Articoli

Le stablecoin: monete private senza controllo?

Le stablecoin: monete private senza controllo?

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 La digitalizzazione è indubbiamente un profondo ed efficiente ammodernamento di tutti i settori della società. In particolare dei processi tecnologici, economici e finanziari.

 Anche nei settori dei pagamenti si è avuto un vero a proprio “boom digitale” e sono sottoposti a dei cambiamenti continui, a un ritmo incalzante. L’e-commerce, per esempio, sta celermente soppiantando i tradizionali settori di vendita. Le transazioni e i pagamenti hanno sempre più accantonato l’uso del contante, anche quello della carta di credito di plastica. Oggi si acquista e si paga attraverso specifiche “app” presenti negli smartphone personali.

 Una ricerca della Bce ha evidenziato che, in un breve lasso di tempo, sono state avanzate ben oltre 200 nuove proposte e iniziative nel campo dei pagamenti. Sono dei servizi così innovativi e ambiti dal grande business tanto da essere offerti a titolo gratuito in cambio, però, della disponibilità e della gestione di informazioni e di dati riguardanti i singoli utenti. Naturalmente a discapito della privacy. A proporli sono le cosiddette imprese bigtech, i giganti tecnologici globali, quali Google, Amazon, Facebook e molti altri tra cui la cinese Alibaba. Sono i dominatori assoluti dei listini di tutte le borse valori intenzionali. La loro forza sta non solo nell’abbondanza della liquidità ma anche nel controllo delle piattaforme online, dei social media e delle le tecnologie di comunicazione mobile.

 Tale sistema presuppone l’esistenza di conti correnti coperti da disponibilità o da garanzie reali. Se tenuto sotto un puntuale controllo da parte delle istituzioni di vigilanza, non vi sarebbero rischi o particolari problemi. Anzi, potrebbe agevolare e velocizzare il segmento dell’economia finanziaria e bancaria.

 La cosa, però, cambia completamente quando certe grandi organizzazioni economiche e finanziarie internazionali intendono creare delle monete digitalizzate private. E’ il caso delle cripto valute la cui volatilità, opacità e mancanza di controlli hanno già creato seri rischi alla stabilità dell’intero sistema.

 La storia dei bitcoin docet: valori saliti alle stelle e poi crollati improvvisamente, mentre le banche centrali, incapaci di intervenire, stavano a guardare preoccupate.  

 Adesso sul mercato sono arrivate le cosiddette stablecoin globali. Sono degli strumenti finanziari sviluppati proprio per ovviare alla volatilità delle cripto valute, in quanto il loro prezzo dovrebbe essere stabilizzato rispetto a un asset di riferimento: una moneta, come il dollaro e l’euro, l’oro o altre materie prime, oppure titoli e  indici di borsa. Esse devono avere come sottostante un portafoglio di asset, di “attività di riserva”. In altre parole, le stablecoin sarebbero delle cripto valute ancorate, per esempio, a delle monete garantite dalle tradizionali istituzioni internazionali. Esse hanno già suscitato grande attenzione e curiosità soprattutto quando Facebook ha annunciato di voler attivare la libra, che sarebbe la sua stablecoin globale in grado di operare senza utilizzare i sistemi di pagamenti e di compensazione e senza i vincoli dei regolamenti esistenti.

 Vi sono, poi, altri metodi usati da certe stablecoin, sganciati da affidabili entità centrali, per le quali la stabilizzazione sarebbe data dall’andamento di un algoritmo che detterebbe il comportamento di espansione o di riduzione delle stablecoin stesse. La loro affidabilità è certamente dubbia e molto inferiore, così come quella data dalle cosiddette collateralized stablecoin che usano appunto degli asset digitali come collaterali per garantire la loro emissione. Come al solito non è sempre oro ciò che luccica!

E’chiaro che un’espansione significativa e non regolamentata del loro uso potrebbe produrre effetti negativi e destabilizzanti sul sistema economico.

Lo hanno sottolineato anche il G7 e la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea che hanno definito le stablecoinuna “crescente minaccia alla politica monetaria, alla stabilità finanziaria e alla concorrenza”. Infatti, le loro assicurazioni e garanzie potrebbero non essere sufficienti a far fronte alla richiesta di rimborsi in eventuali situazioni di “run”, di corsa al riscatto da parte dei detentori. Pertanto il loro valore potrebbe “oscillare” molto, “contagiando” l’intero sistema finanziario.

Essendo un vero e proprio meccanismo di pagamento, una inadeguata gestione dei rischi di liquidità, di quelli operativi e cibernetici potrebbe provocare una crisi sistemica.

Inoltre, aspetto non irrilevante, gli emittenti delle stablecoin andrebbero ad aumentare il cosiddetto shadow banking, la cui dimensione da anni ha di molto sorpassato il tradizionale settore bancario. Attraverso un loro eventuale ingente acquisto di titoli influirebbero pesantemente sui mercati, sull’operatività delle stesse banche e sulle politiche monetarie e dei tassi di interesse.

Senza attente e stringenti misure di controllo da parte delle agenzie governative preposte, vi è anche un alto rischio che esse siano vulnerabili all’abuso criminale e all’uso per il riciclaggio e per il finanziamento di attività terroristiche.

In Europa, le varie istituzioni stanno studiando le caratteristiche e gli effetti delle stablecoin con grande attenzione e preoccupazione.

 La Commissione europea intende approntare un regolamento del mercato delle cripto attività, senza il quale giustamente teme effetti incontrollabili e molto destabilizzanti. Le stablecoin dovrebbero  rispettare i requisiti legali, i regolamenti e gli standard previsti per tutti i sistemi e gli strumenti di pagamento.

 La Bce e le banche centrali nazionali stanno elaborando nuove norme relative alla sorveglianza sui sistemi dei pagamenti, soprattutto su quelli elettronici. Per far fronte alla richiesta di innovazione e alla sfida di ineludibili  modernizzazioni, Francoforte pensa di introdurre un euro digitale, affidabile e privo di rischi. Esso affiancherebbe il contante senza sostituirlo, rendendo il sistema dei pagamenti più fruibile, più celere ed efficiente.

 Si ricordi che le stablecoin sono dei mezzi di pagamento emessi da privati. Sono delle valute private, come nel medioevo quando ogni principe, piccolo o grande che fosse, coniava le proprie monete.

 E’ in gioco la sovranità monetaria pubblica! Chi ha il dovere di intendere lo faccia!

 

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

Paesi emergenti: allarme della Banca Mondiale sul debito, pari a 55 mila miliardi di dollari!

Paesi emergenti: allarme della Banca Mondiale sul debito

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** *già sottosegretario all’Economia  **economista

Ancora una volta suona l’allarme debito. Questa volta riguarda i paesi emergenti e in via di sviluppo. Secondo il rapporto della Banca Mondiale, “Global wave of debt” (L’onda globale del debito), pubblicato a dicembre, il debito pubblico e privato di questi paesi a fine 2018 ha raggiunto il record di 55mila miliardi di dollari. Dal 2010 il loro rapporto debito/pil è aumentato del 54% fino a raggiungere il 168%.

In questi otto anni, relativamente ai paesi oggetto dello studio, si è verificata la crescita più grande, più veloce e diffusa degli ultimi 5 decenni. In media il 7% annuo, tre volte più veloce di quanto avvenne durante la crisi del debito dell’America Latina negli anni ottanta.

Nel cinquantennio scorso, quella dei paesi emergenti sarebbe l’ultima delle quattro grandi crisi debitorie. Si è potuto evidenziare che la crescita elevata del debito è combinata con veri e propri sconquassi finanziari che hanno determinato crolli nella produzione, nei consumi e negli investimenti.

La crescita del debito in questione è stata guidata dalla Cina che ne detiene 20mila miliardi di dollari. Nel periodo di riferimento, Pechino ha visto crescere del 72% il rapporto debito/pil portandolo a 255%. Un dato preoccupante.

La pericolosità della bolla debitoria è aggravata dai rilevanti cambiamenti realizzati rispetto al passato. Non si tratta solo di debito pubblico e di quello estero ma anche di debito privato, in particolare delle imprese.

Rispetto al 2007, oggi questi paesi sono più deboli. Il 75% di loro ha deficit di bilancio e i deficit delle partite correnti (la differenza tra la spesa per le importazioni e gli introiti dalle esportazioni) sono 4 volte più grandi. Inoltre, sono coinvolte nuove categorie di creditori. In passato erano i governi e le organizzazioni internazionali, adesso i debiti sono soprattutto in mano ai vari tipi di fondi d’investimento e a settori non bancari. In aggiunta, sono negoziati nei mercati di capitali, tanto che oltre il 50% dei debiti pubblici sono in mano a operatori stranieri.

Tali debiti sono anche fuori dal Club di Parigi, cioè fuori dall’accordo che garantisce interessi moderati, eventuali sospensioni dei pagamenti e riorganizzazioni debitorie non punitive. Spesso sono denominati non in moneta nazionale ma in dollari ed espongono i paesi a fluttuazioni e crisi generate fuori dal loro controllo.

La crescita del loro debito aggregato è stata favorita, se non sollecitata, dalla politica del tasso d’interesse zero della Federal Reserve, della Bce e delle altre banche centrali. Anche la liquidità dei quantiative easing, non utilizzata in investimenti nei settori dell’economia reale dei paesi industrializzati, è spesso confluita verso le economie emergenti in cerca di rendimenti maggiori. Quando il denaro non costa più, si avallano anche le propensioni a rischi elevati e al cosiddetto azzardo morale,che nel medio periodo minano le fondamenta di qualsiasi sistema economico.

Adesso un improvviso choc globale, quale l’aumento dei tassi d’interesse o dei premi per il rischio di mercato, potrebbe generare un pericoloso stress finanziario difficilmente sostenibile.

Si ricordi che, in merito al debito, la Banca Mondiale afferma che “è la dose che può diventare veleno”.

Inoltre, si ritiene che il debito non sia un male in sé, se è usato per promuovere lo sviluppo di lungo termine. Se finisce, invece, in varie operazioni non produttive o addirittura speculative, allora diventa non sostenibile.

Le soluzioni proposte dalla Banca Mondiale sembrano, però, vaghe e astratte. Si suggeriscono priorità sociologiche più che economiche. Ad esempio si richiedono una maggiore trasparenza e una più attenta gestione del debito. Indubbiamente cose utili, che non fanno male. Ma le cause profonde sono nella progressiva degenerazione della finanza a livello globale e nella mancanza di regole cogenti e di controlli.

Certamente i governi dei paesi emergenti hanno molte responsabilità. Essi, però, seguono i modelli dei paesi occidentali, degli Stati Uniti in primis, che di solito dettano le loro condizioni da applicare all’economia e alla finanza.

Per la sostenibilità del debito e per ridurre il rischio di choc economici, i paesi emergenti e in via di sviluppo necessiterebbero, invece, d’investimenti e di crediti mirati al loro sviluppo economico e sociale. Si dovrebbero creare meccanismi per facilitare la soluzione delle loro crisi debitorie, evitando gravi conseguenze sociali. Troppo spesso essi sono trattati soltanto come fornitori di materie prime, di prodotti e di mano d’opera a basso costo. Il neocolonialismo, anche se in forme moderne, depreda le ricchezze e mantiene la maggioranza delle popolazioni nella povertà e nel sottosviluppo.

E’ augurabile che con il nuovo anno, soprattutto da parte dell’Unione europea, possa esserci un’azione nelle competenti sedi internazionali per una revisione profonda delle politiche di sostegno e collaborazione con i paesi emergenti.

 

 

LE BANCHE CENTRALI EUROPEE SBAGLIANO. SOPRATTUTTO NEL VOLERE L’INFLAZIONE AL 2%

Economisti francesi: le banche centrali sbagliano

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Dalla Francia, ma non solo, arrivano moniti preoccupanti relativi al rischio di nuove crisi finanziarie globali. Tra gli economisti, Jacques De La Rosière, già governatore della Banca centrale di Francia e direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, afferma che le politiche monetarie accomodanti delle banche centrali stanno indebolendo l’intero sistema finanziario, rendendo così impraticabili anche gli eventuali futuri interventi di correzione.

Anzitutto, l’idea fissa di tutte le banche centrali di dover raggiungere il tasso d’inflazione del 2%, inteso come manifestazione del corretto andamento della gestione monetaria e dell’economia, è sbagliata. Chi la sostiene argomenta che sotto quel livello ci sarebbe sempre il rischio di deflazione, cioè un crollo dei prezzi.

L’ex direttore del Fmi afferma, invece, che questo target d’inflazione annuale dovrebbe essere abbassato all’1%. Vi sono, infatti, ragioni strutturali che modificano profondamente i dati che determinano i prezzi al consumo: l’invecchiamento della popolazione, il progresso tecnologico che diminuisce i costi di produzione, la globalizzazione che ha fatto entrare nei nostri mercati merci a prezzi stracciati perché prodotte con salari bassi e un mercato del lavoro bloccato. Perciò il target dell’1% non sarebbe in alcun modo un fenomeno deflattivo.

Lo stesso dicasi per il tasso di sconto applicato dalle banche centrali. Dovrebbe aumentare in situazioni di stabilità e di crescita economica. La storia lo insegna. E ci dice anche che gli ultimi 15 anni di politiche monetarie accomodanti (più liquidità con il quantitative easing e simili misure) di fatto non hanno prodotto una crescita significativa e un effettivo miglioramento delle varie economie..

Al contrario, sottolinea De La Rosiere, la prolungata e esagerata politica del tasso zero ha prodotto gravi conseguenze: una forte propensione al debito, un indebolimento del settore bancario, un peggioramento dei bilanci dei fondi pensione con investimenti in obbligazioni pubbliche senza rendimenti, la proliferazione di “imprese zombie” dove i tassi di interesse non giocano più il ruolo discriminante di “indice di qualità”, la spinta verso investimenti e prodotti finanziari ad alto rischio e la disincentivazione per i governi a intraprendere la strada delle riforme strutturali. 

Inoltre, con un tasso zero, le imprese, invece di nuovi investimenti, sono spinte a fare più debiti con cui comprare sul mercato le loro stesse azioni. Ciò crea l’illusione di stabilità.

In verità, l’aumento della produttività non ha alcun rapporto diretto con il tasso d’interesse ma riflette, invece, i processi d’istruzione, di formazione, di diffusione delle nuove tecnologie, del clima nel commercio internazionale…

A tutto ciò si aggiungono le gravi e irresponsabili politiche nazionaliste e quelle del “beggar thy neighbour”, impoverisci il tuo vicino. Perciò l’ex governatore della Bank de France vede l’attuale situazione mondiale molto critica e simile a quella degli Anni Trenta dello scorso secolo.

Anche la politica monetaria è in una pericolosa impasse con il rischio di non essere più in grado di intervenire in caso di necessità e di crisi. Servirebbe invece un accordo stabile nel sistema monetario internazionale.

Sulla stessa linea di De la Rosière si sono espressi anche Eric Lombard, direttore generale della Caisse des Depots (la CDP francese) e Olivier Klein, direttore generale della BRED, la più grande banca popolare e cooperativa di Francia.

Essi affermano che un’attenta analisi della passata crisi fornisce elementi per dire che anche oggi vi sono sintomi molto simili. In particolare, i tassi interesse inferiori a quelli della crescita per un periodo troppo lungo hanno creato un circolo vizioso in cui gli attori economici, invece di diminuire i loro debiti, sono stati indotti a aumentarli.

Questo processo ha portato a preferire operazioni finanziarie sempre meno liquide con alti rischi di credito. Secondo loro, la bolla potrebbe, quindi, scoppiare in caso di aumento dei tassi d’interesse. Essi stimano che la crisi potrebbe iniziare a seguito di qualche evento negativo, sia economico sia geopolitico, che mettesse in difficoltà il pagamento dei debiti.

Si aspettano che la crisi finanziaria possa avvenire in particolare nel settore dello “shadow banking”, cresciuto a dismisura. Le banche sarebbero, per fortuna, meglio capitalizzate. Immettere maggiore liquidità per aiutare gli attori economici indebitati in difficoltà, potrebbe accentuare il rischio di una crisi ancora più grande.

Da ultimo si è fatto nuovamente sentire un gruppo di ex governatori delle banche centrali di Germania, Austria e Olanda che in un memorandum hanno ripreso gli argomenti sopracitati. Però, con un giudizio negativo soprattutto nei confronti dei paesi europei più indebitati. Secondo loro la politica della Bce favorirebbe proprio questi ultimi. E’ chiaro che essi vorrebbero continuare con una politica di austerità più severa e più dura. Sarebbe una sciagura!

 E’ giunto il momento di sottrarci ai rischi di una nuova crisi, attraverso una sana politica di crescita economica, occupazionale e sociale e senza l’ossessiva e fallimentare politica di austerità a tutti i costi.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

URGE UNA PROFONDA REVISIONE DELLE REGOLE ECONOMICHE DELL’UNIONE EUROPEA!

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Il messaggio del presidente Mattarella per il riesame delle regole del Patto di stabilità, allo scopo di rinnovare la coesione europea e indirizzarla verso la crescita e gli investimenti produttivi, può aprire una stagione di grandi cambiamenti e innovazioni in tutti i campi della politica e dell’economia. Il Presidente interpreta bene le esigenze del nostro popolo e, soprattutto, la delicatezza della situazione che potrebbe minare l’unità dell’Unione europea.  Infatti, il momento economico è difficile per tutti i paesi dell’Ue, colpiti dalla recessione, dalla deflazione e da ondate destabilizzanti di guerre doganali. Ciò, però, potrebbe augurabilmente consentire a dare la spallata definitiva all’assurda politica dell’“austerità a tutti i costi”.

 Negli anni scorsi anche noi abbiamo sovente rilevato le esigenze più stringenti che in Europa si dovrebbero affrontare. Anzitutto sottrarre gli “investimenti per la crescita”, quelli in infrastrutture, reti, innovazione, educazione e ricerca, alla logica delle spese correnti, alle restrizioni di bilancio e al calcolo del deficit. Il rigore non può essere fine a se stesso. E’ da prima dell’Accordo di Maastricht che la politica economica dell’Ue è stata improntata all’esclusiva bussola dell’austerità. Oggi, per fortuna, anche gli economisti monetaristi riconoscono l’errore e ne ammettono il fallimento.  Tra l’altro, occorrerebbe ridefinire, con responsabilità e coraggio, anche la cosiddetta politica del bail in, che, in caso di crisi bancaria, prevede il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti della stessa banca. Fu introdotto nel 2016, quando era previsto soltanto il salvataggio con soldi pubblici.  

 Ora, a nostro avviso, sarebbe necessario introdurre la “separazione bancaria” tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le eventuali operazioni speculative dovrebbero essere consentite soltanto alle banche d’investimento. Alle altre, invece, dovrebbe essere vietato. Il risparmio delle famiglie andrebbe, quindi, maggiormente tutelato. Un bail in più duro dovrebbe essere applicato alle banche d’investimento che intendano usare i loro capitali per operazioni rischiose e speculative. 

 Per aiutare la ripresa economica si potrebbe, inoltre, come più volte in passato indicato, fare ricorso agli eurobond. Sebbene reputiamo ancora difficile e lontana la piena trasformazione dei debiti nazionali in debito europeo, gli eurobond di project financing, cioè obbligazioni europee mirate a specifici investimenti produttivi, potrebbero essere attivati da subito. Gli eurobond sarebbero emessi dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei) e acquistati dalla Bce ed eventualmente anche dagli Stati membri.

Finora il Quantitative easing della Bce è stato usato per acquistare titoli di Stato dei paesi Ue, in proporzione al loro livello di Pil, e altri titoli in possesso delle banche europee. Purtroppo, troppo spesso la liquidità ottenuta dalle banche non è stata destinata ai crediti per l’economia reale ma è stata deposita presso la stessa Bce. Sarebbe, invece, opportuno vincolare le politiche monetarie della Bce, e quindi anche il Qe,  direttamente ai programmi di sviluppo economico dell’Ue.

Naturalmente l’Europa non può sottovalutare i gravi problemi della fiscalità e la necessità della lotta contro l’evasione e l’elusione. Si stima che l’evasione fiscale a livello europeo sia di circa 900 miliardi di euro. La cifra è enorme, in cui la quota italiana è, purtroppo, notevole. 

La tassazione delle grandi imprese multinazionali, che finora hanno cercato abilmente di sottrarsi ai controlli, non è rinviabile. La vera sfida è uniformare i sistemi fiscali dei vari paesi Ue. Del resto non si può ignorare che alcuni paesi – Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda – “mostrano tratti da paradiso fiscale e facilitano l’approccio fiscale aggressivo”, come dice anche il rapporto preparato da una commissione del Parlamento europeo.

L’Europa deve sempre più essere la nostra casa comune. Perciò, a partire dall’Italia, è dovere di tutti mantenerla, cambiarla e migliorarla. 

 *già sottosegretario all’Economia

 **economista

 

 

 

 

 

 

Come prevedibile, le agenzie di rating sono tornate al centro della scena in modo irritante: e hanno declassato il sistema Italia al livello BBB.

Le agenzie di rating e le responsabilità della Bce

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Come prevedibile, le agenzie di rating sono tornate al centro della scena in modo irritante. Seguendo l’esempio delle famose ‘tre sorelle’, la Standard & Poor’s, la Moody’s e la Fitche, anche la Dbrs canadese si è autonomamente assunta l’autorità morale e politica e ha declassato il sistema Italia al livello BBB.

Allo stesso tempo l’americana Moody’s sta patteggiando con il dipartimento di Giustizia americano il pagamento di una multa di ben 846 milioni di dollari per aver gonfiato le sue stime sui titoli tossici, a suo tempo legati ai mutui immobiliari, che contribuirono alla grande crisi finanziaria. E’ noto che in precedenza la stessa S&P aveva patteggiato una multa simile per 1,37 miliardi di dollari.

La decisione della Dbrs, già Dominion Bond Rating Service, è stata motivata con la solita “lista della spesa”: incertezza politica, debolezza del sistema bancario, alto livello delle sofferenze creditizie, crescita bassa e alto debito pubblico, ecc. L’analisi negativa è infarcita anche di semplicistiche e banali riflessioni sulla nuova legge elettorale e sulle future elezioni. Ovviamente avrà un ulteriore e concreto impatto negativo sulla credibilità dell’Italia. In particolare, quando le banche italiane chiederanno un prestito alla Bce dovranno portare in garanzia beni, titoli di stato, in quantità maggiore rispetto a prima. Il declassamento certifica l’aumento del “rischio paese” con conseguenti effetti sui mercati, sui titoli obbligazionari e sulla propensione a investire.

In verità, la cosa più irritante è il comportamento della Bce e delle altre istituzioni europee che tacciono sulle nuove evoluzioni delle suddette agenzie.

Negli anni passati si è molto parlato della necessità di creare un’agenzia di rating europea indipendente. Alla fine non se ne è fatto niente.

Nonostante il fatto che varie commissioni d’indagine del Congresso americano avessero denunciato le tre grandi agenzie di rating americane per complicità, corruzione, conflitto di interesse e per tante altre malefatte in relazione alla bolla dei mutui subprime e a quella dei derivati finanziari ad alto rischio, la Bce non ha mai volute mettere in discussione la credibilità delle “tre sorelle”. Ha solo deciso nel 2008 di affiancare loro la Dbrs, volendo forse farci illudere che, in quanto canadese, essa sarebbe potuto essere realmente indipendente. Niente di più errato. Purtroppo è proprio la Bce a conferire alle quattro agenzie di rating l’autorità di interferire pesantemente con l’andamento economico dei paesi europei.

Per qualche ragione inspiegabile la Bce e altri istituti europei sono stati e sono ancora meno critici e più tolleranti verso l’operato delle agenzie di rating rispetto alle stesse autorità americane. E’ il momento che Francoforte dia qualche spiegazione.

La Dbrs, creata nel 1976, ha il suo quartier generale a Toronto, in Canada, ma oggi è forse la più americana di tutte. Dal 2015 essa è controllata da un consorzio di interessi, guidato dal The Carlyle Group di Washington e dalla Warburg Pincus di New York.

La Carlyle è il più grande private equity al mondo coinvolto soprattutto nei settori della difesa e degli investimenti immobiliari. Si ricordi che il private equity è un fondo che di solito raccoglie capitali privati con l’intenzione di acquisire imprese non quotate in borsa. La Carlyle è impegnata in numerosi fondi di investimento e anche in hedge fund speculativi. Fino al 2008 era conosciuta come la multinazionale che vantava stretti rapporti politici, in particolare con la famiglia Bush e con la casa reale saudita. Una sua controllata, la Carlyle Capital Corporation, che si era specializzata nella speculazione finanziaria con derivati emessi sui mutui subprime e sulle ipoteche, nel 2008 divenne insolvente (in default) per oltre 16 miliardi di dollari!

Anche Warburg Pincus è un fondo di private equity frutto della fusione di due banche. Esso è grandemente impegnato nei settori dei servizi finanziari, dell’energia e delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Il suo presidente attuale è Timothy Geithner, già ministro del Tesoro dell’Amministrazione Obama, che ha coordinato tutte le operazioni di salvataggio finanziario delle banche e delle assicurazioni in crisi dopo il 2008.

E’ doveroso chiedere alla Bce di rendere conto delle ragioni della grave decisione di sottoporre governi e istituti creditizi alla valutazione di agenzie di rating non affidabili, forse politicamente condizionate e sicuramente interessate agli andamenti di borsa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Gli USA, in buona parte parassiti del mondo

 

Gli Usa vivono in gran parte sulle spalle del resto del mondo

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

Anche negli Usa non è tutto oro quello che luccica. Nel mondo non è adeguata l’attenzione all’andamento del debito degli Stati Uniti. La realtà è che esso, insieme ad altri indicatori economici, segna rosso costante.

E’ come per le automobili, quando il cruscotto segnala un problema, anche se la macchina ancora cammina non è consigliabile continuare a guidare come se nulla fosse.

E’ un dato inoppugnabile che ciò che avviene negli Usa non riguarda solo gli americani perché esso riverbera i suoi effetti nel resto del mondo.

All’inizio del 2016 il debito pubblico federale americano ha raggiunto i 19.200 miliardi di dollari, pari a circa il 105% del Pil. Alla fine del 2007 era di 9.200 miliardi pari al 65% del Prodotto interno lordo. Nel 2000 era di 5.600 miliardi. In pratica si è più che triplicato. Perciò per il sistema americano è il suo tasso di crescita, o meglio, di accelerazione della sua crescita esponenziale che deve preoccupare maggiormente.

Lo stesso andamento si è avuto per il debito delle corporation private non finanziarie che oggi è pari a 6.600 miliardi di dollari. Era di 3.300 miliardi nel 2007ed è raddoppiato.

Di conseguenza non ci si deve stupire dell’attuale stratosferica cifra di quasi 64.000 miliardi di debito totale (governo federale, singoli stati, enti locali, business, famiglie e ipoteche). Era di 28.600 miliardi nel 2000. Si sottolinea che oggi è evidente che è più che raddoppiato.

In pratica si tratta in gran parte di “debito sporco”. Fatto per tappare i buchi di bilancio, per evitare i fallimenti di banche e corporation e non per sostenere investimenti e sviluppo. La spia rivelatrice è il perenne deficit di bilancio degli Usa. Nel 2009 esso aveva raggiunto l’incredibile vetta di 1.413 miliardi di dollari portando gli Usa fino alla soglia della bancarotta. Anche il 2015 si è chiuso con un deficit di 438 miliardi.

Significativo quanto preoccupante è il crollo della bilancia commerciale. Dal 2000 ad oggi gli Usa hanno accumulato un deficit commerciale di oltre 8.630 miliardi di dollari. Dallo scoppio della crisi ad oggi è aumentato di ben 3.500 miliardi. Sarebbe ancora peggiore se si considerasse soltanto la bilancia commerciare di beni reali che dal 2000 è in negativo per oltre 10.500 miliardi. Quasi 4.700 miliardi a partire dal 2009.

E’ evidente che l’avanzo commerciale nel settore dei servizi ne attenua la portata. Anche se nei servizi convivono quelli dell’ingegneristica e quelli finanziari, dove la componente speculativa è notevole.

E’ quindi naturale chiedersi come facciano gli Usa a continuare a stampare e a spendere dollari quando l’economia sottostante,come visto, non è tanto solida.

Il tutto sembra molto simile al gioco delle tre carte.

La prima è sicuramente il Quantitative easing, cioè la decisione a suo tempo adottata dalla Federal Reserve di immettere nuova liquidità nel sistema.

L’effetto è ben visibile nella crescita straordinaria del bilancio della Fed che è passato da 860 miliardi di dollari del 2007 ai circa 4.500 miliardi di oggi. La decisione della Fed e del governo di Washington anche se ha una valenza monetaria è soprattutto politica. Secondo noi la situazione non può durare all’infinito. I nodi prima o poi verranno al pettine.

La seconda carta è il debito pubblico americano, finora largamente scaricato sulle ‘spalle’ del resto del mondo che, in verità, per varie ragioni ha assecondato tale tendenza.

Infatti circa 6.000 miliardi di dollari di obbligazione del Tesoro Usa sono in mani straniere. La Cina da sola ne ha 1250 miliardi ed il Giappone ne possiede ben 1.133 miliardi. La Fed ha in bilancio T-bond fino a 2.500 miliardi.

La terza carta si chiama derivati otc (over the counter), cioè quelli trattati al di fuori dei mercati regolamentati e tenuti fuori dai bilanci. Si sottolinea che, a seguito del tasso di interesse zero, il’ammontare complessivo di tali derivati a livello mondiale è sceso a 500.00 miliardi di dollari. Però di questi ben 180 mila sono nella banche americane. Come è noto, i derivati sono un mezzo per generare nuova liquidità quando se ne ha bisogno. Sono titoli creati attraverso una forte leva finanziaria e con alti rischi. Possono anche essere messi in garanzia per ottenere dei prestiti veri dalla Fed o dalla Bce.

Fin tanto che gli Usa riescono a scaricare il proprio debito sul resto del mondo e sui propri cittadini avranno mano libera per creare la liquidità necessaria per continuare a comprare a debito e finanziare spese di ogni tipo prescindendo, purtroppo, dalla loro effettiva capacità economica e finanziaria.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Dove ci porta il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita e purtroppo tuttora egemone

Stato e mercato: una contrapposizione non obbligata

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La Banca Centrale Europea ha deciso di rilanciare alla grande il suo Quantitative easing nella speranza di far crescere l’inflazione al 2% e di far aumentare investimenti e crescita. Ha portato i tassi di interessi a meno 0,4% per i depositi effettuati dalle banche presso la Bce. L’intento è quello di dissuaderle dal ‘parcheggiare i soldi’ nei forzieri di Francoforte invece di indirizzarli verso l’economia reale.

Draghi ha annunciato anche nuovi crediti alle banche al tasso di meno 0,4%. per la durata di 4 anni In altre parole esse restituiranno meno di quanto hanno ottenuto. Si vuole portare inoltre da 60 a 80 miliardi di euro al mese l’ammontare per acquisti di obbligazioni pubbliche e private, suscitando in verità critiche per l’estensione ai bond societari.

Di fatto si intende continuare con la politica fallimentare finora attuata. Se ne aumenta le dimensioni e si continua a considerare il sistema bancario l’unico referente, ignorando che esso è più interessato a coprire i propri buchi di bilancio che a sostenere investimenti e imprese. I dati e i fatti degli anni passati sono rivelatori e inconfutabili. Non si tratta di un’opposizione preconcetta. Di ideologico c’è invece la fede cieca negli automatismi monetari e finanziari. Si sostiene che i tassi di interesse bassi e una liquidità crescente andrebbero automaticamente a finanziare gli investimenti.

E’ lo stesso atteggiamento ideologico imposto dalle economie dominanti del G20, quella americana, quella europea e quella giapponese. A Shanghai è stata presa la decisione di fare crescere gli interventi nelle infrastrutture sia in termini quantitativi che qualitativi. Le Banche di Sviluppo regionali sono state perciò invitate a preparare progetti ambiziosi e di alta qualità anche per attrarre settori della finanza privata verso la concessione di prestiti di lungo termine. Al prossimo summit del G20 allo scopo dovrebbe essere creata una ‘alleanza globale di collegamento infrastrutturale’.

Gli intenti ci sembrano positivi anche se preoccupa la mancanza di attori capaci di realizzarli. Le banche centrali creano liquidità e si aspettano che “il mercato” la porti verso gli investimenti. Il G20 propone lo sviluppo infrastrutturale ma si aspetta che sia sempre “il mercato” a finanziarlo. Cosa succede se il ‘dio mercato’ non funziona secondo le aspettative, come è successo negli anni passati?

Il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita e purtroppo tuttora egemone, invita a non intervenire, a lasciare che sia solo il mercato con le sue leggi a rilanciare la ripresa e a ristabilire un equilibrio virtuoso. Noi riteniamo che questa non sia la strada obbligata. Occorre un ‘different thinking’.

Gli esempi storici più vicini e simili a quelli dell’attuale crisi globale ci indicano strade e prospettive differenti e alternative.

Si pensi al ‘New Deal’ del presidente americano F. D. Roosevelt quando, per uscire dalla Grande Depressione del 1929-33, egli lanciò il vasto programma di investimenti infrastrutturali e di modernizzazione tecnologica. Dopo avere messo sotto controllo e neutralizzato la finanza speculativa, egli favorì la creazione di nuove linee di credito e nuovi bond del Tesoro per finanziare importanti progetti, utilizzando anche il veicolo delle istituzioni bancarie statali . Di fatto si trattava di uno dei primi esperimenti riusciti di Partenariato Pubblico Privato. Lo Stato era la guida, il finanziatore e la garanzia della continuità e della riuscita dei progetti mentre le imprese private, non solo quelle statali, erano impegnate nella loro realizzazione.

Oggi invece, nonostante quasi 8 anni di vani tentativi per portare l’economia e la finanza globale fuori dalle sabbie mobili della recessione, la parola Stato resta uno dei grandi tabù. Non si tratta di proporre un ritorno allo statalismo pervasivo ma di trovare soluzioni razionali. Se il mercato da solo non basta occorre che la politica di sviluppo e di crescita sia guidata dagli Stati. Del resto la programmazione economica e la pianificazione territoriale spettano allo Stato.

Nel mondo non c’è stato soltanto la pianificazione quinquennale dei Paesi socialisti, ma anche la ‘planification indicative’ di Charles De Gaulle e in Italia l’esperimento positivo dell’IRI nella ricostruzione del dopoguerra. In Francia l’economia dirigista, il piano di orientamento in lotta contro le inevitabili tendenze alla burocratizzazione, cercava di mettere insieme le varie componenti sociali ed economiche del Paese evitando che esse si neutralizzassero tra loro. Il ‘Commissariat au Plan’ doveva definire le priorità nazionali e, attraverso i momenti della concertazione, della decisione e della realizzazione, lavorare per creare un’armonia di interessi superando certe derive corporative.

Si pensi che negli stessi Stati Uniti, patria del liberismo economico imperante, certi settori delicati, come quello militare, sono ancora guidati dallo Stato ma con il contributo essenziale delle imprese private ad alta tecnologia.

In una economia sociale di mercato la collaborazione pubblico-privato dovrebbe essere una costante, un impegno per i governi e per gli stessi operatori privati.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Le banche minori e la crescita economica europea

Il ruolo delle banche minori nella crescita economica

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Da un po’ di tempo le banche regionali e quelli di credito cooperativo sono al centro della discussione. Di una particolare attenzione lo sono anche da parte della Banca centrale europea che le vorrebbe sottoposte alla sua supervisione e riformate secondo un’ottica di maggiore aggregazione. Non solo perché alcune di loro sono entrate in crisi. E non solo in Italia, ma in tutta l’Europa.

Tecnicamente le istituzioni bancarie di piccole e medie dimensioni sono chiamate ‘less significant institutions’. Entità ‘meno significative’ rispetto a quelle di ‘importanza sistemica’, che per questo sono spesso considerate too big to fail.

Nell’intera area euro vi sono circa 3300 gruppi bancari, di cui 129 di dimensioni notevoli e perciò supervisionate dalla Bce.

Le circa 3200 piccole e medie banche restanti rappresentano il 18% di tutte le attività del sistema bancario europeo. Sono quasi tutte concentrate in tre Paesi, la Germania, l’Italia e l’Austria. Le suddette piccole banche hanno però bilanci pari all’80% della somma del Pil della Germania e dell’Austria.

Esse rappresentano la più importante ‘catena di trasmissione’ del credito produttivo verso le imprese di piccola e media dimensione che, non solo secondo noi, sono la spina dorsale e l’interna ossatura dell’economia. In Germania, per esempio, le ‘meno significative’ finanziano il 70% dell’economia.

Il loro tasso di capitale, il cosiddetto Tier 1, è mediamente del 15,2%, straordinariamente superiore al minimo richiesto per le tutte le banche della zona euro che è del 6%. E’ una eccellente garanzia per poter far fronte a situazioni difficili. Secondo le stime, le ‘piccole’, soprattutto in Germania, sono piene di liquidità e in cerca di investimenti e di rendimenti più alti. Non manca loro il mercato. Manca, invece, la stabilità delle imprese e delle famiglie a causa della recessione economica.

Naturalmente esse soffrono moltissimo per la prolungata politica dei bassi tassi di interesse sui prestiti concessi. Di fatto l’interesse sui crediti è ‘il motore’ per generare i loro introiti. A loro non è permesso speculare né tanto meno operare con derivati o con altre operazioni finanziarie ad alto rischio.

Adesso la Bce e il Single Supervisory Mechanism per il controllo bancario hanno deciso di intervenire sulle banche ‘less significant’ con l’intenzione di sottoporle a una supervisione più stringente sia europea che nazionale, a una revisione del loro modello di business, di governance e delle loro strategie. Di fatto ciò potrebbe comportare un processo di fusione, di possibili cambiamenti del loro status giuridico e di conseguenza determinare la possibilità di essere partecipate o addirittura acquisite dalla banche di rilevanza sistemica.

In altre parole le istituzioni monetarie europee, comprese quelle italiane, intendono far fronte, a loro modo, a quella che esse definiscono “la sfida al tradizionale modello di business delle banche di piccola e media dimensioni”. Ciò nonostante esse riconoscano che le banche minori sono “solvibili, liquide, con un basso tasso di crediti inesigibili e con riserve considerevoli”. Oltre al fatto che le banche regionali hanno davvero il polso delle situazioni economiche e imprenditoriali locali e spesso una vera conoscenza diretta dei propri clienti e del loro profilo di rischio.

Lo stesso non si può dire delle grandi banche. Che, oltre ad essere principalmente coinvolte in operazioni di cosiddetta “alta finanza” , hanno spesso una scarsa conoscenza della propria clientela.

Si dovrebbe perciò chiedere perché le istituzioni europee privilegino le banche con grandi numeri e pochi legami con i settori portanti dell’economia reale. Non si comprende perché si voglia intervenire sulle reti di banche locali e regionali che notoriamente affiancano le imprese nelle produzioni, nelle modernizzazioni e nell’espansione verso nuovi mercati, anche i più lontani.

Se la priorità dei governi, compreso quello italiano, è – o dovrebbe essere – la ripresa economica e l’occupazione, perché non valorizzare ulteriormente il meccanismo virtuoso delle banche di credito locale? A loro si può chiedere più informazione, imporre più controlli, ma bisognerebbe anche offrire maggiori sostegni per continuare ad operare con un modello ben funzionante e collaudato di supporto delle imprese. Il falso argomento delle loro dimensioni contenute non è convincente. Non si tratta di esaltare il “piccolo è bello” ma di salvare e sostenere ciò che ha funzionato e continua ancora a funzionare.

In Italia il caso della Banca Etruria e delle poche altre banche locali è l’eccezione rispetto ad una rete che oggettivamente si deve ritenere efficace e positiva per l’economica locale e nazionale.

L’imperativo pertanto, almeno nel nostro Paese, dovrebbe essere quello di colpire severamente i responsabili della bancarotta delle poche banche disastrate da gestioni scellerate e sostenere invece quelle che meritoriamente sono gestite correttamente e danno il giusto sostegno allo sviluppo dei territori i cui operano, spesso quelli più svantaggiati.

*già sottosegretario all’Economia **economista

1) – Rischi finanziari peggiori del 2007? 2) – Politiche sbagliate della FED e delle banche centrali: dal 2005 ad oggi negli Usa sarebbero stati usati ben 4,21 trilioni di dollari in operazioni di riacquisto dei propri titoli.

Rischi finanziari peggiori del 2007?

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

«Il sistema finanziario globale è diventato pericolosamente instabile ed è di fronte ad una valanga di bancarotte che metterà alla prova la stabilità sociale e politica». Queste sono le autorevoli parole di William White che è presidente dell’Economic Development and Review Committe dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD). Già economista capo della Banca dei Regolamenti Internazionali, egli da tempo sottolinea le sue preoccupazioni in interviste e dichiarazioni pubbliche. Recentemente lo ha fatto in relazione al Forum Economico Mondiale di Davos.
White ha per decenni anche lavorato nelle banche centrali del Canada e della Gran Bretagna, a contatto quindi con i ‘decision maker’ finanziari della City. Prima del collasso della Lehman è stato uno dei pochi a denunciare l’inevitabile deriva del sistema. Aveva tra l’altro dimostrato come la liberalizzazione dei mercati finanziari, la cosiddetta deregulation, stesse provocando una crescita eccezionale dei prestiti e dei valori finanziari.
Il problema centrale è rappresentato, quindi, dall’aumento esponenziale del debito in ogni parte del mondo nei passati 7 anni, tanto che, per White, «la situazione di oggi è peggiore di quella del 2007».
Per quanto riguarda l’Europa, le banche europee hanno crediti in sofferenza (non-performing loans) per circa 1.000 miliardi di euro! Si tratta di prestiti, concessi sia nel mercato interno sia in quello delle economie emergenti, che finora sono stati tenuti nascosti nei bilanci delle banche come dei ‘cadaveri imbalsamati’.
In mancanza di un accordo globale e di una nuova architettura del sistema finanziario da rendere operativa in modo congiunto e celere, la questione di fondo è come gestire le cancellazioni del debito impagabile e il riordino del sistema senza creare sconquassi economici e tempeste politiche.
Si tratta di riprendere la discussione sul ‘curatore fallimentare’, purtroppo da tempo abbandonata. E’ una cosa che non si può lasciare in gestione a livello di singoli Paesi perché necessita di regole globali e condivise, che coniughino giustizia economica e ripresa con assoluta priorità rispetto agli egoismi locali e ai dettami dei più forti.
L’assenza di una chiara visione delle responsabilità e dei metodi di intervento del ‘curatore fallimentare’ è ben visibile anche nel caos creatosi intorno alla bancarotta delle quattro piccole banche regionali italiane in cui, oltre alla mancanza di trasparenza e di giustizia, hanno dominato l’improvvisazione, l’incompetenza e gli interessi particolari di amici e lobby locali.
Oggi il totale dei debito pubblico e privato è salito ai limiti massimi: è il 265% del Pil nel club dei Paesi della citata OECD e il 185% del Pil nei mercati emergenti. Entrambi registrano un aumento del 35% rispetto al 2007.
Secondo l’agenzia di stampa economica americana Bloomberg, il debito delle grandi corporation a livello mondiale sarebbe di 29 trilioni di dollari. La metà delle multinazionali comprese nel listino borsistico S&P di Wall Street non guadagnerebbe abbastanza per pagare il servizio del proprio debito.
I Quantitative easing hanno creato e mantengono l’effetto di poter continuare a spendere non in relazione alle reali possibilità dell’attuale situazione economica e di bilancio ma in deficit prendendo a prestito dal futuro. Ciò nel tempo diventa una “dipendenza tossica” facendo smarrire il senso e il rapporto con la realtà. Ad un certo punto però anche il futuro presenterà il conto. Non si può continuamente spendere oggi i soldi che saranno eventualmente guadagnati domani!
Si noti anche che gran parte della nuova liquidità è stata usata dalle grandi corporation e dalle banche per crescenti operazioni di riacquisto delle proprie azioni. Il Wall Street Journal stima che dal 2005 ad oggi negli Usa sarebbero stati usati ben 4,21 trilioni di dollari in operazioni di riacquisto dei propri titoli. Si tratta di circa un quinto dell’attuale valore totale dei titoli della borsa americana. Sono in gran parte operazioni cosmetiche che hanno dirottato importanti risorse a discapito degli investimenti, della modernizzazione tecnologica e dell’occupazione.
Il debito eccessivo è una trappola nella quale, secondo White, sarebbe caduta anche la Fed. La situazione è quindi talmente deteriorata che non si riesce a trovare la giusta soluzione: se si aumentano i tassi di interesse essa diventa ancora più difficile e pesante, se invece non si aumentano essa sicuramente peggiora.
Ancora una volta viene chiamato in causa il potere politico e la sua responsabilità nella definizione di nuove regole per il sistema finanziario. 

————————–

Forti dubbi sulle politiche della Fed e delle banche centrali

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Emerge sempre più chiaramente che, per far fronte agli effetti della grande crisi finanziaria globale, il metodo e le politiche della Federal Reserve e delle altre banche centrali non funzionano. Adesso anche gli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, che coordina tutte le banche centrali, lo affermano.
La Fed e le altre , in primis la Bce, hanno affrontato il fenomeno delle tre B, la bassa crescita, la bassa inflazione ei bassi tassi di interesse, con una politica monetaria espansiva. Hanno enfatizzato gli aspetti ciclici della domanda ritenendo le prolungate politiche di Quantitative easing atte a far crescere la domanda e i consumi riattivando un certo dinamismo economico. In realtà tale approccio ci sembra semplicistico e di breve respiro.
Ciò, purtroppo, ha indotto anche a minimizzare l’importanza dei problemi di bilancio e della necessità di una corretta allocazione delle risorse. Questi sono i veri impedimenti alla crescita, i fattori che operano lentamente ma i cui effetti si accumulano nel tempo.
Infatti una “recessione patrimoniale” o dei saldi di bilancio (balance sheet recession) si verifica quando imprese altamente indebitate tagliano gli investimenti e le attività per abbattere i livelli del loro debito. Solitamente ciò coincide con la diminuzione permanente delle produzioni e con una ripresa molto debole. Simili processi, che si generano dopo lo scoppio della bolla finanziaria, nascondono anche il fatto che già prima della crisi la crescita economica non era di fatto sostenibile. La crisi del settore immobiliare, che ha vissuto una crescita spasmodica, ne è un esempio.
Inoltre nel periodo precedente lo scoppio della crisi si era avuto una grande espansione del credito e di altri strumenti finanziari che hanno indotto una erronea allocazione delle risorse a danno della crescita economica. Si consideri che, ad esempio, molta forza lavoro è stata assorbita dal settore delle costruzioni che ha una produttività più bassa della media.
Perciò in una “recessione patrimoniale” la domanda debole non è il solo problema e la cura monetaria non può essere l’unica risposta. La questione più importante era e rimane la necessità di risistemare i bilanci ed operare delle riforme strutturali per facilitare una migliore allocazione delle risorse e sostenere la ripresa degli investimenti reali.
Sul fronte dei bilanci, purtroppo, si è accentuato la crescita del debito. E non solo quello dei governi per sostenere le varie operazioni di salvataggio e i cosiddetti stimoli economici. Grazie anche ai bassi tassi di interesse la Fed ha permesso una crescita spettacolare dei crediti in dollari concessi negli Usa e nel resto del mondo, soprattutto nelle economie emergenti. Infatti i prestiti in dollari detenuti da imprese economiche non bancarie fuori degli Usa hanno raggiunto i 9,8 trilioni!
I bassi tassi di interesse sono diventati una droga di cui il sistema finanziario pensa di non poter fare a meno. Nel contempo però ciò ha abbassato largamente i margini di profitto delle stesse banche, incentivato la propensione a rischi più alti e inflazionato i prezzi di molti titoli, a cominciare da quelli trattati nelle borse. Tutto ciò ha creato pericolosi sbilanciamenti in particolare in quelle economie che subiscono gli effetti finali delle politiche della Fed.
Per quanto riguarda il settore bancario, tale politica, invece di operare con strumenti di lungo termine per sanare situazioni finanziarie gonfiate e risolvere certe insolvenze, ha spregiudicatamente continuato a effettuare operazioni ad alto rischio. Lo si vede in particolare nell’atteggiamento aggressivo delle “too big to fail” in Usa.
In Europa ciò appare nei comportamenti, mai veramente sanzionati, della Deutsche Bank, la banca N.1 dei derivati speculativi, coinvolta in innumerevoli indagini per frode e malversazioni a livello mondiale, e anche nell’incapacità di governare nel nostro Paese i 200 miliardi di sofferenze e le crisi delle piccole banche regionali.
La BRI mette sull’avviso che nei prossimi mesi l’economia globale, già calata, sarà influenzata negativamente anche da tre nuove evoluzioni: 1) la Cina che si muove verso un modello differente di crescita più orientata verso il mercato interno), 2) la prospettiva che i prezzi delle commodity rimangano a livelli più bassi e per un lungo periodo, 3) la crescente divergenza nella politica monetaria delle economie dominanti, dove la Fed aumenta i tassi di interesse mentre la Bce continua la sua politica accomodante con tassi addirittura decrescenti.
E’ per questo che gli economisti della BRI – e noi con loro – sono arrivati a denunciare come miope e irresponsabile chi pensa che “quello che succede fuori dai miei confini non mi interessa”.

+ Già sottosegretario all’Economia

**Economista

ANNO NUOVO, RISCHI FINANZIARI NUOVI

2016: NUOVI RISCHI FINANZIARI GLOBALI

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

La Federal Reserve, come previsto, ha chiuso il 2015 con un aumento del tasso di interesse dello 0,25%. Evidentemente si intenderebbe dare il messaggio di fine della crisi negli Stati Uniti. C’è da augurarselo per la ripresa globale. Non vorremmo però che ci si debba ricredere.

La politica degli anni passati del Quantitative easing e del tasso di interesse zero non ha risolto i problemi . In questo periodo sono stati immessi 3,5 trilioni di dollari nel sistema bancario. Solo la borsa americana ne ha beneficiato. Rispetto al crollo del 2008 gli aumenti sono stati del 96% per l’indice Dow Jones, del 124% per quello S&P 500 e del 214% per il Nasdaq.

Nei sistemi finanziari e nelle economie di molti altri Paesi, invece, ha lasciato profonde ferite. Nei mercati emergenti molte imprese sono state invogliate ad accendere tanti e nuovi debiti in dollari, molto spesso per operazioni rischiose e poco produttive. Del resto i costi apparivano molto contenuti. Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali il debito totale delle imprese private dei Paesi emergenti ha raggiunto i 3,4 trilioni di dollari, più del doppio rispetto al livello di prima della crisi.

Con la continua svalutazione delle proprie monete nazionali, le economie emergenti hanno sempre più difficoltà a pagare debito e interessi. Per coprire i buchi finanziari attingono al bilancio pubblico scatenando gravi tensioni sociali. Adesso ogni aumento del tasso di interesse americano suona come una minaccia alla propria stabilità nazionale ed economica. Inoltre, l’attuale discesa dei prezzi della materie prime, di cui sono largamente produttori , e l’atteso rallentamento delle economie emergenti nel loro insieme, non solo quello della Cina, rappresentano un ulteriore aggravamento. Se si tiene presente che esse rappresentano il 40% del Pil mondiale, la loro instabilità rischia di avere delle conseguenze negative globali.

Il tasso zero e la liquidità a “go-go” hanno generato una tendenza simile anche negli Usa. Invece di essere utilizzata per espandere il business, la liquidità è spesso servita per fusioni e acquisizioni. Quest’anno ben 327 miliardi di dollari sono finiti in tali operazioni. Inoltre tra il 2009 e il 2014 ben 1.200 miliardi di dollari sono stati riversati nei fondi che trattano obbligazioni corporate. Perciò anche l’Office of Financial Research del ministero del Tesoro americano nel suo recente rapporto annuale intravede dei “rischi elevati” per il rifinanziamento dei debiti obbligazionari del settore non finanziario.

Non è un caso quindi che nelle scorse settimane una serie di fondi di investimento che operavano con i cosiddetti “junk bond” , i titoli spazzatura ad alto rischio, siano andati in crisi. Il settore era cresciuto moltissimo negli anni passati, particolarmente nel campo energetico. Di fatto esso aveva rimpiazzato quello delle ipoteche sub prime dominante prima della crisi. Ciò ha generato delle ulteriori vendite sul vasto mercato dei junk bond con riverberi negativi sull’intero mercato delle obbligazioni. Si stima che vi siano circa 1,4 trilioni di junk bond che richiederanno un rifinanziamento a breve.

Una delle aspettative derivante dall’aumento del tasso di interesse sarebbe quella di ridurre la tendenza del sistema bancario e di quello corporate a ricorrere al prestito facile. Ma in realtà le banche americane hanno già delle gigantesche riserve in eccesso, pari a 2,42 trilioni di dollari, per cui il menzionato aumento difficilmente determinerà mutamenti nel loro comportamento.

Come sappiamo la Banca centrale europea, invece, intende perseguire una politica espansiva della liquidità. Occorrerà stare attenti che non si generi il cosiddetto “euro carry trade”, cioè la tendenza ad approfittare dell’euro a tasso zero per attingere a crediti che potrebbero andare in attività, anche speculative, fuori dall’Europa. Proprio come in passato è accaduto con lo yen e con lo stesso dollaro.

Considerati i rischi di nuove turbolenze, sarebbe il caso che in Europa e anche in Italia si affrontassero con chiarezza e decisione le crescenti difficoltà del sistema bancario. Servono più controlli stringenti sulle sue attività, divieto assoluto delle operazioni ad alto rischio sia in derivati che in junk bond, maggiore tutela dei risparmiatori e forti sanzioni penali nei confronti degli amministratori e dei manager bancari che non rispettano le norme.  

*già sottosegretario all’Economia

**economista

Il fiume di denaro erogato dalla BCE per far ripartire l’economia europea verrà parcheggiato nelle banche?

QE europeo: verrà “parcheggiato” nelle banche?

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** 

C’è troppa “psicologia” e poca economia reale nel quantitative easing, l’allargamento quantitativo di Mario Draghi. E anche in molti commenti alla politica della Bce.

Il governatore centrale europeo afferma chiaramente che gli acquisti per 60 miliardi di euro, di bond dei debiti pubblici, di attività cartolarizzate (asset-backed securities) e di obbligazioni garantite, ogni mese fino a settembre 2016, ed eventualmente oltre, servono essenzialmente a far salire il tasso di inflazione fino al 2%. La mission del QE della Bce, quindi, è questo cosiddetto “medium term price stability” .

Nel suo recente discorso al Center for Financial Studies di Francoforte dell’11 marzo ha ripetuto per almeno una dozzina di volte questa valutazione. Infatti, secondo la Bce, l’indicatore principale per poter dire se ci sono stabilità e ripresa oppure deflazione e crisi è costituito di fatto dal dato relativo all’inflazione. A noi sembra un approccio errato e fuorviante. Si tratta di una strana e limitativa idea, molto simile a quella che aveva il governatore della Fed, Ben Bernanke, negli anni del crac finanziario, quando intravedeva nell’andamento del mercato immobiliare americano l’oracolo per capire l’evoluzione della crisi globale.

La domanda vera dovrebbe essere: quanta parte dei nuovi soldi immessi nel sistema andrà veramente a sostenere gli investimenti nell’economia reale e i redditi delle famiglie, generando maggiore occupazione?

Occorre tenere presente che le obbligazioni dei debiti pubblici saranno acquistate sul mercato secondario, di fatto quindi comprate dalle banche. Lo stesso dicasi per gli abs. Perciò la massa di liquidità fluirà nel sistema bancario e, ancora una volta, senza alcuna condizione. Infatti, al di la dei desideri del governatore Draghi, non c’è nessun impegno formale a che essa affluirà verso il sistema produttivo.

Del resto l’esperienza degli oltre mille miliardi di fondi TLTRO, dalla Bce in passato messi a disposizione delle banche europee a bassissimi tassi di interesse, non è stata affatto positiva. Anzi, i crediti concessi dalle grandi banche ai settori non finanziari dell’economia sono addirittura diminuiti. Era di -3,2% a febbraio 2014, rispetto a dodici mesi precedenti, e si è ridotto a -0,9% lo scorso gennaio, ma resta sempre negativo. Soltanto le banche di credito cooperativo e quelle locali collegate al territorio hanno mantenuto e aumentato i flussi di credito alle Pmi e alle famiglie.

Mentre negli Usa l’accesso al capitale passa per due terzi attraverso il mercato e solo per un terzo attraverso il sistema bancario, in Europa è esattamente il contrario.

Draghi ammette che, acquistando titoli di Stato e abs, la Bce di fatto “pulirà” i bilanci delle banche che, di conseguenza, dovrebbero allargare i loro prestiti. In pratica, mentre è certo il beneficio al sistema delle grandi banche europee, non c’è affatto garanzia che esse aumenteranno i crediti alle industrie e alle altre attività volte alla modernizzazione e all’esportazione.

Certamente il QE della Bce farà scendere i rendimenti dei titoli dei debiti sovrani. Alcuni miliardi di euro di interessi saranno risparmiati. I bilanci degli Stati ne gioveranno. Si dovrebbero anche migliorare le condizioni di indebitamento delle imprese e delle famiglie. La maggior liquidità contribuirà a mantenere basso il cambio dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre monete rendendo più competitive le esportazioni europee. L’altra faccia della medaglia sarà il maggior costo delle materie prime importate. Ovviamente gran parte di essa finirà per riversarsi sulle borse facendo salire i già gonfiati listini.

Le aspettative rosee della Bce si basano su delle desiderabili ricadute positive nel tessuto produttivo e nei consumi dell’intero continente. Si auspica un automatismo ancora tutto da verificare. Non vorremmo che fosse solo un pio desiderio.

Inevitabilmente, oltre alle grandi banche europee e ai loro alleati internazionali, i Paesi più solidi, come la Germania, saranno i maggiori beneficiari del QE in quanto la Bce distribuirà gli acquisti di titoli in relazione alle quote di partecipazione al suo capitale. La Grecia, purtroppo, ne resterà esclusa fintanto che non finirà il programma di revisione fiscale e di bilancio imposto dalla Troika.

Di fatto il gap tra il centro e le periferie dell’Europa, nell’economia e nella distribuzione del reddito, aumenterà invece di diminuire.

La scelta della Bce, per quanto importante e significativa, manca quindi di almeno tre elementi. Non impone delle regole di comportamento al sistema bancario. Non indica dei percorsi certi e controllati per far fluire la liquidità verso i nuovi investimenti. Non sollecita e non “guida” un vero programma di sviluppo, di investimenti e di infrastrutture che siano decisivi per la ripresa economica. La Bce, di fronte a queste sfide, si trincea dietro al suo mandato di semplice guardiano dell’inflazione. Noi riteniamo, invece, che tale giustificazione non sia accettabile rispetto alla necessità di un profondo e radicale cambiamento che l’Unione europea dovrebbe affrontare, pena la sua disgregazione.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

La brutta riforma della banche popolari: a forte danno delle iniziative locali e delle piccole e medie industrie!

 

Il ruolo insostituibile della banche di credito cooperativo

Paolo Raimondi* Mario Lettieri**

*economista **già deputato e sottosegretario all’Economia

Il sistema bancario dovrebbe essere l’ancella primaria dello sviluppo delle attività industriali e imprenditoriali dell’economia reale. Se così è, la riforma delle banche popolari parte purtroppo da una premessa sbagliata. Mira a soddisfare le esigenze della grande finanza invece di privilegiare le strutture del credito direttamente legate al territorio e alla sua crescita economica.

Secondo la succitata riforma, fatta con decreto e senza alcun coinvolgimento dell’Assopopolari, le 10-11 banche popolari con attivi superiori a 8 miliardi di euro dovranno essere trasformate in società per azioni. In quanto organismi di tipo cooperativo, gli attuali organi di gestione sono eletti con il voto capitario. Ogni socio può avere soltanto un voto.

Il cambiamento strutturale proposto dal governo viene motivato dal fatto che il voto capitario violerebbe il principio di democrazia penalizzando quei fondi che partecipano con ingenti capitali. Inoltre, si afferma che, aprendosi al mercato globale, esse potrebbero attrarre investimenti nazionali ed internazionali rendendole così più grandi e più competitive.

A dir il vero, in questo modo le banche popolari diventeranno oggetto di scalate finanziarie e di attacchi speculativi che ne snatureranno la loro originaria funzione di sostengo allo sviluppo del territorio, delle pmi e delle famiglie. Molto probabilmente diventeranno pedine locali delle grandi banche too big to fail.

E’ davvero sorprendente il fatto che in Italia ci si dia da fare per “offrire” le banche popolari in pasto agli squali della grande finanza. Nel mondo bancario americano invece si riconosce che le dimensioni enormi delle banche globali sono il vero problema della stabilità finanziaria e sono state la causa delle passate crisi sistemiche.

Non si tratta soltanto di una decina di banche. Il nuovo approccio, secondo noi, prima o poi investirà l’intera struttura delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo (bcc). Le si ritiene evidentemente obsolete dal mondo della finanza globale.

Noi pensiamo esattamente il contrario. Non solo per il nostro Paese ma per l’intera Europa. Sono proprio le banche territoriali a sostenere la crescita e a fornire ossigeno al sistema produttivo italiano rappresentato, come noto, per il 95% dalle Pmi.

Negli ultimi anni la Bce ha messo a disposizione oltre 1.000 miliardi di euro con operazioni di rifinanziamento a lungo termine (ltro) a tassi di interesse vicini allo zero nella speranza che questi soldi andassero a finanziare la ripresa. Finora però le grandi banche hanno incassato ma non hanno aperto i rubinetti del credito alle pmi.

Nel nostro Paese tra il 2011 e il 2013 le banche popolari hanno aumentato del 15,4% il credito offerto alle imprese e alle famiglie mentre le banche spa lo hanno diminuito del 4,9%.

E’ pur vero che le popolari nel 2013 hanno erogato il 15% del credito mentre le grandi banche ne hanno erogato il 75%. Ma in Italia si ha una situazione del tutto particolare in quanto le banche di interesse nazionale sono state completamente privatizzate, perdendo così anche la loro storica funzione sociale e pubblica.

Nel corso del 2014 le 70 banche popolari e le 381 bcc – che occupano 120.000 dipendenti – hanno insieme dato credito alle pmi per quasi 240 miliardi di euro con un aumento di ben 35 miliardi. Alle imprese esportatrici sono andati 50 miliardi. Nel periodo della crisi tra il 2008 e il 2014 i finanziamenti alle pmi esportatrici sono aumentati del 28%. Esse hanno quindi svolto efficacemente un ruolo anticiclico favorendo la ripresa economica dei territori in cui operano.

Spesso si parla della tenuta esemplare del tessuto industriale tedesco, formato anch’esso dal mittelstand, la rete delle pmi in Germania, ignorando che la sua forza sta proprio nella rete capillare delle banche di credito cooperativo.

Secondo uno studio della Bundesbank nel 2008 vi erano oltre 1200 istituti e 13.600 sportelli, regolati da principi mutualistici e di interesse sociale, con un bilancio aggregato di 1.000 miliardi di euro, al servizio di 30 milioni di clienti.

La società tedesca e molti economisti si sono mobilitati in difesa della rete di banche territoriali anch’esse sotto attacco da parte delle grandi banche tedesche, tra cui la Deutsche Bank e la Kommerzbank, e di quelle internazionali.

Un economista tedesco, Richard Werner, direttore del Centro Studi Bancari dell’Università inglese di Southampton, in prima fila nella difesa delle banche popolari e delle bcc in Germania e in Europa, ha scientificamente dimostrato che sono proprio queste banche, e non la Bce, le banche centrali e le grandi banche globali, il vero motore della creazione di credito produttivo e dell’ampliamento della base monetaria necessaria al sostegno della ripresa economica.

Senza iattanza riteniamo che sarebbe opportuna una riconsiderazione della scelta governativa.

Draghi serve Caffé forte alla BCE

La lezione di Federeico Caffè per la Bce

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Recentemente, anche nel mezzo di una crescente contestazione giovanile e studentesca,  Mario Draghi è venuto a Roma per celebrare il centenario della nascita dello scomparso economista Federico Caffè. Draghi era stato suo allievo all’Università La Sapienza di Roma. Parlando della “eredità di pensiero” di Caffè, il governatore della Bce ha ricordato come per il professore “fare politica economica significasse: analisi della realtà, rifiuto delle sue deformazioni, impiego delle nostre conoscenze per sanarle”.

Non conosciamo tutte le intenzioni e i progetti di Draghi per poter dare un giudizio definitivo. Possiamo però dire con certezza che la Bce, e certamente per responsabilità non solo di Mario Draghi, non sta facendo molto per sanare le riconosciute deformazioni del sistema. Non si pretende che la banca centrale copra il vuoto politico lasciato dalla mancanza di capacità e volontà di governo a livello europeo. Continua a leggere

Continuare a finanziare il sistema bancario europeo oppure abbattere il debito pubblico degli Stati?

Non c’è solo il sistema bancario

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Alla recente conferenza di Napoli il governatore centrale Mario Draghi ha ribadito l’importanza delle tre operazioni di intervento finanziario della BCE a sostegno del sistema bancario. Si tratta del programma di acquisto di derivati abs, di acquisto di covered bond (obbligazioni bancarie garantite) e il programma LTRO (piani di rifinanziamento bancario a lungo termine).

Come è noto la manovra sul tasso di interesse è ormai esaurita. Di conseguenza, ha aggiunto Draghi, con l’immissione di nuova liquidità il bilancio BCE dovrebbe risalire ai livelli del 2012 quando aveva raggiunto i 3.000 miliardi di euro circa. Il volume potenziale di nuovi acquisti sarebbe intorno a 1.000 miliardi di euro.

Ancora una vota si tratta di interventi a favore del sistema bancario europeo che poi, bontà sua, dovrebbe o potrebbe trasformali in nuove linee di credito per le PMI e per nuovi investimenti.  Questo passaggio “obbligatorio” è giustificato dalla BCE per il fatto che in Europa l’80% del credito transita attraverso il sistema bancario. Continua a leggere

Manca un Roosevelt europeo: anziché varare un nuovo New Deal, nel Vecchio Continente si pensa solo alle banche e alla bassa inflazione

L’alternativa è tra un New Deal e il Quantitative Easing

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** *Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Come da noi evidenziato, nel recente passato il governatore Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa mensile di fatto ha affermato che il Quantitative easing “all’europea” è pronto per essere messo in campo. L’abbassamento allo 0,15% del tasso di interesse, il tasso negativo di – 0,10% per i depositi overnight fatti dalle banche presso la Bce e i 400 miliardi di euro di nuova liquidità alle banche che concedono prestiti a imprese e famiglie, non sono altro che il corollario delle prossime mosse che prevedono l’utilizzo di “strumenti non convenzionali”, come l’acquisto diretto da parte della Bce di asset backed security, titoli cartolarizzati basati su prestiti fatti al settore privato dell’eurozona.

Consapevole del ruolo nefasto che certi abs, soprattutto quelli legati al settore immobiliare, hanno avuto nello scatenare la crisi finanziaria americana nel 2007-8, Draghi ha voluto sottolineare che, tenuto conto delle nuove regole in discussione sui derivati finanziari, gli abs in questione dovranno essere “semplici, perciò non Cdo complessi, reali, cioè basati su prestiti veri e non su derivati, trasparenti, e quindi comprensibili per i sottoscrittori”. La Bce quindi si sforza di spiegare che l’operazione sarà differente da quelle finora fatte negli USA, in UK e in Giappone, in quanto non si acquisteranno titoli di stato bensì si cercherà di facilitare la concessione di prestiti all’economia reale da parte delle banche. Continua a leggere