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Fatti e interpretazioni

I fatti in sé non sono molto importanti nella storiografia, poiché su di essi si possono dare le versioni più disparate. Sono le interpretazioni che contano e soprattutto quelle supportate da classi sociali, da movimenti popolari. È su di esse che gli storici si devono confrontare. I fatti possono essere utilizzati a sostegno delle interpretazioni. Ma, in ultima istanza, non c’è fatto che provi qualcosa al 100%, proprio perché i fatti non sono mai in sé evidenti, in quanto non offrono la possibilità di una lettura univoca.

Che i discepoli del Cristo abbiano potuto constatare una tomba vuota, può essere considerato un fatto; che il corpo sia “risorto” è certamente un’interpretazione. Ci sono voluti però 2000 anni prima che si cominciasse a parlare di altre ipotesi esegetiche: trafugamento del cadavere, morte apparente, misteriosa scomparsa, trasformazione della materia, leggenda religiosa, mito ancestrale…

Non sono mai sicure le cause che generano i fatti. O meglio, ci possono essere cause prevalenti e cause secondarie o concause, cioè cause collaterali, che hanno inciso in maniera indiretta ma efficace. Apparenza e realtà non coincidono: la realtà è sempre incredibilmente complessa, spesso determinata da fattori del tutto imponderabili o comunque non chiaramente definibili. Come un effetto può essere stato determinato da più cause, così una causa può determinare più effetti. Di qui l’impossibilità di fare delle generalizzazioni troppo semplificate.

La storia è la scienza della libertà umana, non della necessità. La necessità subentra dopo che si son fatte delle scelte, ma anche dopo averle fatte, la possibilità è sempre dietro l’angolo. Infatti ogni necessità, col tempo, rivela i propri limiti, le proprie contraddizioni, che vanno superate. È la libertà che impedisce di dare interpretazioni univoche o di dare per scontate le cose. Tutto è in perenne movimento e ciò rende precaria, per definizione, qualunque storiografia.

Non ha senso pensare che l’interpretazione emerga dall’analisi dei fatti. Uno storico può anche procedere dai fatti all’interpretazione, facendo in modo che sia il lettore a giungere alle sue stesse conclusioni, non enucleate in via preliminare come ipotesi interpretative. Tuttavia il fatto d’indurre il lettore a non avere l’impressione d’essere stato a ciò condizionato, è soltanto una procedura psicopedagogica o didattica. Nella sostanza lo storico ha già proprie idee interpretative dei fatti prima ancora di prenderli in esame. Anzi, il più delle volte sono proprio queste idee preliminari a indurlo a fare delle ricerche per trovare delle conferme alla loro giustezza. Il che non vuol dire che uno storico non possa imbattersi casualmente in determinati fatti e sentirsi solleticato a esaminarli; in tal caso però, pur non avendo idee precostituite su tali fatti, egli resta pur sempre un essere pensante, che non può fare a meno di avere determinate idee. Quanto più è consapevole di questo, tanto più sarà onesto con se stesso.

Tale pre-comprensione raramente viene smentita dai fatti. Perché lo sia, occorre almeno una delle due condizioni: una’interpretazione alternativa alla propria, della cui fondatezza il ricercatore si convince personalmente, sulla base di un proprio percorso ermeneutico; oppure ci si avvale di fatti drammatici (come p.es. una guerra), contemporanei alla vita dello storico, che possono in qualche modo sconvolgere le sue certezze.

La storiografia quindi è soltanto uno scontro di interpretazioni, che mutano al mutare delle condizioni socio-ambientali in cui gli storici si trovano a vivere. In tal senso è del tutto naturale che talune interpretazioni, cadute in oblio per un certo periodo di tempo, vengano successivamente riprese e adattate alle nuove circostanze di tempo e luogo.

Quando Aristotele venne riscoperto dalla Scolastica, non era esattamente l’Aristotele originale; così come non si può parlare di fedeltà al Platone storico da parte del neoplatonismo umanistico-rinascimentale. Non bisogna essere contrari a tali usi strumentali, proprio perché sono del tutto naturali: la storia è una sorta di evoluzione, in cui, anche se le cose si ripetono, non lo sono mai in maniera identica.

In che senso una storiografia obiettiva?

Può uno storico affermare di non essere schierato politicamente? Se lo fa, non sa quel che dice, poiché lo “schieramento” è inevitabile, anche se non lo si esplicita personalmente. Sono anzitutto gli altri che ci chiedono di identificarci, e ce lo chiedono con tanta maggiore insistenza quanto più lo esigono i tempi. Vi sono infatti dei momenti in cui le tensioni politiche sono molto più sentite dalla società. In quei momenti chi si dichiara “neutrale” passa facilmente per opportunista.

Tuttavia, per uno storico essere schierato politicamente ha senso se affronta argomenti relativi alla sua contemporaneità. Se ci si riferisce a periodi antecedenti, lo schieramento diventa più generico. Diciamo che diventa più “culturale” che “politico”. Col termine “politica”, infatti, intendiamo qualcosa che ha attinenza con l’attività di partiti o di movimenti, materialmente esistenti. Uno storico può fare riferimento a qualche partito o movimento o associazione, pur senza esplicitarlo espressamente: il riferimento diventa di tipo “ideale”.

Riferirsi politicamente a un partito o a un movimento non significa esservi iscritti. Lo storico è un intellettuale che non fa attività politica in senso stretto e che non è tenuto ad avere la tessera di un partito. Però è tenuto a fare riferimento a delle correnti di pensiero, proprio perché la neutralità non esiste, in nessuna disciplina dello scibile umano.

Se uno si limitasse a sviluppare materie scientifiche, farebbe politica? Certamente. La separazione della scienza dall’etica è una caratteristica del mondo moderno. Si vuole un continuo sviluppo scientifico e tecnologico, prescindendo il più possibile da valutazioni etiche, proprio perché tale sviluppo va subordinato alle esigenze del profitto economico. La borghesia tende anche a separare la scienza dalla politica, salvo quando chiede alla politica di supportare economicamente la scienza o quando è la stessa politica che si serve della scienza per condurre sul piano scientifico e quindi ideologico una battaglia non militare contro i propri nemici (come p. es. fecero gli Usa quando, con Kennedy, vollero andare sulla Luna per dimostrare la superiorità del loro sistema di vita rispetto a quello sovietico).

Gli scienziati che hanno voluto separare la scienza dall’etica hanno prodotto la bomba atomica, che la politica ha poi voluto usare senza alcun riguardo per l’etica. Se ci abituiamo a tenere separate cose del genere, alla fine non saremo in grado d’impedire alcuna strumentalizzazione. Quando l’uso strumentale della scienza da parte del potere politico sarà particolarmente evidente, quale scienziato potrà trincerarsi dietro la scusa che non avrebbe mai potuto immaginare conseguenze così gravi? Sotto il capitalismo il confine tra ingenuità e ipocrisia è quasi impercettibile.

Se si esaminano fenomeni storici di un lontano passato, lo schieramento avviene più sul piano culturale, ma non senza riferimento a quello politico generale. Quali sono le idee nei cui confronti uno storico dovrebbe schierarsi? Sono sostanzialmente quattro: 1. il rispetto della natura; 2. l’idea di laicità; 3. l’idea di democrazia; 4. l’idea di socialismo.

P. es. la nascita delle civiltà s’è posta in antitesi alla tutela ambientale. La loro nascita è andata di pari passo con lo sviluppo della religione, dell’autoritarismo e degli antagonismi sociali. Questi processi non sono avvenuti separatamente, ma in maniera strettamente correlata tra loro. Uno storico che esaminasse soltanto lo sviluppo tecnico-scientifico di una civiltà, disinteressandosi delle ricadute negative sull’ambiente, non potrebbe certo fare una storiografia obiettiva. Se esaltasse la democrazia ateniese della Grecia classica, senza specificare ch’essa si riferiva a una ristretta categoria di persone, che vivevano sfruttando il lavoro schiavile, inevitabilmente finirebbe col fare gli interessi del sistema dominante in cui vive, un sistema che ha riprodotto quegli stessi rapporti di sfruttamento in altre forme e modi.

Uno storico non può schierarsi dalla parte sbagliata, altrimenti le sue ricerche perderanno di obiettività. Le interpretazioni di uno storico dovrebbero essere soltanto più o meno obiettive: non possono essere falsate già nei loro presupposti metodologici. Uno storico che offre volutamente un’interpretazione distorta dei fatti, solo perché vuol fare gli interessi di un partito o di un governo o di un sistema sociale di riferimento, è uno storico che non merita alcuna considerazione. E se è così ingenuo da non capire quando un’interpretazione è falsata in partenza, sarebbe meglio che si dedicasse a un’attività meno impegnativa, meno gravosa per la formazione dei cittadini.

Uno deve sforzarsi d’essere il più obiettivo possibile, evitando di contrapporre la cultura alla natura, la religione all’ateismo, la dittatura alla democrazia e l’individualismo al socialismo. Questi quattro aspetti non sono specifici della nostra contemporaneità: si ritrovano in ogni epoca storica, sotto forme, modi e denominazioni diverse. L’unica epoca che non li ha conosciuti è quella che, con molta supponenza, gli storici chiamano “preistoria”.

E’ possibile una verità storica?

La storia non può finire con l’esperienza terrena, poiché in questa dimensione la verità, nel senso pieno della parola, è impossibile. Finché esistono civiltà antagonistiche, i cui poteri dominanti decidono l’ideologia ufficiale, avendo il monopolio dei mezzi comunicativi, nessuna verità è possibile. Al massimo sono possibili delle “mezze verità” o delle critiche alle verità ufficiali del governo, delle istituzioni, ma la vera verità, quella che una volta si definiva “pura”, è fuori della nostra portata.

Possiamo soltanto avvicinarci ad essa, in maniera approssimativa, facendoci aiutare da chi ha una visione opposta a quella dei poteri dominanti, a quella di chi non tiene in alcun conto le classi marginali; ma dobbiamo farlo senza credervi ciecamente, poiché non c’è nulla che indichi la verità come un’evidenza. Infatti dobbiamo accontentarci di un’approssimazione per difetto. L’insieme sfugge alla nostra comprensione, anche se un lavoro d’équipe è certamente più significativo di quello del singolo, per quanto intelligente sia.

Il nostro giudizio è condizionato soprattutto da due fattori. Il primo è che quando gli aspetti privati confliggono con quelli pubblici, diventiamo cinici se preferiamo quelli pubblici (quanti grandi personaggi sono stati fatti fuori dalla cosiddetta “ragion di stato”? Socrate, Cristo, Tommaso Moro, sino al deputato Aldo Moro). Se invece preferiamo quelli privati diventiamo sentimentali, troppo condiscendenti.

I conflitti sociali di queste civiltà inducono a dare più importanza alla politica che alla morale, anche quando non si è politicamente impegnati; sicché la morale si guasta, subisce dei condizionamenti che le fanno perdere lo spessore umano. Chi fa politica per mera esigenza di potere fa diventare cinico anche chi non la fa, cioè anche chi preferisce dedicarsi agli affetti familiari, agli amici, ai propri hobby.

“Il potere logora chi non ce l’ha” – questa tristissima massima di uno dei principali protagonisti del delitto Moro, in fondo pesca nel vero, poiché nell’antagonismo sociale l’emarginato s’incattivisce, si disumanizza, perde la faccia di bronzo che caratterizza chi sta al potere, per il quale l’assenza di morale va vissuta con assoluta indifferenza.

Chi invece pensa che gli aspetti etici siano da coltivare molto di più di quelli politici, finisce col diventare ingenuo, col non capire fin dove si può spingere il cinismo della politica, dove la regola è quella di dire sempre il contrario di ciò che si pensa.

Il secondo fattore da considerare, che ci impedisce di avere una visione obiettiva delle cose, è il fatto che tendiamo a dare ragione a chi soffre, tendiamo a giustificarlo, anche quando sappiamo che politicamente ha torto. Gli aspetti umani ci commuovono, ci mettono in confusione e offuscano l’interpretazione obiettiva della realtà, quella che deve tener conto dei conflitti di classe, dei rapporti di proprietà. Quanti militari tedeschi sopravvissuti alla battaglia di Stalingrado hanno pianto i loro compagni perduti, senza rendersi conto del genocidio che stavano compiendo ai danni dei russi?

Ecco perché non siamo capaci di vera verità. Il fatto è purtroppo che non siamo automi, in grado di accontentarci di verità evidenti, di tipo matematico. E’ un bisogno della natura umana quello di conoscere il senso delle cose, quello profondo o “ultimo”. E sappiamo bene che se non riusciamo a soddisfarlo, meno ancora vi riusciranno le generazioni future, per quanto a volte la lontananza dagli interessi in gioco possa aiutare nella ricerca nella verità.

Noi rischiamo continuamente di compiere azioni di cui non saremo noi a vergognarci, ma le generazioni future, le quali, se e quando prenderanno consapevolezza dei nostri errori, non avranno modo di rinfacciarceli. Già faranno una fatica immane a scoprire le nostre falsificazioni, in quanto noi avremo lasciato loro un’interpretazione dei fatti del tutto edulcorata. Ma anche quando vi riuscissero, con chi se la prenderanno? Non è forse un’ingiustizia che una generazione compia impunemente degli abusi e ne scarichi le conseguenze sulle generazioni successive?

Questa mancanza di senso della storia non ci permetterà mai di raggiungere la verità. Ecco perché abbiamo bisogno di un’altra dimensione per chiarirci definitivamente, e chissà fino a che punto sarà possibile farlo a mente fredda: le cose a volte s’interiorizzano così tanto che neppure a grande distanza di tempo si riesce a metabolizzarle. Quando i sopravvissuti dei lager ricordano quello che hanno passato si commuovono ancora, come se fosse successo ieri, e si commuovono persino i loro figli, quanto i genitori sono morti già da tempo.

L’importante, sin da adesso, è non acquisire la psicologia della vittima innocente, quella di chi vuole reagire a tutti questi soprusi con spirito vendicativo. Noi non possiamo rischiare di comportarci peggio delle precedenti generazioni, anche se è nostro compito smascherare chi sostiene d’essersi comportato in una certa maniera per assicurarci un’esistenza dignitosa.

La sofferenza va relativizzata: di per sé essa non rende più vera la verità; anzi, il più delle volte la falsifica, poiché uno pensa che in nome del proprio dolore tutto gli sia lecito. Quando Dante incontrò Brunetto Latini e lo sentii inveire pesantemente contro i fiorentini, lui che, in fondo, da loro aveva ottenuto un danno alquanto modesto, così gli rispose: “Son pronto ad affrontare la sorte, qualunque cosa essa mi riservi, purché la mia coscienza non mi rimproveri” (Inferno, XV, 91-93).

I buchi neri dell’Italia

Siamo sempre più convinti che se il socialismo burocratico ha avuto al proprio interno le forze sufficienti per ripensarsi globalmente, per rimettersi completamente in discussione, il capitalismo invece è ancora ben lontano da questa prospettiva; anzi, piuttosto che ripensarsi, è incline a scatenare guerre di conquista, crociate contro nemici esterni (gli ultimi sono i terroristi islamici, come se l’aggettivo “islamico” fosse ormai sinonimo di “terrorista”), ovviamente propagandando l’esigenza di esportare in tutto il mondo la cosiddetta “democrazia occidentale”, come al tempo dei romani si esportava il corpus del diritto.

La propaganda borghese è riuscita a farci odiare non solo le aberrazioni del socialismo (com’era giusto che fosse), ma anche qualunque idea di socialismo, persino quelle più umanistiche e democratiche, al punto che oggi non riusciamo a intravedere altra soluzione alle classiche contraddizioni del capitale (lo sfruttamento dell’uomo e della natura in nome del profitto) che non sia la mera rassegnazione, quella che poi si dirama in tanti rivoli destinati solo a peggiorare la situazione, come la frode, la corruzione, l’immoralità, gli eccessi dell’individualismo… Si pensa di poter sopravvivere generalizzando i metodi che un tempo appartenevano solo a una certa categoria di persone.

Da questo punto di vista si può dire che l’Italia sia un paese privo di un’identità precisa. Ci trasciniamo da troppo tempo problematiche irrisolte, come il rapporto neocoloniale tra nord e sud all’interno del nostro stesso paese, esito di una rivoluzione tradita, i cui obiettivi: unificazione nazionale, mercato unico, Stato centralista, hanno portato beneficio solo alle classi proprietarie, non certo a quella agricola o a quella operaia.

Se l’Europa di oggi, che è giovane rispetto alle nazioni che continuano ad opporle i privilegi acquisiti in secoli di dura lotta per l’egemonia, è destinata a ripercorrere, su scala più grande, il medesimo cammino delle nazioni, la prospettiva diventa inevitabilmente quella di vedere acuirsi le contraddizioni a livelli sempre più elevati e quindi quella di veder spostarsi verso un futuro molto incerto il compito delle loro soluzioni.

In Italia i nodi rimasti irrisolti sono ancora molti e, non essendo mai stata spezzata la linea di continuità tra liberalismo – fascismo – democrazia cristiana – polo delle libertà, si è di fatto impedito di far luce sui tanti misteri che circondano le azioni delittuose degli apparati dello Stato, partendo anzitutto dai suoi servizi segreti.

La stessa presenza anomala di uno Stato nello Stato, quello del Vaticano, sancita dalla Costituzione e ribadita dall’ultima revisione concordataria, ci tiene costantemente legati ai retaggi del fascismo.

Continua a prevalere nettamente nel nostro paese l’idea che sia meglio uno Stato centralista di uno federalista; parole come decentramento, autonomia regionale, autogoverno degli enti locali territoriali o vengono usate in maniera retorica, per dimostrare che sotto il capitalismo si può essere più democratici e più efficienti, o addirittura si temono, poiché si preferisce continuare a dirigere la cosa pubblica dall’alto e ad “assistere” chi sta in basso, oppure vengono usate come uno strumento per permettere al capitale d’essere più aggressivo e dispotico. Nessuno associa federalismo a socialismo.

Gli storici italiani non sono mai stati capaci di produrre un senso o una mentalità comune sull’interpretazione da dare all’Italia repubblicana. La sudditanza ai valori occidentali dell’americanismo (consumismo ad oltranza, anticomunismo viscerale ecc.) ha impedito di delineare una visione critica del dopoguerra.

Noi oggi non siamo neppure capaci di fare dei discorsi ecologisti o ambientalisti correlati a quelli economici per una transizione verso il socialismo democratico. Pretendere di migliorare i rapporti uomo-natura in un contesto in cui i rapporti interumani sono caratterizzati dallo sfruttamento più vergognoso, è semplicemente utopistico.

Con la svolta della perestrojka gorbacioviana si era per un momento creduto possibile realizzare il socialismo dal volto umano sulle rovine di quello statale, ma oggi la disillusione è grande. Abituati per 70 anni a obbedire, i popoli est-europei hanno atteso dall’alto, ancora una volta, la realizzazione della nuova sociètà, e invece è arrivato lo smantellamento di qualunque idea di socialismo, a tutto vantaggio del sistema economico oggi prevalente nel mondo.

Sicuramente è aumentata la secolarizzazione e la laicizzazione nella società civile e anche nelle istituzioni, ma laicizzazione di per sé non vuol dire umanizzazione. Se la laicizzazione s’identifica col materialismo volgare della società borghese, basata su profitto e consumismo, è facile ch’essa degeneri in disumanizzazione, e non a caso è su queste incoerenze che la religione trova linfa vitale per tornare alla ribalta.

L’esplosione di Internet degli anni Novanta, che ha fatto seguito a quella informatica degli anni Ottanta, ha catapultato nel protagonismo anarchico, spontaneistico, moltissime persone non legate a partiti, sindacati, movimenti della vita reale, e ha aiutato queste stesse realtà ad ampliare i consensi e le iniziative.

Ma Internet è una realtà relativamente fragile, che sta peraltro diventando sempre più costosa, la cui evoluta tecnologia può essere bersagliata da attacchi virulenti di molestatori che possono inibire o scoraggiare l’uso costante o progressivo della rete, anche perché, per potersi difendere dai loro attacchi, occorrono non poche competenze, che l’utente finale, spesso unico vero difensore di se stesso, non sempre è in grado di avere.

Sicuramente oggi si può affermare che il sociale sia, nella sensibilità delle gente, considerato più importante del politico; i movimenti, l’associazionismo, il no profit vengono considerati più coinvolgenti dei partiti e persino dei sindacati. Ma nonostante questo il loro peso istituzionale è alquanto risicato. Essi non hanno alcuna rappresentanza parlamentare che non sia mediata dagli stessi partiti, i quali, inevitabilmente, tendono a strumentalizzare ogni cosa per esigenze di puro potere. E questo significa che l’associazionismo deve materialmente contare solo sulle proprie forze.

La caduta delle ideologie può aver indotto una certa disillusione riguardo all’impegno politico. Oggi abbiamo una generazione molto informatizzata o tecnologizzata, ma praticamente analfabeta sul piano politico e con scarse cognizioni culturali. Tuttavia è un bene che oggi il concetto di “alternativa al sistema”, quando viene propagandato, si caratterizzi anche sul piano etico e non solo su quello politico. Non basta la piattaforma programmatica per dimostrare la propria diversità, occorre anche mostrare, da subito, che si è capaci di “umanità”, cioè di mettere in pratica i “valori umani” (quei valori p.es. che nessun partito politico seppe dimostrare in occasione del delitto Moro).

L’Italia non ha mai fatto i conti col suo passato. Siamo ancora troppo pieni di buchi neri. Non vogliamo affrontare i tradimenti degli ideali borghesi di democrazia e di libertà d’iniziativa per tutti semplicemente perché ciò c’indurrebbe a riprendere temi scomodi, quali appunto il socialismo, la cooperazione, il decentramento ecc. Il capitalismo non può sopportare le alternative che lo negano. E così oggi l’Italia si trova ad affrontare non un dibattito approfondito su quale tipologia di socialismo occorra adottare, ma una vexata quaestio circa la presunta superiorità del capitalismo su ogni altro sistema produttivo.

Discutiamo ancora di cose che Marx considerava superate 150 anni fa. Il capitalismo non ha futuro e non è il crollo del comunismo da caserma che può mettere in discussione questa realtà, già abbondantemente dimostrata dai classici del marxismo. Se partissimo dall’esigenza di trovare un’alternativa praticabile, smetteremmo di dire che non abbiamo un’identità nazionale, che gli storici peraltro, succubi come sono dell’anticomunismo imperante, non sono mai stati capaci di promuovere.

Noi ci sentiamo troppo debitori nei confronti degli Usa, non riusciamo a scrollarci di dosso miti come l’aiuto bellico contro i nazisti (risoltosi in un’occupazione dell’Italia per mezzo delle basi Nato), il generoso piano Marshall (che ci legò le mani economiche a quella che era diventata la potenza più forte del mondo), la superiorità tecnologica degli Stati Uniti (utilizzata prevalentemente per fini bellici) ecc. Tutti miti che andrebbero storicamente smontati.

Per una filosofia della storia (V)

Europa e America

Per quanto riguarda l’Europa si può sostenere che pur essendo stati posti qui i fondamenti del superamento del cristianesimo e del capitalismo (che è la versione schiavista moderna del cristianesimo protestante), di fatto non si è pervenuti al socialismo democratico.

Si potrebbe però precisare che i paesi est europei hanno tentato l’esperienza del socialismo, vivendola però in maniera autoritaria. Tuttavia, questi paesi devono dimostrare d’essere capaci di superare il socialismo restando nel socialismo e a tutt’oggi non sembra siano in grado di farlo. Di tutti i paesi est-europei quelli che sono meno in grado di farlo provengono dalle culture cattolica e protestante o comunque da queste culture sono stati maggiormente influenzati, pur avendo conservato l’ortodossia come religione prevalente.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti bisogna dire che l’unica possibilità che questo continente ha di recuperare il comunismo primitivo è quella di ripristinare i criteri di vita delle tribù indiane relegate nelle riserve. Stesso discorso vale per tutta l’America latina, in riferimento alle popolazioni amerinde.

L’Islam

Quanto all’islam, il suo destino è segnato, poiché sul piano teorico esso non è che un giudaismo cristianizzato o un cristianesimo giudaizzato e in tal senso non costituisce un’alternativa né al cristianesimo né al capitalismo né al socialismo autoritario, mentre sul piano pratico la sua forza sta unicamente nell’incoerenza del cristianesimo e del capitalismo che in teoria predicano la democrazia e i diritti umani e in pratica fanno esattamente l’opposto.

Quindi l’islam è destinato a essere superato da ciò che supera lo stesso cristianesimo e lo stesso capitalismo e cioè il socialismo democratico.

Le nuove popolazioni

Le genti che più devono interessare lo storico sono oggi, oltre a quelle che si pongono in maniera decisa contro il cristianesimo in tutte le sue forme, contro il capitalismo e contro il socialismo autoritario, quelle che provengono dalla Cina, dall’India, dalla Russia asiatica, dai territori pre-cristiani dell’Africa, dell’America latina, dai territori più remoti e oscuri, più freddi o desolati o aridi della Terra.

Obiettivi da realizzare

Gli obiettivi principali da realizzare sono noti al socialismo democratico:

  1. fine della proprietà privata, quindi ripristino della proprietà sociale dei mezzi produttivi, facendo bene distinzione tra i concetti di proprietà privata, sociale e personale (con l’esclusione della proprietà privata bisogna escludere anche quella statale, in quanto il concetto di “pubblico” coincide solo con quello di “sociale”);
  2. fine del dominio dell’uomo sulla natura, quindi revisione totale dei principi scientifici e tecnologici della cultura occidentale (occorre partire dal presupposto che l’uomo ha più bisogno della natura di quanto la natura abbia bisogno dell’uomo, quindi qualunque sviluppo tecnico-scientifico dev’essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura);
  3. fine del dominio dell’uomo sulla donna;
  4. ricomposizione del diviso: città e campagna, lavoro intellettuale e manuale, teoria e prassi;
  5. affermazione della democrazia diretta, localmente circoscritta, quindi fine della democrazia delegata e superamento di concetti come Stato, nazione, parlamento, leggi, istituzioni…;
  6. superamento della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), in quanto è il popolo che decide, esegue e giudica;
  7. il popolo deve difendere se stesso, quindi no alla delega del potere militare.

A questo punto è evidente che per realizzare la transizione dal capitalismo e dal socialismo autoritario al socialismo democratico diventa di fondamentale importanza riesaminare i rapporti tra l’organizzazione sociale dell’uomo primitivo, di tipo comunistico, e quella subito successiva, basata sullo schiavismo.

Molto utile sarà anche l’esame dell’organizzazione tribale che ancora oggi si ritrova in pochissime popolazioni rimaste isolate o che sono sopravissute al contatto con gli occidentali, conservando le proprie caratteristiche fondamentali.

Bisogna tuttavia considerare che se il primo tentativo (quello giudaico) di ripristinare i valori primitivi è durato circa 4.000 anni, e il secondo (quello cristiano) circa 2.000, il terzo (quello socialista) non potrà durare meno di 1.000 anni, dopodichè davvero l’alternativa non potrà che essere: o socialismo o barbarie.

Per una filosofia della storia (IV)

Il ruolo dell’Inghilterra

L’ultimo aspetto che andrebbe chiarito è il motivo per cui la rivoluzione industriale è avvenuta nei paesi anglosassoni e non in quelli latini. Il motivo può essere questo: la chiesa romana, pur essendo disposta al compromesso sui princìpi, non è disposta a perdere il potere politico. I compromessi li fa solo a condizione di conservare più o meno integralmente i propri privilegi. Ecco perché la rivoluzione industriale è potuta avvenire dove il potere politico della chiesa romana era più debole. L’”anello debole” della chiesa romana era l’Inghilterra.

Ma perché questa rivoluzione non è avvenuta in Germania, che pur era stata la prima a staccarsi dalla chiesa cattolica? Perché la Germania, allora, non era ancora una nazione e poi perché la sua mentalità tradizionale era di tipo filosofico-idealistico, simile a quella greca. Perché accadesse una rivoluzione borghese in Germania, occorreva prima di tutto una larga diffusione delle idee anticattoliche, cioè protestanti, così i tedeschi avrebbero avuto la necessaria giustificazione teorica per modificare radicalmente il loro sistema di vita. Quand’essi sono giunti alla convinzione ch’era il momento di fare la rivoluzione borghese, il mondo era già stato diviso dalle potenze coloniali di Francia e Inghilterra. Ecco perché la Germania ha avuto bisogno di sviluppare il nazismo.

L’Italia ha fatto la stessa cosa, ma dal punto di vista cattolico, non protestante. L’Italia ha dovuto cercare nell’ambito del cattolicesimo la giustificazione che le permettesse di accettare la rivoluzione borghese e industriale. Probabilmente, se la chiesa cattolica avesse contribuito alla realizzazione dell’unificazione nazionale, l’Italia avrebbe partecipato prima alla spartizione delle colonie e forse non avrebbe sperimentato la dittatura fascista.

La rivoluzione borghese e industriale poteva dunque nascere e svilupparsi solo in Inghilterra, cioè in una nazione lontana dal potere politico della chiesa cattolica, non molto influenzata dalla civiltà latina e tradizionalmente poco speculativa. Questo dimostra che non basta una Riforma protestante per creare una rivoluzione industriale (Weber qui ha torto). Come non è bastata la rivoluzione borghese, nata in Italia nell’XI secolo, a provocare la rivoluzione industriale. Perché avvenisse questa transizione occorreva che la borghesia italiana operasse una lotta ideale contro il cattolicesimo, unificando la penisola. Il che non è mai avvenuto in maniera decisa e risoluta. Ecco perché dopo il Rinascimento l’Italia è tornata al feudalesimo.

Naturalmente l’Inghilterra, essendo lontana dall’influenza della chiesa cattolica (si pensi che Duns Scoto ha elaborato delle teorie che al suo tempo non trovavano riscontri in alcuna parte dell’Europa, ad eccezione del mondo bizantino), ha potuto realizzare l’unificazione nazionale molto più facilmente (e quindi molto tempo prima) sia dell’Italia che della Germania, divise in tanti principati e signorie.

Questo spiega anche il motivo per cui Spagna e Portogallo, che pur sono state le prime nazioni cattoliche colonialistiche, sono state anche le ultime a diventare nazioni borghesi-industrializzate. In entrambe la mentalità cattolica ha avuto un peso determinante. Esse non hanno mai avuto le capacità speculative della Germania per opporsi alla tradizione cattolica (anzi, soprattutto la Spagna, ha sviluppato ancora di più il concetto di “obbedienza” e di “gerarchia”, come appare soprattutto nel movimento dei gesuiti e nell’uso massiccio dell’inquisizione).

Se al loro cinismo materialistico (si pensi alla reintroduzione dello schiavismo) Spagna e Portogallo avessero unito forti capacità speculative, in luogo di quelle burocratico-militari, la rivoluzione industriale sarebbe sicuramente nata qui. Cosa che sta avvenendo adesso, come un processo calato dall’alto.

Se la rivoluzione capitalistica avviene in presenza non del protestantesimo ma del cattolicesimo, significa che del cattolicesimo è rimasto soltanto l’involucro esterno. Non a caso la nazione che oggi meglio incarna il capitalismo, e cioè gli USA, è anche quella più lontana dalle posizioni cattoliche.

Tentativi di superamento dello schiavismo

Nell’Antico Testamento ampio spazio viene dedicato alle vicende di due grandissimi personaggi, intorno ai quali sono state costruite numerose leggende: Abramo e Mosè. Due soggetti, strettamente legati a due popoli, che ancora oggi vengono considerati patriarchi, con più o meno enfasi, di due religioni per molti versi opposte: Ebraismo e Islamismo.

Ebbene, proprio le vicende di questi due personaggi possono essere considerate quanto di meglio l’umanità abbia prodotto in relazione al tentativo di superare le fondamenta del regime schiavistico, a partire dal momento in cui è stato abbandonato il comunismo primitivo (circa 6.000 anni fa), fino alla nascita di Cristo.

La fuoriuscita di Abramo dalla civiltà assiro-babilonese e quella di Mosè dalla civiltà egizia hanno prodotto, sul piano della riflessione culturale, sociale e politica delle conquiste di livello così elevato da restare ineguagliate per quattro millenni.

Al punto che ancora oggi viene da chiedersi se non sia vera l’ipotesi di chi ritiene la Palestina il centro della Terra, cioè il luogo dell’Eden originario, in cui sarebbero nate le prime esperienze di tradimento dell’ideale comunitario primitivo, poi sviluppatesi in Africa (civiltà egizia), nel Mediterraneo (civiltà fenicia, minoica ecc.) e nel Medio Oriente (civiltà sumera, ittita, assiro-babilonese, persiana).

L’esilio di Abramo e Mosè costituirebbe, se vogliamo, il tentativo, non riuscito, di recuperare nel territorio ch’era stato abbandonato secoli prima, le radici democratiche, egualitarie dell’uomo primitivo.

Le migrazioni dei popoli

Le migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche. Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri o bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente.

In realtà si tratta di porre ogni civiltà in rapporto all’organizzazione comunitaria primitiva, cercando di capire fino a che punto se n’era allontanata. Sotto questo aspetto, p.es., le popolazioni cosiddette “barbariche” che posero fine all’impero romano erano di molto superiori alla civiltà latina nel rispetto della dignità umana (lo dimostra, successivamente, il fatto che la condizione dello schiavo si trasformò in quella del servo della gleba).

Cristo e il Cristianesimo

L’altro grande personaggio da considerare è Gesù Cristo, il quale, col suo vangelo (non scritto) riuscì a porre le basi di un recupero del comunismo primitivo, cercando di superare le basi storico-culturali del giudaismo e successivamente, con la predicazione apostolica, prescindendo totalmente dall’appartenenza etnica al giudaismo.

Il cristianesimo fu il tentativo di sfruttare il fallimento del giudaismo estendendo ai non giudei il compito di recuperare le modalità del comunismo primitivo. Ma anch’esso, in questi ultimi duemila anni di storia, s’è rivelato del tutto fallimentare.

Nella versione cattolica e protestante, attraverso il colonialismo culturale dei paesi europei occidentali e degli Usa, il cristianesimo s’è diffuso in quasi tutto il mondo, ma nessun paese “cristiano” (né colonizzato né colonizzatore) è stato capace di liberarsi dalle catene dello schiavismo, vecchio e nuovo, se non in maniera formale non sostanziale, o relativa non assoluta.

Questo significa che le popolazioni che nel prossimo millennio saranno protagoniste della storia non potranno essere che quelle meno influenzate dalle teorie cristiane, o quelle che meglio avranno saputo superare tali condizionamenti, e che avranno saputo darsi una teoria e pratica anti-schiavistica, sufficientemente credibile al mondo intero.

Qui però bisogna intendersi: come il cristianesimo ha potuto sostituire il primato del giudaismo provenendo dallo stesso giudaismo, così anche il socialismo democratico potrà sostituire il primato del cristianesimo provenendo dallo stesso cristianesimo.

Questo significa che la storia del prossimo millennio apparterrà a quelle popolazioni che saranno riuscite a vivere l’esperienza del socialismo democratico come conseguenza del fallimento dell’ideologia cristiana. Quindi, queste genti o popolazioni dovranno essere in grado di emanciparsi dalla tradizione cristiana o provenendo da questa stessa tradizione oppure ereditando di questa tradizione l’esigenza del suo superamento.

Per una filosofia della storia (III)

Protestantesimo e capitalismo

Il protestantesimo emerge dalla constatazione che il principio cattolico dell’obbedienza non era più in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti feudali. Tale contraddizione -come noto- diventava tanto più acuta e insostenibile quanto più crescevano le forze della borghesia. Rifiutando la logica autoritaria, centralistica della chiesa cattolica, unitamente alla profonda corruzione del suo idealismo politico, il protestantesimo ha affermato il principio della libertà interiore del singolo individuo, cioè il primato della coscienza individuale, permettendo così al cristianesimo di recuperare una parte del modello originario del Cristo (modello che la Riforma non ha dedotto dall’esperienza ortodossa perché qui era connesso al rispetto scrupoloso della tradizione, motivo per cui l’ortodossia non aveva più alcuna influenza in Europa occidentale da almeno mezzo millennio prima che nascesse la Riforma).

Tuttavia, il protestantesimo, non riuscendo a modificare i rapporti sociali esistenti, basati sullo sfruttamento, non ha fatto altro che accelerare la trasformazione del servaggio in dipendenza salariata (quella per cui l’uomo è giuridicamente libero e socialmente schiavo), lasciandosi coinvolgere, anima e corpo, nel gretto mondo dell’economia borghese.

Sotto tale aspetto, i protestanti hanno operato un tradimento peggiore di quello dei cattolici, perché più sofisticato e più pericoloso. Da un lato infatti essi hanno permesso che lo Stato usasse del proprio potere nella maniera più arbitraria possibile; dall’altro hanno fatto dell’esperienza sociale della religione una pura e semplice “intellettualizzazione della fede”. In verità, anche la Scolastica medievale non era meno astratta e speculativa; tuttavia la teologia protestante, essendo più “libera” (perché non vincolata a concetti come “tradizione”, “autorità”, ecc.), è arrivata a giustificare quasi ogni cosa.

Il protestantesimo non ha mai avuto un interesse specifico di potere ecclesiastico da difendere, eppure, per salvaguardarsi come confessione, si è servito del potere degli Stati come nessun’altra confessione aveva fatto prima. Resta tuttavia interessante nel protestantesimo la tendenza all’agnosticismo se non all’ateismo, che è il frutto appunto di uno studio razionalistico delle Scritture, fatto con l’apporto di buona parte della cultura laico-umanistica. Questo aspetto lo avvicina al marxismo, lo allontana di molto dal cattolicesimo e di moltissimo dall’ortodossia, per la quale unica vera preoccupazione è quella di salvaguardare la tradizione e gli aspetti rituali-sacramentali, mentre il livello della riflessione speculativa -dopo le grandi dispute sulla natura del Cristo e sulle eresie del mondo cattolico- è rimasto poco consistente.

Il ruolo del socialismo scientifico

Nel mondo medievale era chiaro che il servo della gleba non poteva essere libero, anche se aveva più diritti dello schiavo. Nel mondo moderno invece l’uomo è formalmente libero ed è in questa libertà fittizia ch’egli accetta “spontaneamente” -come vuole la borghesia- di diventare operaio salariato. E’ stato il marxismo a togliere il velo all’ipocrisia della società capitalistica, e quindi all’ipocrisia della religione protestante, della filosofia idealistica, dell’economia politica classica e dell’ideologia politica borghese: il marxismo ha dimostrato che una libertà affermata davanti alla legge o allo Stato, nel pensiero o nella coscienza, senza una corrispettiva libertà dal bisogno, è una libertà falsa.

Non bisognerebbe mai dimenticare che i princìpi fondamentali del marxismo sono due: la socializzazione dei mezzi produttivi e il materialismo storico-dialettico (che include l’ateismo-scientifico). E’ sulla base di questi due princìpi ch’esso è stato in grado di ereditare le migliori conquiste della filosofia tedesca, della politica francese e dell’economia inglese.

A loro volta, queste tre correnti di pensiero rappresentano l’eredità e lo sviluppo, in veste laicizzata, di quanto di meglio potevano esprimere le due religioni principali dell’Europa occidentale: cattolicesimo e protestantesimo (quest’ultimo nella forma luterana in Germania e nella forma calvinista in Inghilterra). Il leninismo, dal canto suo, rappresenta una nuova sintesi, poiché è riuscito a ereditare non solo tutto il marxismo (e quindi tutta la cultura occidentale), ma anche tutta l’ortodossia (attraverso il populismo), rappresentando così, nell’epoca contemporanea (che è imperialistica), una via sicura per la realizzazione dei due suddetti princìpi fondamentali del marxismo.

Vista da questa angolazione, l’attuale perestrojka non andrebbe considerata come un superamento del leninismo, ma come una sua progressiva democratizzazione sul piano sociale e umano. Il leninismo infatti, quale ideologia politica, potrà essere superato solo dalla sua stessa democratica realizzazione: cosa che in URSS e negli altri paesi socialisti, lo stalinismo prima e la stagnazione dopo avevano reso del tutto impossibile. Il leninismo è stato il tentativo di affrontare il problema di una democrazia socialista a partire da una prospettiva prevalentemente politica; l’attuale perestrojka va vista come un tentativo di aggiungere a tale prospettiva anche quella eminentemente sociale e umanistica (quella cioè in cui il popolo si sente protagonista attivo del suo destino).

La perestrojka, se bene attuata, comporterà un modo diverso non solo di concepire le relazioni sociali e umane, ma anche la stessa attività politica, la quale non potrà più essere delegata dalle masse alle istituzioni statali e partitiche come fino ad oggi è accaduto.

Lo sviluppo del socialismo, sul piano culturale o ideologico, è una conseguenza indiretta della precedente cultura (non diretta, poiché nella storia non solo non c’è nulla di assolutamente arbitrario ma neppure nulla di assolutamente automatico). Ora, siccome la cultura pre-socialista era prevalentemente caratterizzata dalla religione, ciò significa che sul piano culturale il socialismo ha un debito nei confronti della religione. Infatti, grazie anche alla religione, cioè nonostante il suo “tradimento” dell’ideale originario, noi possiamo risalire (almeno sul piano dell’interpretazione storica) a questa positività primitiva, mettendola a confronto con gli ideali più significativi del moderno socialismo.

In altre parole: se per vivere una società a misura d’uomo oggi possiamo farlo senza alcun riferimento alla religione (in quanto il socialismo è un’esperienza di umanesimo integrale), per vivere questa stessa società con una coscienza storica, cioè con una coscienza dell’intera evoluzione del genere umano, una coscienza che ci aiuti a non dimenticare nulla del passato ma anzi a valorizzare quanto di meglio esso abbia prodotto, la religione può ridiventare utile, in quanto riflesso opaco di una positività tradita.

Se noi ad es. riuscissimo a dimostrare che la moderna emancipazione dalla religione e soprattutto dallo sfruttamento del capitale è, in fondo, un ritorno, in nuce, alle idee originali del Cristo -che predicò comunione dei beni e primato dell’uomo- noi non avremmo fatto un “servizio” alle chiese di questo mondo, ma al socialismo, poiché la storia ha dimostrato che lo sviluppo della religione costituisce sempre un tradimento degli ideali originari, benché nonostante questo tradimento (o in virtù di esso) possano verificarsi dei progressi, condotti in ambito religioso, per “purificare” l’idea di religiosità, e dei progressi, condotti in ambito laico, utili al superamento della stessa religione e utili persino alla recupero dell’ideale tradito. Naturalmente con questo non si ha alcuna intenzione di sostenere che gli ideali umanistici del socialismo possono di per sé garantire dagli eventuali abusi che si compiono sul piano pratico. Il fallimento del “socialismo reale” rappresenta anche la fine di questa illusione.

Per una filosofia della storia (II)

Differenze tra ortodossia, cattolicesimo e protestantesimo

Si potrebbe, in un certo senso, collegare, sul piano socio-economico, l’ortodossia (che è la prima manifestazione della religione cristiana) allo schiavismo e al colonato, che segue immediatamente la dissoluzione della schiavitù dell’epoca imperiale, durante la quale tra cattolicesimo e ortodossia non vi erano ancora sostanziali differenze. La religione cattolica andrebbe invece collegata alla servitù della gleba del periodo feudale, mentre il protestantesimo all’operaio salariato della manifattura. Tutte le religioni euroccidentali sono cominciate ad entrare in una crisi irreversibile a partire dalla rivoluzione industriale vera e propria, iniziata in Inghilterra verso la metà del XVIII secolo.

L’ortodossia rappresenta non solo la prima manifestazione della religione cristiana, ma anche il primo tradimento degli ideali originari del Cristo (i fondatori del cristianesimo ortodosso vanno ricercati negli autori dei documenti neotestamentari: in particolare Paolo, Giovanni, Marco ecc.).

In che cosa è consistito il tradimento della chiesa ortodossa? Nel predicare l’ideologia dell’amore universale rinunciando a lottare per la giustizia sociale, terrena, degli uomini. L’amore – secondo questa religione – doveva servire per sopportare stoicamente le ingiustizie. Durante tutto il corso dell’impero romano, l’ortodossia, per poter giustificare lo schiavismo, fece dell’amore un concetto di altissimo significato spirituale, riuscendo a coinvolgere decine di migliaia di persone.

Non dimentichiamo che le più grandi persecuzioni i cristiani le hanno subìte in questo periodo. Essi erano convinti di rappresentare un’alternativa alla mentalità dominante, anche se sostenevano che i migliori frutti del loro amore li avrebbero colti nel “regno dei cieli”. Da questo suo principio basilare, l’ortodossia non si è mai distaccata, almeno sul piano teorico, anche a costo di apparire come una religione conservatrice, legata unicamente al proprio passato.

Il cattolicesimo-romano emerge dalla constatazione che il principio ortodosso dell’amore universale non è in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti schiavistici o di colonato. Questa chiesa rinuncia al principio dell’amore universale – che giudica astratto – per affermare una nuova modalità esistenziale, quella del potere politico, che è sempre, a ben guardare, una forma di “idealismo”, anche se viene espressa, generalmente, in una maniera più rozza e incivile (si pensi alle crociate, all’inquisizione, alla lotta feroce contro le eresie, alle guerre di religione, ecc.).

In effetti, la chiesa cattolica appare, con la svolta costantiniana, molto più disposta al compromesso sui princìpi di quanto non lo sia la chiesa ortodossa o greco-bizantina. Tale predisposizione essa l’aveva ereditata dalla cultura latina dell’impero romano, che era prevalentemente giuridica, sul piano formale, e basata sul concetto di “forza” sul piano sostanziale. La cultura greca invece era di tipo filosofico, cioè metafisico, idealistico, estetico, artistico…

Le differenze maggiori tra le due chiese sono emerse quando l’imperatore Costantino, dopo aver fatto del cristianesimo la religione di stato, trasferì la capitale dell’impero a Bisanzio (intorno a questo fatto la chiesa latina deciderà poi di elaborare il famoso falso della Donazione di Costantino, a titolo per così dire di “risarcimento”: falso in cui si credette sino all’Umanesimo).

Ma forse il momento in cui le differenze si sono maggiormente accentuate è stato quando l’imperatore Teodosio decise di fare del cristianesimo l’unica legittima religione di stato. Questa decisione, nella parte occidentale dell’impero, priva com’era della presenza “fisica” dell’imperatore, ebbe un’importanza decisiva ai fini dell’organizzazione del potere politico da parte della chiesa romana, che si servì immediatamente di varie tribù barbariche per affermare il proprio dominio universale.

E’ stato proprio l’uso del potere politico, finalizzato a un obiettivo egemonico, che ha indotto la chiesa latina ad allontanarsi progressivamente da quella greca (la rottura definitiva, mai più sanata sul piano teologico, è avvenuta nel 1054). Viceversa, la chiesa bizantina non è quasi mai stata caratterizzata dalla volontà di usare un potere politico contro l’autorità imperiale: spesso, anzi, nella storia dell’impero bizantino, la si è vista contestare le pretese imperiali di dominio o d’ingerenza negli affari ecclesiastici, non tanto per rivendicare un proprio potere politico (concorrenziale a quello dell’impero), quanto per affermare determinate posizioni di principio (come ad es. nella questione iconoclastica o durante le dispute teologiche sulla natura del Cristo).

Naturalmente, con questo non si vuol dire che la rivendicazione del potere politico, da parte della chiesa latina, sia stata di per sé un fattore negativo (poiché la politica può anche essere usata per un fine di liberazione, come dimostra la recente teologia sudamericana); ma, senza dubbio, tale rivendicazione è diventata un fattore negativo nel momento stesso in cui si voleva imporre una determinata ideologia ed affermare un potere egemonico di classe o di casta.

Ponendo in essere l’esigenza della politica, il cattolicesimo, se vogliamo, ebbe anche la possibilità di riavvicinarsi maggiormente al modello originario del Cristo, che sicuramente non disprezzava la politica quale mezzo di trasformazione sociale; solo che l’intellighenzia cattolica medievale si è servita della politica per giustificare non l’esigenza di rapporti sociali umani, ma la realtà di quelli servili (cui la chiesa era particolarmente interessata perché essa stessa forza produttiva ed economica), al punto che ha fatto del servaggio feudale (questo nell’Aquinate è assai evidente) la “ragion d’essere” dell’esistenza del contadino-credente, e non soltanto -come per lo schiavismo- una condizione “infelice” da sopportare stoicamente in attesa della “retribuzione ultraterrena”.

Quale istituzione eminentemente politica, la chiesa romana ha valorizzato maggiormente i princìpi dell’obbedienza, dell’autorità, della gerarchia… rispetto a quelli ortodossi della comunione e della collegialità: alla “forza dell’esempio” ha preferito l’”esempio della forza”. I princìpi cattolici, che minarono l’idea della fratellanza e dell’uguaglianza, elaborata dal cristianesimo primitivo, hanno aperto la strada all’individualismo, che è il terreno propizio all’affermazione della mentalità borghese. In questo senso, la differenza che si pone tra l’individualismo cattolico e quello protestante sta unicamente nel fatto che il primo riguarda solo gli individui di potere (ovvero la gerarchia, che per garantirlo, si serve di un forte apparato burocratico-amministrativo e di controllo), mentre il secondo riguarda tutti i credenti, i quali possono così sperimentare – nell’ambito dell’individualismo – una maggiore uguaglianza (non a caso il protestantesimo ha affermato i princìpi del “sacerdozio universale” e del “libero esame”, mentre i cattolici hanno preferito quelli dell’infallibilità pontificia o dell’immacolata concezione).

E’ dunque nei limiti del cattolicesimo medievale che va ricercata la causa sovrastrutturale che ha generato (indirettamente) lo sviluppo della mentalità borghese dell’epoca moderna. Nonostante che in Europa orientale (area bizantina) la politica imperiale fosse più autonoma dall’influenza della religione ortodossa (si pensi ai concetti di “diarchia” o di “sinfonia”, che la storiografia occidentale ha sempre voluto qualificare col termine di “cesaropapismo”), la rivoluzione borghese è invece avvenuta in Occidente.

Questo significa che il cittadino ortodosso si sentiva, in coscienza, più legato alla propria religione di quanto non lo fosse il cittadino cattolico nei confronti della propria. Come spiegare altrimenti il fatto che l’Europa orientale, pur avendo anch’essa avuto un sistema feudale, non è mai stata caratterizzata (almeno sino alla fine del secolo scorso) dalle profonde contraddizioni che tale sistema ha comportato in Europa occidentale? Come spiegare il fatto che nell’Europa orientale si sono conservate molte più esperienze agricolo-comunitarie che nell’area occidentale, al punto che agli inizi del secolo vi erano ancora correnti politiche convinte di poterle riformare per opporsi efficacemente alla penetrazione di elementi capitalistici?

La mentalità borghese è appunto nata perché una religione imposta colla forza ha meno presa di una che per affermarsi si serve (anche) di esempi di santità personale, di coerenza etico-religiosa, di valori fondamentali… E’ forse un caso strano che gli ortodossi abbiano sempre preferito sopportare l’occupazione turca piuttosto che l’invasione latina? O che non abbiano mai sperimentato, all’interno della loro confessione, le terribili guerre di religione che sconvolsero l’Occidente per interi secoli?

Certo, qui non si vuole idealizzare la confessione ortodossa, si vuol soltanto mettere in evidenza che il “tradimento” ortodosso dei princìpi del Cristo ha determinato conseguenze meno drammatiche di quello del cattolicesimo. Per gli ortodossi -già lo si è detto- gli ideali del Cristo non potevano realizzarsi in sede politica, ma solo nel rapporto comunitario, cioè nell’ambito della chiesa locale, a livello rituale, sacramentale, interpersonale… Il cattolicesimo seppe sì riscoprire l’importanza dello strumento della politica, ma finì col servirsene per scopi tutt’altro che umanitari.

Per una filosofia della storia (I)

Perché la rivoluzione borghese in Europa occidentale?

Uno dei grandi problemi che la scienza storica deve ancora spiegare, in maniera esauriente, è il motivo per cui i rapporti borghesi e il modo di produzione capitalistico si sono sviluppati non nella ricca e avanzata civiltà bizantina (rimasta tale almeno sino alle crociate e all’invasione turca), ma nell’Europa occidentale, che dalla caduta dell’impero romano fino al mille conobbe una notevole arretratezza economica e tecnologica. Questione che, sul piano più generale, non contestuale, si potrebbe anche porre nei termini seguenti: come mai, a parità di condizioni economiche, in una società si forma la produzione borghese-capitalistica e in un’altra no? Cos’è che impedisce agli uomini di compiere questa transizione sociale? Cos’è invece che la promuove?

Una risposta – ancora tutta da verificare – potrebbe essere questa: in Occidente esistevano, a livello sovrastrutturale, condizioni più favorevoli all’affermarsi della società e della mentalità borghese. Il che sta a significare che la questione andrebbe affrontata in maniera da considerare le determinazioni ideologiche della coscienza sociale come relativamente prioritarie rispetto a quelle strutturali dell’economia. D’altra parte è noto che l’economia non può determinare, tout-court, la coscienza sociale, altrimenti non vi sarebbe alcun progresso storico, né si potrebbe mai realizzare il socialismo. Il marxismo parla di “influenza reciproca”, di “condizionamento interdipendente” e considera determinante la struttura solo “in ultima istanza”. Qui dobbiamo considerare il fatto che quando la coscienza sociale delle contraddizioni di un sistema, è ben radicata nel contesto della società, essa tende a trasformarsi in una forza strutturale non meno tenace della forza dell’economia.

Gli antecedenti culturali della borghesia

La rivoluzione borghese – questa potrebbe essere la tesi – è avvenuta nell’Occidente europeo perché qui la chiesa cattolica aveva spezzato i vincoli che la legavano alla chiesa ortodossa, dando il via alla concezione laicista e individualista dell’esistenza (in forma embrionale e inconscia). Detto altrimenti: la religione cattolico-romana, pur essendo fondamentalmente una confessione “medievale”, ha (quasi) sempre avuto in sé (prima ancora della svolta costantiniana) degli elementi (tuttora da ricercare) che potevano essere svolti in direzione della mentalità borghese. In questo senso bisognerebbe ripercorrere almeno l’itinerario che va da Agostino d’Ippona a Tommaso d’Aquino.

Tale religione, in sostanza, avrebbe contribuito – naturalmente senza volerlo – alla formazione dello spirito borghese, che poi è quello che permette a una determinata economia di assumere una direzione ben specifica. In seguito, cioè a conclusione dell’epoca medievale, il protestantesimo si assunse il compito di laicizzare ulteriormente il cattolicesimo, preparando il terreno culturale per lo sviluppo coerente e conseguente della prassi borghese.

Fino ad oggi la storiografia, sul piano sovrastrutturale, ha studiato, fra l’altro, gli elementi borghesi del protestantesimo, sia secondo la teoria marxista del “riflesso”, per cui il protestantesimo non ha fatto altro che legittimare i rapporti economici capitalistici; sia secondo la teoria sociologica di Weber, per il quale il capitalismo è piuttosto un prodotto del protestantesimo (o per lo meno quest’ultimo sarebbe stato la forza propulsiva che avrebbe contribuito in maniera decisiva, sul piano ideologico, alla formazione del capitalismo). Ancora però la storiografia non ha studiato in che modo il cattolicesimo (dei primi 1500 anni della nostra era) poteva condurre (indirettamente) alla mentalità borghese e quindi al protestantesimo. Il quale, se vogliamo, non è stato soltanto una reazione al cattolicesimo, ma anche uno svolgimento necessario della stessa mentalità borghese, che da tempo lo precedeva (come minimo dal Mille).

Cultura Mentalità e Metodo storico (II)

L’antropologia storica deve sviluppare le acquisizioni di quella storiografia scientifica che ha voluto dare concretezza alla storiografia politica, aggiungendovi gli aspetti socioeconomici. Deve svilupparle in direzione dei processi culturali, psicologici, psico-sociali, insomma umani.

La fusione della storia con la sociologia e l’economia politica ha comportato una sorta di spersonalizzazione dei processi storici. Il primato concesso all’oggettività delle forze produttive ha racchiuso i rapporti produttivi entro una cornice prevalentemente economica, trascurando gli aspetti sovrastrutturali.

La tesi secondo cui l’essere materiale determina sic et simpliciter la coscienza umana ha avuto per effetto che la coscienza degli uomini è quasi totalmente scomparsa dalle indagini degli storici.

Anzitutto sarebbe meglio sostenere che è l’essere sociale a determinare la coscienza individuale, intendendo per “sociale” qualcosa che include anche l’economico ma non solo questo aspetto produttivo.

In secondo luogo sarebbe meglio precisare che il condizionamento è sempre relativo, in quanto la coscienza umana può anche prendere decisioni difformi dall’essere sociale che la condiziona, altrimenti non vi sarebbe dialettica nella storia, ma solo ripetizione obbligatoria di regole precostituite.

Michel Vovelle ha sempre rifiutato di considerare gli aspetti socioeconomici come esclusivi dello storico marxista e si dichiarava molto interessato anche ai processi relativi alla formazione e allo sviluppo della “mentalità”.

In effetti è divenuto ormai un dato acquisito della storiografia più avanzata l’idea che per comprendere il comportamento umano è necessario conoscere non soltanto le condizioni materiali ad esso esterne, ma anche le forme immateriali della coscienza, della mentalità, della cultura.

In particolare è molto utile stabilire una differenza tra i prerequisiti o premesse “potenziali” del comportamento sociale degli uomini (intendendo con ciò anche gli stimoli provenienti dal mondo esterno) e le cause “fattive” degli eventi, cioè le condizioni oggettive che ad un certo punto determinano gli stili di vita, le scelte esistenziali, in quanto gli stimoli, le opportunità sono divenute fatti concreti della coscienza umana, avendo attraversato i filtri e i meccanismi psichici di trasformazione.

Tuttavia, è anche vero che spesso per motivi di forza maggiore, indipendentemente dalla propria volontà, ci si trova a vivere in una determinata maniera piuttosto che in un’altra. Spesso addirittura gli scopi che gli uomini si prefiggono possono essere falsi oppure i risultati che si ottengono, perseguendoli, possono essere opposti a quelli preventivati. Il concetto di “ironia della storia” è ben noto a tutti gli storiografi.

E’ bene comunque che lo storico faccia di tutto per individuare il carattere alternativo delle vie dello sviluppo storico, al fine di ridurre al minimo la legge della necessità storica.

La necessità è la conseguenza di una realtà scelta. La scelta può essere diretta (personale) o indiretta (impersonale, cioè voluta da altri).

Le leggi della storia non possono essere feticizzate; se la realtà storica viene eccessivamente semplificata, la si falsifica. Occorre una tendenza integrazionista, olistica, delle varie discipline specialistiche: anche perché gli storici dell’economia o della letteratura o delle arti studiano in fondo gli stessi soggetti.

La storia deve essere “totale”, dove la pietra angolare per la comprensione di ogni singolo aspetto è data dalla coscienza umana. Il materiale e l’immateriale devono acquisire pari dignità.

Una “scienza dell’uomo e per l’uomo” non può essere “scientifica” come una scienza esatta. Nella storia interagiscono dialetticamente libertà e necessità. I processi non possono essere rappresentati come sub specie necessitatis.

Alla pigrizia mentale del ricercatore può far comodo agire secondo la categoria della necessità (che spesso, erroneamente, viene fatta coincidere con quella fatalistica della “inevitabilità”). La necessità è un condizionamento oggettivo di cui bisogna tener conto, prima di poter prendere una decisione.

L’inevitabilità è una sorta di condanna, un peso superiore alle proprie forze, che schiaccia inesorabilmente la propria libertà di scelta. L’inevitabilità non offre alternative. La necessità invece è solo un condizionamento, anche forte, di cui bisogna tener conto, di cui sarebbe irresponsabile non prendere atto. Essa non esclude di per sé la possibilità di vie alternative allo sviluppo storico.

Anzi è un preciso compito dello storico abituare il lettore a capire che i processi non sono unilaterali, univoci, ma sempre frutto di libertà di scelta, in cui pesano determinati condizionamenti, i quali possono portare a scelte sbagliate o a conseguenze impreviste, pur in presenza di scelte giuste, semplicemente perché si era sottovalutato il peso, l’influenza di quei condizionamenti.

Questo poi senza considerare che in genere i processi storici, quando non si è in presenza di rivoluzioni traumatiche, avvengono in maniera graduale, quasi impercettibile, semplicemente per progressive determinazioni quantitative, informali, anche se ad un certo punto appare la necessità di dover prendere delle decisioni, in quanto quelle successive determinazioni quantitative, di forma, tendono a mutarsi in qualcosa di qualitativamente diverso, di sostanzialmente nuovo, inedito.

A quel punto occorre agire subito, sperando che la scelta sia la meno dolorosa possibile, anche perché più si agisce in ritardo e più la scelta sarà dolorosa. Una decisione deve comunque essere presa. Se il Dictatus papae di Gregorio VII fosse stato respinto dalla maggioranza dei vescovi o da una rimostranza popolare, non sarebbe nata con lui la teocrazia papale.

Nella storia solo alcune possibilità si realizzano, altre vengono negate, ma se quelle che si realizzano non hanno caratteristiche autenticamente umane o conformi a natura, quelle negate si ripresentano, ovviamente in forme nuove, relative al mutare dei tempi.

Tutta la critica al cattolicesimo-romano, a partire dai movimenti ereticali pauperistici, che la chiesa represse duramente, è stata ereditata, mutandone ovviamente forme e contenuti, dalla nascita del pensiero laico, agnostico e ateistico, del mondo moderno.

Occorre che gli storici si concentrino soprattutto sulle fasi di transizione da una civiltà o da una formazione sociale a un’altra, e che individuino di queste fasi gli sviluppi culturali della mentalità che, insieme alle condizioni materiali dell’economia, hanno promosso tali fasi.

Le tradizioni infatti possono essere violate sia in senso negativo che in senso positivo. La chiesa romana p.es. violò negativamente la tradizione ortodossa espressa nei primi mille anni di storia del cristianesimo. Ma il socialismo violò positivamente la tradizione millenaria che la chiesa romana espresse dopo il 1054.

Non si possono prendere le cose come un “fatto compiuto”. Dietro questi fatti vi sono tensioni e contrasti che possono trascinarsi anche per secoli. Dal Filioque allo scisma del 1054 passarono tre secoli.

Poi non bisogna dimenticare che in tali fasi di transizione, alcuni personaggi storici incarnano meglio di altri l’essenza dei contrasti fondamentali. Pertanto le loro opere devono essere oggetto di un esame particolare, approfondito. Per comprendere la nascita dell’epoca moderna non basta leggersi il Capitale di Marx, occorrono anche le opere di Lutero e di Calvino.

Se Marx fosse stato supportato da un’équipe di studiosi, queste cose sarebbero venute fuori da sé, cioè non sarebbero rimaste a livello di semplici intuizioni o di affermazioni estemporanee.

Tuttavia il fatto che esistano personaggi storici in grado di rappresentare, da soli, l’essenza dei problemi cruciali di un determinato periodo non deve farci dimenticare che le idee, di per sé, non sono nulla se non entrano nella coscienza delle masse, e se queste non decidono di metterle in pratica o non accettano che vengano praticate.

In ultima istanza infatti sono le masse che fanno la storia, non tanto gli individui singoli. Le idee personali diventano una forza tanto più materiale quanto più sono condivise. E’ sempre necessaria quindi una loro semplificazione, una forma didattica, pedagogica della loro trasmissione al popolo, nell’uso di tutti i mezzi disponibili.

Questo per dire che spesso nella storia hanno più peso le opinioni inespresse delle masse che non quelle espresse dagli intellettuali. Le produzioni culturali destinate a rimanere nel tempo, anche se sul piano stilistico-formale non sono le migliori, sono sempre quelle collettive, cioè quelle verificate dagli stessi fruitori, che con la loro creatività, inventiva, critica, hanno contribuito a precisarne i contenuti. I vangeli ne sono un chiaro esempio. Nonostante le loro falsificazioni, restano un documento di grande valore letterario. Ma anche oggi il software “open source” è considerato migliore di quello coi sorgenti criptati.

Questo peraltro significa anche che lo storico deve necessariamente attribuire una certa “dignità” anche alla produzione culturale che ufficialmente viene considerata “minore”. P. es. la letteratura del Risorgimento italiano è quasi inesistente nei manuali scolastici di storia della letteratura.

Chiediamoci: fra mille anni uno storico riuscirà a interpretare più facilmente il nostro periodo attraverso le news dei telegiornali o attraverso i verbali dei processi civili e penali? Noi sappiamo che quanto più una notizia è ufficiale, di dominio pubblico, espressione dei poteri dominanti, tanto meno è attendibile, veridica, verificabile.

Bisogna che gli storici siano molto più sospettosi nei confronti delle dichiarazioni dirette, esplicite, degli uomini di potere, e si affidino maggiormente alle testimonianze indirette, alle opinioni espresse involontariamente, o anche ai racconti cosiddetti “controcorrente”. Sarebbe p.es. ingenuo cercare di capire l’evoluzione dei dogmi della chiesa romana prendendo in esame i dogmi stessi.

Bisogna sempre fare una precisa distinzione tra istituzioni e masse popolari, tra poteri dominanti e senso comune. Ciò è ancor più necessario quando si esaminano ideologie che favoriscono il dualismo di teoria e pratica, come appunto quelle cattolico-romana e protestante, ma anche quelle stalinista e maoista. E nella affermazione e diffusione del dualismo gli intellettuali sono sicuramente, rispetto alla gente comune, maestri insuperabili.

Cultura Mentalità e Metodo storico (I)

L'”histoire des mentalités” è nata presso la “nouvelle science historique” francese. La “mentalità” era un concetto che Lucien Febvre e Marc Bloch avevano preso da Lévy-Bruhl, il quale aveva supposto l’esistenza d’un pensiero “prelogico” particolare negli uomini primitivi.

Tuttavia i due medievisti francesi applicarono il concetto agli umori, ai modi di pensare, alla psicologia collettiva delle popolazioni delle cosiddette “società calde”, che avevano raggiunto lo stadio della civiltà.

Il concetto di “mentalità” suppone infatti la presenza, presso un collettivo avente una medesima cultura, di certi mezzi intellettuali o psicologici coi quali percepire e comprendere tutta la realtà sociale e naturale, e questo in maniera sufficientemente ordinata.

Uno dei compiti principali dell’antropologia storica è quello di individuare, nei processi oggettivi, materiali, di una formazione sociale, quegli aspetti soggettivi che costituiscono il contenuto della coscienza di un collettivo, che porta quest’ultimo ad assumere un certo stile di vita e a fare determinati ragionamenti.

Nell’analisi storica gli aspetti psicologici e culturali rivestono molta più importanza che nel passato, anche perché un affronto meramente sociologico dei fenomeni storici finisce col dare una descrizione sommaria dei macroprocessi, sulla base di modelli euristici molto generali e quindi inevitabilmente astratti.

Il pensiero storico infatti resta spesso prigioniero dei principi espressi dalla storiografia positivista del XIX secolo e degli inizi del XX.

Nella sua Introduzione alla storia scriveva Louis Halphen: “quando i documenti sono muti, la storia tace; quando semplificano le cose, anche la storia le semplifica; quando invece le distorcono, anche la storia lo fa”. Ecco perché Charles Seignobos diceva che lo storico deve accumulare quanti più fatti possibile, metterli a confronto tra loro, come fosse un rigattiere, dopodiché gli sarà relativamente facile scoprire quelle leggi storiche che, pur essendo nascoste, li tengono uniti.

Era il trionfo della “storia quantitativa”. La verità è nascosta nei testi, quindi – diceva Fustel de Coulange – “solo testi, sempre testi, nient’altro che testi”. Empirismo e accumulazione dei fatti: l’ermeneutica, per scoprire il loro senso implicito, veniva dopo.

Tuttavia questa metodologia non arrivò mai a scoprire un senso profondo dei fatti. L’approccio era troppo sociologico-quantitativo per poter arrivare a capire che la concezione della storia di una determinata civiltà costituiva la consapevolezza ch’essa aveva di se stessa.

I positivisti vedevano il passato come passato. Huizinga invece cominciò a chiedersi come costruire un dialogo fecondo tra passato e presente, in modo che il passato abbia da dire qualcosa di utile al presente.

E si tratta spesso, in effetti, di un dialogo tra due culture diverse, se non opposte. Non è possibile comprendere una cultura spogliandosi completamente della propria. Bisogna anzi avere consapevolezza della propria diversità.

M. M. Bachtin diceva chiaramente che nel dialogo con una cultura diversa una determinata cultura comprende meglio se stessa. Le due culture non hanno bisogno di fondersi o di annullarsi reciprocamente: ciascuna può conservare la propria integrità, uscendone dal confronto molto più arricchita. L’importante è riconoscersi nel proprio rispettivo valore. Una posizione, questa, del tutto opposta a quella di Spengler, che rappresentava le culture come monadi chiuse, reciprocamente impenetrabili.

Tuttavia, il dialogo tra passato e presente non si svolge solo nel senso che il presente pone domande al passato. Bachtin si era per così dire limitato a sostenere che il presente può porre al passato delle domande che neppure il passato era stato in grado di porsi, sicché il passato può essere interpretato meglio di quanto esso stesso potesse fare.

In realtà oggi dovremmo dire che il presente non ha alcun diritto di negare al passato la facoltà di porre delle domande al presente stesso, domande proprie, che il nostro presente non ama porsi o addirittura non sa più porsi.

Il dialogo non serve soltanto per capire meglio il passato. Il dialogo dovrebbe servire per comprendere che il passato può contenere aspetti decisivi per vivere meglio il presente, che il presente stesso non è in grado di darsi, perché strutturalmente o comunque tendenzialmente orientato a distruggerli, a censurarli o, se si preferisce, a dimenticarli, a trascurarli.

Se vogliamo, anche il futuro ci interroga, giacché noi, irresponsabilmente, pensiamo di poter lasciare il nostro presente, così com’è, alle generazioni future.

Il passato scuote la testa di fronte al nostro stile di vita: sa di non poterlo cambiare, ma il futuro ci attende al varco, perché non ci permetterà di continuare ad esistere così come siamo.

Ecco perché il dialogo tra culture diverse è sempre molto difficile e complesso, soprattutto se una nega i fondamenti dell’altra, il primo dei quali è il rispetto integrale della natura.

Quando una cultura (p.es. quella anglosassone) distrugge quasi completamente una cultura ad essa precedente (p.es. quella indiana nordamericana), la successiva comprensione della cultura semidistrutta non sarà in grado, inevitabilmente, di cogliere tutti gli aspetti sostanziali che la tenevano in piedi: qualcosa andrà perduto per sempre, qualcosa che avrebbe anche potuto far progredire enormemente la stessa cultura vittoriosa. Si pensi p.es. al terrazzamento agricolo-montano praticato dai Maya, distrutto dagli spagnoli.

Gran parte della conoscenza della natura che avevano le popolazioni americane, prima dell’arrivo degli europei, è andata irrimediabilmente perduta. In tal senso va del tutto esclusa la possibilità che una civiltà antagonistica abbia di conoscere una cultura comunitaria meglio di quanto questa non abbia potuto conoscere se stessa.

La cultura occidentale deve togliersi dalla testa la possibilità di poter interpretare adeguatamente qualunque cultura, solo perché presume di possedere una scienza e una tecnica senza precedenti storici.

La vera scienza e la vera tecnica sono soltanto quelle conformi alle esigenze riproduttive della natura. La cultura occidentale dovrebbe anzi chiedersi se la sua profonda diversità rispetto a tutte le altre culture che l’hanno preceduta non sia il sintomo di una grave malattia mortale.

Tutta la cultura medievale è rimasta estranea agli intellettuali del Rinascimento e dell’Illuminismo, mentre i romantici si sono limitati a riscoprirla in chiave appunto “romantica”, cioè mistico-poetica, estetico-romanzata, senza capire assolutamente nulla del rapporto contadino/feudo, comunità di villaggio/autoconsumo, natura/agricoltura ecc.

Tutta la cultura moderna europea, nei suoi primi secoli, vedeva nella scultura gotica solo delle copie sbiadite della scultura antica; si interpretavano addirittura i calendari scolpiti nelle cattedrali come una rappresentazione delle dodici fatiche di Ercole, mentre i bassorilievi consacrati a Saint Denis apparivano alla stregua di baccanali.

La cultura medievale veniva completamente rifiutata e molti suoi monumenti furono distrutti senza tante remore, esattamente come la stessa cattolicità fece nei confronti dei monumenti pagani.

Sotto questo aspetto ogni ricostruzione totale dell’universo spirituale delle culture che sono andate distrutte incontra difficoltà insormontabili: ogni riedificazione del passato non è che una moderna reinterpretazione.

Noi possiamo soltanto sapere a posteriori quanto sia approssimativa la nostra interpretazione, e lo dimostriamo dalle continue revisioni o almeno rettifiche che operiamo. E avremo continuamente bisogno di rivedere le nostre interpretazioni, almeno finché i fondamenti della nostra cultura non saranno sostanzialmente analoghi a quelli delle culture comunitarie rimosse.

In altre parole, finché non scopriremo il legame che tiene unite tutte le culture espresse dagli uomini e dalle donne di ogni tempo e luogo, le nostre aspirazioni alla verità storica saranno destinate a rimanere frustrate. E certamente non ci sarà “Ministero della verità”, di orwelliana memoria, in grado di soddisfarle.

I compiti della storiografia

Oggi solo una persona molto sprovveduta o politicamente molto conservatrice potrebbe sostenere che la laicità ha avuto origine quando si è cominciato a separare il diritto e la politica dalla morale.

E’ vero che il diritto e la politica han voluto separarsi da una morale religiosa che aveva fatto il suo tempo, ma sostenere che quel diritto e quella politica sono la quintessenza della laicità e della democrazia, senza specificare che si tratta pur sempre di laicità e democrazia “borghesi”, non ha senso.

Una politica o un diritto separati dalla morale e dalla società che nel suo complesso esprime quella morale, non possono che essere frutto di un arbitrio, ovvero l’espressione della volontà di dominio di una particolare ideologia, che vuole imporsi sulla collettività. Nessun uso scriteriato della morale può mai giustificare la sua totale rimozione dagli ambienti del potere istituzionale.

La classe sociale che ha voluto rimuovere la morale, la borghesia, l’ha fatto per avere mano libera nella sua affermazione sociale e per poter dominare indisturbata. Un diritto separato dalla morale, sotto il pretesto che questa è corrotta, è una forma di arbitrio peggiore del male (in questo caso la corruzione) che vuole combattere. Solo a un ceto sociale già separato dalla società poteva venire in mente di operare una separazione del genere. In questo la borghesia non ha fatto che emulare un altro ceto sociale, anch’esso separato dalla società: il clero.

La borghesia si è servita delle masse popolari per liberarsi dei rappresentanti della morale corrotta (nobiltà e clero), ma, una volta vinta la partita, ha fatto anche presto a liberarsi delle stesse masse popolari nella gestione del potere politico. Ecco perché una rivoluzione borghese è sempre una rivoluzione tradita.

Resta tuttavia da chiarire da dove abbiano desunto gli intellettuali borghesi che la morale poteva essere separata da tutto il resto. Se gli studi del marxismo hanno saputo svelare la mistificazione politica della democrazia borghese, mettendone bene in luce le insanabili contraddizioni socio-economiche, ancora però non sono state fatte delle analisi dettagliate sul rapporto di dipendenza culturale che lega l’ideologia borghese a quella cattolico-romana. Qui bisogna riprendere in mano i classici della Scolastica e cercare di capire dove si annidano le premesse teologiche delle aberrazioni filosofiche borghesi.

Il fatto che la borghesia si sia sempre opposta politicamente alla chiesa (seppur in forme favorevoli al compromesso, in quanto la borghesia non ha mai disdegnato di servirsi della religione come oppio per le masse), ha tratto in inganno (per così dire) molti storici, che non si sono mai concentrati sulla dipendenza culturale, ideologica, vissuta dalla borghesia, in forme ovviamente laicizzate, rispetto alla chiesa cattolica.

Gli stessi storici marxisti (ma anche Weber e gli altri storici illuminati della borghesia) han sempre preferito parlare di rapporti tra borghesia e protestantesimo, tralasciando quasi del tutto quelli tra borghesia e cattolicesimo (l’unica significativa eccezione è stata quella di Groethuysen).

E’ certamente vero che il protestantesimo rappresenta la religione della borghesia, ma è anche vero che non ci sarebbe stato protestantesimo senza cattolicesimo e dunque non ci sarebbe stata borghesia senza clero cattolico, né filosofia borghese senza Scolastica.

Feuerbach intuì perfettamente la dipendenza dell’idealismo tedesco dal protestantesimo e anche dal cattolicesimo romano, cioè intuì che la filosofia idealistica altro non era che una laicizzazione del cristianesimo, ma quella sua felice intuizione non ebbe poi un vero e proprio sviluppo storico-critico.

Questa lacuna storiografica è sostanzialmente dovuta al fatto che la concezione dominante della morale in Europa occidentale è sempre stata quella offerta dalla chiesa romana. Anche quando questa morale era profondamente corrotta, nessuno ha mai messo in dubbio che sul piano teorico, di principio, l’ideologia cattolico-romana rappresentasse il vertice della moralità possibile (o comunque si è sempre pensato che dovesse essere la chiesa romana deputata a rappresentare, almeno in sede teorica, i valori contenuti nei vangeli).

Certo, ci sono stati il protestantesimo, la filosofia borghese, il socialismo utopistico e scientifico, che hanno elaborato nuove concezioni morali dell’esistenza, ma gli storici continuano a considerare la morale cattolica come un terminus ad quem per il giudizio su qualunque altro tipo di morale.

Infatti si è sempre sostenuto che la moralità protestante è più individualista, più accomodante col capitalismo, più disposta al compromesso con la società borghese; che la morale filosofica è troppo astratta per competere con quella cattolica, che quella socialista è troppo di parte o troppo legata alla politica di classe per poter essere considerata universale, e così via.

Ci sono delle verità in questo atteggiamento. In effetti la ragione storica del protestantesimo sta in una contestazione contro la corruzione del cattolicesimo romano, ma non avendo il protestantesimo recuperato le vere origini del cristianesimo, esso alla fine ha prodotto una morale ancora più corrotta di quella cattolica.

Il socialismo dal canto suo non ha mai voluto ammettere la propria dipendenza dalla morale cattolica (nell’Europa occidentale) o da quella della chiesa ortodossa (nell’Europa orientale) e continuamente rischia di subordinare gli interessi della morale a quelli della politica.

Dunque, ciò su cui gli storici devono puntare l’attenzione è il rapporto tra chiesa ortodossa e chiesa romana, perché se riescono a capire i motivi profondi di quella rottura, riusciranno anche a capire il motivo per cui il protestantesimo poteva nascere solo in ambito cattolico e la filosofia borghese solo all’interno della Scolastica, e così via.

Il mondo ortodosso non ha mai conosciuto alcuna vera riforma protestante, né alcuna vera filosofia borghese e neppure alcuna vera rivoluzione borghese.

Oggi l’Europa protestante sta dominando quella cattolica, semplicemente perché la prassi borghese ha fatto piazza pulita di ogni forma di religione, cioè il capitalismo sta trionfando anche nei paesi cattolici semplicemente perché lo scontro non è più tra religioni contrapposte. Tuttavia le culture che quelle religioni esprimono in veste laicizzata devono essere studiate in rapporto alla religione per essere capite sino in fondo.

La rivoluzione politica ha bisogno di quella culturale, altrimenti la laicità resterà priva di contenuto.

La concezione storiografica dell’Europa (II)

lla luce di tutto questo qual è dunque l’Europa che dobbiamo costruire per realizzare una civiltà democratica?

  1. Anzitutto un’Europa in cui i processi di separazione laica tra Stato e Chiesa procedano più spediti, anche negli stessi paesi cattolici, oggi peraltro soggetti, come i paesi protestanti, a imponenti flussi migratori che impongono culture pluraliste.
    La separazione di Chiesa e Stato infatti non è più soltanto una rivendicazione della coscienza laica, ma anche una necessità istituzionale del pluriconfessionalismo della società. Chiese privilegiate, chiese di stato, concordati, intese esclusive: tutto ciò non ha più ragione di esistere.
  2. Nel processo di progressiva laicizzazione della società e di separazione istituzionale di Chiesa e Stato, l’Europa, dell’est e dell’ovest, non solo può trovarsi unita, ma non ha neppure alcuna difficoltà a considerare gli Usa un partner storico.
    Risultano infatti più ostici i rapporti culturali con quei paesi che fanno di determinate ideologie religiose un punto di riferimento istituzionale (molti paesi islamici), anche se certamente i rapporti economici con questi paesi possono essere più facili di quelli con gli Usa, abituati a dominare la scena mondiale sin dall’ultima guerra.
    Anche i rapporti con la Cina dovrebbero essere relativamente facili, visto che questo paese ha sempre affermato il regime di separazione tra Chiesa e Stato. Tuttavia il governo cinese deve permettere alle religioni di svilupparsi socialmente senza problemi, nel rispetto della democrazia.
  3. Un altro aspetto da considerare è che sul piano economico l’Europa occidentale, avendo subito due disastrose guerre mondiali, a causa del capitalismo senza regole, tende a privilegiare il Welfare State all’individualismo statunitense, caratterizzato da un marcato darwinismo sociale.
    Per noi europei qualunque tentativo di smantellare lo Stato sociale costituisce una sorta di passo indietro. Su questo non possiamo seguire gli Usa, anche perché non disponiamo delle stesse risorse strategiche, delle stesse risorse militari ed economiche con cui imporci a livello mondiale. E sicuramente il Giappone, in questo, è più vicino all’Europa.
  4. L’Europa deve procedere verso forme sempre più spinte di socializzazione della produzione, che non ripetano gli errori del socialismo di stato dei paesi est-europei, ma che sappiano comunque sottrarre la gestione del territorio all’iniziativa di imprenditori privati, incapaci di garantire un futuro all’Europa (vedi i recenti processi di delocalizzazione, di smantellamento di quei settori che pur avendo un fatturato in attivo non erano in grado di garantire determinati livelli di plusvalore, ma vedi anche i grandi e sempre più diffusi fenomeni di corruzione imprenditoriale, che destabilizzano enormemente le capacità di risparmio e di investimento dei piccoli consumatori).
  5. Nella progressiva affermazione del socialismo democratico occorre che le funzioni di “welfare” dello Stato vengano sempre più gestite dagli enti locali territoriali, dotati di autonomia impositiva e destinati a sostituirsi alle istituzioni centralizzate dello Stato, oggi particolarmente inefficaci a gestire la crescente complessità del territorio.
  6. La consapevolezza di un mondo unico, indivisibile e interdipendente può trarre particolare giovamento da un uso della tecnologia conforme a leggi di natura. L’interconnessione dei paesi non va vista solo in chiave economico-produttiva, ma anche in senso ecologico, nella convinzione che un effetto nocivo in qualunque parte della Terra ai danni della natura, si ripercuote inevitabilmente su tutto il pianeta. Va ripensato in tal senso il modello di sviluppo che caratterizza in questo momento le civiltà basate sul profitto privato; in particolare va ripensato il bisogno di affidarsi al nucleare per ottenere energia.
  7. L’Europa deve superare il concetto di “Stato nazionale”, deve abbattere le barriere, insieme politiche e culturali, oltre che geografiche, che non le permettono di costruire una “casa comune”, che non permettono cioè al cittadino di sentirsi ovunque a casa propria.
    E’ definitivamente tramontato il periodo in cui una nazione europea si sentiva in diritto-dovere di affermare la propria “identità” a scapito di altre nazioni. Ieri le nazioni hanno eliminato gli imperi, oggi il processo paneuropeo deve superare il concetto stesso di “nazione”. E’ assurdo pensare che un’Europa unita possa essere il frutto di un’intesa delle nazioni più forti. E’ il concetto stesso di “forza” che va bandito dalla cultura europea.
    Le stesse forze armate dovrebbero essere ristrutturate secondo il principio della “ragione sufficiente”, cioè in modo che rimanga una quantità di forze sufficienti alla difesa ma insufficienti per un attacco, anche perché si deve sviluppare il concetto della “sicurezza collettiva”, universale, che non può basarsi su una superiorità militare né, tanto meno, su una deterrenza nucleare.
  8. L’Europa può riscattarsi agli occhi del Terzo Mondo rinunciando a qualunque relazione internazionale basata sullo scambio economico ineguale. Vanno cioè rivisti tutti i rapporti basati sul colonialismo, sul neocolonialismo, sull’imperialismo economico che hanno caratterizzato i rapporti tra Europa occidentale e resto del mondo negli ultimi due secoli.
  9. Non è più possibile che in nome dello stereotipo dell'”eurocentrismo”, l’Europa si consideri un modello politico, culturale, economico oggetto di esportazione. Non è più possibile che questo modello si basi su un primato della civiltà occidentale, borghese o capitalistica. Ne è possibile che l’Europa si debba sentire vincolata agli Stati Uniti nell’affermazione su scala mondiale di questo modello.
  10. L’Europa non può rimuovere astrattamente da se stessa le ideologie nate al proprio interno, come se non fossero mai esistite. Deve piuttosto assumerle tutte democratizzandole progressivamente. Deve cioè trovare in ogni ideologia o cultura le cause storico-sociali che l’hanno generata, verificando se tali cause esistono ancora o sono state superate. Bisogna che non vi siano pregiudiziali di sorta nei dibattiti pubblici.
  11. Il processo di pace inaugurato ad Helsinki è incompatibile con la presenza sul territorio europeo di armi di sterminio di massa. In particolare, un continente che pretenda di concepirsi in maniera autonoma sul piano politico e istituzionale non può tollerare al proprio interno la presenza di basi militari (extraterritoriali) gestite dagli statunitensi.
  12. E’ inimmaginabile pensare al concetto di Europa ignorando i paesi che nel passato hanno intessuto rapporti di collaborazione o di scambio o anche di confronto con noi, pur avendo essi abbracciato teorie socialiste, o solo perché, dopo avervi rinunciato, perché giudicate errate, non si sono convertiti in toto alle idee del capitalismo avanzato.
    In particolare è impensabile realizzare il concetto di Europa senza l’apporto della Russia. Le relazioni della Russia con l’occidente europeo risalgono a mille anni fa. Le aspirazioni a escludere la Russia dai confini europei o a inglobarla come una “provincia” da sfruttare, non hanno alcun senso.
  13. L’Europa deve favorire democraticamente lo sviluppo di valori umani universali, presenti in tutte le culture del mondo. Non ci possono essere imposizioni di sorta, forzature di alcun genere nella valorizzazione dell’unità nella diversità.
    In particolare l’Europa deve fare in modo che le istituzioni rappresentative dei valori e degli interessi internazionali vengano gestite in maniera democratica da tutte le nazioni del mondo. Non ha più senso, p.es., che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sia diretto dalle cinque nazioni che hanno vinto la II guerra mondiale. Non può esserci rispetto per le norme di un diritto internazionale quando esistono cinque paesi che si sentono autorizzati a prendere decisioni per tutti gli altri.

La concezione storiografica dell’Europa (I)

Gli storici occidentali di tendenza borghese hanno sempre identificato l’Europa con l’Occidente, ovvero i valori della democrazia occidentale con quelli europei dei paesi più avanzati (capitalistici) e con quelli statunitensi, considerati, quest’ultimi, come una conseguenza (radicale) dei valori storico-politici dell’Europa.

In questa visione semplificata delle cose s’è fatto in modo di non porre differenze di principio tra paesi di religione protestante e paesi di religione cattolica. Considerando che sul piano economico è prevalso il capitalismo, s’è dato per scontato che i valori dominanti dovessero essere quelli protestanti, cui i paesi cattolici si sono dovuti adeguare, seppure obtorto collo.

Tuttavia noi sappiamo che i paesi latini, di religione cattolica, tendono a rivendicare una certa diversità di principio dai valori borghesi di matrice protestante. Questo è ben visibile nelle posizioni terzoforziste (tra capitalismo e socialismo) che la chiesa romana si vanta di avere, sponsorizzate da vari partiti politici, soprattutto in Italia, ma anche in Polonia, in Spagna, in taluni ambienti conservatori della Germania, della Francia, del Belgio, dei Paesi Baltici ecc.

Quanto agli Stati Uniti, pur essendo essi una creazione dell’Europa protestante, va detto che i loro valori sono molto più individualistici di quelli dei paesi protestanti europei.

Gli Usa sono nati come paese protestante, ma ben presto, in seguito ai flussi migratori, sono diventati un paese pluriconfessionale, in cui la separazione di Chiesa e Stato s’è imposta quasi automaticamente. Cosa che invece nei paesi europei, soprattutto in quelli cattolici (se si esclude la Francia), ha sempre incontrato forti resistenze. Da noi la semplice accettazione di una religione diversa da quella cattolico-romana ha spesso comportato una serie interminabile di guerre molto sanguinose.

Dobbiamo quindi dire che al momento i valori dominanti a livello mondiale sono quelli del capitalismo statunitense, cui l’Europa occidentale è costretta ad adeguarsi (in maniera progressiva), non senza resistenze dovute alle diverse tradizioni storico-culturali.

Lo stesso si potrebbe dire dell’altra grande potenza occidentale: il Giappone, che ha accettato i valori occidentali del capitalismo americano, pur provenendo da tradizioni diversissime, influenzate dallo shintoismo di matrice feudale.

Gli storici europei borghesi, quando parlano di Europa, non fanno mai differenza tra paesi di religione cattolica o protestante e paesi di religione ortodossa. Essi danno per scontato che i valori dominanti in Europa siano quelli protestanti, cui cercano di contrapporsi, di tanto in tanto (vanamente, in verità), quelli di tradizione cattolica, di matrice feudale, che mentre sul piano politico sono legati all’affermazione monarchica del papato e gerarchica della chiesa, sul piano sociale invece sono legati al solidarismo della carità, al primato della famiglia sulla società ecc. Questi valori cattolici sono molto più forti in Europa che non negli Stati Uniti, e le gerarchie continuano a imporli alle popolazioni sudamericane e africane delle ex-colonie europee.

La storiografia europea non tiene mai in considerazione che nell’ambito dei valori cristiani esiste quella che può essere considerata la migliore tradizione cristiana, rimasta nel tempo la più immutata, appunto quella ortodossa. Perché questo misconoscimento? Semplicemente perché la tradizione ortodossa è stata definitivamente liquidata in Europa occidentale sin dal tempo delle crociate medievali (in campo artistico con la rivoluzione di Giotto) e sanzionata con la caduta di Costantinopoli nel 1453.

In Europa occidentale si fa coincidere cristianesimo con cattolicesimo-romano, anche se dopo la nascita del capitalismo si ritiene che la migliore religione cristiana sia quella protestantica, la più adatta allo spirito borghese.

Il protestantesimo, pur sviluppatosi come “religione”, oggi viene vissuto dalla borghesia in maniera del tutto laicizzata, come filosofia di vita, essendo stato per così dire “interiorizzato”, scomparendo tendenzialmente come religione specifica. Storicamente è stata la filosofia (soprattutto quella tedesca) a operare tale trasformazione culturale.

Il protestantesimo, diviso nelle sue tante sette, è rimasto come religione specifica per le persone che nell’ambito della società borghese appaiono come deboli, emarginate, oppure è rimasto come aspetto devozionale puramente formale o facoltativo (p.es. i presidenti degli Usa si affidano al loro dio protestante quando devono intraprendere delle guerre o quando devono giurare sulla Costituzione).

Viceversa l’ortodossia è stata vissuta dai paesi che la professano come religione “nazionale”, almeno finché con l’avvento del socialismo di stato non si è imposta la netta separazione di Stato e Chiesa. L’ortodossia è rimasta come “religione” di una società che nelle sue istanze istituzionali era atea (questo in tutti i paesi dell’ex-Comecon, poiché il principio della separazione valeva anche là dove era il cattolicesimo ad essere la religione “nazionale”, come p.es. in Polonia o in Ungheria).

Prima del crollo del “socialismo reale”, gli storici borghesi, quando trattavano dell’Europa, tendevano a escludere sia i paesi di religione ortodossa, sia quelli di ideologia socialista. La Grecia ortodossa, p. es., pur non essendo mai stata socialista, è sempre stata considerata un’anomalia nel quadro dell’Europa cattolica e protestante, e questo nonostante sia partita da qui la cultura europea schiavista, la filosofia pagana, la democrazia politica, l’arte e l’architettura più evolute ecc. Questo per dire che la chiesa romana è in grado di influenzare con la propria ideologia la visione della realtà degli storici occidentali.

Dopo il crollo del muro di Berlino si è tornati a parlare di un’Europa dall’Atlantico agli Urali, ma solo nel senso che si vuole sia il superamento della tradizione ortodossa che l’accettazione incondizionata del capitalismo. Tacitamente l’ingresso in Europa ha la precondizione della rinuncia, da parte dell’est-europeo, delle proprie tradizioni opposte a quelle religiose ed economiche da noi dominanti.

Ovviamente le questioni religiose risultano di molto inferiori, come importanza strategica, a quelle economiche del libero mercato. Tuttavia è evidente che la chiesa romana (essendo un’istituzione politica per eccellenza) non può lasciar perdere l’occasione di sfruttare i processi integrativi europei per compiere opera di proselitismo là dove fino a ieri le era quasi interdetto dal socialismo di stato (come ancora oggi p. es. in Cina). Esattamente come ieri sfruttava i processi colonialistici per imporsi nel Terzo Mondo.

Excursus politico (II)

2. Oltre la civiltà

Gli uomini devono poter dimostrare di essere se stessi a prescindere dai mezzi che usano. Cioè se i mezzi inducono gli uomini ad avere tra loro rapporti innaturali, in cui l’interesse privato prevale su quello collettivo, allora ci si dovrebbe chiedere se quegli stessi mezzi non siano da modificare o da sostituire con altri più adeguati all’esigenza di identità umana. Nessuno però può pretendere di soddisfare questa esigenza a danno di altri.

La moderna civiltà occidentale ha fatto della rivoluzione tecnico-scientifica la modalità principale dei rapporti interumani e dei rapporti tra uomini e natura. E ha usato questa rivoluzione per affermare su ogni cosa il primato del profitto capitalistico, della rendita finanziaria.

Da un lato quindi si è frapposto il macchinismo tra gli esseri umani e tra questi e la natura; dall’altro si è fatto del capitale l’unica vera ragione di vita. Macchinismo e capitale hanno marciato di pari passo, condizionandosi a vicenda, con la differenza che mentre uno si pone come fine, l’altro si pone come mezzo.

La civiltà basata su questo mezzo e su questo fine, di umano ha ben poco, anche se per potersi imporre in tutta la sua innaturalezza, essa ha avuto bisogno di dimostrare ch’era migliore di quella precedente. In tal senso tutte le civiltà sono frutto di progressivi inganni o di promesse non mantenute.

È come se il genere umano dovesse sperimentare tutte le forme di illusione sulla propria identità, prima di tornare a vivere quell’unica forma di esistenza in cui era se stesso, in un rapporto naturale con l’ambiente.

È sintomatico, in tal senso, che quanto più aumenta la decadenza di una civiltà, tanto più aumentano le “favole” con cui si cerca di tenerla in piedi. Il declino irreversibile, percepito come inevitabile, porta il sistema a dare di se stesso una rappresentazione mitologica, priva di riscontri reali.

La dicotomia tra istituzioni e società è netta e compito delle prime è appunto quello di imporre alle seconde le ideologie più subdole, più raffinate, al fine di celare i contrasti insanabili.

Le civiltà non vogliono morire di morte naturale, proprio perché la loro esistenza è stata, sin dall’inizio, basata sull’inganno e sulla violenza. Le civiltà hanno orrore della verità e sarebbero disposte a qualunque cosa pur di vederla negata. Ecco perché quand’esse sono in decadenza, le “favole” aumentano all’aumentare della consapevolezza della fine. Col concetto di “favola” occorre intendere qualunque cosa che svii l’attenzione delle masse dai veri motivi che stanno portando al crollo finale.

La storia ha conosciuto delle civiltà che si sono rassegnate al loro declino e, quando si sono scontrate con civiltà molto più forti di loro, non hanno opposto una resistenza convinta alle loro proprie contraddizioni. Hanno rinunciato a lottare contro il nemico esterno perché in realtà avevano rinunciato a lottare contro le contraddizioni interne, e la sconfitta è stata considerata come una sorta di “meritato castigo”. Questo atteggiamento è molto evidente p. es. nelle civiltà precolombiane, ma si tratta di poche eccezioni.

Nel mondo egizio le “favole” del potere altro non erano che il misticismo, il culto dell’oltretomba, l’edificazione monumentale dei santuari funebri, la magia, la divinazione, l’astrologia… Tutte cose che il mondo romano ha ereditato, trasformandole in senso materialistico, e aggiungendovi altri aspetti che la cultura egizia non conosceva: il culto del diritto, dello sport, dei festini, la lotta mortale tra i gladiatori, gli svaghi alle terme, sino alle feroci persecuzioni contro i cristiani, durate ben tre secoli.

Le civiltà in decadenza, cieche di fronte ai loro problemi di fondo, hanno bisogno di “favole” e quando queste non bastano, hanno bisogno di vittime sacrificali, una sorta di capro espiatorio che serve a celare il vero volto del potere e soprattutto della sua progressiva decadenza. In questi frangenti di desolazione, occorre pensare che la storia può essere a una svolta significativa e che occorre costruire da subito una transizione verso il diverso.

Ecco perché non c’è nulla che ci possa interessare del passato se non ciò che ci può servire a risolvere i problemi del presente, poiché è comunque nel presente che dobbiamo cercare la soluzione ai nostri problemi: il passato ci può servire come fonte d’ispirazione. Ormai il legame che ci univa alle generazioni passate è stato rotto per sempre dalla civiltà contemporanea, salvo sparute eccezioni che cercano di sopravvivere come possono.

Si potrà dunque parlare di “evoluzione” solo quando usciremo da questa fase involutiva che ci attanaglia da circa seimila anni. Questo significa che dobbiamo metterci a studiare lo stile di vita delle ultime popolazioni primitive rimaste sul nostro pianeta, perché esse sono le sole che ci possono indicare la strada (pacifica) per lo sviluppo futuro dell’umanità. Dobbiamo studiarle non come un reperto archeologico o socioantropologico, ma proprio come uno stile di vita in grado di assicurare una sopravvivenza al genere umano. Questo significa che dobbiamo recuperare le tradizioni tribali delle più antiche popolazioni africane, sudamericane e asiatiche.

Le cosiddette “civiltà” non sono ancora riuscite a dimostrare che il loro stile di vita è compatibile con le esigenze riproduttive della natura e con la necessità di una coesistenza pacifica tra i popoli. Noi dobbiamo tutelare tutto ciò che è anteriore a qualunque forma di civiltà.

È da almeno seimila anni che la storia è diventata un gigantesco mattatoio per la maggior parte della popolazione mondiale. Chi non è vittima, chi ha il privilegio di una morte non violenta, è perché svolge il ruolo del carnefice di turno, ne sia o no consapevole. La storia è storia di queste infinite violenze dell’essere umano su altri esseri umani.

Ecco perché dobbiamo “uscire dalla storia”, dobbiamo recuperare quella parte di storia in cui la violenza non esisteva, e questa parte non può essere che la preistoria, cioè l’infanzia dell’umanità. Si deve lottare per ripristinare le condizioni di vita preistoriche. Sarà un processo lunghissimo, poiché oggi tutto il pianeta soffre della violenza dell’uomo, ma è l’unico modo per poter sopravvivere.

Dovremmo anzitutto chiederci su quali aspetti della storia, che poi sono gli stessi della politica, dovremmo concentrare i nostri studi e le nostre attività, allo scopo di porre le condizioni di una transizione alla “post-storia”.

  1. I mezzi di produzione che ci assicurano il sostentamento, la riproduzione biologica, non possono essere di proprietà privata, ma devono essere socializzati e sottoposti a controllo pubblico, collettivo.
  2. La gestione politica del bene comune deve sottostare alle regole della democrazia diretta, quella per cui il popolo si autogoverna. Qualunque forma di rappresentanza delegata deve basarsi sul principio della revocabilità immediata in caso di inadempienza.
  3. Nel rapporto con l’ambiente deve valere il principio secondo cui l’uomo è parte della natura, sicché non saranno ammesse forme di sviluppo tecnico-scientifico incompatibili con le esigenze riproduttive della natura. Una generazione non può far pagare a quella successiva i costi del proprio benessere.
  4. L’uguaglianza dei diritti va abolita, perché chi ha più bisogno deve avere più diritti.
  5. I mezzi di comunicazione devono appartenere al popolo, cioè a chi ha qualcosa da comunicare e non tanto a chi ha i mezzi per farlo.
  6. La conoscenza deve servire, da subito, ad assicurare le condizioni di vita abituali ed eventualmente a migliorarle, nel rispetto degli standard consolidati e comunque a condizione che tutti possano equamente beneficiarne.
  7. Va abolito qualunque confine di tipo territoriale.
  8. Vanno valorizzate le abilità e le specificità locali.