La grande corruzione in Ucraina in un documento della Corte dei Conti europea

1. Introduzione alla corruzione ucraina

Esiste una “relazione speciale” del settembre 2021 scritta dalla Corte di Conti europea, avente per titolo: “Ridurre la grande corruzione in Ucraina: diverse iniziative UE, ma risultati ancora insufficienti” (Special Report 23/2021: Reducing grand corruption in Ukraine).

Viene detto che l’Ucraina è un partner geopolitico e strategico per la UE. È uno dei maggiori Paesi dell’Europa in termini geografici e demografici ed è anche uno dei vicini immediatamente confinanti.

Cioè si fa capire che sarebbe un vantaggio per la UE averla al proprio interno. Cosa che si cerca di fare dal 2003. Si dà ovviamente per scontato che abbia molte risorse naturali appetibili.

I rapporti commerciali hanno iniziato alla grande nel 2007, nell’ambito del Deep and Comprehensive Free-Trade Area, ma sono stati interrotti da Yanukovich nel 2013 (che ha preferito – aggiungiamo noi – fare affari con la Russia, ritenendo troppo onerosi quelli col FMI). Tale svolta ha scatenato la rivoluzione di Euromaidan del 2014, dopodiché i suddetti rapporti sono stati ripresi.

Chiaro il ragionamento? Non si è trattato di un “golpe” ma di una “rivoluzione”, che è stata fatta giustamente per ribadire l’intenzione dell’Ucraina di entrare nella UE. I neonazisti non c’entrano niente, e neppure le manovre degli americani.

E ora viene il bello. Nel 2014 la Russia ha annesso la Crimea e Sebastopoli e nell’Ucraina orientale ha avuto inizio un conflitto armato. Di conseguenza la UE ha adottato misure restrittive contro i responsabili di azioni volte a compromettere l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina.

Chiaro il concetto? La Russia ha “annesso” la Crimea, non è stata questa che con un referendum ha chiesto di staccarsi dal governo neonazista di Kiev e di passare sotto la Russia. Di conseguenza la guerra tra Kiev e le due repubbliche del Donbass è stata scatenata dalla Russia.

2. I motivi della corruzione

L’Ucraina ha un lungo passato di corruzione (iniziata prima del 2014) e si trova ad affrontare sia la piccola che la grande corruzione. La piccola corruzione è diffusa ed è accettata da gran parte della popolazione come se fosse quasi inevitabile. I cittadini spesso giustificano la loro partecipazione a questa piccola corruzione osservando che gli alti funzionari e gli oligarchi sono coinvolti nella corruzione a un livello di gran lunga superiore. Sembra che ci si riferisca all’Italia.

Come si articola questa grande corruzione? Si basa su connessioni informali tra funzionari pubblici, membri del parlamento, pubblici ministeri, giudici, autorità di contrasto, dirigenti di imprese statali e persone/imprese con legami politici. Situazione pesante, non esattamente paragonabile alla nostra.

Al vertice della grande corruzione ucraina stanno gli oligarchi, i quali: manipolano l’opinione pubblica attraverso la proprietà dei principali mezzi mediatici; influenzano a loro favore il processo legislativo tramite il finanziamento a vari partiti e a un gran numero di deputati; controllano l’amministrazione pubblica imponendo i loro candidati nei posti chiave; influenzano fortemente il sistema giudiziario, la magistratura inquirente e le autorità di contrasto; monopolizzano il mercato; esportano i loro capitali all’estero per non pagare le tasse e riciclano quelli sporchi.

Gli oligarchi hanno in mano lo Stato e non vogliono riforme contro i loro interessi. Cioè praticamente, potremmo dire, vivevano una situazione analoga a quella degli oligarchi russi al tempo di Eltsin.

La Corte dei Conti europea si duole di questa enorme e diffusa illegalità. Per motivi etici? No, semplicemente perché in una situazione del genere gli imprenditori europei non si fidano a fare investimenti in questo Paese.

3. Il ruolo dell’Unione Europea

A fronte di questa incredibile corruzione come si è comportata l’Unione Europea? Consapevole che quel Paese ha enormi risorse da sfruttare, ha fatto finta di niente e l’ha finanziato!

Siccome l’Ucraina è un Paese del partenariato orientale della UE, si è pensato di aiutarla, soprattutto dopo il 2014, in previsione di un prossimo ingresso nella stessa UE. E così la Commissione si è impegnata a versare oltre 12 miliardi di euro per vari programmi di assistenza (anche contro la corruzione), chiedendo in cambio un maggior rispetto dello Stato di diritto.

Ai neonazisti che componevano il governo e che avevano scatenato la guerra civile contro le due repubbliche del Donbass (dopo aver compiuto l’orrenda strage di Odessa), agli oligarchi che avevano in mano il Paese, la Commissione europea (presieduta prima da Barroso, poi da Juncker) chiedeva di rispettare le regole della democrazia, altrimenti il Paese non sarebbe potuto entrare nella UE.

4. Osservazioni della Corte dei Conti

La Corte dei Conti europea doveva mestamente constatare che tutti gli sforzi finanziari della UE per democratizzare l’Ucraina non erano serviti quasi a niente. Solo nel periodo 2018-20 più di 250 disegni di legge comportavano rischi di corruzione.

Cioè non era come da noi, ove vige il detto “fatta la legge, trovato l’inganno”, ma l’inganno, per non correre rischi, veniva codificato a monte. Tant’è che anche le imprese degli oligarchi soggette a rischio fallimento o al pagamento di grossi debiti pregressi beneficiavano di una moratoria praticamente illimitata.

Non solo, ma i grandi corruttori potevano circolare liberamente in Europa.

Nel 2014 lo stesso governo ucraino aveva osservato che il potere giudiziario (Corte costituzionale e Procura generale) era considerato una delle istituzioni più corrotte nel Paese (essendo totalmente subordinate a pressioni o decisioni politiche). Tuttavia lo stesso governo tendeva a far credere agli organi di controllo della UE che le riforme richieste erano state attuate a partire dal momento in cui veniva varata la legge richiesta, anche se poi la legge non veniva applicata quasi per niente sul piano amministrativo.

Un esempio eclatante del livello di corruzione è stata la dichiarazione di incostituzionalità (da parte della Corte costituzionale) di una legge del 2015 in cui si considerava reato l’arricchimento illecito. Poi però, per accontentare la UE, il parlamento ucraino approvò un nuovo disegno di legge nell’ottobre 2019 che reintrodusse la responsabilità penale per questo reato.

Un altro caso lo troviamo nella decisione della Corte costituzionale (ottobre 2020) di dichiarare incostituzionali i poteri di verifica dell’agenzia nazionale per la prevenzione della corruzione per quanto riguarda la dichiarazione della situazione patrimoniale (che se mendace andava giudicata penalmente responsabile). Poi però per soddisfare le richieste della UE il parlamento ha dovuto fare marcia indietro.

Paradossalmente non succedeva come da noi, quando la Corte costituzionale fa le pulci alle leggi del parlamento, ma, al contrario, era il parlamento, pressato dalla UE, a dover correggere l’arbitrio della Corte costituzionale.

La Commissione europea fu addirittura costretta ad annullare nel 2021 un progetto di gemellaggio con la Corte costituzionale ucraina a seguito della decisione adottata da quest’ultima nell’ottobre 2020 d’invalidare le riforme anticorruzione.

Quando la Commissione europea pretese che l’incarico di pubblico ministero fosse sottoposto a una pubblica selezione, i 1.800 che non superarono le prove fecero tutti ricorso. Questo perché veniva considerata dominante la “raccomandazione” anche per un ruolo così importante. Non a caso tra il 2016 e il 2020 il livello di fiducia nella Procura generale non superava il 20%. Ma anche la polizia nazionale e i servizi di sicurezza erano intorno a quella percentuale.

Altro paradosso: il governo aveva accettato la realizzazione di piattaforme digitali “ProZorro” e “DoZorro” per gli appalti pubblici, al fine di garantire trasparenza e monitoraggio (che peraltro non ha mai funzionato per la mancanza di controlli incrociati). Tuttavia non aveva fatto chiudere il sito dei neonazisti Myrotvorets, nato nel 2016, in cui si profilavano le persone da considerare indesiderate in quanto filorusse.

Si poteva far entrare in Europa uno Stato messo in queste condizioni? Evidentemente no, anche se la Commissione europea tendeva a minimizzare i problemi. Ora però che è stato attaccato dalla Russia, tutti i problemi sembrano essersi risolti magicamente.

5. Conclusioni della Corte dei Conti

Prima dello scoppio della guerra in Ucraina l’ente nazionale anticorruzione di quel Paese stava indagando su importanti sistemi di corruzione, come p.es. il caso di Privatbank (la più grande banca commerciale ucraina, di proprietà dell’oligarca sponsor di Zelensky, Ihor Kolomoyskyi). Tuttavia l’ente ha affermato d’essere stato a lungo ostacolato, nell’espletamento delle sue funzioni, dal servizio per la sicurezza nazionale dell’Ucraina, che vuole mantenere il controllo sulle intercettazioni e sull’accesso ai registri.

La Procura specializzata nella lotta alla corruzione, sebbene responsabile di adire la giustizia per i casi di corruzione ad alto livello, continuava a far parte della Procura generale e quindi non era del tutto indipendente. A tale proposito nel 2018 scoppiò lo scandalo delle intercettazioni, da cui emergeva che il responsabile di tale Procura specializzata avrebbe fatto pressione su pubblici ministeri e giudici.

Anche l’Alta Corte anticorruzione (nata nel 2019) era impossibilitata ad agire con sicurezza ed efficacia. Idem per l’agenzia per il recupero e la gestione dei beni, continuamente ostacolata dall’ostruzionismo delle autorità di contrasto.

La grande corruzione rimane un problema cruciale in Ucraina. La riforma giudiziaria è soggetta a battute d’arresto, le istituzioni anticorruzione sono a rischio, la fiducia in tali istituzioni rimane bassa e il numero di condanne per grande corruzione è modesto. Gli oligarchi e gli interessi costituiti in Ucraina sono la causa più profonda della corruzione e i principali ostacoli allo Stato di diritto e allo sviluppo economico del Paese.

Il Servizio europeo per l’azione esterna e la Commissione europea erano a conoscenza delle molteplici connessioni tra oligarchi, alti funzionari, governo, potere giudiziario e imprese statali, ma non hanno mai proposto alcun modello per limitare l’ingresso nella UE di cittadini ucraini sospettati di grande corruzione e impedire loro di utilizzare i propri beni nella UE. Anche se i principali documenti della UE menzionano la lotta alla corruzione, non vi è una strategia globale che affronti specificamente la grande corruzione.

Si sperava di migliorare la situazione ucraina entro la fine del 2022, ma la guerra ha dato una svolta in tutt’altra direzione. E comunque gli enti europei chiedevano insistentemente che il gran numero di imprese statali venissero privatizzate. Il che avrebbe inevitabilmente favorito proprio il sistema degli oligarchi che si voleva combattere.

Il dottor Sottile è ideologico quanto mai

Sinceramente parlando penso che il dottor Sottile non abbia capito niente dei due quesiti referendari su eutanasia e cannabis e sarebbe meglio che si dimettesse da presidente della Corte costituzionale.

Non ha capito la differenza tra droghe pesanti e droghe leggere, né quella tra uso personale e spaccio. Non ha capito che le droghe vanno legalizzate per toglierne il commercio clandestino alla criminalità organizzata. Non ha capito che se nel nostro Paese fossero legalizzate, non aumenterebbe ma diminuirebbe il loro commercio criminale nel mondo. Quindi non si violerebbe alcuna norma internazionale.

Non ha capito che il quesito referendario sulla cannabis è minimalista rispetto al vero problema della legalizzazione delle droghe. Non accettare neanche soluzioni minime vuol dire ampliare il divario tra Paese reale e Paese legale.

Non ha capito che in Italia i referendum sono solo abrogativi non propositivi, per cui devono formulare quesiti sulla base di una giurisprudenza vecchia, che non è stata rinnovata per colpa delle posizioni ideologiche dei partiti, che in parlamento non riescono a trovare alcuna soluzione ai veri problemi del Paese.

In tal senso non ha neppure capito che il referendum sull’eutanasia si riferiva ai casi disperati che non possono decidere da soli di staccare la spina che li tiene in vita.

Non ha capito che a impedire la libertà di coscienza è proprio la scienza. Non ha capito che non possiamo trasformare i nostri ospedali in lager che ti obbligano a vegetare in maniera disumana.

Il dottor Mengele si preoccupava di fare esperimenti sui detenuti dei lager nazisti. Lo faceva sfruttando la dittatura. Noi non possiamo mettere i nostri medici nelle condizioni di farlo sfruttando la democrazia.

Non ha capito che negli stati vegetativi persistenti non conta nulla essere o non essere consenzienti: la spina va staccata in ogni caso. Non ha capito che dovrebbe essere sufficiente un proprio testamento biologico per rimandare un paziente a casa e lasciarlo morire in pace.

Non ha capito che qui nessuno vuole uccidere nessuno: si vuole soltanto impedire alla medicina di torturare le persone tenendo in vita un corpo che in realtà è già morto.

Ma soprattutto il dottor Sottile non si deve permettere di insinuare che i comitati referendari promuovono dei quesiti ingannevoli. In quei comitati esistono persone altamente edotte in campo giuridico, che sanno benissimo di cosa parlano. Semmai è lui che deve chiedersi se non abbia preso in giro gli italiani. È incredibile infatti che non abbia capito che il referendum sull’eutanasia chiedeva di modificare una legge del 1930, formulata quando ancora non esistevano macchine per tenerti in coma a tempo indeterminato. Da allora ad oggi il parlamento non è stato capace di scrivere una legge sull’eutanasia attiva, semplicemente perché non riesce a togliersi di dosso il peso della cultura cattolica, che ancora considera il diritto a morire come un peccato mortale.

Il dottor Sottile avrebbe fatto meglio a dimostrare nei fatti d’essere davvero una persona laica, come si vanta di essere.

A quando il reato di ecocidio?

Una squadra di giuristi da tutto il mondo con competenze in diritto penale, ambientale e climatico, ha formulato la prima definizione legale di ecocidio, primo passo per un’introduzione del reato da parte della Corte Penale Internazionale. Se riconosciuto, si tratterà del primo crimine internazionale volto a proteggere la natura partendo da una prospettiva ecocentrica, in cui il danno agli esseri umani non è un prerequisito per il reato. Sarà il quinto crimine internazionale dopo quelli di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione stabiliti dallo Statuto di Roma della suddetta CPI.

Si è finalmente capito che non è possibile decontestualizzare gli umani dal resto del mondo vivente e non è possibile separare la nostra esistenza da quella dagli ecosistemi che ci sostengono.

Non è certo un caso che l’80% della biodiversità sia presente nei territori abitati dalle comunità indigene, dove la cosmovisione si presenta come un modello alternativo allo sviluppo delle società occidentali. Ad oggi sono 37 i Paesi nel mondo che in diverse forme hanno riconosciuto i diritti della natura e una decina di loro hanno leggi nazionali specifiche in materia di ecocidio.

Il termine ecocidio fu per la prima volta introdotto dal bioeticista e fisiologo vegetale Arthur William Galston durante la guerra in Vietnam, per protestare contro l’uso da parte delle truppe statunitensi del famigerato agente arancio, un defoliante costituito da due diversi erbicidi e contenente diossina, utilizzato per distruggere le coltivazioni, la vegetazione e le foreste nelle zone occupate dai vietcong e che ancora oggi continua ad avere gravissimi effetti sia sugli ecosistemi che su tutte le generazioni nate dopo la guerra. Tant’è che il Vietnam è stato il primo, nel 1990, a inserire nel codice penale il reato di ecocidio come crimine contro l’umanità, superando così l’approccio del tipo “chi inquina paga”, che non fa altro che legalizzare il danno ambientale regolamentando la quantità d’inquinamento nei limiti delle norme vigenti.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso l’hanno offerta, nel 2019, i piccoli Stati insulari di Vanuatu e delle Maldive, minacciati di scomparire dall’innalzamento del livello del mare.

L’iter legislativo però potrebbe durare anni, se non decenni, com’è successo per il crimine di aggressione entrato in vigore nel 2018 dopo una fase di negoziazione iniziata nel 1998.

Non dimentichiamo che originariamente il reato di “grave danno ambientale” fu incluso nella bozza dello Statuto di Roma del 1991 come quinto crimine contro la pace, ma poi fu rimosso in una fase avanzata della stesura a causa delle pressioni da parte di Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti. Nella versione finale il danno ambientale non andò più a costituire un reato a sé, ma si decise di menzionarlo tra le varie disposizioni inerenti ai crimini di guerra dove vengono proibite “tecniche di modifica ambientale”, come appunto l’agente arancio, che hanno “effetti diffusi, durevoli o gravi”.

Insomma in cauda venenum. Anche perché se questa proposta passa, sarà finalmente possibile perseguire ministri di stato o amministratori delegati o alti funzionari di società ecc. Non solo, ma il riconoscimento internazionale del reato avrà effetto anche sui Paesi che non fanno parte della suddetta Corte (come p.es. USA, Cina e India), poiché a tutte le imprese che si trovano ad operare oltre frontiera non sarà più permesso attuare pratiche ecocide in nessuna giurisdizione che abbia incorporato la legge, o in quelle aree sotto giurisdizione internazionale.

La legge francese è sulla sicurezza o sul controllo globale?

Dopo il Senato ora anche l’Assemblea nazionale francese ha definitivamente approvato, con 75 voti favorevoli e 33 contrari, la controversa legge sulla “sicurezza globale”, che alla fine del 2020 aveva provocato le proteste in tutto il Paese di mezzo milione di persone.

La parte più contestata era l’art. 24, che introduce un nuovo reato per chiunque diffonda immagini e video in grado di “danneggiare l’integrità fisica e morale” degli agenti di polizia. Chi si opponeva alla legge sosteneva che un reato di questo genere sarebbe stato una limitazione della libertà di espressione. Persino l’Onu aveva giudicato il testo “incompatibile col diritto internazionale dei diritti umani”.

Il governo aveva accettato di riscrivere l’articolo, ma poi si è limitato a dire, pur escludendo le parole “immagini e video”, che va punito chi contribuisce a identificare un agente di polizia in servizio “con l’evidente intento di nuocere alla sua integrità fisica o psichica”. Una formulazione molto vaga, che consente un’eccessiva libertà di interpretazione. Rispetto alla proposta iniziale, sono esclusi da questo reato i giornalisti.

La legge sulla “sicurezza globale” (che sarebbe meglio definire “controllo globale”) è stata fortemente voluta dal premier Emmanuel Macron, sull’onda della islamofobia del governo e di buona parte del Paese. Il quale naturalmente ne ha approfittato, cioè ha allargato la repressione in nome della laicità statale a tutti i casi di dissenso sociale contro le istituzioni.

Il principale sostenitore della legge è il ministro della Difesa Gérald Darmanin, che, dopo la riformulazione dell’art. 24, ha chiesto di aumentare le sanzioni a 5 anni di reclusione e fino 75 mila euro di multa; e la cosiddetta “provocazione dell’identificazione” non si riferisce solo ai gendarmi, agli ufficiali di polizia e ai doganieri, ma anche ai loro parenti.

Quindi, pur non facendo più riferimento esplicito a immagini e video nel testo definitivo, si precisa che, se vi saranno immagini dei volti che possano costituire un rischio per le forze dell’ordine, esse andranno sfocate sia sugli organi di stampa ufficiali che sui social network.

Di fatto ora gli agenti avranno mano libera di comportarsi come meglio credono. L’ha già detto Amnesty International: “la legge può intimidire e scoraggiare i cittadini che intendono registrare e documentare gli episodi di violenza perpetrata dalle forze dell’ordine”. Anche perché nell’art. 20 viene garantito alla polizia un accesso esteso alle telecamere di sorveglianza, persino a quelle dei condomini. E nel n. 22 viene garantita la possibilità alle forze di polizia di servirsi di strumenti di sorveglianza come droni e body cam, con cui p.es. controllare che i cittadini indossino la mascherina anti-covid.

Si è aperta la porta all’impiego massiccio del rilevamento di immagini in tempo reale con l’utilizzo di software automatizzati, tra cui il riconoscimento facciale. Come in Cina. Si autorizza anche la polizia fuori servizio a portare le armi ovunque si trovi.

Il Paese si sta fascistizzando. Lo dimostra anche il fatto che alla discussione finale di una legge che limita così fortemente i diritti dei cittadini, aumentando arbitrariamente i poteri delle forze dell’ordine, si sono presentati solo 108 deputati su 577. La sinistra impugnerà il testo dinanzi alla Corte Costituzionale.

Il recente processo contro Derek Chauvin, il poliziotto accusato di aver ucciso George Floyd il 26 maggio 2020 a Minneapolis, in Francia non si sarebbe neppure fatto, visto che le prove più schiaccianti sono state fornite dal video di una passante. Il che non vuol dire che gli USA siano più democratici della Francia. In passato vi sono stati decine di casi di agenti che hanno ucciso o ferito dei sospettati, e di regola non si arriva nemmeno al processo, poiché i procuratori si considerano come appartenenti alle forze dell’ordine.

Sonno, sogno e risveglio

Se il sonno è una raffigurazione simbolica della morte, il risveglio lo è della rinascita. In mezzo vi è il sogno, che esprime l’esigenza di una riconciliazione tra morte e rinascita. Nel sogno si rivivono desideri repressi, frustrazioni, paure, angosce, sensi di colpa, ritorni al passato, incontri con persone morte, pianti, pentimenti…: nel sogno c’è tutta la vita, a cui bisogna dare un significato complessivo, che racchiuda tutto e permetta di risvegliarsi con soddisfazione. Anche adesso, appena ci si sveglia, si ha voglia d’iniziare una nuova giornata, sempre che la vita abbia per noi un senso e che non sia vissuta in uno stress insopportabile.

Quindi dopo la morte dobbiamo aspettarci un seguito, qualcosa da fare. Ma in che senso? Ripercorrere il passato, per poter andare avanti, fino a che punto è giusto? Il passato può essere ricompreso, memorizzato adeguatamente, ma non ha senso riviverlo: si deve proseguire il cammino nelle nuove condizioni di vita che ci verranno date e che sicuramente avranno forme diverse da quelle attuali.

Non è inutile o superfluo il tempo vissuto sulla terra, poiché sarà proprio dalla fine del nostro tempo che dovremo ripartire. Non ha senso ripetere le cose: sarebbe come burlarsi della nostra intelligenza.  Se abbiamo sbagliato, verremo messi in grado di capirne il motivo e, a tale scopo, ci basterà l’intelligenza o la sensibilità.

Faremo ammenda delle nostre colpe e ripartiremo, questa volta col piede giusto. Il problema, semmai, sarà per chi ha compiuto crimini orrendi, per i quali ha bisogno d’essere perdonato da chi li ha subiti. Le vittime devono mettere i carnefici in grado di perdonare se stessi. E finché non lo fanno, sarà difficile poter andare avanti: lo sarà sia per i carnefici che per le stesse vittime. Quest’ultime, infatti, devono sapere che il perdono concesso ai carnefici farà star bene anche loro. Il perdono serve a chi lo riceve e a chi lo dà. I sentimenti di odio e di vendetta o di risentimento non fanno fare neppure un passo in direzione dell’umanizzazione della personalità.

Di questa condizione di precarietà spirituale o d’impotenza morale dovremmo già essere edotti su questa terra. Tutti dovrebbero temerla, soprattutto i carnefici (assassini, violentatori, criminali…), i quali invece pensano di non dover rendere conto delle loro azioni alle vittime in persona. Cioè, al massimo, quando vengono smascherati o catturati, pensano di cavarsela di fronte alla giustizia. E la giustizia contribuisce a tale illusione, assegnando loro sentenze capitali o ergastoli o inducendoli al suicidio.

Tutti invece dovremmo essere consapevoli del fatto che la morte non esiste: esiste solo trasformazione, per cui bisogna rendere conto di sé proprio alle vittime, singolarmente prese. È bene sapere da subito che siamo destinati a vivere, in quanto l’essenza umana è eterna. E se non ci si riconcilia con queste vittime, ci si preclude la possibilità di migliorare se stessi. Si resta paralizzati nelle proprie colpe.

Il perdono, per quanta fatica possa costare, è solo una condizione minima, non è l’obiettivo finale. È certamente la condizione che ci permette di andare avanti, ma, una volta che la si è posta, il più resta ancora da fare. L’essere umano è fatto per realizzarsi facendo: non può stare fermo.

Bisogna dunque fare in modo che vittima e carnefice abbiano la possibilità di compiere qualcosa insieme, per il bene di entrambi e della collettività di appartenenza. Bisogna essere capaci di ammettere i propri errori, per riuscire a progettare il proprio futuro. Spesso anche la vittima deve farlo, poiché non deve illudersi che il fatto d’aver subito una gravissima offesa la esime dal compiere un esame di coscienza: si può essere colpevoli di cose di cui non si ha consapevolezza.

Chi non ha flessibilità è spacciato. Senza elasticità mentale, ci si emargina da soli. Rischiamo di diventare un’intelligenza sprecata, una risorsa inutilizzata. L’orgoglio smisurato di chi non è capace di riconoscere i propri errori, lo rende umanamente molto povero, psicologicamente fragile e anche intellettualmente schematico, fossilizzato nelle proprie idee, nelle proprie assurde posizioni di principio. Chi non comprende che nel cambiamento continuo sta il senso della vita, si condanna all’immobilismo, alla ristrettezza mentale.

Piuttosto bisognerà fare in modo che il perdono non sia di maniera, cioè puramente formale, e che avvenga nella convinzione d’aver compiuto un’azione effettivamente sbagliata. Ci vuole chiarezza per chiedere perdono e per essere perdonati. Si deve essere sicuri d’aver sbagliato. Ci vuole un senso della verità sufficientemente oggettivo, che vada cioè al di là delle convinzioni personali del carnefice e della sua vittima.

Ecco, in questo senso è giusto ricapitolare il passato, reinterpretarlo alla luce di una verità oggettiva. La quale certamente non può essere data come cosa esterna al soggetto, ipostatizzata: una verità oggettiva può scaturire solo da un confronto tra le persone. Non c’è nessun dio nell’universo, nessuno può sostituirsi a noi nella ricerca della verità.

Separare ragione e fede

Ragione e fede devono per forza restare separate, così come la chiesa, anzi le chiese dallo Stato, poiché la fede non può obbligare la ragione a credere in cose indimostrabili. Certo, anche la ragione può credere in cose indimostrabili, ma non deve farlo perché glielo chiede la fede. Semplicemente fa parte della natura umana credervi: che si sia amati dal proprio partner o che l’universo sia eterno e infinito, non può certo essere dimostrato razionalmente, eppure, non per questo, pensiamo d’essere affetti da misticismo.

Il campo della fede dovrebbe essere tutto quello che non si può dimostrare razionalmente e in cui ci si può credere senza alcun obbligo di farlo. E, in tal senso, non dovrebbe essere di pertinenza della sola religione, ma anche dell’etica e della morale laica. Ecco perché una fede politicizzata o una chiesa che voglia svolgere una funzione di supplenza nei confronti dello Stato, sono aspetti del tutto estranei alla democrazia e quindi alla libertà di coscienza.

Con questo non si vuole affatto dire che una società in cui esistesse solo lo Stato e nessuna religione, sarebbe, solo per questo motivo, più democratica. E non si vuol neppur dire che una società deve esistesse solo una fede, sarebbe più antidemocratica di quella in cui esistesse solo la ragione. La democraticità di una società è questione pratica, non teorica, cioè va dimostrata di volta in volta, anche se resta fuor di dubbio che non c’è democrazia là dove manca la libertà di coscienza, che è quella di credere o non credere nel valore di determinate cose, o – se si preferisce – in ciò che si vuol far passare come “vero”.

Ritenere che la verità sia un’evidenza in cui si “deve” (per forza) credere, o per fede o secondo ragione, è una pretesa insensata, poiché non c’è nulla che sia evidente di per sé. Persino il fatto di esistere è relativo, in quanto la morte potrebbe essere solo una trasformazione da una condizione di vita a un’altra.

L’ideale sarebbe che non esistessero affatto le istituzioni, poiché è il concetto stesso di “istituzione” (laica o ecclesiastica che sia) che induce a credere che la verità sia un’evidenza.

Facciamo un esempio molto banale: quello degli incroci stradali, così frequenti nelle città. Un tempo erano i vigili che decidevano quando un automobilista doveva passare. Esercitavano un potere secondo coscienza. Ci si doveva affidare al loro buon senso e alla loro intelligenza. Poi vennero i semafori, per risparmiare sul personale e per non obbligarlo ad ammalarsi d’inquinamento. Ma i semafori sono schematici: hanno una regolamentazione predeterminata una volta per tutte, e non possono tener conto delle reali esigenze del momento. Invece di agevolare il traffico, i semafori lo intasavano, portando lo stress a livelli insostenibili, tanto che, ad un certo punto, furono sostituiti dalle rotonde. Era il trionfo dell’autonomia decisionale. L’automobilista diventava prudente per libera scelta, dovendo rispettare soltanto la regola che chi è già dentro la rotonda ha la precedenza.

Ma perché c’è voluto così tanto tempo prima di capire che bastava un piccolo accorgimento per potersi autogestire? Il motivo sta nel fatto che noi viviamo in società dominate da istituzioni, le quali vogliono far credere che le cose funzionano solo quando le decisioni vengono prese dall’alto. Le istituzioni non si fidano dei cittadini, né della democrazia e tanto meno della libertà di coscienza, per quanto ci si voglia far credere ch’esse siano preposte proprio a questo.

Le istituzioni sono nate quando una piccola minoranza le ha volute per imporsi sulla grande maggioranza. Le loro regole cambiano soltanto quando la grande maggioranza non ne può più, cioè non quando iniziano ad apparire sbagliate determinate decisioni di vertice, ma proprio quando la loro assurdità ha raggiunto livelli assolutamente insopportabili. Ecco perché il progresso a favore della democrazia e della libertà di coscienza è così incredibilmente lento. Le istituzioni devono prima convincersi che i cambiamenti di forma non pregiudicheranno la sostanza del privilegio. I mutamenti sono veloci solo quando scoppiano le rivoluzioni, che però, purtroppo, vengono facilmente tradite.

Ora però torniamo al punto di partenza. Perché oggi diamo per scontato che ragione e fede debbano marciare separate? Qui la motivazione non può che essere di natura storica. Se nel passato l’esperienza della fede avesse soddisfatto le esigenze umane (di giustizia, di libertà, di sicurezza, di autenticità, ecc.), è evidente che la ragione non avrebbe chiesto di agire autonomamente. Ciò però non toglie che, storicamente, non sia accaduto anche il contrario, e cioè che la fede sia sorta in seguito a un cattivo uso della ragione. La fede nel non-razionale, in altre parole, può essere emersa quando un uso arbitrario della ragione ha reso la vita molto difficile, facendo apparire irrisolvibili le sue contraddizioni.

In un certo senso la fede appare come una ragione rassegnata al male, che spera di poterlo risolvere solo in una dimensione ultraterrena. Tuttavia gli uomini “ragionevoli” possono anche stancarsi di questa rassegnazione e prendersi la loro rivincita sugli uomini di chiesa.

Ecco, a questo punto vien d’obbligo chiedersi: perché ancora oggi la fede sussiste? La risposta va cercata unicamente nelle modalità in cui la ragione ha cercato di vivere la propria emancipazione. Se queste modalità non erano davvero democratiche e quindi rispettose della libertà di coscienza di ogni essere umano, appare del tutto naturale che si continui ad avere un atteggiamento di fede. Non è dunque la fede che impedisce alla ragione di svilupparsi, ma è la stessa ragione che non riesce a trovare in sé motivi sufficienti, anzi, modalità adeguate per diventare sempre più democratica.

La fede è come un sadico che gode quando vede fallire i tentativi che la ragione compie per essere libera. Assomiglia a quegli animali opportunisti che si avventano sulle loro prede quando le vedono in gravi difficoltà. In realtà la vera fede è quella che vive la ragione senza concedere nulla alla religione. È inammissibile che, a causa della naturale fede o fiducia umana, si possa formare una casta privilegiata chiamata “clero”, sia esso laico o ecclesiastico. E tanto più lo è il fatto che, in presenza di tali caste, ci si chieda di credere nelle istituzioni per risolvere i problemi che quelle stesse caste hanno creato o che impediscono, solo per la loro presenza, di risolvere.

Imputato e colpa

Quando nei processi si giudica qualcuno e ci si attiene esclusivamente alla legge si ha più possibilità di sbagliare che non attenendosi esclusivamente all’etica. Applicare la legge ai casi umani, che sono sempre infinitamente complessi, anche quando appaiono semplici, non ha molto senso. Anche se i giudici avessero in mano migliaia di codici e migliaia di riferimenti a casi analoghi a quello che devono giudicare, non sarebbero per questo più agevolati. La realtà è che gli esseri umani non possono essere “giudicati” da altri esseri umani. Possono solo essere capiti.

Di fronte a qualcuno accusato di qualcosa, noi non dovremmo mai né giustificare né condannare, proprio perché non possiamo farlo. E i motivi sono tanti: p. es. perché conosciamo troppo o troppo poco l’imputato. In un caso possiamo avere dei conflitti di interesse; nell’altro rischiamo di fidarci troppo delle apparenze, delle impressioni, delle opinioni o testimonianze altrui. Per non parlare del fatto che ci portiamo sempre dietro i nostri pregiudizi, le nostre concezioni di vita.

Noi non siamo mai nelle condizioni migliori per poter giudicare in maniera adeguata qualcuno: o siamo troppo coinvolti nelle sue vicende (e allora è come se, in realtà, dovessimo giudicare noi stessi, e nessuno è così obiettivo da poterlo fare), oppure il caso ci appare troppo estraneo (e allora il nostro giudizio può essere condizionato da altri fattori: p. es. la fretta di concludere il processo o il timore di subire conseguenze a seconda di come ci si pone nei confronti dell’accusato).

L’idea che esistano delle “prove schiaccianti” non aiuta assolutamente a definire la colpevolezza di un imputato. Per poter capire davvero un reato non abbiamo bisogno né di prove né di testimonianze. Il fatto che un crimine venga individuato con certezza non significa, di per sé, che si sia anche in grado di capirlo adeguatamente. Si pensi solo al fatto che chi subisce un torto è generalmente convinto, solo per questo, di avere tutte le ragioni di questo mondo. E qui non stiamo neppure a discutere se davvero possa esistere il concetto di “prova inconfutabile”: se esistesse un concetto del genere, non si darebbe così tanto peso al concetto di “alibi”, né si cercherebbe di produrre falsi indizi o di deviare le indagini o di cercare false testimonianze o di manipolare i reperti.

Uno può pensare che tutto ciò viene fatto proprio perché esistono “prove inconfutabili”, ma chi è disonesto sa bene che tutto può essere “falsificato” e che operazioni del genere possono dare anche i loro frutti nei processi. Quanto alle testimonianze oculari, da tempo è noto che uno vede solo ciò che vuol vedere o che “pensa” di aver visto. L’evidenza della verità è solo un’illusione. E quando si fa giurare qualcuno di dirla, si è soltanto ridicoli. Uno la verità non potrebbe dirla neanche se lo volesse, proprio perché con certezza non può saperla.

Neppure un’esplicita ammissione di colpa potrebbe risultare sufficiente. Non serve a nulla, sul piano etico, pentirsi per avere uno sconto della pena, tanto più che non è detto che un imputato possa avere piena consapevolezza di ciò che ha fatto solo perché l’ha fatto. Probabilmente se uno potesse avere una consapevolezza del genere, non farebbe alcun crimine (almeno così la pensava Socrate, il più grande filosofo dell’antichità).

I giudici, la giuria, gli avvocati, la pubblica accusa, i parenti dell’imputato, quelli della vittima, le forze dell’ordine che assistono al processo, ma anche i giornalisti, il pubblico curioso o interessato…, insomma tutta la società ha bisogno di sapere le motivazioni di fondo che hanno indotto a compiere un determinato reato o crimine. Cioè le circostanze che le hanno generate e le eventuali attenuanti o aggravanti, correlate al fatto, che si possono far valere: non a titolo di mera curiosità, ma nella speranza che la cosa non si ripeta.

Le circostanze sono sempre quelle socio-ambientali, in cui può maturare un reato o un crimine. Chiunque infatti è in grado di notare che, a parità di circostanze, uno delinque, l’altro no. Per quale motivo? Uno dovrebbe essere giudicato dai suoi pari, cioè da quelli che, pur vivendo medesime circostanze, han deciso di comportarsi diversamente. Nei processi dovrebbero essere presenti solo le persone che, in un modo o nell’altro, conoscevano l’imputato e potevano accedere, in un modo o nell’altro, ai suoi ambienti. E tutti dovrebbero essere interpellati, per poter avere un quadro sufficientemente chiaro della personalità e della vita dell’accusato.

Il processo dovrebbe soltanto avere lo scopo di far capire all’accusato fino a che punto avrebbe potuto comportarsi diversamente, sulla base delle testimonianze raccolte. Le quali appunto non dovrebbero essere utilizzate a suo carico, ma proprio per fargli capire che esiste sempre la possibilità di agire diversamente. Dovrebbero essere testimonianze aventi una finalità pedagogica. Occorre cioè far capire a tutti, e non solo all’imputato, il valore delle opzioni, delle possibilità di scelta. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi compie un reato o un crimine sostiene che non aveva scelta. Ma se davvero mancasse la libertà di decidere, dove starebbe la colpa? A che pro giudicare uno destinato a delinquere? Dovrebbe anzi essere la società a chiedersi il motivo per cui, in certe situazioni, non esiste possibilità di scelta.

Noi diciamo che le persone non vanno giudicate per le loro idee ma per quello che fanno. Eppure il più delle volte le cose si compiono sulla base di certe idee o convinzioni. Dunque dovrebbe vertere su queste idee il dibattimento processuale. Uno dovrebbe arrivare a convincersi d’aver sbagliato, a prescindere dalla pena prevista. La quale, comunque, non può certamente basarsi sul carcere, cioè su una reclusione meramente punitiva. Chi ha sbagliato deve essere recuperato, altrimenti sarà indotto a ripetere il crimine o anche a far di peggio. La pena deve essere rieducativa. Quando uno si convince d’aver sbagliato, è già punito: a partire da quel momento gli deve esser data la speranza di reintegrarsi, proprio perché una persona non va mai condannata, ma recuperata.

Lo stesso criminale che, dopo essersi pentito, subisce un torto, deve dimostrare una maturità sufficiente a comportarsi diversamente da come avrebbe fatto prima del pentimento. Gli sbagli che nella vita si compiono devono servire per non ripeterli. Bisogna guardarli con fiducia, non con pessimismo, anche perché la perfezione non esiste: non è forse vero che spesso facciamo sbagli senza neppure accorgercene?

Le leggi esistenti, i codici, i casi analoghi, accaduti in precedenza, dovrebbero servire soltanto come spunto di riflessione, giusto per far capire all’imputato che non è un caso speciale, mai accaduto prima. Uno deve togliersi di testa l’idea di dover essere sottoposto, per una qualche ragione, a un trattamento di favore. L’etica è terribilmente più importante del diritto.

Un furto ai danni della cultura o del profitto?

L’altro giorno ho acquistato le Lezioni sulla filosofia della storia, di Hegel. Non ho potuto fare a meno di notare che il testo non contiene solo tante sciocchezze mistiche, ma anche una di tipo giuridico che le supera tutte e che lo stesso grande filosofo tedesco, con la sua ferrea dialettica, avrebbe considerata insostenibile. L’ha scritta, bene in evidenza, lo stesso editore Laterza: “E’ vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno e didattico”.

Quindi nessuna piccola percentuale ammessa (in genere il 15%): è vietato riprodurre anche una sola paginetta, anche se questa servisse per farci un commento sopra. Tanto meno valgono le esigenze didattiche: quindi gli studenti delle Superiori non potranno mai leggere alcunché di un testo destinato a un pubblico universitario. Interdetta persino la possibilità di fotocopiare qualcosa per esigenze personali, neppure pagando i diritti alla Siae, che non sono previsti: i 28 euro vanno spesi tutti, eventualmente cercando di farseli scontare da parte di qualche libraio.

Ma l’avviso minaccioso, perentorio, non è finito. “Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale, purché non danneggi l’autore“. Il corsivo è dell’editore, il quale è caduto in un piccolo lapsus: infatti al posto di se stesso, ha messo la parola “autore”. Qui, in effetti, si parla non di “danno culturale”, bensì di “danno economico”, che sarebbe piuttosto relativo per l’autore, in quanto già docente universitario, fruitore di un congruo stipendio, che gli permette di vivere senza particolari problemi.

Una diffusione massiccia della sua opera non potrebbe in realtà che favorirlo, sia per la sua professione di filosofo e critico (in quanto cultore dell’idealismo hegeliano) che per la sua professione di traduttore dal tedesco.

L’unico a subire un danno davvero economico dall’uso delle fotocopie è dunque l’editore, che campa non “di” cultura ma “sulla” cultura degli altri, e che non ha evidentemente altri introiti. E siccome il libro è del 2012, bisogna dire, vista la grande preoccupazione dell’editore, che gli affari non gli stiano andando molto bene. Infatti deve essersi accorto che nelle facoltà universitarie vige la prassi di fotocopiare “interi libri”, e siccome non è interessato a sapere se i giovani abbiano da spendere 28 euro per un unico volume, in quanto dà per scontato che chi frequenta quegli ambienti abbia tutte le possibilità di farlo, stigmatizza quelli che diffondono la cultura a prezzi stracciati.

Dice questo come se la cultura debba essere fatta da un’élite per un’élite (vengono qui in mente gli ambienti democratici di Copenhagen quando accusavano Kierkegaard d’essere soltanto “uno scrittore per scrittori”). Strano che un editore intenzionato a fare profitti, ami vendere le sue edizioni a così poche persone e che non abbia trovato il modo di allargare democraticamente la propria clientela.

Non a caso l’avviso prosegue quasi con accento disperato: “ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza”. Qui il riferimento ovvio del “modo” è a quello “cartaceo”, che viene minacciato non solo dall’uso delle fotocopiatrici (nate negli anni Sessanta e che in vent’anni si sono imposte in tutto il mondo), ma anche e soprattutto dal digitale, che col primo scanner, nel 1985, ha prodotto un’incredibile rivoluzione tecnologica, che l’editore Laterza guarda con grande terrore. Stranamente, a dire il vero, poiché, essendosi sempre vantato d’aver diffuso la cultura e, nella fattispecie, tante opere di Hegel, dovrebbe sapere che è una delle leggi fondamentali della dialettica il vedersi superare dalle vicende storiche per una sintesi superiore.

Non lo sa la Laterza che si sta già pensando a uno “scanner della mente”, cioè a una macchina capace di leggere i nostri ricordi o addirittura i nostri pensieri? Il primo che riuscirà a realizzarlo e che si metterà a scansionare il cervello dei più grandi filosofi e scienziati dell’umanità riceverà tante di quelle royalties che, al suo confronto, personaggi come Bill Gates o Mark Zuckerberg appariranno dei poveracci.

Allo stesso Hegel sarebbe parso quanto meno contraddittoria una frase del genere: “Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura”. Quindi il furto non è solo in ciò che si fotocopia, ma anche nello stesso strumento meccanico, che, come noto, serve a riprodurre molte altre cose non meno utili e spesso anzi assolutamente indispensabili. Dunque “un furto ai danni della cultura”: anche qui un nuovo lapsus, che il lettore, senza essere un grande filosofo o scienziato, può facilmente individuare.

Che cos’è la libertà di coscienza?

Gli uomini devono imparare a disobbedire agli ordini che violano la libertà di coscienza. Come facevano i cristiani quando gli imperatori romani li volevano obbligare a rinnegare la loro fede in Cristo. Quella volta i cristiani avevano ragione anche se oggi sappiamo che la loro fede storicamente non aveva alcun senso, essendo la fede non in un “liberatore” ma in un “redentore”.

E’ preferibile che gli uomini si facciano ammazzare piuttosto che violare questa libertà, da cui dipendono tutte le altre. Non per passare alla storia pur avendo mentito sulle proprie visioni – come nel caso di Giovanna d’Arco -, ma proprio per ribadire che sulle questioni di coscienza non si scherza, vere o false che siano le proprie convinzioni o quelle altrui. Ricordiamoci sempre di Tommaso Moro che, nei confronti del proprio sovrano, politicamente aveva torto ma eticamente aveva ragione.

Non serve a niente avere la libertà di associazione, di voto, di culto, di insegnamento o qualunque altra libertà, se viene negata o non viene adeguatamente rispettata quella di coscienza.

Prendiamo p.es. il fenomeno della guerra. Una pura e semplice dichiarazione di guerra è già una violazione della coscienza, non solo di quella del “nemico”, che sarà costretto a difendersi, ma anche di quella dei cittadini dello Stato che ha dichiarato guerra, perché saranno costretti a considerarla come un dato di fatto, essendo stata decisa dal governo in carica senza previa consultazione popolare e, una volta accettata, saranno costretti ad accettare mille altre limitazioni, in un crescendo continuo, soprattutto se i “nemici” saranno in grado di difendersi.

L’unica guerra ammissibile dovrebbe essere quella difensiva, da considerarsi come gesto estremo dopo il fallimento di tutti i negoziati politici, e solo per evitare conseguenze peggiori, come la sottomissione di un intero popolo o il suo genocidio o la sua deportazione in altri territori, e così via. In tal caso la guerra difensiva va giudicata come l’ultima possibilità di sopravvivenza.

Dobbiamo ritenere altamente significativo che nella nostra Costituzione sia stato posto il divieto di usare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; anzi tutte le Costituzioni del mondo dovrebbero prevedere il principio secondo cui i crimini compiuti contro l’umanità non possono mai cadere in prescrizione, come si disse al processo di Norimberga contro i nazisti.

Questo perché occorre dare una qualche soddisfazione ai sopravvissuti, i quali devono essere indotti a credere che la giustizia non è una parola vuota e che, per ottenerla, non hanno bisogno di nutrire sentimenti di vendetta o di farsi giustizia per conto loro o di pretendere pene che violano il diritto ad avere una propria umanità.

Generalmente nelle situazioni belliche la libertà di coscienza viene ridotta al minimo. Nelle forze armate esiste una rigida gerarchia: l’inferiore è tenuto ad obbedire agli ordini del superiore di grado, a meno che non venga violata – oggi finalmente lo diciamo – la sua libertà di coscienza. Un soldato dovrebbe rifiutarsi di giustiziare i prigionieri o le persone disarmate, ferite o che si sono arrese.

Quando un soldato afferma, sotto processo, ch’era stato costretto a compiere determinate cose contro la sua coscienza solo perché gli era stato ordinato, in genere mente, poiché, se si fosse davvero rifiutato, non gli sarebbe successo nulla di particolarmente grave. I superiori sanno bene che se in casi del genere agissero con mano pesante creerebbero dei precedenti che poi risulterebbero ingestibili. Di qui la necessità di formare dei picchetti per le fucilazioni sulla base della libera adesione o di caricare a salve almeno uno dei fucili o di non intervenire se i componenti del plotone non colpiscono il bersaglio o lo colpiscono non per farlo fuori ma solo per ferirlo.

In genere i superiori devono convincere con la persuasione il plotone d’esecuzione che il soggetto da giustiziare meritava d’esserlo senza alcuna attenuante, in quanto le prove erano schiaccianti o il suo reato era assolutamente infame. Prediche analoghe, in grande stile, a interi eserciti, vennero fatte non solo ai giapponesi che bombardarono Pearl Harbor, ma anche agli americani che bombardarono Hiroshima e Nagasaki. Stessa cosa fecero Napoleone e Hitler alle loro truppe quando invasero la Russia.

E’ molto difficile rispettare la libertà di coscienza nelle situazioni-limite, i cui comportamenti unilaterali sono dettati da decisioni schematiche, semplificate al massimo. Frasi di questo genere: “Se tu non uccidi lui, lui ucciderà te”, “Non fate prigionieri”, “T’assicuro che in un modo o nell’altro parlerai”, “Sii spietato se vuoi che il nemico abbia paura di te”, “Bruciate tutto!”, “Ci teniamo il diritto a un colpo preventivo”, “Per sicurezza non rischiare”, “Quando uccidi degli innocenti, devi considerarlo un incidente di percorso” ecc., non dovrebbero mai essere pronunciate da un soldato e tanto meno da un ufficiale, che è preposto a dare l’esempio.

Quando non si rispetta la libertà di coscienza altrui, ci si mette nelle condizioni di non veder rispettata neppure la propria: sia perché si teme sempre che la vendetta del nemico, nel caso in cui abbia la meglio, sarà terribile; sia perché, temendo di dover sottostare a trattamenti analoghi ai propri, si preferisce il suicidio.

Suicidarsi per non diventare schiavi, come fecero gli ebrei a Masada, si può capire; ma suicidarsi piuttosto che pentirsi, è un grave atto contro la propria coscienza. Ancora più grave è l’atteggiamento di chi vuol mascherare il proprio suicidio accusando qualcuno d’averlo assassinato, ma qui siamo già nell’ambito della follia (come quella di Kierkegaard nei confronti della Chiesa danese).

La libertà di coscienza è la cosa più seria di questo mondo. E’ il metro di giudizio di ogni nostra azione, ma se uno pensa di potersi giudicare da solo, s’illude enormemente. L’essere umano è un animale sociale: nessuno è in grado di giudicare obiettivamente se stesso, se non si confronta con altre persone.

Da soli non abbiamo nessun criterio per stabilire la differenza tra bene e male, poiché per ogni azione sappiamo sempre trovare una giustificazione, anche a costo d’ingannare consapevolmente noi stessi.

In Iraq gay e lesbiche vengono massacrati. Un’altra guerra che non importa a nessuno

L’ultimo, in ordine di tempo, si chiamava Bashar, un attivista omosessuale che aveva organizzato a Baghdad delle abitazioni sicure dove si rifugiavano gay e lesbiche in pericolo di vita e minacciati di morte, anche dai parenti.

Bashar è stato assassinato ieri, all’età di 27 anni. A darne notizia, Peter Tatchell, leader dell’organizzazione LGBT Outrage che ha dichiarato: «Il 25 settembre ho ricevuto la triste notizia che il leader attivista gay, Bashar, studente universitario, è stato assassinato in un negzoio di barbiere. Un gruppo di miliziani lo ha finito con parecchi colpi di proiettili sparati  al solo  scopo di eliminare  la persona. Bashar è stato un giovane coraggioso, un vero eroe che ha messo la sua vita  al servizio  degli altri, salvando molte persone in pericolo a causa della loro condizione  sessuale».

Secondo le Nazioni Unite, gli attacchi contro i militanti gay e lesbiche vengono per la maggior parte da tribunali religiosi e si sono intensificati dal 2005, dopo che il grande ayatollah Ali al-Sistani  aveva messa una fatwa che dichiareava che gay e lesbiche dovevano essere uccisi nel peggiore dei modi possibili.

Da allora, pur non essendo illegale l’omosessualità in Iraq, milizie fondamentaliste religiose si sono organizzate per imprigionare, torturare e uccidere ogni omosessuale che catturavano.

Fonte: Outrage Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini 35 anni dopo la sua morte

Sono trascorsi trentacinque anni da quel giorno in cui il corpo intriso di sangue e violenza di Pier Paolo Pasolini venne rinvenuto sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, a pochi chilometri dalla capitale. Trentacinque anni e un solo colpevole reo confesso: Pino Pelosi, un ragazzo di vita, un vagabondo che in tanti anni non ha saputo o voluto raccontare la verità su quella notte di aggressione al grande poeta, scrittore, regista. Un silenzio che a tanti è parso una copertura verso altri assassini rimasti ignoti ancora oggi. Le dinamiche e i vari sopralluoghi fatti successivamente da amici di Pasolini raccontano che non poteva essere il solo Pelosi ad aver fatto carne da macello il corpo di Pier Paolo. Troppo frettolose le indagini ufficiali, lasciati cadere nel vuoto o cancellati i tanti indizi che potevano dare altre risposte su quella notte. Per lungo tempo l’opinione pubblica venne tenuta all’oscuro sugli sviluppi delle indagini e del processo, restando del parere di un delitto scaturito in “circostanze sordide”.

Continua a leggere

Gli elfi gay sbarcano in Europa

Non allarmatevi se andando per boschi vi capiterà di imbattervi in strani esseri che gli americani chiamano “fatine del bosco”, ovvero Faeries. Sono i novelli Peter Pan, le ninfe, i  moderni elfi che cercano, attraverso la vita agreste, di tornare alle radici, esplorare una coscienza alternativa ai propri stili di vita. Hanno un comune denominatore: sono gay e lesbiche. Non si può parlare di gruppo ma di movimento che dagli States si sta spostando in Europa e magari anche in Italia. Sono i nuovi hippies, libertari, che scelgono i santuari della natura per rendere sacra la sessualità, sfidare le alterazioni delle coscienze, i costumi di una nazione, celebrare un nuovo stile di vita gay e della sua cultura. E per farlo con maggiore persuasione emulano il mondo dell’incanto, delle favole, spaziando da J. K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter a  Jack Keoruac, profeta della beat generation.

Continua a leggere

La Svizzera apre le porte al turismo omosessuale

Bello il ragazzo in foto, vero? Fa parte di una campagna pubblicitaria elvetica lanciata in occasione dei mondiali di calcio disputati in Germania nel 2006. Era rivolta alle signore annoiate e sole, lasciate temporaneamente dai mariti corsi a tifare i propri beniamini negli stadi. Quelle immagini, però, finirono per ammaliare i gay che le pubblicarono ovunque e promisero in cuor loro che la Svizzera valeva una vacanza. Ora, a quanto pare, ad offrire la ghiotta occasione è proprio l’Ente del Turismo elvetico che ha lanciato una campagna pubblicitaria rivolta alla comunità omosessuale.

Sul sito dell’Ente è stata aperta una pagina con informazioni, destinazioni e offerte rivolte esclusivamente ad un pubblico gay e lesbico. Per un weekend o per una settimana si possono visitare luoghi come Lousanne, Lucerna, Zurigo, Arosa, a prezzi vantaggiosi e con un’accoglienza di rispetto e attenzioni. Pare, ad esempio, che ad Arosa, si sia sviluppata una vita notturna fantastica per le persone omosessuali, anche se, in quanto a raffinatezza e stile Zurigo resta imbattibile.

Per attrarre il turista gay-lesbico, l’Ente Nazionale del Turismo elvetico ha stanziato 150 mila franchi per la campagna pubblicitaria, sviluppando accordi con molti hotel, luoghi di divertimento, eventi culturali, pronti ad accogliere questo segmento di clientela che si dice parecchio esigente. Le ragioni di questa scelta le ha spiegate Véronique Kanel, portavoce di Suisse Tourisme, al quotidiano Le Matin:

«La prima è che la comunità omosessuale dispone di una rete di comunicazione molto ben strutturata che ci permette di far crescere la nostra visibilità all’estero. Poi c’è il fatto che i turisti gay, mediamente, spendono molto di più degli eterosessuali visto che appartengono a quella categoria di persone con doppio stipendio e sono senza figli. Le nostre città – afferma ancora Véronique Kanel – sono molto aperte e la combinazione di natura, cultura e divertimento attira particolarmente questa clientela».

Sarà così? Intanto i primi ad essere contenti sono proprio loro; i gay elvetici, sicuri che questo impegno porterà nuova linfa vitale all’economia locale e aprirà nuovi processi di democrazia per il movimento lgbtq elvetico. Qui, infatti, da giugno 2005, le coppie omosessuali registrate godono gli stessi diritti delle coppie sposate, con benefici che vanno dalla pensione, all’eredità, alla previdenza professionale. Forse, vista la mancanza di diritti in Italia, qualche coppia deciderà di fare una bella vacanza in Svizzera, e magari restarci. Chissà!

Nasce Equality Italia, la prima lobby per i diritti civili

Ieri presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, è stata presentata Equality Italia, la prima lobby per i diritti civili nel nostro Paese. Fondatore di questa nuova realtà per il mondo lgbtq (lesbico, gay, bisessuale, transessuale, queer) Aurelio Mancuso, noto militante del Movimento omosessuale italiano ed ex presidente nazionale di Arcigay. Alla presentazione hanno partecipato anche Paola Concia , Flavia Perina, Benedetto Della Vedova, Barbara Pollastrini, Rosaria Iardino, Gianni Cuperlo, Imma Battaglia, Irene Tinagli, Paola Balducci e Ivan Scalfarotto, Carlo Guarino. Da tempo, troppo tempo, l’associazionismo omosessuale si è sempre identificato con una politica di sinistra, sperando, invano, che proprio quella parte politica desse risultati concreti in termini di leggi di diritto per le coppie di fatto, contro l’omofobia, contro ogni discriminazione. Il risultato è stato negli anni deludente, nonostante la presenza di gay e lesbiche all’interno delle formazioni politiche e dentro il Parlamento: molti buoni propositi, zero risultati. Continua a leggere

Il Coming out di Tiziano Ferro:”Sono omosessuale e ho la libertà di dirlo”

“Dissi alla mia fidanzata che pensavo di essere attratto anche dai ragazzi”. Lei rise: “Non può essere vero”. Il racconto che Tiziano Ferro fa dalle pagine di “Vanity Fair” ha qualcosa di dolce e struggente. E’ il racconto di una sessualità rifiutata, impaurita dagli eventi e da un mondo dove l’omosessualità è presente eppure negata; è la fine di un incubo che per tanti anni, troppi, ha ferito la vita di una persona, facendola essere quella che non è mai stata. Il coming out di Tiziano Ferro è l’uscita da un tunnel che, come lui stesso si è augurato, possa aiutare altri a non commettere gli stessi errori, a non restare per anni dentro una gabbia di inutili ipocrisie. Dell’omosessualità della popstar nostrana, in realtà se ne parlava da tempo, si lasciavano cadere frasi a metà ma ineludibili. Lui non smentiva, lasciava che le parole lo attraversassero e passassero oltre. Paura, questo era!

Continua a leggere