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Crisi bancarie Usa: le responsabilità dei controllori

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve.

Il loro mancato intervento, a nostro avviso, è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail. C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250.000 dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

E’in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie. Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

E’ comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone. Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio.

Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008.

Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Deutsche Bank: con la crisi aumentano i suoi manager milionari

Deutsche Bank: con la crisi aumentano i suoi manager milionari

Mario Lettieri * Paolo Raimondi**

In Europa nel settore bancario ognuno ha i suoi guai e i suoi compiti a casa da fare. L’Italia ha i crediti inesigibili da smaltire, la Germania ha la Deutsche Bank, il colosso sempre più traballante da sistemare. A ciò si aggiungano le mine vaganti delle banche “too big to fail” negli Stati Uniti che, come più volte sottolineato, rappresentano sempre un rischio sistemico. 

Da qualche tempo le azioni DB sono in caduta libera: sono scese sotto i 7 euro. Valevano ancora 20 euro nel 2017.

Non a caso i vari tentativi di salvataggio sono falliti. In particolare il piano di fusione con la banca tedesca numero due, la Kommerzbank, partecipata per il 15% dallo Stato. Si è dovuto prendere atto che, sommando i problemi delle due banche, non si sarebbe ottenuta una soluzione positiva. La DB è pur sempre un colosso con 200.000 clienti, mentre la Kommerzbank ne conta 180.000. Insieme sarebbero diventate la seconda banca europea per dimensioni, dopo l’inglese Hong Kong Shangai Bank Corporation.

Negli ambienti bancari si stima che, per restare a galla, la DB dovrebbe licenziare almeno 20.000 dei suoi attuali 90.000 impiegati. Anche in terra germanica, invece di rivedere il modello di business e di cambiare gli orientamenti e le priorità della gestione bancaria, si preferisce, purtroppo, penalizzare il lavoro e la tradizionale sana politica del credito alle famiglie e alle imprese. Del resto, si tenga presente che entrambe le banche tedesche sono partecipate da due tra i più speculativi hedge fund americani, Cerberus e Black Rock.   

Si ricordi che la Deutsche Bank ha il record di derivati finanziari per oltre 43.500 miliardi di euro, un po’ di più dei livelli delle tre banche americane, la JP Morgan Chase, la Citigoup e la Goldman Sachs. Il suo ammontare di attivi pari a circa 1.600 miliardi di euro contrasta con i soli 15 miliardi di capitalizzazione: uno tra i più squilibrati rapporti al mondo!

Secondo uno studio del quotidiano francese Les Echos, incomprensibilmente essa occupa anche il primo posto nella classifica delle banche europee con il più alto numero di manager con stipendi superiori al milione di euro: ben 643! Seconda è la Barclays inglese con 542. La nostra Intesa Sanpaolo è dodicesima con 33 dirigenti milionari.

In altre parole, le banche più attive nella speculazione e, di conseguenza più a rischio, pagano profumatamente chi, di fatto, le “pilota” nelle acque più burrascose e limacciose del business finanziario. Infatti, nella BD è proprio il capo del settore investment banking a guadagnare il massimo, 8,6 milioni di euro nel 2018! Ci sfugge la razionalità di tutto ciò.  

Qualche anno fa sembrava che la partecipazione in DB di HNA, il conglomerato cinese dell’aviazione e della logistica, avesse portato nuovi capitali e un po’ di stabilità, diventandone, di fatto, il maggiore azionista. Ma per realizzare simili operazioni il gruppo cinese si era pesantemente indebitato tanto da giungere alla soglia del collasso, costringendolo a una progressiva ritirata. 

L’uscita della HNA aveva momentaneamente aperto la strada della fusione con la Kommerzbank che, si ricordi, nel mezzo della crisi finanziaria globale, aveva già evitato la bancarotta solo per l’intervento di salvataggio del governo tedesco con oltre 16 miliardi di euro, in seguito, comunque, restituiti allo Stato.

In verità, è da un decennio che la DB è continuamente sotto osservazione e sotto indagini da parte delle autorità tedesche, inglesi e soprattutto americane. Si stima che nel periodo 2015-2017 essa abbia dovuto pagare soltanto agli enti di controllo americani e inglesi ben 11,2 miliardi di dollari in multe e condanne giudiziarie per varie truffe e per altri comportamenti finanziari sanzionabili, tenuti prima e dopo la crisi del 2008.

Più recentemente negli Usa la banca tedesca è coinvolta in alcune importanti indagini. La prima è relativa a una possibile frode bancaria attribuibile a Trump. Il presidente americano e tre dei suoi figli hanno presentato alla corte di New York  la richiesta di non trasmettere i dati relativi ai propri conti bancari presso la Deutsche Bank e la Capital One Financial Corporation, richiesti dal Congresso americano. La seconda ha a che fare con operazioni di riciclaggio di soldi sporchi da parte della Danske Bank, legata alla DB. Si indaga, poi, su un suo possibile ruolo nell’evasione fiscale di alcuni suoi clienti, come emerso nei famosi Panama Papers.  

Una cosa che disturba i tedeschi è quello che loro chiamano “Shadenfruede”,  cioè il piacere di alcuni per le disgrazie altrui. E’ la stessa irritazione che si prova anche in Italia quando alcuni esponenti europei si compiacciono delle nostre difficoltà.

Non è nostra intenzione discutere in questo modo dei problemi della Deutsche Bank. Al contrario, vorremmo che ci fosse un serio approccio europeo unitario nell’affrontare questi e altri problemi. L’Europa si costruisce anche con la condivisione degli intenti e degli impegni nei campi più importanti. E quello bancario certamente lo è.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Arrivano di nuovo le pagelle delle agenzie di rating

Arrivano di nuovo le pagelle delle agenzie di rating

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Arrivano le nuove pagelle delle agenzie di rating sull’Italia! La maggioranza dei media e tanti politici sono contenti come a Natale, sotto l’albero. Finalmente sapremo che i nostri titoli si avvicinano sempre più al livello di “spazzatura” e la cosa sembra consolare molti. In passato, abbiamo più volte messo in guardia da queste “incursioni”. Lo abbiamo fatto quando al governo c’era Berlusconi e le opposizioni usavano i rating per provare che tutto andava male. Lo abbiamo fatto quando al governo c’erano i vari governi del centrosinistra e le opposizioni sventolavano le pagelle negative. Lo facciamo anche ora con il nuovo governo e le nuove opposizioni.

 I rating di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch  non sono valutazioni fatte da enti indipendenti ed eticamente impeccabili. Le agenzie sono imprese private con base negli Usa che hanno la pretesa di giudicare le economie del resto del mondo. In America, invece, sono annualmente tenute d’occhio dalle istituzioni di controllo per scovare eventuali conflitti d’interesse e non sono per niente amate dalle autorità di governo. Il loro ruolo nefasto e corresponsabile nella Grande Crisi del 2007-8, i loro trascorsi e i legami con le grandi banche e con la finanza speculativa, non depongono bene.

 Fitch è posseduta dal colosso della comunicazione Hearst, che ha capitali e partecipazioni in centinaia di differenti business privati. Tra i suoi executive vanta dirigenti che hanno lavorato con banche e finanziarie come Merryl Linch, Lehman Brothers, Goldman Sachs , l’inglese Lloyd Bank, la Beneficial Corporation, ecc.

 Moody’s Corp. ha un fatturato di 4,2 miliardi di dollari per i suoi servizi finanziari e di rating. I suoi grandi azionisti sono fondi d’investimento e grandi banche. I suoi dirigenti si sono fatti le ossa nella Federal Reserve, nella City Group, nella JP Morgan Chase, nelle multinazionali della farmaceutica e del petrolio, come l’ExxonMobil.

 La S&P Global controlla anche l’omonima agenzia di rating. Prima era controllata dal conglomerato Mc Graw Hill Financial, una multinazionale dei servizi finanziari, che ha cambiato nome. I grandi azionisti sono i chiacchierati fondi d’investimento Black Rock e Vanguard. Vanta dirigenti che sono stati in posizioni di comando alla City Bank, alla JP Morgan Chase, alla banca olandese ING, al francese  Credit Agricole, al Credit Suisse, e anche in grandi corporation tra cui la PepsiCo, la Lockeed Martin (tecnologia militare), ecc.

 Basterebbe una veloce occhiata ai loro siti internet per farsi un’idea precisa dei tanti passaggi dal mondo della grande finanza e della speculazione a quello delle grandi corporation che dominano i mercati e viceversa. E’ più che opportuno, quindi, ricordare quanto detto su di loro dalle massime autorità americane. Il documento “The financial crisis inquiry report”, preparato da una Commissione bipartisan e pubblicato dal governo americano nel 2011, evidenzia in oltre 650 dettagliatissime pagine le nefandezze perpetrate prima e durante la Grande Crisi finanziaria del 2007-8. Così sintetizza: ”Noi affermiamo che i fallimenti delle agenzie di rating sono stati delle cause essenziali della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state le provocatrici chiave del meltdownfinanziario. I titoli legati alle ipoteche immobiliari, centrali nello scatenamento della crisi, non potevano essere valutati e venduti senza il marchio di approvazione delle agenzie. Gli investitori, spesso in modo cieco, hanno fatto affidamento sui loro rating. In alcuni casi erano persino obbligati a comprare tali titoli, pena un aggravamento degli standard relativi alle regole sui capitali loro impostogli. La crisi non sarebbe potuta avvenire senza le dette agenzie. I loro rating, prima alle stelle e poi repentinamente abbassati, hanno mandato in tilt i mercati e le imprese”.

 Anche il dossier del Senato americano “Wall Street and the financial crisis: anatomy of a financial collapse”, pubblicato nel 2011, sulla base di approfondite indagini e di numerose audizioni, dettaglia il ruolo centrale e nefasto delle agenzie nel provocare la Grande Crisi. Evidenzia, in particolare, il loro ruolo fraudolento nel propinare titoli taroccati dai loro rating. Non deve quindi sorprendere se nel 2015 solo la S&P ha pagato 1,5 miliardi di dollari di multa per simili comportamenti fraudolenti. Una sanzione monetaria molto conveniente, sia per il modesto importo, sia perché l’agenzia ha evitato che le indagini andassero più a fondo, facendo eventualmente emergere risvolti più scabrosi e penalmente perseguibili.

 Evidenziamo tutto ciò certo non per occultare gli evidenti problemi economici del nostro paese. Ci sembra, però, insopportabile la mancanza di critiche nei confronti delle citate agenzie private di rating, che, dopo aver contribuito grandemente a provocare la crisi finanziaria più grande della storia, di cui il mondo e l’Italia soffrono ancora, imperterrite, e riverite, proseguono a dare pagelle a tutti, governi e imprese.

 Se i loro rating fossero degli esercizi innocui di dispensare giudizi non richiesti, si potrebbe lasciarle giocare. Purtroppo i rating sono presi in considerazione dai mercati per giudicare le varie economie nazionali e, di conseguenza, per definire anche i tassi d’interesse sul debito pubblico. Si rammenti, inoltre, che la Bce li usa per definire l’affidabilità delle obbligazioni pubbliche dei paesi membri dell’Ue e per decidere se accettare o no tali titoli in garanzia per operazioni di credito e di finanziamento.

 Ciò, in verità, ci sembra una cosa del tutto “indigesta”.       

 *già sottosegretario all’Economia **economista

Si scrive Trump, ma si legge Goldman Sachs

Goldman Sachs all’arrembaggio della nave di Trump

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Molti negli Usa si riferiscono all’amministrazione Trump con l’appellativo “Government Sachs” in quanto ha imbarcato un numero impressionante di personaggi che, in vario modo, hanno lavorato o collaborato con Goldman Sachs, la più chiacchierata banca d’affari americana. Dall’esplosione della crisi globale la banca ha scalato molte posizioni nella lista delle banche americane più esposte in derivati finanziari over the counter fino a conquistare la terza posizione con oltre 45,5 trilioni di dollari di valore nozionale.

 Rispetto alle prime due, la Citigroup e la JP Morgan Chase, c’è una “piccola” differenza. Essa vanta il peggiore rapporto in assoluto tra il valore dei derivati e gli asset (gli attivi), che sono soltanto 880 miliardi di dollari. Il che significa che per ogni dollaro di asset, la GS ha quasi 52 dollari di derivati, mentre  la Citigroup ne ha 28,5 e la JPMorgan 20. Per cui, se queste due ultime non navigano in mari tranquilli, per la GS il mare rischia di essere sempre in burrasca. Sono dati significativi quanto preoccupanti tanto che anche l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC), l’agenzia di controllo delle banche americane, a fine settembre 2016 ha affermato che il rapporto tra l’esposizione dei crediti e il capitale di base (credit exposure to risk-based capital) era del 433% per Goldman Sachs, rispetto al 216% della JP Morgan e al 68% della Bank of America.  Sempre secondo il citato rapporto, sei anni dopo l’entrata in vigore della riforma finanziaria Dodd-Frank, che obbligava le banche a sottoscrivere tutti i contratti derivati attraverso piattaforme regolamentate, la GS mantiene ancora il 76% dei suoi derivati in otc non regolamentati. Si tratta della percentuale più alta tra tutte le banche quotate a Wall Street.

 Come è noto l’opacità dei derivati otc ha giocato un ruolo determinante nella crisi finanziaria, in quanto le banche in quel periodo avevano in gran parte sospeso di farsi credito reciprocamente sospettando buchi nascosti. Di conseguenza le stesse hanno cercato di garantirsi contro eventuali crolli accendendo polizze presso le grandi assicurazioni, in particolare con il gigante AIG. Solo di recente è diventato noto che circa la metà dei 185 miliardi di dollari versati dal governo americano per salvare la citata AIG è andata a beneficio delle grandi banche “too big to fail”.  Infatti la GS ne avrebbe ricevuti ben 12,9 miliardi.

 Crediamo non debba sorprendere il fatto che la GS sia sempre stata al centro delle grandi indagini per far emergere i responsabili della crisi globale, né tanto meno il conoscere che la banca sia stata in prima fila nel tentativo di bloccare tutte le riforme del sistema bancario e finanziario americano.  E’ sorprendente, invece, che il presidente Trump continui a reclutare molti dei suoi uomini tra gli ex leader della GS. Da ultimo il suo team economico si è “arricchito” con l’arrivo di Dina Power, presidente della Fondazione della Goldman Sachs.

 Ma la nomina più provocatoria indubbiamente è quella di Jay Clayton a capo della Security Exchange Commission (SEC), l’agenzia governativa preposta al controllo della borsa valori, l’equivalente della nostra Consob. Clayton è un importante avvocato che ha lavorato per la GS, cosa che la di lui moglie fa ancora. Si tratta della stessa SEC che ha multato più volte Goldman Sachs per operazioni illegali di vario tipo: nel 2010 una multa di 550 milioni di dollari per operazioni fraudolente con titoli tossici immobiliari subprime e un’altra di 11 milioni  nel 2012 perché alcuni suoi analisti avevano segretamente favorito dei clienti ben selezionati.

 Anche la Federal Reserve nell’agosto 2016  le ha inflitto una sanzione di 36,3 milioni di dollari per aver usato informazioni confidenziali risultanti da operazioni di controllo fatte dalla stessa Fed. Per non dire della condanna a pagare 120 milioni per manipolazioni fatte sui tassi di interesse comminata nel dicembre dell’anno scorso dalla  Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia che ha il compito di controllare le borse delle merci e delle relative operazioni in derivati finanziari.

 Non è un caso, quindi, che nelle settimane passate alcuni senatori americani abbiano chiesto alla Goldman Sachs di  rendere pubbliche le sue attività di lobby contro la legge di riforma Dodd-Frank e di conoscere l’ammontare dei profitti risultanti dalla sua cancellazione. Si ricordi che tra i primi provvedimenti del presidente Trump c’è stata l’abrogazione della citata legge.

 Evidentemente, purtroppo, il presidente americano ha dimenticato quando da lui stesso detto qualche settimana fa: “Per troppo tempo, un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione ha raccolto i compensi governativi, mentre la gente ne ha sostenuto le spese. Washington ha prosperato, tuttavia il popolo non ha condiviso la sua ricchezza”. E’ il classico esempio di quanta distanza a volte c’è tra il dire e il fare.  

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

Trump: probabile disco verde alla banche USA per riprendere a speculare. Con danni anche per l’Italia

Con Trump le banche tornano libere di speculare?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

A meno di due settimane dalla sua nomina, con un sorprendente “Executive Order On Core Principles for Regulating the United States Financial System”, il presidente Donald Trump ha cancellato la riforma di Wall Street e del mercato finanziario americano conosciuta come “Dodd-Frank Act”.

Le grandi banche “too big to fail” potranno da oggi tornare ad operare come prima delle crisi globale del 2008, senza restrizioni, senza regole e senza controlli più stringenti.

Questa decisione potrebbe avere delle ripercussioni pericolose e devastanti sul fronte economico e finanziario internazionale, soprattutto in Europa.

La Dodd-Frank, voluta da Obama dopo il fallimento della Lehman Brothers, avrebbe dovuto mettere dei freni alle operazioni finanziarie più rischiose. Tra le restrizioni previste c’era quella specifica di mantenere le operazioni speculative entro un limite percentuale delle loro attività. Erano previsti inoltre maggiori controlli per le banche con 50 miliardi di dollari di capitale che venivano considerate di “rischio sistemico”.

Pur non essendo una legge perfetta essa era stata, anche se parziale, una risposta alla crisi.

Come prevedibile, dopo la sua introduzione, il sistema bancario americano ha operato in modo sistematico e continuo per neutralizzarla.

Adesso, con un colpo di penna, Trump, che già in passato l’aveva definita “un disastro che ha danneggiato lo spirito imprenditoriale americano”, la abroga!

Lo abbiamo scritto qualche settimana fa quando Trump indicò Steve Mnuchin come suo ministro delle Tesoro. Ci sembrò che l’arrivo nell’Amministrazione di ex grandi banchieri avrebbe potuto significare una sicura involuzione a favore dei mercati finanziari.

Mnuchin è stato a capo della Goldman Sachs, una della banche più aggressive nel mondo della finanza. Non solo, nella nuova Amministrazione sono stati imbarcati altri grandi banchieri, tra questi Gary Cohn, ex Goldman Sachs, come direttore del Consiglio economico della Casa Bianca, e Wilbur Ross, ex capo della filiale americana della banca Rothschild, come capo del Dipartimento del Commercio.

La decisione di Trump è arrivata dopo il primo incontro del cosiddetto “Strategic and Policy Forum”, che è il suo gruppo di consiglieri privati, tra i quali Jamie Dimon, capo della JP Morgan e Gary Cohn. Quest’ultimo più volte ha dichiarato che le banche americane continueranno ad avere una posizione dominate nei mercati finanziari internazionali “fintanto che non ci escludiamo noi stessi attraverso un sovraccarico di regole”.

In altre parole si ritorna, purtroppo, al leit motiv secondo cui i mercati si autoregolamentano meglio senza interferenze e direttive del governo.

Al termine dell’incontro Trump ha addirittura dichiarato che “ non c’è persona migliore di Jamie Dimon per parlarmi della Dodd-Frank e delle regole del settore bancario”, mostrando un entusiasmo in verità degno di migliore causa.

Intanto l’ordinanza esecutiva impegna il Segretario del Tesoro, che dovrebbe appunto essere Steve Mnuchin nel caso ottenga l’approvazione del Congresso, a preparare entro 4 mesi un rapporto per una nuova regolamentazione del sistema finanziario. Si è ingenui chiedersi chi saranno i veri beneficiari di tali proposte?

Contemporaneamente è stato firmato un altro memorandum presidenziale soppressivo della regola secondo cui i consulenti devono anteporre l’interesse dei loro clienti a qualsiasi altra considerazione. Secondo Trump va invece rafforzato il principio secondo cui i cittadini devono liberamente fare le loro scelte finanziarie. Non è una cosa da poco. Infatti, in questo modo se un risparmiatore accetta di comprare un titolo ad alto rischio, anche senza capire bene i termini dell’operazione, non potrà in seguito lamentarsi delle eventuali perdite

Non è un caso che la stampa finanziaria di Wall Street abbia salutato le citate decisioni come una coraggiosa scelta di ritorno ad una accentuata deregulation.

Tali decisioni non possono non suscitare diffuse preoccupazioni in quanti continuano a ritenere che l’economia reale debba essere centrale e tutelata rispetto alle attività speculative.

Perciò le dichiarazioni di Trump, circa una nuova legge Glass-Steagall relativa alla separazione delle attività bancarie, suonano false o come delle mere battute elettorali. C’è da sperare che la proposta di legge per reintrodurre la Glass-Steagall, presentata al Congresso da un gruppo bipartisan appena prima dell’emissione dell’ordine esecutivo, venga discussa e approvata.

E’ ancora presto per dare un giudizio definitivo sull’Amministrazione Trump, ma questi segnali sicuramente non depongono bene.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il sistema bancario internazionale naviga pericolosamente a vista: a quando le collisioni e gli affondamenti?

Il sistema bancario internazionale naviga pericolosamente a vista

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Di fronte alle crisi bancarie che investono di volta in volta differenti Paesi della zona euro, la cosa peggiore, e suicida, che l’Unione europea possa fare sarebbe di trattarle come mere questioni nazionali. Oggi sembra toccare all’Italia, domani chissà.

Ne è prova il fatto che le autorità preposte, a cominciare dalla Banca centrale europea, dalle banche centrali nazionali e dalla Commissione europea, navigano a vista, senza una chiara politica. Non si tratta, infatti, di tamponare gli effetti finanziari ed economici della grande crisi globale, ma di approntare misure che neutralizzino in modo definitivo la finanza della speculazione senza regole e che rimettano in moto lo sviluppo produttivo.

Gli attuali grandi problemi del sistema bancario italiano hanno due nomi: crediti inesigibili per oltre 200 miliardi di euro e gravissime responsabilità degli amministratori delle banche e degli organi di controllo della Banca d’Italia.

Il primo problema, ovviamente, è in gran parte dovuto agli effetti della crisi globale, che ha portato ad una drastica diminuzione nelle produzioni, nei commerci e nei consumi. Ciò ha messo molti imprenditori in ginocchio, rendendoli impossibilitati a mantenere la regolarità dei pagamenti e dei rimborsi per i prestiti precedentemente chiesti ed ottenuti.

Per il secondo problema si dovrebbe invece mettere sotto i riflettori le banche e soprattutto la Centrale Rischi della Banca di’Italia. Come è noto, le banche e le società finanziarie devono comunicare mensilmente alla Banca d’Italia il totale dei crediti verso i propri clienti, sia i crediti superiori a 30.000 euro che i crediti in sofferenza di qualunque importo. Il compito primario della Centrale Rischi è quello di valutare i crediti concessi per rafforzare la stabilità del sistema bancario. Si sottolinea inoltre che dal 2010 essa scambia queste informazioni con le altre banche centrali europee e con la Bce.

Come è possibile, dunque, che, sia a livello nazionale che a livello europeo, siano stati permessi e tollerati prestiti e altre operazioni finanziarie che, stranamente solo oggi, scopriamo essere ad altissimo rischio?

Comunque nel sistema europeo vi sono molte altre anomalie che meritano attenzione ed interventi correttivi. L’Autorità bancaria europea, per esempio, oggi giustamente analizza criticamente i crediti concessi dalle banche ma, nel contempo, permette un leverage altissimo per le banche. Permette cioè che siano sufficienti tre (3) euro di capitale per creare finanza per 100. Permette anche che certe attività finanziarie, come i cosiddetti asset di terza categoria, che sono in gran parte derivati asset backed security, trattati e tenuti fuori mercato e quindi con un valore altamente incerto, vengano contabilizzati dalle banche secondo criteri interni molto convenienti alle stesse.

Dopo il 2008 dovrebbe essere ovvio tener conto del fatto che l’intero sistema bancario internazionale è profondamente interconnesso e perciò pericolosamente esposto al contagio e a crisi sistemiche. Eppure Bruxelles, Francoforte, e spesso anche Berlino e Parigi, preferiscono, sbagliando, l’approccio nazionale a quello europeo. In questo modo si rischia di giocare al massacro.

Ce lo ricorda anche l’Office of Financial Research (OFR), l’agenzia del ministero del Tesoro americano, creata nel 2010 dalla legge di riforma finanziaria, la Dodd-Frank, con il compito di studiare i lati oscuri del sistema finanziario allo scopo di ridurne i rischi.

Nell’ultimo rapporto dello scorso dicembre l’OFR ammonisce che le banche americane di importanza sistemica si sono esposte per oltre 2 trilioni di dollari nei confronti dell’Europa, di cui circa la metà in derivati otc tenuti fuori bilancio.

Quando Wall Street e le banche americane vendono derivati lo fanno per proteggersi da eventuali fallimenti; quando invece li acquistano esse offrono una copertura a eventuali crisi di altre banche. In questo caso di quelle europee.

Consapevoli delle difficoltà bancarie in Europa, gli Usa hanno lanciato questo allarme. L’OFR ne ne lancia anche un altro tutto interno al sistema di Wall Street. Avvisa che già alla fine del 2015 anche le assicurazioni americane sulla vita hanno abbondantemente superato i 2 trilioni di dollari in derivati finanziari. Il 60% di tale “montagna” sarebbe stato sottoscritto soltanto dalle 9 maggiori banche americane ed europee, quelle too big to fail: Goldman Sachs, Deutsche Bank, Bank of America, Citigroup, Credit Suisse, Morgan Stanley, Barclays, JPMorgan Chase e Wells Fargo.

L’allarme non è da sottovalutare, si ricordi che soltanto l’AIG, il gigante delle assicurazioni, a suo tempo dovette essere salvato con 182 miliardi di soldi pubblici!

Anche in questo caso si evince la urgenza di rispondere alla globalizzazione dei mercati finanziari e del sistema bancario con regole globali e condivise.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

IL PARTITO DI GRILLO RECLAMA IL REFERENDUM PER FARCI USCIRE DALL’EURO E TRUMP METTE UNA FAINA NEL POLLAIO DEI SOLDI PUBBLICI USA

 Il deputato grillino Alessandro Di Battista nel presentare il programma di governo del suo partito ha ribadito e specificato: “Vogliamo il referendum sull’euro”. Chiara quindi la volontà del Movimento 5 Stelle di farci uscire dall’euro, come del resto vuole anche la Lega Nord, con le inevitabili conseguenze più probabilmente catastrofiche che paradisiache.  A certi giovani cialtroni non basta neppure la lezione della Brexit e non sanno nulla dell’assalto di George Soros che mise in ginocchio la lira: pur di far carriera politica sono prontissimi a farsi servi dei Dracula e becchini dei risparmi degli italiani.

pino nicotri 

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Un uomo della Goldman Sach al Tesoro americano

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La nomina di Steven Mnuchin a segretario del Tesoro della nuova amministrazione Trump non è certamente un segnale positivo. Noi l’abbiamo paventata in un articolo scritto  settimane fa. Mnuchin è un rampollo della Goldman Sachs, la banca numero uno della grande speculazione. Anzi, si potrebbe dire che vi è ‘nato dentro: il padre Robert ne è stato partner per ben 30 anni; Steven vi ha lavorato per 17 anni, fino al 2002, arrivando a gestire il delicato settore dei titoli di stato, delle obbligazioni e delle ipoteche immobiliari. In questo periodo Mnuchin ha collaborato anche con il Fund Management di George Soros, il megaspeculatore tristemente noto in Italia per i suoi “assalti” contro la lira nel 1992-3, che misero in ginocchio la nostra moneta.

Nel 2004, dopo l’esperienza alla GS, il futuro segretario del Tesoro si mise in proprio creando un suo hedge fund speculativo, il Dune Capital Management, uno di quelli che sono stati spesso chiamati “fondi avvoltoio”. Ha partecipato ai progetti di investimento immobiliare di Trump e investito anche in Hollywood e nella produzione di alcuni film di cassetta. Sono stati gli anni della deregulation e della grande abbuffata speculativa che hanno creato la bolla finanziaria e quella dei mutui subprime scoppiate nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers.

Per meglio capire le idee e il modus operandi di Mnuchin, è importante analizzare la sua decisione di comprare, nel 2009, la banca di credito immobiliare IndyMac dopo il suo fallimento. Perché si compra una banca fallita? Per fare soldi con simili investimenti occorre essere molto furbi e senza scrupoli. La sua furbizia fu nella clausola imposta all’agenzia statale venditrice, la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), di “condivisione delle perdite”, qualora eventuali mutui e titoli acquisiti fossero diventati inesigibili. Nel contempo con aggressiva determinazione parecchie migliaia di famiglie, incapaci di pagare i mutui accesi, furono messe alla porta e le loro case acquisite dalla banca, che nel frattempo aveva cambiato nome in OneWest Bank. Per Mnuchin è stato un grande affare: la FDIC nel frattempo versa 1 miliardo di dollari per la parte dei crediti inesigibili e la vendita successiva della OneWest nel 2015 frutta 3,4 miliardi di dollari, il doppio del prezzo d’acquisto.

Evidentemente gli insegnamenti acquisiti alla Goldman Sachs sono stati molto utili e fruttuosi per il futuro segretario al Tesoro. Perciò è opportuno ricordare che, in rapporto alla crisi finanziaria americana e globale, la GS è stata oggetto di approfondite indagini da parte di due commissioni bipartisan, una del Senato americano e l’altra indipendente, ma formata da esperti nominati dal Partito Democratico e da quello Repubblicano. La Commissione del Senato, denunciando l’operato delle grandi banche americane, in primis la GS, ha scritto: ”E’ stata una distruzione fino alle fondamenta del sistema finanziario”. Persino Trump durante la campagna elettorale ha denunciato i dirigenti della GS come la personificazione dell’elite globale che “ha derubato gli operai americani”.

Mnuchin sarebbe il terzo segretario al Tesoro che si è fatto le ossa alla Goldman Sachs. Prima di lui vi sono stati Henry Paulson con il presidente George W. Bush e Robert Rubin con il presidente Clinton. Il primo divenne famoso per avere permesso alle banche di speculare fino al crack per poi salvarle con i soldi pubblici, il secondo preparò l’abrogazione della legge Glass-Steagal di separazione bancaria.

Cosa ci si può quindi aspettare dal nuovo segretario al Tesoro, se verrà confermato all’inizio del 2017 da un Congresso a maggioranza Repubblicana?

In primo luogo che possa ridare mano libera alle grandi banche per operare “as usual”. Si ricordi che i tentativi del presidente Obama di realizzare la riforma della grande finanza sono stati contenuti e alla fine quasi sconfitti dalla potente lobby bancaria americana. Le banche ‘too big to fail’ ora sicuramente si sentono pronte per la spallata definitiva a ogni tipo controllo sul loro operato e ad ogni tentativo di frenare le loro azioni, anche quelle speculative ad alto rischio. Ci si potrebbe chiedere se l’approccio prettamente finanziario possa entrare in collisione con il Trump imprenditore che dice di voler rilanciare gli investimenti, anche nelle infrastrutture. Non sarebbe salutare per la comunità americana, e nemmeno per il resto del mondo, se si raggiungesse un compromesso per far gestire gli investimenti alle grandi banche.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’ECONOMIA E LA FINANZA SECONDO TRUMP, CHE VUOLE COLPIRE DURAMENTE LA CINA

Economia e finanza: i test chiave dell’amministrazione Trump

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Alla fine, anche se dopo il gran botto, tutti, dagli analisti più blasonati fino al più sprovveduto sondaggista, hanno dovuto riconoscere che Donald Trump ha vinto perché ha affrontato di petto i problemi economici e occupazionali che affliggono la stragrande maggioranza degli americani. Di coloro che lavorano per vivere, di quei cittadini che negli Stati Uniti chiamano la “middle class”. Anche in Italia nessun media aveva capito che questa America non era preoccupata primariamente per l’immigrazione, la politica estera, le guerre o il terrorismo bensì per il proprio livello di vita.

In tutti i suoi discorsi Trump ha ripetuto che “oggi, 92 milioni di americani sono ai margini, fuori dalla forza lavoro, non sono parte della nostra economia. E’ la nazione silenziosa degli americani disoccupati.”. Se molti votanti vi hanno creduto, allora vuol dire che le statistiche ufficiali, che osannavano la grande ripresa con milioni di nuovi posti di lavoro, non riflettevano la verità, la situazione reale.

E’ quindi proprio sul fronte dell’economia che la polemica di Trump contro l’establishment ha fatto presa e ha coagulato il voto di protesta. Adesso si dovrà vedere quanto delle tante promesse fatte in campagna elettorale egli sarà capace di mantenere.

Nel suo discorso della vittoria ha ribadito l’intenzione di voler “investire almeno 1.000 miliardi di dollari nelle infrastrutture”. Prevede investimenti addirittura per 50.000 miliardi di dollari nei settori dell’energia. I tassi di interesse non saranno in futuro così bassi come quelli odierni, ha detto, per cui oggi è il momento migliore anche per fare nuovi debiti per costruire nuovi aeroporti, ponti, autostrade, treni veloci, ecc. E ha aggiunto che intende usare la leva del credito, che lui ama molto, per moltiplicare le disponibilità finanziarie necessarie.

Al riguardo è però opportuno ricordare che ad agosto alcuni banchieri d’assalto avevano già avanzato la proposta di creare proprio una banca per le infrastrutture per mille miliardi di dollari. Come sempre occorrerà vedere chi sarà alla testa di una simile operazione e sulla base di quali principi economici verrebbe realizzata.

Questa politica di investimenti dovrebbe essere parte di una serie di iniziative miranti a creare 25 milioni di nuovi posti di lavoro in 10 anni, mantenendo un tasso di crescita annuo del 3,5%. Per sostenere un tale progetto, Trump ha aggiunto di volere ridurre al 15% la pressione fiscale delle imprese, che attualmente negli Usa è del 35%.

Per passare dai numeri ai fatti la strada si farà difficile e complicata, soprattutto se dovesse pensare che si possano ottenere simili risultati lasciando che i mercati operino da soli, senza alcuna guida o correzione. In questo, il nuovo presidente crede, forse per troppa convinzione ideologica liberista, che una diminuzione delle tasse porti automaticamente a più posti di lavoro. Nei passati anni molti desiderati automatismi economici e monetari si sono rivelati delle pure illusioni sia negli Usa che in Europa.

Trump riconosce che il deficit commerciale annuale americano di 800 miliardi di dollari nei confronti del resto del mondo non è più sostenibile. Vuole rinegoziare gli accordi commerciali con il Messico e il Canada e cancellare quello con i Paesi del Pacifico. Per il neo presidente la Cina è il principale ‘nemico’ economico che manipola, con le svalutazioni, la propria moneta, per cui essa dovrà essere fatta oggetto di sanzioni e dazi. Per Trump si tratta di politiche che penalizzano l’occupazione negli Usa. Al di là di certi slogan protezionistici, sarà certamente una prova molto complessa quella di bilanciare la ripresa occupazionale interna con la stabilità delle relazioni commerciali internazionali.

E’ importante che in campagna elettorale, copiando un intervento del democratico Bernie Sanders, Trump abbia posto al centro del dibattito l’idea di reintrodurre la Glass-Steagall Act per la separazione bancaria. Si tratta della legge voluta nel 1933 da Roosevelt per mettere un freno alla speculazione finanziaria fatta dalle banche con i soldi dei risparmiatori. Purtroppo fu proprio Bill Clinton nel 1998 a cancellarla, aprendo così la strada allo tsunami speculativo fatto di derivati finanziari e di altri titoli tossici che hanno portato alla grande crisi bancaria del 2008 e alla susseguente depressione economica mondiale.

Al riguardo Trump, sempre imitando Sanders, ha denunciato la cosiddetta riforma Dodd-Frank del sistema finanziario americano come “un disastro che penalizza i piccoli imprenditori e i loro tentativi di accedere al credito” . Secondo lui un principio di giustizia più equa vuole che anche Wall Street sia sottoposta a regole stringenti.

Nel campo economico e finanziario di carne al fuoco ne ha messo tantissima. Occorrerà aspettare per vedere. Ma nemmeno troppo a lungo. Si potranno già capire le reali politiche dell’amministrazione Trump quando nominerà i ministri chiave. Se, per esempio, al Tesoro dovesse andare un banchiere, sia esso della Goldman Sachs o della JP Morgan di cui tanto si parla, allora sarà chiaro che alle tante parole e alle tante promesse, difficilmente seguiranno fatti nuovi.

Comunque è troppo presto per avere certezze. Le incognite non sono poche. Abbiamo il dovere di verificare prima di dare giudizi definitivi. Per il momento vi sono le parole. A noi corre l’obbligo di ricordare che tra il dire e il fare molto spesso c’è di mezzo il mare.

*già sottosegretario all’Economia **economista

1) Il sistema bancario è malato non solo in Italia 2) Joan Baez denuncia la passione USA per le armi 3) Un ottimo articolo sulla Cina come economia di mercato

Il sistema bancario è malato non solo in Italia
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Il malato è ancora una volta l’intero sistema bancario internazionale. Da una recente analisi fatta dal Wall Street Journal sulle 20 maggiori banche mondiali, tra cui la JP Morgan Chase, la Goldman Sachs, la Deutsche Bank e la nostra Unicredit, risulta che dall’inizio dell’anno esse hanno perso almeno 500 miliardi di dollari del valore delle loro azioni quotate in borsa.

Circa un quarto della loro capitalizzazione di mercato. Al momento della pubblicazione dello studio le azioni dell’inglese Barclay’s, del Credit Suisse e della Deutsche Bank avevano perso circa la metà del loro valore, quelle della Bank of Scotland erano cadute del 56% e quelle della UniCredit di  quasi due terzi!
Secondo la banca delle banche centrali, la Banca dei Regolamenti Internazionali, l’intero sistema bancario internazionale sta registrando un netto ridimensionamento dei crediti interbancari ed in particolare di quelli verso le imprese non finanziarie, con la sola eccezione della Cina e di alcuni Paesi asiatici.

Il problema principale per le banche è adesso l’effetto del tasso di interesse zero che, in verità,avrebbe dovuto aiutarle fornendo liquidità senza costi.
Oggi si racconta un’altra storia. Nel mondo, infatti, obbligazioni e altri tioli di debito per quasi 12 trilioni di dollari sono entrati nel cono d’ombra dell’interesse negativo. L’intero sistema è compresso nella morsa fatta da un debito crescente, da una produttività in diminuzione e dall’inefficacia delle politiche monetarie cosiddette accomodanti.

Una simile combinazione crea ovviamente instabilità e perdita di fiducia.
Perciò si è tornati a ventilare la possibilità o la necessità, di creare delle fusioni tra mega banche per dare ‘l’illusione’ di maggiore forza e solidità, ignorando il fatto che due debolezze non fanno una forza. Al contrario, i giornali tedeschi citano nuovi studi, come quello del centro di consulenza bancaria ZEB, limitati alle maggiori 50 banche europee, dove invece si parla di rischio di contagio tra le banche in crisi che hanno un livello di profitto inferiore al costo del capitale.

Non deve quindi sorprendere se anche il Fondo Monetario Internazionale indica la Deutsche Bank, seguita a ruota dall’inglese Hong Kong Shanghai Bank e dal Credit Suisse, come “la più importante ‘too big to fail’ che contribuisce ad aumentare i rischi sistemici”.
D’altra parte un confronto tra la situazione della Deutsche Bank di oggi e quella della LehmanBrothers prima del fallimento è devastante. La banca americana aveva attivi per 639 miliardi di dollari e debiti per 619 miliardi con un pacchetto di derivati otc pari a circa 35 trilioni di dollari. Ogni sua azione valeva 25 dollari nel 2007 e 10 centesimi nel 2009!

La DB ha attivi per 1630 miliardi di euro e debiti per 1560 miliardi a cui occorre aggiungere 428 miliardi di prestiti. A fine 2015 aveva in pancia derivati otc per 42 trilioni di euro. Un anno prima erano 52 trilioni. L’azione DB valeva 135 dollari nel 2007 e oggi ne vale 17.
E’ in questo contesto che si colloca anche l’emergenza bancaria italiana che necessiterebbe di 150 miliardi di euro per stabilizzare il sistema. Nei giorni passati si sono sentite dichiarazione ufficiali che fino a qualche ora prima sembravano venire solo da ‘voci fuori dal coro’. Si pensi algovernatore Ignazio Visco che non esclude nuovi bail out, “interventi pubblici” per salvare le banche o al presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, che denuncia il bail in come anticostituzionale!

E’ ovvio, quindi, che non c’è ragione di presentare ‘l’altro’ come se fosse in condizioni peggiori:l’americano per gli europei, la Deutsche Bank per Roma o le banche italiane per i tedeschi.

A otto anni dall’esplosione della crisi globale dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che il sistema finanziario vive una situazione ancora peggiore. Peggiore in quanto i comportamenti rischiosi delle banche sono continuati e sono stati tollerati, mentre l’economia globale è stata indebolita da una progressiva recessione e le autorità monetarie hanno esaurito tutte le munizioni standard.
Si ripropone quindi, con più urgenza, la necessità di approntare insieme regole efficaci e stringenti per riportare la finanza e il sistema bancario nell’alveo della loro vera missione, cioè quella di fornitori di credito alle politiche di sviluppo e di crescita.

Si tratta perciò di sganciare il sistema bancario e finanziario dalla costante “tentazione speculativa” attraverso la reintroduzione della legge Glass-Steagall, la separazione bancaria voluta dal presidente Roosevelt proprio per affrontare gli eccessi speculativi delle grande crisi del ’29, di proibire alle grandi banche di giocare alla roulette dei derivati otc e di vietare in borsa le vendite allo scoporto.
Basta con i bail out e i bail in.

Questa è la vera sfida di fronte ai governi e a quei leader politici che sentono la responsabilità di essere statisti e non soltanto politicanti di successo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

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2) Joan Baez denuncia la passione USA per le armi 

http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/joan-baez-ecco-perche-nessuno-ama-le-armi-come-gli-americani/246525/246629?ref=HRESS-5

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3) Un ottimo articolo sulla Cina come economia di mercato

http://www.pandorarivista.it/articoli/riconoscimento-della-cina-come-economia-di-mercato-uno-scontro-inevitabile/

Brexit: timori finanziari fondati o alibi per interventi eccezionali? Ovvero: una (altra) scusa per qualche (altra) fregatura?

Brexit: timori finanziari fondati o alibi per interventi eccezionali?

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il risultato del referendum sulla Brexit avrà certamente un effetto profondo sull’economia britannica, sull’Unione europea e sul suo processo di integrazione.

Chi ci ha letto in passato sa che noi siamo sempre stati fautori di un’Europa forte, solidale e sovrana. Nondimeno ci sembra esagerata la reazione sia dei mercati che delle istituzioni finanziarie europee ed internazionali che paventano un nuovo sconquasso finanziario globale.

E’ come se l’emergenza Brexit serva a giustificare una probabile adozione di interventi eccezionali e a scaricare su di essa le conseguenze di una crisi già in atto, ma che oggettivamente non ha origine nell’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

Al riguardo è’ interessante notare che le grandi banche too big to fail americane ed internazionali, la Goldman Sachs, la JP Morgan, la Citibank, la Bank of America per nominarne alcune, sono state in prima fila, anche con notevoli donazioni in denaro, per sostenere la campagna “Remain”. Anche speculatori come George Soros sono scesi in campo contro la Brexit paventando cataclismi di ogni sorta.

La Federal Reserve ha deciso di lasciare i tassi fermi e ha annunciato che il costo del denaro salirà, ma più lentamente. L’incertezza sul referendum della Brexit “è uno dei fattori che ha pesato sulla decisione” di mantenere invariato il costo del denaro, ha affermato la governatrice Janet Yellen, sottolineando che un eventuale addio della Gran Bretagna all’Ue potrebbe avere ripercussioni sull’economia e sulla finanza globale. Dopo di che anche la Banca Centrale Europea ha affermato di essere pronta ad interventi di emergenza e in ogni caso di voler mantenere i suoi acquisti di asset finanziari pari a 80 miliardi di euro al mese fino a marzo 2017 e anche oltre, se fosse necessario.

Indubbiamente l’uscita dall’Ue avrà un grosso impatto in particolare per la City di Londra. Nella City operano circa 250 banche estere che in questo modo hanno un accesso diretto al mercato Ue. La City rappresenta circa il 10% del Pil britannico e contribuisce per il 12% a tutte le tasse raccolte dal governo. Essa è la prima esportatrice di servizi finanziari del mondo. Servizi che, per 20 miliardi di euro, vanno proprio verso l’Europa.

Una delle grandi preoccupazioni riguarda, per esempio, la sorte della Royal Bank of Scotland, che nel biennio 2014-15 ha accumulato perdite per oltre 7 miliardi di euro. Cosa succederebbe a questa banca in caso di un aggravamento della situazione inglese?

Secondo noi il nervosismo nella grande finanza riflette un profondo senso di incertezza e anche una vera e proprio paura di effetti a catena, simili a quelli non previsti e non voluti, della bancarotta della Lehman Brothers nel 2008.

L’ultimo bollettino della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea delinea andamenti finanziari e bancari che meritano una attenta disamina. Nell’ultimo trimestre del 2015 i crediti bancari transfrontalieri globali sono diminuiti di 651 miliardi di dollari, di cui 276 verso la zona euro. E’ una tendenza in crescita da tempo. La stessa cosa era avvenuta a seguito della crisi del 2008. E’ indubbiamente uno dei risultati della prolungata stagnazione economica mondiale.

E’ anche rilevante notare che il valore nozionale dei derivati otc è finalmente sceso di quasi 200.000 miliardi di dollari, da 700 mila di giugno 2014 ai circa 500 mila di fine 2015. E’ un fatto di indubbia positività.

Si tratta di cambiamenti necessari e ulteriormente auspicabili. Noi abbiamo sempre ribadito l’importanza di ‘prosciugare’ la palude dei derivati finanziari speculativi otc e di contenere le operazioni bancarie non produttive.

I dati della Bri sono di grandezze eccezionali, però richiedono un attento controllo e anche interventi precisi da parte delle autorità competenti. Se fossero soltanto il risultato di performance autonome dei mercati, allora dietro ai numeri potrebbero nascondersi ‘macerie’.

Sarebbe proprio come spesso accade dopo fenomeni alluvionali. Dopo una violenta inondazione si è tutti contenti di vedere che le acque si sono ritirate. Ma prima di permettere il ritorno delle famiglie evacuate o addirittura concedere dei permessi di costruzione è necessario che la Protezione Civile faccia un attento controllo del territorio per determinare se la catastrofe ha minato le fondamenta dei palazzi e la compattezza del terreno.

Di certo sono in atto profondi rivolgimenti nei settori finanziari e bancari per cui ogni evento, anche di portata minore, rischia di produrre conseguenze destabilizzanti. Con effetti sistemici!

*già sottosegretario all’Economia **economista

LE AUTORITA’ MONETARIE DEGLI USA E DELL’EUROPA CORRONO IN DIREZIONI OPPOSTE: SPERIAMO DI NON ROMPERCI LE OSSA…

Fed e Bce corrono in direzioni opposte

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prepariamoci a salire ancora sull’ottovolante finanziario e speculativo! Non vogliamo essere troppo pessimisti ma pensiamo che ciò possa accadere. Infatti la Federal Reserve americana ha appena annunciato che considera la possibilità di aumentare il tasso di interesse a dicembre. La Bce di Mario Draghi ha invece rilanciato in grande la politica del Quantitative easing: ha ribadito che “ intende acquistare titoli pubblici e privati fino a settembre 2016 e oltre, se necessario”. In ogni caso fino a che il tasso di inflazione annuo non si assesti intorno al 2%.

Draghi ha aggiunto che, “alla luce dei nuovi rischi emersi in relazione ai recenti sviluppi nei mercati globali e in quelli finanziari e delle commodity”, si è pronti ad aggiustare la dimensione, la composizione e la durata del programma del Qe.

Altro che “coordinamento stellare” tra le due massime banche centrali del pianeta! Esse si stanno movendo in direzioni diametralmente opposte, con il rischio di scontrarsi quando il circuito inevitabilmente li metterà di fronte. Una vuole iniziare una politica monetaria restrittiva mentre l’altra vuole proseguire con l’espansione della liquidità.

Troppo spesso e troppo astrattamente si parla di globalizzazione finanziaria, ma quando la Fed decide le sue più importanti politiche monetarie lo fa nel suo interesse nazionale e del sistema del dollaro. La Bce ha imparato ad imitarla. Non si considera affatto se ciò possa avere un effetto destabilizzante nell’intero sistema economico-finanziario globale, in particolare nelle economie emergenti. Ciò è già accaduto. Prima o poi il conto si presenterà anche in casa americana ed europea.

Finora la grande disponibilità di liquidità in dollari a basso costo ha generato il cosiddetto “carry trade”, cioè il prendere a man bassa prestiti in dollari per poi usarli, anche per speculazioni, ovunque nel mondo.

Escludendo il settore bancario, a marzo 2015 il debito in dollari fuori dagli Stati Uniti, soprattutto quello delle imprese, ha raggiunto i 9,6 trilioni di dollari, di cui un terzo nei Paesi emergenti. Dal 2009 vi è stato un aumento del 50%.

Il debito delle economie emergenti in valuta estera è quindi aumentato di molto. Tanta liquidità globale ha generato la crescita dei bond e di altri titoli di debito tanto da creare instabilità.

Negli ultimi mesi, a seguito delle svalutazioni delle monete locali, molti Paesi hanno risposto attingendo alle proprie riserve e vendendo le obbligazioni di stato denominate in dollari. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima che il loro ammontare potrebbe superare quello dei titoli acquistati dalla Bce. Ciò ovviamente può determinare una competizione sul mercato globale delle obbligazioni in dollari e in euro con effetti non secondari anche sui cambi, neutralizzando l’ipotizzato effetto positivo del Qe europeo.

Ciò dato non sorprende che anche l’Economist sottolinei che l’”offshore dollar system” si sia allargato senza freni. Esso ricorda che immediatamente dopo la crisi del 2008 la Fed intervenne con 1.000 miliardi di dollari a sostegno di banche private e di banche centrali estere. Oggi in caso di una nuova crisi finanziaria l’intervento richiesto alla Fed potrebbe essere di dimensioni molto maggiori rispetto al passato. Si calcola che entro il 2020 la quantità di dollari fuori dai confini degli Usa potrebbe superare tutti gli attivi dell’intero settore bancario americano.

Anche la rivista Forbes scrive che se una grossa banca, come la Goldman Sachs o la Morgan Stanley, dovesse affrontare una crisi simile a quella della Glencore, la multinazionale delle materie prime i cui titoli sono crollati dell’85% dal loro debutto in borsa del 2011, ci sarebbero sufficienti ragioni per temere una Lehman Brothers 2.0. Questo perché le “too big to fail” hanno operazioni in derivati otc che, come noto, variano tra i 600 e i 700 trilioni di dollari. Quello di Forbes non è un avviso velato in quanto le banche menzionate sono grandemente coinvolte nei derivati speculativi sulle commodity.

La mancanza di regole e la mancanza di un effettivo raccordo tra i maggiori attori internazionali dell’economia e della politica mantengono il mondo sotto la minaccia di nuove crisi e di nuove instabilità, non meno preoccupanti di quelle determinate dagli attuali conflitti regionali.

Di ciò purtroppo si parla poco ignorando che spesso alla radice delle varie tensioni territoriali e dei fenomeni migratori vi sono anche regioni economiche e culturali.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

Le Borse sono ostaggio dei computer speculatori mentre la Cina impone nuove sfide all’Europa

LE BORSE OSTAGGIO DI COMPUTER-SPECULATORI

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si stima che le operazioni “high frequency trading”, le transazioni ad alta frequenza, rappresentino il 70% di tutte le transazioni borsistiche negli Usa e circa il 40% di quelle effettuate in Europa. In Italia la Consob nel 2012 le quantificava intorno al 14% di tutte le contrattazioni. Tali operazioni avvengono tramite sofisticatissimi software ultra veloci, guidati da complicati algoritmi matematici, e con l’intento di lucrare su piccolissime variazioni di valore.

Gli speculatori operano sui mercati di azioni, obbligazioni, strumenti derivati e commodities generando enormi quantità di transazioni giornaliere e utilizzano la strategia HFT per trasformare anche margini minimi in forti guadagni.

Il metodo più frequente è quello di utilizzare supercomputer che operano in micro secondi piazzando i propri ordini in anticipo rispetto alle grosse transazioni con un evidente e notevole vantaggio sui grandi investitori istituzionali come i fondi comuni, i fondi pensione o le stesse banche. Ciò permette di conoscere e anticipare la direzione della domanda, dell’offerta e dei prezzi. Sarebbe una sorta di “insider trading automatico”, contrattazioni fatte sfruttando sistemi accessibili solo ad operatori privilegiati.

E’ ciò che accadeva lo scorso venerdì 2 ottobre. Alle 14.30 l’euro si cambiava a 1,115 verso il dollaro, mezz’ora dopo arrivava a 1,27. L’oro, da 1.109 dollari l’oncia, un’ora dopo saliva a 1.140. In meno di un’ora quindi i mercati erano stati colpiti da scosse improvvise e da modificazioni profonde.

Era successo che il governo americano aveva semplicemente dichiarato che l’aumento dell’occupazione nel mese di settembre era stato inferiore alle aspettative. Tale annuncio ha fatto temere che l’aumento del costo del denaro da parte della Fed, di cui si stava parlando, sarebbe potuto slittare. Teoricamente, quindi, il dollaro si sarebbe indebolito nei confronti dell’euro e la domanda di oro sarebbe cresciuta.

Qualche secondo prima dell’annuncio governativo relativo al dato occupazionale si erano messi in moto i grandi operatori finanziari, tra cui la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, che intervengono sui mercati con le suddette operazioni HFT.

Operazioni HFT sono fatte ogni minuto, ma si mettono in azione in modo più sistematico e potenzialmente devastante ogni qualvolta si presenti una decisione o una valutazione con importanti conseguenze di politica economica.

Ci sono anche transazioni HFT molto complicate, spesso nemmeno controllate dagli stessi speculatori. Come avvenne il 6 maggio 2010 quando i programmi HFT impazzirono e i computer, in automatico, provocarono in pochi minuti il tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones.

Quel giorno il mondo venne a conoscenza che i mercati finanziari e monetari non erano più quelli delle contrattazioni “alle grida” visti centinaia di volte nei film di Hollywood ma erano passati sotto il controllo del “grande fratello” informatico, quello dei super computer programmati ad operare in automatico.

Ovviamente anche in questo campo mancano le regole, nonostante in molti Paesi vengano applicate sanzioni e multe e vengano fatte indagini per insider trading o per manipolazione dei prezzi.

Non mancano i fautori del nuovo corso. Essi sostengono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’HFT come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi abbassando i costi del singolo investimento. Si afferma che gli operatori del mercato sono i primi interessati alla regolarità e all’autodisciplina. Anche Alan Greenspan, l’ex governatore della Fed, lo diceva a proposito dei banchieri fino al 2007.

Secondo noi non si possono lasciare i mercati finanziari ancora una volta in ostaggio di speculatori e di computer con il “pilota automatico”. E’ anche comprensibile che le economie sottoposte alla spada di Damocle di una finanza senza regole non garantiscono il futuro di sicurezza e di sviluppo cui legittimamente tutti aspiriamo.

LA CINA E LE NUOVE SFIDE ECONOMICHE ER L’EUROPA

L’11 dicembre 2016 tutti i Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrebbero ufficialmente garantire alla Cina il cosiddetto “market economy status” (MES). Dovrebbero cioè riconoscerle di essere diventata a tutti gli effetti una economia di mercato. E’ la stessa “qualifica” che hanno gli Usa e i Paesi dell’Unione Europea. In verità dovrebbe essere un riconoscimento automatico per ogni Paese aderente all’OMC.

Fino a quella data la Cina è considerata una “non market economy” . Di conseguenza i Paesi importatori di semilavorati o di prodotti industriali cinesi possono imporre dei dazi e delle tariffe protettive contro eventuali azioni di dumping. Di fatto, per abbattere i prezzi di vendita e vincere la concorrenza, la Cina ha spesso sfruttato una serie di condizioni speciali, quali il basso costo del lavoro, la mancanza di controlli stringenti sulla qualità, varie forme di sussidi di stato e altre importanti agevolazioni statali. Ciò ha determinato la chiusura di numerose aziende europee, alcune anche italiane, in quanto non più in grado di competere con i prezzi “super cheap” della Cina.

Perciò attualmente in Europa è in corso un grande dibattito sulla convenienza del riconoscimento MES alla Cina. Al riguardo vi sono anche posizioni estreme. Però nel frattempo si susseguono ricerche e analisi per valutarne le conseguenze sull’occupazione e sull’industria europea.

In uno studio preparato dall’Economic Policy Institute di Washington si fanno delle proiezioni, in verità un po’ troppo semplici e lineari, basate sulla ipotesi di un aumento di importazioni europee dalla Cina del 25% e del 50%. Se tali percentuali astratte diventassero realtà, si stima che nel giro di 3-5 anni l’Unione europea potrebbe perdere tra 1,7 e 3,5 milioni di posti di lavoro e veder diminuire la sua produzione annuale tra 114 e 228 miliardi di euro, rispettivamente pari all’1 e al 2% del Pil dell’Ue. In ordine, i Paesi più colpiti sarebbero Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia.

Come è noto, il commercio tra l’Unione Europea e la Cina è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni. Le importazioni europee sono aumentate di 5 volte passando da 74,6 a 359,6 miliardi di euro. Anche le esportazioni verso la Cina sono cresciute ad un tasso molto significativo. Ciò nondimeno a fine 2015 il deficit commerciale europeo con la Cina dovrebbe essere di 182,8 miliardi di euro.

E’ interessante notare che la pressione più forte sull’Europa a non concedere il MES alla Cina venga dagli USA. Da chi, per anni, ha agevolato grandi importazioni e permesso stratosferici deficit commerciali in cambio di acquisti di grandi quote di debito pubblico americano da parte della Cina.

Il Wall Street Journal ammonisce l’Europa: rischiate di restare senza protezioni. Si rammenti che, quando si garantisce il MES ad una economia, le autorità anti dumping degli altri Paesi possono iniziare delle indagini soltanto partendo dal presupposto che i prezzi e i costi di quella economia sono determinati dal mercato e non in altro modo.

Noi crediamo che l’Europa possa e debba affrontare questa sfida senza doversi chiudere a riccio. Del resto rifiutare il MES alla Cina equivarrebbe a far ritornare indietro le lancette della storia. In verità è da tempo che occorre una grande riforma dell’OMC piuttosto che il suo blocco. Temiamo che, oltre alla guerra monetaria in corso, vi sia anche chi auspica una anacronistica guerra commerciale.

Né si può ignorare che la Cina sta entrando in una fase di grandi cambiamenti interni relativi al lavoro, ai diritti civili, alla qualità della vita, all’ambiente, al crescente ruolo del settore privato e alla trasformazione del ruolo dello Stato. Sono evoluzioni inevitabili che abbiamo vissuto anche noi in Europa nei decenni passati. Ovviamente tutto ciò porterà a dei profondi mutamenti, oltre che nella società, anche sui suoi costi economici e sugli standard produttivi.

L’Europa poi non è lasciata senza una rete di protezione. Diventare un Paese MES vuol dire anche sottoporsi progressivamente agli stessi parametri di garanzia e di sicurezza usati in Europa. Si rammenti che il mercato europeo è accessibile soltanto a chi risponde agli standard europei richiesti per legge. Standard che devono essere rispettati sia da produttori europei che da quelli stranieri.

In questa prospettiva l’Europa potrà meglio definire il proprio protagonismo nella realizzazione, insieme ai cinesi e non solo, delle grandi opere infrastrutturali nel continente euroasiatico, a partire dalla Nuova Via della Seta di cui si parla.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

ATTENTI ALLA SPECULAZIONE FINANZIARIA CONTRO LA CINA!

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

*già sottosegretario all’Economia; **economista

In Cina il fuoco che si nasconde sotto la cenere è molto più pericoloso della fiammata che si è vista di recente nella borsa di Shanghai. I media hanno riportato il fatto eclatante del crollo delle quotazioni e dei titoli sospesi senza cercare di rispondere alle inevitabili domande: Qual è la causa? Chi lo ha provocato? E perché?

Certamente è stato un evento potenzialmente sconvolgente. Dal 12 giugno al 9 luglio il mercato azionario cinese ha perso il 30% cancellando circa 3 trilioni di dollari di capitale. E’ da evidenziare che dopo l’intervento delle autorità monetarie con l’immissione di nuova liquidità per circa 200 miliardi di dollari, la borsa è risalita del 17%. Sono anche in corso indagini per “scovare” gli speculatori che hanno giocato a breve sulla caduta della borsa.

Ovviamente il fuoco non è stato estinto in modo sicuro e definitivo. Le varie bolle finanziarie dei settori privati dell’economia sono il problema numero uno della Cina. Essa ha un debito pubblico – il 43% del Pil – contenuto se paragonato a quello dei Paesi occidentali. Ma il debito delle imprese private (corporate) è pari al 160% del Pil nazionale, che è di circa 11 trilioni di dollari.

Si stima che nei prossimi 4 anni la Cina potrebbe avere bisogno di piazzare titoli di debito, tra nuovi e vecchi da rinnovare, per oltre 20 trilioni di dollari. Anche la bolla immobiliare, come rivelano le tante città fantasma costruite e non abitate, potrebbe diventare una bomba ad orologeria.

Sono situazioni di indubbia pericolosità ma minore rispetto a quella americana.

Infatti il livello totale del debito cinese, pubblico e privato, è inferiore a quello statunitense, a quello giapponese e a quello di tante altre economie europee. Vi è una differenza sostanziale nell’andamento dell’economia real che in Cina, nonostante una riduzione rispetto ai livelli altissimi degli anni passati, fa ancora registrare una crescita intorno al 7% del Pil.

I dati del commercio estero cinese sono straordinariamente positivi. Solo nei primi sei mesi di quest’anno il surplus commerciale nel settore della produzione di beni è stato pari a 260 miliardi di dollari, un vero boom se lo si raffronta con i 100 miliardi dello stesso periodo del 2014. Mentre gli Usa, nella prima metà del 2015, registrano un deficit nella bilancia commerciale (beni e servizi) di circa 250 miliardi.

E’ sul fronte geoeconomico e geopolitico che la Cina sta operando profondissimi cambiamenti e innovazioni, soprattutto nel contesto dell’alleanza dei BRICS. Forse non è un caso che il crollo della borsa di Shanghai sia avvenuto mentre la nuova Asian Infrastructure Investment Bank apriva ufficialmente i suoi uffici e le sue attività a Pechino. Si ricordi che l’AIIB, con un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, diventa il principale istituto di credito per promuovere la modernizzazione e la infrastrutturazione dell’intero continente asiatico, cominciando con la realizzazione del progetto della Nuova Via della Seta.

Nel frattempo, mentre gli Usa, con una troppo accondiscendente Unione europea, conducono una destabilizzante campagna di sanzioni economiche contro la Russia, la Cina mantiene un atteggiamento indipendente e completamente differente. La prova più eclatante è l’accordo trentennale di acquisto di gas russo per una valore di 400 miliardi di dollari, da “regolarsi” non più in valuta americana ma nelle loro monete nazionali.

Secondo noi il cambiamento più profondo è la decisione cinese, silenziosa e non discussa dai grandi media, di rivedere progressivamente la composizione delle sue riserve monetarie e di ridurre l’ammontare dei titoli americani in suo possesso. Nel mese di giugno ha acquistato 600 tonnellate di oro mentre si stima che nel secondo trimestre 2015 le sue riserve in valuta estera siano scese di 140-160 miliardi di dollari, come dimostra il freno agli acquisti cinesi di nuovi Treasury bond USA.

Tutto ciò spiegherebbe l’intento di qualcuno di frenare il nuovo corso della Cina con un avviso a non uscire dai vecchi binari e dai vecchi accordi.

Perciò occorre capire meglio chi ha promosso e cavalcato l’onda della succitata speculazione. La Jp Morgan City e la Goldman Sachs hanno riconosciuto pubblicamente che la Cina da un po’ di tempo ha abbandonato la consueta regola di acquistare con il suo surplus commerciale i titoli di stato americano.

Le agenzie di rating, a cominciare con la Standard & Poor’s, parlano di “rapida crescita del debito, opacità del rischio, alta percentuale tra debito e Pil, azzardo morale” in Cina. Sono le classiche “parole in codice” usate anche altrove, sempre poco prima di una attacco speculativo. La Banca Mondiale ha parlato del mercato cinese come “squilibrato, represso, costoso da mantenere e potenzialmente instabile”. Un giudizio poco dopo ritirato, asserendo che la sua pubblicazione era il frutto di un errore.

Una cosa è certa: giocare allo scontro o solo alla speculazione contro la Cina potrebbe avere degli effetti devastanti sull’intero sistema finanziario mondiale, potenzialmente maggiori della crisi del 2007-8. Una ragione di più per definire in sede internazionale accordi stringenti per regolamentare il sistema finanziario, almeno i suoi aspetti deteriori, quelli fortemente speculativi che incidono non solo sulla stabilità sociale ed economica di interi Paesi ma anche sugli assetti geopolitici mondiali.

La ricchezza del mondo è nelle mani di pochi, mentre i poveri superano il miliardo

Esce il libro “Il casinò globale della finanza” di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Edito dalla EditricErmes, casa editrice di Potenza, arriva il libro «Il casinò globale della finanza” -Ricchezza per pochi. Un miliardo di poveri. Che mondo è?-. Gli autori, Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia, e Paolo Raimondi, economista con una lunga esperienza internazionale, dimostrano come, dopo 7 anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della bolla finanziaria negli Usa, non siamo ancora usciti dal pantano della crisi globale Attraverso analisi e articoli, il libro ripercorre le tappe fondamentali della crisi globale fino a quella del debito pubblico in Europa e della Grecia.

Nel 2012 gli autori, nel loro precedente scritto “I gattopardi di Wall Street”, spiegavano che la crisi finanziaria globale non era un “avvenimento imprevedibile”, ma il risultato inevitabile dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, del ruolo nefasto della speculazione e della finanza derivata e della grande propensione al rischio.

Molte economie, compresa quella italiana, sono state pesantemente colpite nei loro sistemi produttivi e sociali. Nel frattempo i super ricchi del pianeta lo sono diventati ancor di più, mentre i poveri hanno superato il miliardo. La ricchezza si è vertiginosamente concentrata nelle mani dello 0,1% dei più ricchi del mondo. I cittadini, le aziende e i governi, invece, sono stati oggetto di continue pressioni per far fronte ai propri debiti.

Nonostante i tanti summit internazionali le necessarie riforme non sono state fatte,. Invece, alle operazioni di bail out, cioè di salvataggio pubblico delle banche, è stato affiancato il bail in, cioè la possibilità di utilizzare anche parte dei depositi dei risparmiatori per salvare le banche in crisi!

La speculazione continua, anche sulle materie prime e sui beni alimentari. I derivati più pericolosi, gli OTC, ammontano ancora a 700.000 (settecentomila) miliardi di dollari. Tutto ciò purtroppo mette in discussione con effetti destabilizzanti gli stessi assetti geopolitici mondiali.

Nel libro si documenta come il processo di concentrazione del potere finanziario sia notevolmente cresciuto. Si pensi che, mentre nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l’80% dei derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche soltanto – la JP Morgan Chase, la City Group, la Bank of America e la Goldman Sachs – detengono il 94% dell’intero ammontare, che è di circa 230 trilioni di dollari.
Tra l’altro si evidenzia il ruolo nefasto delle agenzie di rating e il loro grave conflitto di interesse con le “too big to fail”, cioè le banche più impegnate nella speculazione.

Sulla scena mondiale sono apparsi nuovi protagonisti, i Paesi del BRICS, che legittimamente rivendicano nuove e più giuste regole monetarie, commerciali e finanziarie. In discussione è anzitutto il ruolo del dollaro come unica moneta di riferimento. Mirano a creare un nuovo sistema monetario multipolare, in cui il commercio e le transazioni internazionali dovrebbero operare sulla base di un paniere delle monete più importanti. I loro grandi progetti infrastrutturali a livello continentale rappresenteranno un importante volano per la ripresa dell’economia reale, degli investimenti e dell’occupazione nel mondo, anche in Italia.

L’Europa non può sottrarsi a queste sfide epocali. Rendere più solidale e più coesa l’Unione europea è una necessità ineludibile.

Nuova indagine sulle banche USA padrone delle commodity

Nuova indagine sulle banche USA padrone delle commodity

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le grandi banche sono state pizzicate a speculare alla grande sulle commodity, sulle materie prime, sui cereali e su altri prodotti alimentari.

La Commissione d’Indagine del Senato americano, diretta dal democratico Carl Levin e dal repubblicano John McCain, ha pubblicato un dossier di 400 pagine dal titolo “Wall Street bank involvement with physical commodities” per denunciare con dovizia di dettagli come le “too big to fail” stiano manipolando, ovviamente a loro vantaggio, i mercati delle commodity. Naturalmente tutto ciò con riverberi sui mercati internazionali.

Per due anni la Commissione ha indagato sui casi più eclatanti che evidenziano come “il massiccio coinvolgimento di Wall Street nelle commodity mette a rischio la nostra economia, le nostre imprese e l’integrità dei nostri mercati. Bisogna reintrodurre – continua la Commissione – la separazione tra banca e commercio per prevenire che Wall Street utilizzi informazioni non di pubblico dominio a suo profitto e a spese dell’industria e quindi dei cittadini”. Ciò non vale soltanto per gli Stati Uniti ma per il mondo intero.

La Commissione sta procedendo con delle audizioni pubbliche per dimostrare come alcune banche abbiano fatto aumentare artificialmente i prezzi delle materie prime e speculato in derivati sulle stesse, sfruttando gli “effetti provocati” dalle manipolazioni. Il senatore Levin avverte anche di possibili futuri rischi sistemici per l’economia dovuti al fatto che le banche sono coinvolte in imprese esposte ad alti rischi di catastrofi ambientali.

Sono state analizzate in particolare le attività delle solite maggiori banche americane, tra cui la Goldman Sachs, la JP Morgan Chase, la Morgan Stanley e la Bank of America.

La Goldman avrebbe “assunto” il controllo del mercato dell’alluminio. Nel 2010 ha acquistato la Metro International Trade Services di Detroit, che gestisce lo stoccaggio certificato dalla London Metal Exchange, la principale borsa mondiale dei metalli. Nei suoi magazzini ci sarebbe l’85% di tutto l’alluminio contrattato alla borsa di Londra per il mercato americano. Trattasi di 1,6 milioni di metri cubi di alluminio pari al 25% dell’interno consumo annuale in Nord America. La banca ha aumentato la sua proprietà diretta di alluminio passando da una quantità pari a 100 milioni di dollari a 3 miliardi. Possiede, tra l’altro, anche un’impresa che commercia uranio e due grandi miniere di carbone in Colombia!

Il meccanismo messo in atto sembra piuttosto semplice. Attraverso varie manipolazioni e fittizi spostamenti di ingenti quantità da un magazzino all’altro la Goldman Sachs sarebbe riuscita a determinare ritardi nelle consegne del metallo alle industrie acquirenti. Invece dei 40 giorni necessari nel 2010, lo scorso settembre il tempo di consegna è stato di ben 600 giorni! Ovviamente ciò ha prodotto un aumento sul costo dello stoccaggio, la cui percentuale su quello totale è passata dal 6% del 2010 al 20% di oggi. Naturalmente tutto a beneficio di Metro-Goldman. La conseguenza è stata un’impennata dei prezzi dell’alluminio tanto che molte imprese colpite hanno denunciato la manipolazione, tra cui la Coca Cola. Sembra che al “giochetto degli spostamenti” abbiano partecipato anche altre banche come la Deutsche Bank e l’hedge fund inglese Red Kite,

I profitti realizzati con l’aumento dei prezzi di stoccaggio per la Goldman sono stati soltanto una piccola parte del guadagno. Il vero business lo hanno fatto con le speculazioni sui future dell’alluminio e con altri derivati costruiti in base alla manipolazione dei prezzi e alla posizione di monopolio dello stoccaggio.

Da parte sua la JP Morgan Chase ha ammassato grandi quantità di materie prime per un valore di mercato di 17,4 miliardi di dollari pari al 12% del suo capitale di base, il cosiddetto Tier 1. Poiché sono stati superati abbondantemente i limiti permessi, la banca furbescamente ha sottostimato di quasi due terzi tale valore prima di rendicontarlo alla Federal Reserve. E’ arrivata anche a possedere fino al 60% di tutto il rame negoziato sui mercati mondiali. Nel campo energetico possiede 25 milioni di barili di petrolio e controlla 19 centri di immagazzinamento di gas.

La Morgan Stanley invece controlla 58 milioni di barili di petrolio. Possiede 100 petroliere e circa 8.000 km di oleodotti. E’ padrona di 18 centri di immagazzinamento di gas. Contemporaneamente sta costruendo la propria centrale di compressione del gas ed è la fornitrice privilegiata di carburante per alcune grandi compagnie aeree.

La Bank of America ha 35 centri di stoccaggio di petrolio e 54 di gas.

In altre parole, all’ombra di una troppo abusata “globalizzazione” che tutto giustifica, le banche fanno sempre meno gli istituti di credito e, forti anche dei capitali ottenuti a tassi di favore dal governo, si mettono in diretta competizione con le imprese che operano nei settori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, della lavorazione e dello sfruttamento delle materie prime fino a determinarne i comportamenti e la stessa sopravvivenza.

Appare chiaro l’intreccio perverso tra banche e organismi di controllo che evidentemente non hanno fatto il loro dovere.

Avviata l’indagine senatoriale, la Goldman Sachs si è affrettata a licenziare due suoi importanti operatori coinvolti nelle manipolazione. Si è scoperto però che prima essi avevano lavorato per la Federal Reserve di New York. Del resto è noto che l’attuale capo della Fed di New York, William Dudley, è stato un alto dirigente della Goldman fino al 2005

E’ certamente importante che la Commissione d’Indagine del Senato lavori su questi casi specifici. In passato la stessa Commissione in verità aveva denunciato le responsabilità delle grandi banche americane nella crisi finanziaria globale dei mutui subprime, dei derivati Otc e dei titoli tossici. Il fatto che, a distanza di anni, si debba ancora denunciare simili gravi comportamenti, dovrebbe suonare come un vero allarme sui rischi sistemici di una finanza che purtroppo continua a ritenersi l’ agnello d’oro” da adorare sempre.

Ci saremmo aspettati che a Brisbane si fosse parlato anche di ciò.

* Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista