Debora Petrina, danza al pianoforte, insieme

Me l’aveva preannunciato ma mi sarebbe molto piaciuto vederla in azione per crederci: riuscire a suonare il pianoforte e cantare, allo stesso tempo senza rinunciare alla danza, altra sua grande passione. Un’insolita coreografia che non la stacchi dalla tastiera (nella prima foto di Fabio Montecchioun demi-plié à la seconde…), sperimentata in scena l’altra sera al Contemporary Jukebox sul mare di Senigallia (foto di Francesco Sardella). Con sé «un pianoforte10410519_1047740508575056_9166588250620663103_n, delle biglie di vetro, un e-bow, 7 bulloni, un campanello, 2 strisce di Patafix e un rotolo di Pattex (tutta roba legale), un martello di legno, un rullante, un bicchiere, un metronomo, una teiera, un cellulare, un mini amplificatore cinese, un I-Pad pieno di lucine e piedi scalzi per saltellare qua e là» racconta . «Ho presentato “Roses of the Day” nel bel mezzo di una specie di Apocalisse: vento a 200km/h, pali di cemento a terra, scuole e bar chiusi, sabbia ovunque, e io dentro la Rotonda sul Mare (sì proprio quella della canzone!), con onde altissime contro le vetrate e vento che muggiva paurosamente». Il suo ultimo disco è uscito il 14febbraio, dieci canzoni firmate da grandi nomi del jazz, del pop, del rock e della musica contemporanea dagli anni Quaranta ad oggi, non necessariamente d’amore anche se il disco è in vendita dal giorno di San Valentino. Tutt’al più potrebbe essere un omaggio galante dalle donne, visto che è una donna ad inaugurare “Tǔk voice”, una nuova sezione dell’etichetta discografica di Paolo Fresu“Tǔk Music”, dedicata alle voci. La frequentazione tra il celebre trombettista e la compositrice e pianista padovana va avanti da qualche anno: «Mi ha invitata nel 2013 al suo festiva10986881_1052066154809158_127322650530425385_nl “Time in jazz” con due diverse formazioni – racconta Debora – abbiamo anche suonato insieme dal vivo un paio di pezzi, e da allora siamo ottimi amici». La scelta di proporre in “Roses of the day” soltanto cover viene dagli esordi, quando si cimentava con musiche altrui prima di passare alla composizione, ma le sue versioni sono volutamente molto distanti dalle originali. Spazia da “River man” di Nick Drake a ”Ghosts” di David Sylvian, da “Burning down the house” dei Talking Haeds a “Light my fire” dei Doors, da ”Ha tutte le carte in regola” di Piero Ciampi a “Sweet dreams” degli Eurythmics e a “Angel eyes” di Matt Dennis, memorabile la versione di Chet Baker. Il disco si apre e si chiude con due piccole perle: “Only” dell’amatissimo Morton Feldman e “Can you follow?” di Jack Bruce. La canzone che dà il titolo all’album riprende l’ultimo verso di una straordinaria poesia di Cummings, “It is at moment after I have dreamed”, escluso dalla composizione di John Cage per voce sola intitolata “Experiences n.2”. «Dalle edizioni Peters di New York ho avuto l’autorizzazione a depositare il brano con il mio nome accanto a quello di Cage – racconta entusiasta – non solo, stanno dando alle stampe la partitura. Una collaborazione postuma alquanto singolare, credo piacerebbe molto a Cage…».

 

Norah+Billie Joe, country soporifero

Dio benedica l’ascolto in streaming, altrimenti quanti soldi buttati via per comprare cd destinati al secco non riciclabile (fanno danno anche quando te ne liberi)! Perché ancora ci casco, e ogni tanto mi lascio tentare dalle segnalazioni a tutta pagina di scemate spacciate per capolavori o per chicche da amatori. Leggo ad esempio del disco sfornato dall’inedita accoppiata Norah Jones e Billie Joe Armstrong: “che delizia!” Macchè….palle! Una sfilzata inesauribile di ballate country che dovrebbero fare tanto cool…e invece sono solo banali. Tanto vale ascoltare il meglio del nazionalpopolare di casa nostra: viva Casadei!

Vent’anni di controcultura sorseggiando una tazza di tè

Sottoculture metropolitane a Padova negli ultimi vent’anni: se ne parlerà domenica3 dicembre alle 16 al circolo “Mela di Newton” in via Della Paglia, all’ombra della Specola,  in un’inusuale tavola rotonda con tè e biscotti. Interverranno per chiacchierare di punk, metal, goth, glam, skin, rockabilly e altro ancora Mara Persello dell’Università di Potsdam, Heman Zed scrittore, Scar Firstblackpope punk, Fulvio Tagliaferri dj radiofonico, organizzatore di concerti e musicista, Nicola Genovese artista, Simon Dredo rocker  e Caterina Cisotto giornalista. Obbligatorio portare una tazza per il tè. Per ulteriori informazioni sull’incontro telefonare a Macho
3403031736.

Costello + Roots, ben ritrovato!

Finalmente Elvis Costello abbandona il country e (almeno musicalmente parlando) quella scosciata di sua moglie per regalarci un disco stupendo, in accoppiata con i Roots. L’idea sarebbe nata da un incontro durante una trasmissione televisiva (sai cosa potrebbe mai succedere alla Rai o su Mediaset….), alcuni critici sottolineano che si sente troppo il distacco tra l’uno e gli altri, che manca una fusione che dia vita ad una musica “altra”, ma va bene così. Da aggiungere che le autocitazioni di Elvis non mancano: si potrebbe lanciare una sfida online a chi ne azzecca di più!

Musicassetta n.1: Adrian Belew, un re della chitarra e della voce

Tutto quadra: Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads,  King Crimson, Nine Inch Nails, tutti questi miei adorati musicisti hanno avuto a che fare con Adrian Belew. L’ho risentito, e riamato all’istante,  nell’auto di mia mamma. Non ha il lettore cd, ma il mangiacassette! Così ho preso dall’unico scaffale/reliquiario rimasto in casa un paio di cassette, primo felice esperimento di spaccio pirata tra amici (non virtuali), tra cui quella con “Three of a perfect pair” dei King Crimson.  “Model man”, che meraviglia! “Take me as I am”: oh, yeah!! Si sentiva pure meglio che in mp3. Da qualche parte devo avere sempre in cassetta anche “Young lions”: che brividi la sussurrata “Phone call from the moon” in “one long lonely night, you know what I mean…”. Ho guardato sul web cosa sta facendo Belew, è in vacanza alle Bahamas, ma continua a suonare. A luglio è fallito il tentativo di tornare a lavorare con i NIN: posso facilmente capire,  un capolavoro come “The downward spiral” è irripetibile e Trent farebbe meglio ormai a dedicarsi alle colonne sonore.

Ascolto il nuovo Yorke e mi mancano gli Orbital di vent’anni (!!!) fa

Ascolto ancora con piacere il primo album solo di Thom Yorke, “The eraser”, anche se è del 2006, mi entusiasma meno il suo nuovo lavoro con gli Atoms for Peace, che mi hanno fatto venire in mente – ma non perchè ci assomigliano  – gli Orbital e certa dance elettronica degli anni Novanta.  Mi mancano, tanto: la mia preferita? “Choice” tra le tante. Che forza!

Centro d’Arte, due date uniche in Italia: tocca andare a Padova

Chi è un appassionato di musica da camera del terzo millennio, magari legata all’improvvisazione jazz, non dovrebbe lasciarsi scappare l’unica data italiana proposta dalla rassegna “Ostinati!” a Padova. Il Centro d’Arte (degli studenti dell’Università, latitanti tra il pubblico) organizza la sera del 19 marzo nella sala affrescata dei Giganti al Liviano (piazza Capitaniato, in pieno centro storico) un doppio concerto acustico. In scena il clarinettista e sassofonista Ned Rothenberg, apprezzato per il suo virtuosismo non privo di feeling, e poi  il duo della pianista Myra Melford e del clarinettista Ben Goldberg, capace di fondere la precisione della classica con lo spirito creativo e soul del jazz. Io che non amo molto il clarinetto(va ancora peggio con il flauto), punterò sull’altra tappa unica per il pubblico italiano,  quella che chiuderà in bellezza “Ostinati!”: l’8 maggio Nels Cline suonerà in quartetto al cinema teatro Lux (zona Santa Croce). Sono molto curiosa di risentire il chitarrista dei Wilco in un’altra versione. Ricordo comunque che il Centro d’Arte porterà a Padova altri concerti. Venerdì 1 febbraio una quindicina di musicisti di El Gallo Rojo si alterneranno sul palco per festeggiare il cinquantesimo titolo del catalogo discografico del fulmicotonico collettivo. Il 6 febbraio arriverà dagli States il sassofonista Darius Jones in trio, seguito il 6 marzo dal pianista italiano Claudio Cojaniz in trio. Il 12 aprile tornerà in scena l’Italia con Zeno De Rossi e il suo gruppo a formazione variabile Shtik. Il batterista, che ha suonato  sia con Vinicio Capossela che con Mike Patton, passa con disinvoltura dall’avanguardia al klezmer, dal pop al rock, dal jazz classico al lounge. Per ulteriori informazioni consultate il sito www.centrodarte.it.

PFM si diventa, il nuovo libro di Renzo Stefanel dai Quelli a “Storia di un minuto”

Non sono mai stata un’appassionata del progressive, ma segnalo ugualmente, e volentieri, perché ricco di curiosità il terzo libro di Renzo Stefanel, “Storia di un minuto”, scritto a quattro mani con il collega Antonio Oleari. «Io mi sono dedicato alle interviste, una trentina – racconta Renzo, collaboratore ormai storico del Gazzettino e di rock.it – ho sentito quelli che lavoravano nell’ambiente della musica italiana dell’epoca, da paroliere Mogol al discografico Sandro Colombini, ai proprietari dei locali dove i Quelli prima e la Pfm poi suonavano a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Ne esce una ricostruzione storica senza imprecisioni, e dunque con grosse, succose novità per i fans».

La cronologia  della nascita dell’unico gruppo rock e prog italiano ad essere ancora noto all’estero, corretta e definitiva, chiarisce ad esempio l’esperienza dei Krel: «Finora si pensava fossero una formazione intermedia tra i Quelli e la Pfm, mentre il loro 45 giri e la loro cover di “Pà diglielo a mà” di un certo  Rosalino Cellamare,  uscita in una compilation sanremese, furono seguite da un altro 45 giri dei Quelli, che tutti davano per precedente».  Stefanel e Oleari seguono il quintetto composto da Franz Di Cioccio batteria e voce, Franco Mussida chitarra e voce, Mauro Pagani flauto, violino e voce, Giorgio Piazza basso e Flavio Premoli tastiere e voce, tutti intervistati nei mesi scorsi, dalle prove nei locali del bresciano e del bergamasco all’uscita del loro primo, mitico disco, “Storia di un minuto”, ripubblicato rimasterizzato in questi giorni in un set con “Per un amico” e un terzo cd con rarità dal vivo. «La Pfm ebbe piena libertà compositiva dalla Numero Uno, che puntò sulle potenzialità della band dopo la sua vittoria nel 1971 al festival di Viareggio, nonostante non avesse ancora un’incisione all’attivo. Il primo 45 giri aveva “La carrozza di Hans”, con il testo cambiato rispetto alla precedente versione dal vivo, sul lato A e “Impressioni di settembre” su quello B. Fu il primo gruppo, pur senza frontman,  a conquistare la posizione numero 1 della hit parade italiana, fino ad allora riservato ad un cantante o cantautore singolo». Renzo mi raccontava anche la partecipazione della neonata Pfm alla contro Canzonissima al Piper di Roma: otto a salire sul palco nel gennaio del 1972, tra cui Guccini, i Delirium, The trip, le Orme. Non è riuscito invece a confermare una mia impressione (non di settembre): ovvero che il prog sia più amato dai maschi che alle femmine. Mi ha però suggerito che forse è perché era una musica  molto legata alla perizia tecnica e al virtuosismo, cerebrale più che di pancia insomma…

Wilco dal vivo, che gusto, mentre i Kasabian…..una delusione

Cos’hanno in comune Kasabian e Wilco? Per me, solo il posto dove li ho sentiti dal vivo, a qualche mese l’uno dall’altro, perché tanto gli inglesi sono rompitimpani e inconcludenti quanto gli americani ci vanno piano con il volume, ma forte con l’improvvisazione e i cambi di rotta. I decibel non mancano a nessuno dei due, e io certo non mi tiro indietro, ma quando il suono è così alto da diventare un magma indistinto volutamente caotico mi puzza tanto di “facciamo casino così non si sente se qualcosa non va”. E non si può dare la colpa, almeno stavolta, al palatenda che li ha ospitati, visto che i Wilco si sentivano da dio anche quando pestavano duro. Insomma, amplificazione a parte, i Kasabian non mi hanno convinto per niente, tant’è che dopo tre canzoni me ne sono andata via, annoiata, niente di nuovo né di meglio rispetto ai dischi, mentre con la band di Chicago, che spasso! Imprevedibili, coinvolgenti anche senza far tanto i gigioni con il pubblico (anzi, Jeff Tweedy è proprio un orso, al massimo si toglie ogni tanto il cappello o ringrazia), tutto arrosto e poco fumo (bella l’idea dei paralumi da abatjour che scendono dall’alto). Il contrario dei Kasabian, una valanga frastornante di luci ed effetti speciali inspiegabilmente interrotta da lunghe pause, buio e silenzio totali tra una canzone e l’altra, così se mai si creava una tensione positiva con il pubblico, ogni quattro, cinque minuti te la smorzavano sul nascere. I fans però non si sono lamentati, quando mai? E’ da anni che non sento uno spettatore che protesta, a teatro o a un concerto, anche se lo spettacolo fa pena. Quasi che il fatto stesso di aver acquistato il biglietto assicuri la buona qualità di quanto si va a sentire e vedere. Altrimenti forse ci si sente, oltre che delusi, anche fessi.

Ferragosto con Tom, cattivo come me anche se una volta l’anno ricamo

L’avevo con me dall’autunno scorso, ma mai c’era stata la voglia di ascoltarlo. Ero stufa di quella voce troppo rantolante, riuscivo a sopportarla ormai solo nella fonderia di “Robots”. Ho ritirato fuori “Bad as me” di Tom Waits oggi, ferragosto in città  afoso più che mai, unica compagnia tollerata sul divano a parte l’aria condizionata a manetta. Poco importa se canta di foglie morte e capodanno, e ancora meno se ha dovuto aspettare così tanti mesi, anzi meglio così: tutto il disco (si dice ancora così? e album?) suona da Dio, non a caso suonano con lui Keith Richards, Marc Ribot, David Hidalgo e Charlie Musselwhite, la voce si è schiarita dal troppo catarro, ed è perfetto mentre ricamo foglie (vive anche se per finta). Con Tom le spiagge, le autostrade, il sudore,  tutto quanto puzza di ferie d’agosto è lontano, lontanissimo. Perfetto.

“IO VOTO”, scrivilo in un bicchiere d’acqua e poi fallo!

Un bicchiere d’acqua per brindare al diritto/dovere di votare per i prossimi quattro referendum. L’idea è di Società per Azioni, un gruppo di padovani nato dai “rEsistenti” – teatranti, musicisti, danzatori, scrittori, artisti contro i tagli alla cultura – e ampliato con l’adesione di alcuni insegnanti e un falegname. L’invito, che conta sul tam-tam inarrestabile del web, è di smuovere l’indifferenza, frutto di un’informazione scadente se non addirittura scorretta e dalla dilagante sfiducia nei confronti della politica. “La nostra proposta, che abbiamo chiamato Azione#2, è un’iniziativa di promozione dei referendum, non di propaganda elettorale – puntualizzano quelli della Società – Vogliamo porre l’attenzione su uno strumento di democrazia che purtroppo è stato svilito per meri calcoli di parte. Pensiamo che i cittadini debbano appropriarsi della loro facoltà di decidere al di

là degli schieramenti politici e delle semplici convenienze immediate. Non diciamo ‘vota sì’ o ‘vota no’ ma semplicemente ‘io voto’. E sottolineiamo quel “io”, primo e fondamentale elemento di costruzione di una società fondata su milioni di individualità diverse, capaci di farla che vivere e sviluppare verso territori non precostituiti, non standardizzati. “Io” perché nessuno può più pensare di demandare ad altri le decisioni sulla propria vita, sulla propria felicità”. L’invito acchiappa-elettori, con tanto di istruzioni per l’uso distribuite su carta e su youtube, è quello di prendere un bicchiere di vetro, riempirlo d’acqua, metterci dentro un foglietto dove sta scritto con un pennarello indelebile  “io voto” e lasciarlo bene in vista in un punto a scelta della città. Non solo. Chi vuole completare l’azione può fotografare il suo bicchiere e inviare l’immagine a socperaz@gmail.com o postarla direttamente nella pagina su facebook http://www.facebook.com/event.php?eid=204621199573218. Fondamentale per la buona riuscita di Azione#2 è il passaparola, forse verranno coinvolti anche alcuni negozi della città, pronti ad esporre i bicchieri pro-voto nelle loro vetrine.  Per dare maggiore visibilità all’azione, l’attrice e fotografa Claudia Fabris sfrutta il suo collaudato mestiere di costumista teatrale  indossando in questi giorni fantasiosi vestiti cuciti utilizzando gli striscioni dei diversi comitati per i referendum. L’evento clou è atteso per la sera del 10 giugno dalle 21.30, quando ben 600 bicchieri con “Io voto” verranno messi attorno alla fontana in piazza delle Erbe in pieno centro storico a Padova, alcuni illuminati da una candelina. L’azione numero 1 della “Società” , sempre nel segno della creatività, è legata invece alla manifestazione per lo sciopero nazionale della Cgil del 6 maggio.Che fossero tosti e determinati, lo si è capito dal successo della loro manifestazione di piazza contro i tagli governativi alla cultura. I “rEsistenti”, chiamati a raccolta da un manipolo di teatranti padovani appunto per resistere appunto alla mancanza di una politica per la cultura e lo spettacolo, il 27 marzo riuscirono a portare in piazza non solo addetti ai lavoro – attori, registi, critici, danzatrici, musicisti – ma anche chi sta dietro le quinte – scenografi, sceneggiatori, tecnici – e tantissimi simpatizzanti. Tutti uniti nell’alzare la testa e la voce,  nonostante in tante altre città italiane, alla notizia da Roma del reintegro del maltolto in cambio di un aumento dell’accisa sui carburanti, cortei e sit-in fossero stati all’ultimo momento sospesi. I “rEsistenti” sono nati però ancora prima, attorno al blog wwwww…., per stringersi attorno al Tam Teatromusica e alla soppressione per volere della Regione veneta del loro pluriennale laboratorio teatrale nel carcere Due Palazzi.

Intervista a Marco Mancassola, in attesa di un’immensa immensità

E’ di Carla Bruni, Janis Joplin, Nirvana la colonna sonora dell’ultimo libro di Marco Mancassola, “Non saremo confusi per sempre”, edito da Einaudi per i suoi Coralli. La musica nei romanzi di Marco non manca mai, diventa persino uno dei protagonisti in “Last love parade – storia della cultura dance, della musica elettronica e dei miei anni”, e nei tour di presentazione dei suoi lavori nelle librerie ama accostare il reading ai dj-set o al live. Per questa raccolta di racconti si fa accompagnare da Cristian e Patrick Altieri o da Sergio Bertin. In “Non saremo confusi per sempre”  racconta, a modo suo ma fedele alla cronaca, cinque storie di morte: quella di Dirk ucciso dal fucile di Vittorio Emanuele di Savoia, di Alfredino inghiottito da un pozzo, di Eluana strappata alla non-vita da un padre amorevole, di Federico pestato dalla polizia e di Giuseppe sciolto nell’acido per vendetta. Ogni storia di sangue e morte si intreccia nel libro con una storia di vita, popolata da personaggi di fantasia: una troupe teatrale, una sedicenne incinta, una compagna di scuola innamorata, un gruppo di fantasmi o i protagonisti inventati da Verne per il suo “Viaggio al centro della terra”. E’ nato così un libro struggente, crudo e delicato, com’è nel suo stile, pur andando dritto al centro delle cose,  non brutalmente ma con pietas.
Sul perché hai scelto queste cinque storie vere lo dici nel libro- “a lungo mi hanno suggestionato” – pur essendo molto diverse tra loro. C’è un qualcosa di particolare che le accomuna?

Tutte hanno una vittima giovane, una sorta quasi di vittima sacrificale. Ma nel libro provo anche a dare a questa storie un’altra versione. A incrociarle con vicende di segno diverso.

Sono storie che tutti conosciamo, eppure nel riscriverle tu le rianimi, le rendi avvincenti, e commoventi, incredibili, come se fosse la prima volta che ne sentiamo parlare….le hai rivissute anche tu mentre ce le raccontavi?

Un paio, ad esempio la vicenda dell’Isola di Cavallo, inizialmente le conoscevo solo in modo vago, nei loro contorni. Le altre le conoscevo benissimo, certo, come le conosceranno anche i lettori. Eppure a ripercorrerle erano sconvolgenti, nuove. Strano incantesimo eterno del raccontare storie. Sappiamo tutti come finirà, eppure la storia non smette di vibrare.

Non hai mai temuto di ferire, ovviamente senza volerlo, le persone più vicine alle vittime, che forse speravano di non avere più l’attenzione dei mass media puntata addosso?

Ho avuto questo timore. È ovvio che questo libro nasce da un grande atto di presunzione, la presunzione che, mentre la cronaca urlata dai telegiornali finisce puntualmente per avvelenare, la letteratura possa essere invece, ancora, un balsamo benigno. La presunzione insomma che la letteratura sia qualcosa che faccia bene: una dimensione di amore per i personaggi di cui tratta. Grande presunzione, lo so. Ma è quella che mi fa scrivere.

Le tue storie/movimenti cercano di dare un senso a morti così insensate?

Cercano di offrire un piccola apertura, una possibilità in più a quelle vicende che sembrano chiuse per sempre, invece, nel recinto stretto della cronaca. La cronaca è claustrofobia, la letteratura è apertura. Ad esempio, accanto alla nota vicenda di una donna in coma che aspetta di potersene andare ho raccontato la storia, intrecciata, di una ragazzina memorabile, una giovanissima cantante folk, vitale, ironica, che è incinta e aspetta di partorire. Si è trattato di immaginare, insomma, che la storia di cronaca tristemente famosa non sia qualcosa di cristallizzato, di finito, ma piuttosto qualcosa di infinito, di fluido, che si lega ad altre storie, anche storie di vita, di nascita, di stagioni che continuano.

Nonostante temi così impegnativi, il libro mantiene una sua leggerezza.

Volevo mantenere qualche tocco di humour, e una luminosità che fosse in grado di riverberare in ogni pagina. Non mi interessa più fare libri cupi. Ne ho scritti un paio in passato, abbastanza.

E’ casuale che tu abbia voluto raccontare due storie di brutale violenza per mano di chi sta dalla parte del bene (polizia) e del male (mafia?)

Non intendevo creare questa corrispondenza: mafiosi assassini, poliziotti assassini. I mafiosi assassini sono la norma, i poliziotti assassini sono eccezioni. Anche se è evidente che in Italia c’è un problema di cultura dei diritti umani tra le forze dell’ordine: chi ha tenuto gli occhi aperti sulla cronaca conosce il numero di pestaggi, morti sospette in carcere, abusi di potere degli ultimi anni. Gli abusi delle forze dell’ordine sono diventati ormai un genere di cronaca a sé, sempre più presente nelle rassegne stampa. E d’altro canto, in un paese dove l’emergenza democratica è a tutti i livelli, sarebbe ingenuo aspettarsi che le forze dell’ordine facciano eccezione.

Credi nell’ineluttabilità del destino? Che ognuno di noi abbia già scritta la data della sua morte?

No, credo che il destino sia qualcosa di più complesso e al tempo stesso più semplice. Ma non saprei come spiegarlo.

In due storie le vittime continuano a rimanere tra i vivi: fino a quando trovano “pace”? Mi viene in mente il ,film “Amabili resti”..

“Amabili resti” è stato uno dei riferimenti a cui pensavo scrivendo questo libro. La ricerca di “pace” accomuna i vivi e i non più vivi e significa sostanzialmente trovare un nuovo passaggio, una nuova porta, un varco, un modo per andare avanti, altrove, in una realtà sempre più stretta e ossessiva.

I morti non sono tali finché restano nei ricordi dei vivi?

I morti non sono tali, nel senso che non riescono ad andarsene altrove, qualunque sia il loro altrove, perché ormai l’incertezza di tutto e di tutti è un dato così pervasivo, così strutturale intorno a noi, da estendersi persino al piano metafisico. Ecco l’umanità precaria e disorientata del ventunesimo secolo: è come se qualcuno ci avesse bendati e fatti girare su noi stessi così tante, così tante, così tante volte che non abbiamo più idea della direzione, del sopra e del sotto e del prima e del dopo. Dove andiamo adesso? E perché illuderci che, anche dopo morti, sapremmo dove andare? Ma poi, ogni tanto, all’improvviso, come un lampo nel buio, qualcuno ancora ci sorride e ci promette che non saremo confusi per sempre. Prima o dopo capiremo dove andare. Succede nel mio libro, succede nella vita.

Un caso come quello di Eluana ha riacceso il dibattito sul testamento biologico: tu che ne pensi?

Penso che vorrei fare il mio testamento biologico e che sia rispettato. Ma più ancora penso che, nel momento in cui non fossi in grado di decidere o di manifestare la mia decisione, vorrei che chi mi ama abbastanza da prendere decisioni sulla mia vita abbia il diritto di farlo. Comprese le decisioni più estreme. Un diritto terribile ma pur sempre d’amore.

Quand’eri ragazzo è morta una persona a te molto cara: quanto ti ha segnato, nella vita e nella scrittura?
Mi ha costretto a sentirmi più nudo davanti alla vita, un po’ in anticipo rispetto alla media delle persone.

La cronaca ci regala sempre nuovi morti di cui (s)parlare, vedi Sarah o Yara: credi che ci sia una soglia di pudore, di rispetto oltre il quale giornali e tivù non devono andare?

I media trasformano le vittime in icone pop. Nuovi capitoli nell’inesausta economia dello spettacolo. L’informazione è un bene comune, si preoccupa di condividere i fatti, lo spettacolo segue logiche più oblique, più perverse, più private: serve a fare audience, che non significa condividere i fatti ma creare intorno a essi il valore aggiunto più facile e immediato possibile. Voglio dire che in un’epoca in cui tutto diventa privato, al servizio di qualcuno o di qualcosa, è inevitabile che l’informazione diventi spettacolo. Il pudore è la prima vittima di questo processo.

La morte fa parte della vita? perchè invece oggi è un tabù che terrorizza? gli stessi cattolici, che credono sia solo un passaggio verso miglior vita, non riescono ad affrontarla (vedi Eluana)… eppure tu sai trasformarla persino in una dolcissima fiaba (laica)

Una fiaba dolcissima, sì, credo sia quello che ho cercato di fare. Crudele e dolcissima. La morte è una sfida che richiede maturità all’individuo adulto e maturità alla comunità che si trova a rielaborare la morte di un individuo giovane… Peccato che oggi non sappiamo più bene cos’è un adulto e nemmeno cos’è una comunità. La morte non si può esorcizzare da soli. Forse per questo ha ancora senso che la letteratura se ne occupi.

Per te, dopo la morte c’è un’immensità che non conosciamo o il nulla?

Non ho dubbi, un’immensa immensità! Anche se quella frase, “davanti a me un’immensità che ancora non conoscevo”, nel libro è pronunciata da un personaggio vivo e vegeto, un’altra ragazza, che a causa del terrificante caso mafioso  che coinvolge un suo compagno di classe, vive un’adolescenza a sua volta durissima. Ma poi in un certo modo rinasce. Nel suo caso, l’immensità è quella di una vita ancora tutta da sperimentare, tutta sconosciuta.

Kneebody, il jazz antisonno dagli States parla italiano

E’ come quando vado  al cinema. Cerco di non leggere le recensioni, preferisco non sapere nulla del film per godermi la sorpresa senza alcuna aspettativa o sospetto, o beccarmi una delusione senza dover dare la colpa a qualcuno. Per i concerti organizzati dal Centro d’Arte degli studenti dell’Università di Padova (la direzione artistica però è ben fuori corso, Stefano Merighi e Veniero Rizzardi hanno superato la cinquantina…) è lo stesso rassicurante quanto elettrizzante approccio. Non so volutamente nulla di chi sale sul palco – e molto spesso è così perché si tratta di novità inedite tutte da scoprire – ma so che non resterò delusa. Tutta ‘sta manfrina introduttiva è per dirvi che anche l’ultimo  concerto della rassegna “Ostinati!” con i Kneebody, a me sconosciuti, è stato un gran bel gusto. Sono in cinque, vivono e suonano tra Los Angeles e New York. Hanno 34 anni o giù di lì ma stanno insieme almeno da dieci (erano compagni di scuola)  e si sente. Compatti, belli, divertiti e divertenti, nessun leader, né i soliti prevedibili susseguirsi di assoli. Jazz si fa per dire, verso l’infinito e oltre, elettrico e pulsante, che poi non ti fa dormire. Il bassista Kaveh Rastegar parla benissimo in italiano (l’ha reclutato nella sua band Ligabue, sic, beato lui), e chiacchiera sempre con il pubblico tra un brano e l’altro. Insomma, il contrario dai jazzisti introversi color marrone triste. Tutti e cinque compongono e tutti suonano con altre formazioni Usa, jazz e più raramente pop. Restano ancora in Italia per qualche giorno: non perdeteveli, il 21 marzo a Modena e il 22 a Castelverde.

Pj e Rumer, God bless England e le sue ladies

“Let shake England”, ultimo disco di Pj Harvey: ho aspettato un bel po’ prima di trovare il momento giusto,  la voglia di ascoltarlo. Non mi andava di risentire miagolii e quel maledetto piano da saloon (White chalk) e neppure una manciata di canzoni inutili come quelle incise con Parish. Ma tanta attesa è stata ricompensata. Alcuni pezzi sono davvero belli, uno su tutti “Written on the forehead”. Da risentire dal vivo il 6 luglio a Ferrara. Non c’è solo chitarra + basso + batteria, ma anche strumenti tradizionali come l’autoharp (una specie di salterio) e sample (dalla tromba nordista di “arrivano i nostri” al r’n’r di “Summertime blues” di Cochran, dal reggae di “Blood and fire” di Niney the Observer al folk curdo). La furia introspettiva ha lasciato il posto ad un abbraccio che dalla sua terra comprende tutto il mondo. Ovunque la guerra abbia lasciato il segno. Ma stavolta tirare in ballo Patty Smith (magari con il suo “people”) non regge. On line Pj sta mandando in visione un cortometraggio per canzone, con foto e riprese di Seamus Murphy in viaggio per tutta l’Inghilterra: è lei la protagonista del disco. Viene dall’oltremanica anche un’altra musicista, non più giovinetta (annata 1979, dieci anni dopo Pj) al suo debutto con il nome di Rumer. “Season of my soul” è liscio, pulito, rilassato, ben orchestrato (Bacarach insegna). Non c’è niente di ammiccante, di esasperato, anche il look è quanto mai semplice. E forse sta proprio in questa sua vena naturalmente “slow” (guarda caso così si intitola il primo singolo) la sua forza.