che, nessuno ce ne voglia, Tokyo negli anni passati è stata molto più attiva di Roma nei rapporti con il continente africano. Qualcosa che l’Italia, che si affaccia sul Mediterraneo e con il suo decantato Piano Mattei, non dovrebbe ignorare. La delegazione italiana, senz’altro più numerosa e rappresentativa che negli incontri passati, a Rabat appariva abbastanza marginale in mezzo alle grandi banche americane come la JP Morgan e la Goldman Sachs, ai maggiori fondi di investimento internazionali e alle grandi corporation. Comunque la dirigenza dell’AfDB avrebbe espresso un certo apprezzamento per il progetto e il modello italiani.

L’Aif di Rabat è stato guidato con forza e lungimiranza da Akinwumi Adesina, presidente dell’AfDB dal 2015 e ideatore del Forum. Adesina, che in precedenza era stato ministro dell’Agricoltura della Nigeria, ha dettagliato le potenzialità attuali e le prospettive future dello sviluppo del continente africano. Per esempio, l’Africa oggi ha il 65% di tutte le terre arabili del mondo, attualmente incolte. Questo è un dato che la rende oggettivamente centrale nella politica della sicurezza alimentare globale nel prossimo futuro. Si calcola che entro il 2030 le dimensioni del mercato alimentare e agricolo in Africa varranno non meno di 1.000 miliardi di dollari.

Tuttavia, al di là degli aspetti economici, la maggiore ricchezza dell’Africa è la sua giovane popolazione. Secondo uno studio del New York Times entro il 2050, su 4 abitanti del pianeta 1 sarà africano. Entro tale data, il continente dovrebbe raddoppiare la sua popolazione, raggiungendo 2,4 miliardi di persone, cioè la popolazione complessiva della Cina e dell’India di oggi messe insieme. Ciò comporterà una grande domanda di beni alimentari, di servizi e di alloggi. Soltanto il settore abitativo creerà opportunità d’investimento pari a 1.400 miliardi di dollari. Le infrastrutture di base, trasporti, energia e acqua, già oggi richiedono investimenti di almeno 170 miliardi l’anno.

Secondo Adesina le ricchezze di materie prime sono immense. A livello globale l’Africa ha il 95% del cromo, il 90% del platino, i due terzi delle riserve mondiali di cobalto, il 30% del litio e del manganese, il 20% della grafite. Tutti materiali indispensabili per la produzione di batterie elettriche e per la cosiddetta transizione verde. Le dimensioni dei sistemi di accumulo di energia dei veicoli elettrici e delle batterie passeranno dai 7.000 miliardi di dollari previsti per il 2030 ai 59.000 miliardi per il 2050. L’Africa, che adesso funge da fornitore di minerali grezzi, ha un’opportunità unica di “risalire la catena del valore”, con investimenti nei settori dei minerali critici. Citando l’agenzia americana Bloomberg, Adesina ha ricordato che la produzione di batterie al litio nella Repubblica Democratica del Congo sarebbe tre volte meno costosa di quella degli Usa, della Cina o della Polonia!

Quindi, l’Africa Investment Forum è un grande successo. Nelle ultime 5 edizioni aveva realizzato transazioni per un valore di 30 miliardi di dollari. Quest’anno, i partner di Aif hanno avviato accordi per un valore di oltre 15 miliardi, pari alla metà di quanto transatto nel quinquennio precedente.

Adesina ha detto chiaramente che l’Africa è consapevole che “una causa della povertà è l’esportazione di materie prime, sia in agricoltura che nei minerali”. Di conseguenza l’Africa non vuole essere più solo un fornitore di materie prime, ma intende diventare un attore chiave nello sviluppo delle catene del valore: industrializzazione, ricerca e realizzazione di nuove tecnologie.

“L’Africa è stanca di essere povera”, ha affermato Adesina.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Sempre pericoloso il gioco dei bitcoin

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Sarà un caso, ma dalla vittoria elettorale di Donald Trump a oggi il valore della più nota cripto valuta, il bitcoin, è cresciuta di quasi il 50%, raggiungendo il suo livello massimo storico di quasi 100.000 dollari. Dall’inizio dell’anno la crescita è stata del 130%!
Questo boom ha trascinato al rialzo tutte le altre criptomonete: in un mese la piattaforma ethereum è cresciuta del 40%; dogecoin, legata a Elon Musk, del 270%. Ma le fluttuazioni giornaliere restano molto grandi.
Trump si è assunto tutta la responsabilità di tale speculazione quando in campagna elettorale ha promesso di trasformare gli Usa nella “capitale delle criptovalute del pianeta”. Ha anche partecipato personalmente alla conferenza organizzata dagli operatori e dai sostenitori del bitcoin. Inoltre, la sua società “Trump Media and Technology Group” starebbe acquistando Bakkt, una delle maggiori piattaforme, dove si trattano le operazioni in criptovalute.
La cosa ancora più grave, se fosse mantenuta, è l’intenzione di Trump di accumulare una riserva nazionale di bitcoin. Se così fosse, la Federal Reserve sarebbe chiamata in causa a sostegno del valore delle criptomonete qualora esse avessero un tracollo.
Si ricordi che già nel novembre 2022 il valore del bitcoin era crollato a 16.000 dollari da 69.000 di qualche mese prima!
La propaganda presenta le criptovalute come forme di libertà monetaria anarcoide, perché fuori dal controllo di quello che chiamano il “deep state” della banca centrale e delle istituzioni governative. Esse, però, non hanno alcun valore sottostante di riferimento e nessun sistema di garanzia. Non c’è un emittente riconosciuto e, quindi, in caso di crisi finanziaria manca la copertura fornita dal cosiddetto prestatore di ultima istanza, come la Fed per il dollaro o la Bce per l’euro.
Esse funzionano come sistema di pagamento e di altre operazioni finanziarie tra i partecipanti che fanno parte del club. Non hanno le caratteristiche di una moneta legale, ma attraverso le transazioni lo diventano di fatto. Non rappresentano più solo una fetta relativamente piccola del sistema finanziario. Oggi la loro capitalizzazione è stimata in oltre 3.400 miliardi di dollari. Si calcola che soltanto negli Usa ogni giorno si muovono operazioni in criptovalute pari a 30 miliardi di dollari. Stanno assumendo, quindi, una dimensione tale da coinvolgere l’intero sistema finanziario in caso di crisi. E senza alcuna rete di protezione. Il che per gli investitori, soprattutto minori, è un azzardo.
In caso di crollo perciò il problema non si pone solo per chi vi partecipa direttamente, che perde tutto senza alcun rimborso. Preoccupa che sempre più banche tradizionali e fondi d’investimento siano coinvolti. Esse utilizzano tutti gli strumenti già in atto per le speculazioni. Le criptovalute sono usate per generare delle leve finanziarie con cui operare, per esempio, sul rischioso mercato dei derivati otc.
Recentemente, BlackRock, il più grande fondo d‘investimento americano, ha ottenuto il permesso di operare in borsa con un suo fondo Etf sul bitcoin. In questo caso l’Etf replica l’andamento dell’indice del bitcoin. I fondi Etf possono essere acquistati e venduti come se fossero delle azioni. Essi sono altamente speculativi quando operano con la leva finanziaria.
Un altro aspetto di negativa gravità è che le criptovalute non sono soggette alla vigilanza operante per sistema bancario. Non sono regolamentate, nonostante i vari tentativi di farlo. Ecco perché le varie autorità credono che siano sempre più usate per operazioni di riciclaggio e per altre transazioni illecite.
La Security Exchange Commission (Sec), l’omologa americana della nostra Consob, ha cercato di imporre dei controlli, riuscendo soltanto a introdurre piccole azioni legali su questioni secondarie senza affrontare il cuore del problema.
Con l’arrivo di Trump, però, Gary Gensler, il presidente della Sec, ha annunciato le sue dimissioni. Questo è stato visto come un segnare di futuro allentamento dei controlli e ciò ha creato una certa euforia sui mercati delle criptovalute.
Ma è possibile creare ricchezza finanziaria dal nulla? Non lo crediamo. Se fosse vero, i geni delle cripto sarebbero i nuovi dei dell’Olimpo, sarebbero i creatori di un nuovo Eden finanziario. E se fosse il contrario? Agli adepti di questo nuovo culto varrebbe l’ammonizione dantesca “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”.
Tutto ciò oggi avviene mentre in tanti temono la bolla dei valori di Wall Street. Si ricordi, infine, che anche la Bce ha recentemente ammonito circa l’eccessiva esuberanza dei mercati e delle borse con possibili correzioni improvvise. Non è un momento per giocare con altre bolle finanziarie!

*già sottosegretario all’Economia **economista

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La bolla dei dollari off shore

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Ci sono obbligazioni e altri titoli di debito in dollari per ben 13.000 miliardi detenuti fuori dagli Usa da banche non americane e da non-banks, cioè da fondi di ogni tipo, da governi, da organizzazioni internazionali e anche da privati. Lo rivela un recente studio della Federal Reserve di Atlanta.

Da una parte riflette il ruolo globale del dollaro nel commercio e nella finanza internazionale. Ogni giorno migliaia di miliardi di dollari sono usati in innumerevoli transazioni finanziarie.
Però, è una vera bomba a orologeria. Infatti, i citati 13.000 miliardi non hanno alcuna copertura da parte della Federal Reserve.

Le banche con sede al di fuori degli Stati Uniti devono, quindi, rinnovare le obbligazioni in dollari in scadenza e altri titoli di debito per una cifra enorme. In gioco c’è la tenuta delle varie banche e non-banks in campo.

I detentori di tale ammontare sono per oltre la metà in Canada, UK, zona euro, Svizzera e Giappone. La Cina ha circa 1.000 miliardi in bond americani.

La composizione dell’ammontare totale è cambiata notevolmente dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Le obbligazioni in dollari in circolazione sono cresciute più rapidamente dei prestiti bancari. Oggi i bond rappresentano più della metà dello stock di debito offshore in dollari.

La Fed nota che, oltre a questi debiti diretti, ci sono grandi stock di prodotti derivati in valuta estera (FX), gli otc tenuti fuori bilancio. Si noti che in uno swap FX, una controparte prende in prestito dollari a fronte della garanzia di un importo equivalente in un’altra valuta.

Si ricordi, però, che gli swap FX non sono una scommessa secondaria risolvibile con un pagamento unidirezionale dal perdente al vincitore come nella maggior parte delle transazioni derivate. In uno swap FX da 100 milioni di dollari, l’importo preso in prestito deve essere totalmente rimborsato.

C’è un’ulteriore aggravante. A metà del 2022 le non banks al di fuori degli Usa avevano operazioni in derivati otc per 26.000 miliardi, circa il doppio delle loro passività in bilancio. Le banche non statunitensi avevano altri 39.000 miliardi di dollari in derivati fuori bilancio, più del doppio delle loro passività in bilancio.

Il mercato degli swap FX è il più grande mercato di credito in dollari in circolazione. Ma per la sua natura fuori bilancio è spesso trascurato. Gli swap FX in dollari hanno fatturato nel mese di aprile 2022 3.500 miliardi di dollari al giorno, per lo più a scadenze inferiori a una settimana. Il dollaro predomina in questo mercato ed è presente in circa il 90% di tutti gli swap FX.

Il problema si pone quando queste banche, fondi o entità estere vanno in difficoltà, anche nella gestione dei titoli in dollari in loro possesso, e bisogna intervenire per evitare che un default generi una reazione a catena. Simili situazioni si sono verificate più volte negli ultimi anni, costringendo la Fed a grandi interventi di salvataggio. In altre parole la banca centrale americana ha messo a disposizione delle altre banche centrali enormi somme per tamponare le crisi.

Per esempio, le difficoltà di gestione finanziaria internazionale provocate dalla pandemia hanno costretto la Fed nel 2021ad aumentare gli swaps da 5 miliardi di dollari alla settimana dell’inizio di marzo a circa 450 miliardi alla settimana a fine maggio. Con i crediti temporanei di emergenza le altre banche centrali hanno acquistato titoli e altre attività in perdita, altrimenti invendibili, per contenere l’ondata di perdite e quindi evitare possibili default.

Simili situazioni si sono verificate con la crisi delle obbligazioni pubbliche inglesi nel settembre del 2022 e con la crisi del Credit Suisse e la sua conseguente acquisizione da parte della banca svizzera Ubs.

E’ la globalizzazione finanziaria! Un suo eventuale scossone si riverbererebbe nell’intero sistema finanziario internazionale basato sul dollaro. Esso ha goduto a lungo del suo dominio. Adesso, però, con l’esplosione del debito pubblico e di quello delle imprese, e con la gigantesca bolla speculativa dei derivati otc non regolamentati, ogni seria difficoltà si ripercuote inevitabilmente sulla tenuta del sistema del dollaro.

Non è una situazione nuova, ma le difficoltà diventano sempre più grandi e sempre più frequenti. Questa è la ragione per la quale la Federal Reserve di Atlanta esprime serie preoccupazioni di fronte ai rischi impliciti in una gestione poco controllata del sistema. Una ragione di più per riformare profondamente l’attuale sistema finanziario internazionale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

I risultati del Summit dei Brics di Kazan

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il Summit dei paesi Brics, conclusosi a Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan in Russia, si è focalizzato sugli attuali assetti internazionali e sui maggiori argomenti di geopolitica. Il tema dell’incontro è stato il “Rafforzamento del multilateralismo per uno sviluppo globale giusto e per la sicurezza” verso un ordine mondiale democratico. Ci sembra che questa volta le questioni economiche più innovative, ovviamente evidenziate, siano state oggetto di maggiore riflessione e di prospettive future.
E’ stato il primo Summit che, oltre ai tradizionali fondatori, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ha visto la partecipazione dei capi di governo dei 4 nuovi membri, Etiopia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Iran. In realtà è stato molto più allargato con la presenza ai massimi livelli di 36 paesi e di una vasta partecipazione delegati. Tra i paesi ospiti vi erano il Messico, l’Indonesia, il Bangladesh. Mancava quasi totalmente l’Africa sub sahariana. Importante è stata la presenza del presidente dell’Assemblea Generale dell’Onu, Guterres, quella di Abu Mazen dell’Autorità palestinese e di Erdogan, presidente della Turchia, un paese membro della Nato.
La Dichiarazione finale riflette la volontà e la necessità dei paesi del Global South di mantenere e rafforzare il ruolo centrale delle Nazioni Unite, quale “sede istituzionale mondiale” dove portare avanti le riforme in tutti i campi politici ed economici e anche il dialogo e la mediazione per superare i vari conflitti. Si riconosce il G20 quale forum globale primario per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale.
Temono giustamente che, senza l’Onu, i paesi poveri ed emergenti siano in balia dell’anarchia e della “legge del più forte”. Per loro è il luogo dove avrebbero spazio il multilateralismo e la multipolarità. Naturalmente chiedono una sua profonda riforma, così come quella del Consiglio di Sicurezza, delle vecchi istituzioni di Bretton Woods e dell’Organizzazione mondiale del commercio. In tutte le istituzioni internazionali, il gruppo dei Brics si fa promotore degli interessi dei paesi poveri e di quelli emergenti. Come già fatto per l’adesione dell’Unione Africana al G20.
Si dichiarano preoccupati degli “effetti distruttivi delle misure illegittime, unilaterali e coercitive, comprese le sanzioni illegali, sull’economia mondiale, sul commercio internazionale e sugli obiettivi di sviluppo sostenibile”. Perciò ne chiedono l’eliminazione.
Naturalmente hanno discusso dei due grandi conflitti in atto. Rispetto al Medio Oriente, i Brics pongono le loro posizioni totalmente nel solco delle Nazioni Unite e, quindi, sostengono la piena appartenenza all’Onu dello Stato di Palestina e la soluzione dei “due popoli due Stati”. Invitano, perciò, Israele a fermare l’escalation di violenza e a ritirare l’esercito da Gaza, dalla Cisgiordania e dal Libano.
Rispetto al conflitto ucraino, invece, la Dichiarazione rimanda genericamente alle posizioni già espresse dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale dell’Onu, invitando tutti ad attenersi agli Scopi e ai Principi della Carta delle Nazioni Unite. Ben venga, si dice, ogni mediazione per una soluzione pacifica.
Il Summit è stato indubbiamente un grande successo diplomatico e politico della Russia. Putin sarà isolato dall’Occidente, ma non dal resto del mondo. Anzi. Inoltre, a Kazan si sono tenuti numerosi incontri bilaterali tra Putin e gli altri Capi di Stato, e anche tra i diversi leader tra di loro. Ad esempio, tra il presidente cinese Xi e il primo ministro indiano Modi.
I Brics hanno rilevato che la cooperazione economica multilaterale è “essenziale per limitare i rischi risultanti dalla frammentazione geopolitica e geoeconomica”. Ribadendo la necessità di una riforma dell’architettura finanziaria internazionale, hanno da subito evidenziato il problema del debito che blocca lo sviluppo di molti paesi emergenti, aggravato dalla politica dei tassi di interesse elevati. Al riguardo ricordano gli impegni presi dal G20 per alleviare il problema del debito e la necessità di promuovere una “finanza composta” per mobilitare capitali privati verso investimenti infrastrutturali.
Nei rapporti economici tra i Brics e i loro alleati, svolge un ruolo centrale e propulsivo la New Development Bank. la banca del gruppo. La Dichiarazione finale rileva l’importanza di proseguire con l’Interbank Cooperation Mechanism, il meccanismo per facilitare le pratiche e gli strumenti finanziari innovativi, crediti di vario tipo, anche attraverso l’uso delle monete locali. Il ruolo di queste ultime è centrale nelle transazioni e nei regolamenti finanziari, come già previsto dall’Iniziativa sui pagamenti transfrontalieri, che prevede la creazione di un’infrastruttura di deposito e regolamento transfrontaliero indipendente, chiamata Brics Clear. Oggi la Russia e molti altri Stati sono esclusi dall’utilizzo del sistema SWIFT, gestito dagli Usa e dall’Occidente, la piattaforma di controllo e accettazione di ogni pagamento o trasferimento finanziario transfrontaliero.
Ai capi del Brics sono stati presentati una serie di studi e di proposte concernenti iniziative innovative economiche e finanziarie, Molte, come il Brics Clear e un’eventuale moneta di conto, richiedono studi più approfonditi prima della loro realizzazione. In merito la Dichiarazione impegna i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali a continuare i lavori e presentarli nei prossimi incontri.
In conclusione, il Summit di Kazan ha plasticamente dimostrato che i Brics e le loro iniziative non possono più essere ignorati o considerati soltanto come una sfida al sistema del dollaro. Il multilateralismo non è una guerra, è una necessaria riforma pacifica. E’ opportuno prenderne atto, soprattutto in Europa. Il fatto che per la prima volta i media occidentali, anche quelli italiani, abbiano dato un significativo risalto ai lavori del Summit ci sembra sia un segnale positivo.

*già sottosegretario all’Economia **economista

DEBITO PUBBLICO IL GRANDE TABÙ DELLE ELEZIONI USA

Debito pubblico, il grande tabu delle elezioni americane

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In vista delle elezioni di novembre Kamala Harris e Donald Trump si confrontano duramente su tutto: guerre, armi, terrorismo, inflazione, aborto, immigrazione, ecc. Non hanno timore di affrontare tutti gli argomenti anche i più conflittuali e scabrosi. Tranne uno: il debito pubblico. La parola “debt”, debito non è stata mai menzionata da entrambi, nemmeno nell’unico dibattito televisivo. Perché?

Perché sia il governo Trump che quello Biden-Harris sono stati entrambi responsabili di una crescita straordinaria del debito pubblico per coprire gli esorbitanti deficit di bilancio. Ma la vera bomba non viene solo dal passato, è in arrivo ad alta velocità negli anni immediatamente prossimi.

La conferma viene dal Congressional Budget Office (Cbo), l’organismo indipendente e bipartisan del Congresso che ha il compito di studiare gli andamenti economici e finanziari degli Usa. Esso ha analizzato in particolare il debito pubblico federale, held by the public, cioè detenuto da banche e corporation nazionali e da governi e banche stranieri. Omette nel suo studio quel debito pubblico, intragovernmental holding, detenuto da fondi speciali legati al governo, che oggi valgono almeno un altro 20% del pil nazionale.

Il Cbo riporta che negli anni ’80 e ’90, il rapporto debito pubblico federale/pil degli Usa era di circa il 39%; nel 2010 era cresciuto fino al 60,6%. Si prevede che detto debito crescerà costantemente per decenni, fino a eguagliare la produzione economica aggregata entro il 2025, salendo al 122,4% del pil entro il 2034. Oggi l’ammontare del debito federale è circa 28.000 miliardi di dollari e sarà di 142.000 miliardi nel 2054, pari a 166%del pil.

La ragione sta ovviamente nel protrarsi per decenni dei sempre crescenti deficit di bilancio. Tra il 1974 e il 2023, le entrate fiscali sono state in media il 17,3% del pil, mentre la spesa pubblica è stata in media il 21%. Entro il 2034, il Cbo sostine che le entrate fiscali saliranno al 18% del pil, ma che la spesa pubblica si aggirerà intorno al 24,9%. In particolare il costo degli interessi sul debito federale si calcola che esploderà: dall’attuale 3,1% del pil al 6,3% nel 2054.

E’ doveroso rilevare che le stime in questione, fatte nella speranza di una linearità degli andamenti, non tengono conto di eventuali choc di carattere finanziario o geopolitico.

Il crescente debito pubblico è quindi attribuibile alle spese, che dovrebbero crescere più rapidamente delle entrate. Per il prossimo decennio si ipotizza che solo tre categorie di spesa cresceranno: previdenza sociale, Medicare (assistenza sanitaria) e pagamenti degli interessi sul debito ,che, si stima, supereranno il bilancio della difesa già quest’anno. Per tutto il resto, dall’esercito all’istruzione, dalla ricerca scientifica ai parchi nazionali e alle infrastrutture, le spese governative dovrebbero diminuire.

E’ perciò evidente che i tagli delle tasse sono soltanto delle mere promesse elettorali o tentativi di “comprare “ temporaneamente il consenso di segmenti prescelti della popolazione. Qualsiasi governo americano, così come ogni altro governo del mondo, sarà di fronte a un grande dilemma: tagli, soprattutto delle spese sociali, nel tentativo di ridurre gli squilibri di bilancio o continuare con la politica dei deficit crescenti e quindi con l’aumento dell’indebitamento?

Un deficit in forte espansione, però, potrebbe portare a una brusca crescita dell’inflazione, spingendo la Federal Reserve ad aumentare i tassi di interesse. Con ovvi effetti negativi sulla tenuta del dollaro come moneta di riferimento globale.

Secondo il Cbo ogni dollaro di aumento del deficit federale riduce gli investimenti privati ​​di circa 33 centesimi. Ciò comporta un minore stock di capitale disponibile, incidendo negativamente anche sui salari e sull’occupazione.

Per evitare effetti destabilizzanti dei tagli di bilancio gli Usa hanno una sola la strada, definire una grande riforma interna e internazionale del sistema finanziario, liberato dalla speculazione.

Servirà inevitabilmente tornare a favorire lo sviluppo dei settori, quelli tradizionali e quelli innovativi, dell’economia reale, attraverso il rilancio delle strutture moderne del credito produttivo. Sono politiche che in passato furono già sperimentate con successo dai padri fondatori degli Stati Uniti. Si tratta di produrre maggiore ricchezza negli Usa e nel mondo, mirata ai bisogni moderni delle popolazioni e alle sfide tecnologiche. Non alle guerre che distruggono ricchezza oltre che vite umane.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Assemblea Generale dell’Onu: i paesi in via di sviluppo per una riforma della governance e dell’architettura finanziaria globale


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi**

In un momento di grave crisi nei rapporti internazionali la 79.ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite di fine settembre a New York si è, inevitabilmente, concentrata sui crescenti rischi di escalation militare, soprattutto nella regione mediorientale e in Ucraina, e di una guerra globale.

Nel contesto dell’Assemblea annuale si è tenuto per la prima volta anche un summit dei paesi del G20. Insieme ai tanti appelli per un auspicabile processo di pace, i paesi emergenti si sono fatti promotori anche di un forte multilateralismo, di una profonda revisione dell’assetto delle Nazioni Unite, in particolare del Consiglio di sicurezza., e di una riforma dell’architettura economica, finanziaria e commerciale globale.
Al riguardo si sono pronunciati Brasile, India e Sudafrica, tre membri fondatori dei BRICS. E’ il caso di non ignorarlo perché è in discussione l’assetto di un nuovo ordine mondiale multilaterale e multipolare.
Lula da Silva, il presidente del Brasile, attuale detentore della presidenza del G20, è stato il più chiaro. “Non siamo stati capaci di rispondere alle crisi globali perché abbiamo scambiato il multilateralismo con le azioni unilaterali e con accordi di esclusione”, ha affermato. In questo modo le istituzioni multilaterali hanno perso la loro credibilità.

“Se i paesi ricchi desiderano avere il sostegno del mondo in via di sviluppo per affrontare le molteplici crisi del nostro tempo, il Sud del mondo deve essere pienamente rappresentato nei principali forum decisionali”, e ha aggiunto che “la prima area di attenzione è eliminare il carattere fortemente regressivo dell’architettura finanziaria internazionale.”.
I tassi d’interesse imposti ai paesi del Sud del mondo sono molto più alti di quelli applicati alle nazioni sviluppate. I paesi africani prendono in prestito a tassi fino a otto volte superiori a quelli della Germania e quattro volte superiori a quelli degli Stati Uniti, ha sottolineato Lula..
Il livello di debito, che colpisce gravemente alcuni paesi emergenti, strangola qualsiasi investimento in infrastrutture, benessere e sostenibilità. Nel 2022, la differenza tra gli importi pagati dal mondo in via di sviluppo ai creditori esteri e quelli ricevuti è stata di 49 miliardi di dollari.

“È un piano Marshall al contrario, in cui i più poveri finanziano i più ricchi”, ha sentenziato il presidente brasiliano.
Senza una maggiore partecipazione dei paesi in via di sviluppo alla gestione del Fmi e della Banca Mondiale, non ci sarà alcun cambiamento efficace. Mentre gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu sono in ritardo, le 150 più grandi aziende del mondo hanno guadagnato 1.800 miliardi di dollari negli ultimi due anni. Le fortune dei primi cinque miliardari del pianeta sono più che raddoppiate dall’inizio di questo decennio, mentre il 60% dell’umanità è diventato più povero. Così ha sottolineato Lula.
In sintesi, le istituzioni di Bretton Woods ignorano le priorità e le esigenze del mondo in via di sviluppo. Esso non è rappresentato in un modo coerente con il suo attuale significato politico, economico e demografico. Purtroppo, il summit del G20, sotto le pressioni degli Usa e del resto dell’Occidente, rispetto alla riforma dell’architettura finanziaria internazionale si è limitato a “promuovere dei miglioramenti” e a “mobilitare delle possibilità finanziarie”.

Mentre la spesa militare globale è aumentata per il nono anno consecutivo, raggiungendo i 2.400 miliardi di dollari, i fondi impegnati nella lotta alla povertà sono diminuiti. Il numero di persone che soffrono la fame è aumentato di oltre 152 milioni dal 2019. Ciò significa che il 9% della popolazione mondiale, cioè 733 milioni di persone, è denutrita.
Il presidente Narendra Modi, in rappresentanza dell’India, la più grande democrazia del mondo e di 1,3 miliardi di indiani, ha sottolineato che “il successo dell’umanità risiede nella nostra forza collettiva, non nel campo di battaglia.. Le riforme delle istituzioni globali sono essenziali per la pace e lo sviluppo globale.”. Dopo aver evidenziato che l’India ha saputo portare 250 milioni di persone fuori dalla povertà, ha voluto valorizzare l’adesione permanente nel G20 dell’Unione Africana ottenuta al Summit di Nuova Delhi . Un passo importante nella riforma del sistema globale.

Dal canto suo, il presidente del Sud Africa Cyril Ramaphosa ha ribadito la centralità delle Nazioni Unite, invocando, però, una sua profonda riforma. Per esempio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, creato 78 anni fa, non è mai cambiato escludendo così l’Africa e i suoi 1,4 miliardi di abitanti dalle strutture decisionali chiave. Si ritiene che l’esclusione dell’Africa e dell’America latina sia un retaggio del dominio coloniale passato.
Dopo aver denunciato che il debito è la pietra al collo dei paesi in via di sviluppo e che il servizio del debito sta derubando i paesi di fondi tanto necessari per la sanità, l’istruzione e la spesa sociale, Ramaphosa ha detto che “ il Sudafrica sostiene l’appello del Segretario generale dell’Onu per la riforma dell’architettura finanziaria globale per consentire ai paesi di sollevarsi dalle sabbie mobili del debito.”. Nel 2025 il Sudafrica assumerà la presidenza del G20 e intende portare avanti queste istanze.

Quando l’Onu fu creato c’erano 51 paesi oggi ne fanno parte 193. Lula provocatoriamente ha così posto la sfida: “Non possiamo aspettare che accada un’altra tragedia mondiale, come la seconda guerra mondiale, e solo allora costruire una nuova governance globale sulle sue macerie”. Il futuro dipende dalla nostra capacità di trasformare le parole in azioni e il multilateralismo e la giustizia sociale e ambientale sono i pilastri portanti per costruire un mondo più equilibrato e sostenibile.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Si rafforza il rapporto tra l’Africa e la Cina

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il nono summit del Forum of Chinese-African Cooperation (FOCAC) il 4-6 settembre a Pechino ha visto la partecipazione, oltre che del presidente dell’Unione Africana, di ben 53 paesi dell’Africa.

La grande attenzione posta dalla Cina è stata evidenziata dalla presenza del presidente Xi Jinping, che ha anche incontrato privatamente moltissimi presidenti africani. Il messaggio è chiaro: il continente africano ha per la Cina una valenza strategica. Non è una sorpresa poiché Pechino ha sempre proiettato la Belt and Road Initiative (la nuova via della seta) anche verso il continente africano.

Al summit la Cina si è volutamente dichiarata parte del Sud Globale e del gruppo dei paesi in via di sviluppo. Si è posta alla pari dei paesi africani, sostenendo il principio di non interferenza e di non ingerenza nelle loro decisioni e nei loro affari interni.

Il presidente Xi ha annunciato investimenti e aiuti finanziari per 50 miliardi di dollari in tre anni nei vari i settori economici, a partire dai grandi collegamenti infrastrutturali.

La Cina non è un ente assistenziale. E’ chiaro che beneficia in termini economici dello sfruttamento delle materie prime e alimentari africane. Nel 2023 gli scambi commerciali tra Cina e Africa sono stati di 282,5 miliardi di dollari, 100 dei quali relativi all’export di merci africane. Anche l’Africa ottiene dei vantaggi attraverso la modernizzazione delle sue infrastrutture, oltre alla partecipazione a una moderna rivoluzione agro-industriale.

Il FOCAC ha dichiarato che riconosce una sola Cina. Ovviamente, ciò avrà delle ripercussioni nelle relazioni politiche internazionali.

L’analisi dei due documenti del summit, la Dichiarazione di Beijing e l’Action Plan (2025-27), adottati all’unanimità, fa comprendere le iniziative future. La Cina e i paesi dell’Africa hanno già una rete operativa con esperti, regolamenti, incontri e progetti. Qualcosa che non esiste con gli Usa e nemmeno con l’Europa. Ogni genuina azione europea, purtroppo, è sempre minata da tipici interessi del vecchio colonialismo.

Le controparti hanno indicato i propri programmi strategici: la Belt and Road per la Cina e l’Agenda 2063 dell’Unione africana, in particolare il Programme for Infrastructure Development in Africa (PIDA), anche nella prospettiva della nascente area di libero scambio senza dazi, l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA).

Nell’Action Plan sono dettagliate le numerose iniziative da portare avanti. La Cina è già coinvolta in 21 progetti di collegamenti infrastrutturali nel continente africano e nel programma “100 industrie in 1.000 villaggi”. Si inizierà una cooperazione cinese-africana in 100 università, la creazione di 25 centri di ricerca, 50 iniziative industriali con le pmi africane, 30 progetti per l’energia. La Cina si è impegnata a togliere i dazi per i prodotti importati dai Paesi africani meno sviluppati con cui ha relazioni diplomatiche.

Inoltre, si vuole estendere l’uso di due piattaforme di pagamenti internazionali, alternative allo SWIFT controllato dagli Usa: la Pan-African Payment and Seattlement System e la Cross-border Interbank Payment System (CIPS) della Cina, anche attraverso un uso crescente della moneta cinese nelle transazioni finanziarie in Africa. Si prospetta l’aumento dell’uso delle monete locali africane.
Sono mosse difensive in rapporto alle sanzioni americane che già colpiscono molti paesi del continente. Del resto il dollaro è sempre più visto come un’arma nei confronti di chi non segue i dettami di Washington.

Rispetto alla polemica sul “debt gap”, sulla dipendenza finanziaria e debitoria dei Paesi africani nei confronti della Cina, si ricordi che i prestiti concessi da Pechino dal 2000 al 2020 sono stati di circa 700 miliardi di dollari. Oggi, il 12% del totale del debito pubblico e privato africano è detenuto da creditori cinesi. E’ una cifra importante, ma non determinante una eventuale sottomissione ai voleri cinesi .

Purtroppo, in Occidente il summit FOCAC di Pechino è stato del tutto ignorato. Non è un buon segno. Invece, si dovrebbe fare di tutto affinché l’Africa non diventi, come in passato, il continente dove si combattono “guerre per procura”!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il mondo cambia. Come dimostra anche il prossimo summit dei BRICS a Kazan

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

I BRICS crescono ma i nostri media li ignorano totalmente. Non si dovrebbero sorprendere se al 16.imo vertice di Kazan, in Russia, il prossimo 22 – 24 ottobre, essi avanzassero proposte e iniziative di una valenza economica e politica tale da scuotere alle fondamenta il vecchio ordine geopolitico.

Da 8 mesi quest’anno hanno tenuto decine e decine di conferenze e incontri preparatori a livello di governi, di parlamenti e di esperti su tutti gli argomenti di interesse globale.

Uno degli argomenti affrontati, quello monetario e finanziario, merita indubbiamente una maggiore attenzione per le sue inevitabili ripercussioni geopolitiche.

Anche quando si è discusso di cooperazione energetica, tecnologica, infrastrutturale, sanitaria, educativa o culturale, è sempre emersa la centralità del futuro assetto monetario e finanziario a livello internazionale.

Affermano di voler sviluppare la cooperazione interbancaria, fornendo assistenza alla trasformazione del sistema dei pagamenti internazionali con l’uso di tecnologie finanziarie alternative, ampliando l’utilizzo delle valute nazionali dei singoli paesi BRICS nel commercio reciproco. Allo scopo i ministri delle Finanze e i governatori delle Banche Centrali sono stati incaricati di esaminare e relazionare a Kazan sull’uso delle valute locali e delle piattaforme di pagamento.

L’intento è chiaramente quello di rafforzare il proprio ruolo nel sistema monetario e finanziario internazionale, soprattutto sulle piattaforme multilaterali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fmi e la Banca mondiale. Vogliono unire gli sforzi contro la frammentazione del sistema commerciale multilaterale, contro l’aumento del protezionismo e contro l’introduzione di restrizioni commerciali unilaterali.

Secondo gli ultimi dati, il commercio reciproco tra i paesi BRICS ha raggiunto quasi
678 miliardi di dollari l’anno. Allo stesso tempo, negli ultimi 10 anni, il commercio globale è cresciuto del 3% l’anno, quello dei BRICS con il resto del mondo del 2,9% e quello all’interno del gruppo del 10,7%. Per capire il processo è più importante analizzare il tasso di crescita piuttosto che il valore globale.

Nonostante l’ostilità manifesta e crescente di un certo mondo occidentale nei confronti dei BRICS, le candidature e le adesioni da parte dei più svariati paesi stanno aumentando. Non crediamo che tutti siano “in guerra” con il cosiddetto occidente. Ciò dovrebbe far riflettere senza pregiudizio alcuno.

Una spiegazione, intelligente quanto preoccupante, la fornisce il Washington Post che, in un recente articolo, riporta che gli Usa hanno messo un terzo del mondo sotto sanzioni. Non solo, ma ben il 60% di tutti i Paesi a basso reddito. Oggi più di 15.000 sanzioni economiche sono operative!

WP rivela che non pochi esperti e funzionari di vari governi americani hanno espresso dubbi sull’effettiva efficacia delle sanzioni, ammettendo che esse sono diventate lo strumento principale, quasi automatico, della politica estera americana. Ciò, di riflesso, avrebbe indotto a sottovalutarne anche i possibili danni collaterali. Il quotidiano sostiene che si sarebbe addirittura favorita la crescita di ‘un’industria delle sanzioni’, multimiliardaria, composta di studi legali, lobbisti e consulenti che si occupano esclusivamente di queste.

Razionalmente dovremmo tutti essere d’accordo sulla necessità di rafforzare il multilateralismo per il giusto sviluppo globale, per la sicurezza e per la pace. Perciò noi ancora ci chiediamo perché i paesi europei e l’Ue non vogliono seguire un percorso autonomo, facendo così anzitutto il proprio interesse.

Al riguardo, significativo è il pensiero del nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che, in occasione della sua recente visita al Centro Brasiliano per le Relazioni Internazionali (CEBRI) di Rio de Janeiro, in Brasile, il paese che nel 2024 detiene la presidenza del G20 e che nel 2025 avrà quella dei BRICS , ha sostenuto che siamo di fronte a grandi sfide globali “che riguardano tutti, che coinvolgono il concetto – usato talvolta in modo vago – di ‘Occidente’, tanto quanto il concetto, definito talora in maniera strumentale – di Sud Globale. Questo è un tempo che richiede dialogo e confronto.”.

Ricordando, inoltre, la vocazione inclusiva della politica estera italiana, ha evidenziato “la necessità di un multilateralismo in cui i paesi del Sud Globale possano esprimere con efficacia la loro voce protagonista e il loro peso.”. Questa anche a noi sembra la strada più sicura per lo sviluppo e per la pace nel mondo.

*già sottosegretario all’Economia **economista