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Manca un’alternativa al socialismo reale

Ormai si è capito che in origine (mille anni fa) esisteva un unico popolo russo ortodosso del Granducato di Kiev. Che poi si suddivise in tre parti: bielorusso, ucraino e russo.

Tutti e tre i rami in epoca medievale persero la loro sovranità: bielorussi e ucraini si trovarono nella struttura del pagano granducato di Lituania, e poi come parte del regno cattolico polacco-lituano; i russi del potere granducale di Vladimir e poi di Mosca erano direttamente subordinati all’Orda d’oro tataro-mongola.

Accadde però che mentre i mongoli di Gengis Khan rispettavano le tradizioni ortodosse dei russi, invece i bielorussi e gli ucraini si trovavano discriminati sotto i polacco-lituani: diventarono una specie di gruppo etnico oppresso, soprattutto sul piano religioso.

Più tardi una parte degli ucraini passò sotto il dominio islamico dell’impero ottomano e poi sotto quello cattolico dell’impero asburgico, perdendo sempre più la propria identità slavo-ortodossa e acquisendo soprattutto quella cattolico-europea, fortemente proselitistica nei confronti delle culture slave.

L’integrazione in questa cultura cattolica fu favorita dal fenomeno dell’uniatismo, creato dalla Chiesa romana per indurre gli ortodossi (autorizzati soltanto a conservare il rito slavo) a sottomettersi al papato.

La forza dell’ortodossia si concentrò unicamente tra i russi di Mosca, soprattutto dopo che si liberarono dal giogo mongolo. E furono loro che diventarono un grande impero, creando una nuova civiltà.

Col tempo il regno di Mosca cominciò a sottrarre i territori bielorussi e ucraini al regno polacco-lituano e, attraverso le guerre russo-turche, a riportarli alle loro tradizioni slavo-ortodosse.

Solo i territori della Galizia-Volinia e della Bucovina settentrionale (inclusi nella parte austriaca dell’Austria-Ungheria) e della Transcarpazia (dentro la corona ungherese) rimasero fuori dal contesto tutto russo.

Poi, dopo la I guerra mondiale, la Galizia-Volinia divenne parte della rinata Polonia, mentre la Bucovina settentrionale divenne parte della Romania, e la Transcarpazia entrò in Cecoslovacchia. Tutte queste terre furono riunite al resto della Russia sovietica negli anni della II guerra mondiale, una volta vinto il nazismo.

Ma la Russia sovietica era ideologicamente atea, del tutto indifferente alla religione, e comunista, cioè avversa al capitalismo. Fu accettata questa cosa? Fino a un certo punto. Infatti nel 1956 si ribellò la cattolica Ungheria, nel 1968 la protestante Cecoslovacchia, ai primi anni ’80 la cattolica Polonia, finché, con l’avvento di Gorbaciov, crollò anche il muro di Berlino, e col successore Eltsin implose la stessa URSS.

Che è successo dopo il 1991? Successe che i Paesi ex sovietici, dopo aver abbandonato il socialismo di stato, e quindi il suo ateismo, cominciarono a guardare favorevolmente allo stile di vita occidentale, a valorizzare le proprie tradizioni religiose e a perseguitare tutto quanto si rifaceva alla cultura russa (ivi inclusa la lingua e la religione).

E la Russia reagì con la forza militare, per proteggere i russofoni e/o i filorussi. Lo fece in Georgia, in Cecenia, ha sventato due colpi di stato in Bielorussia e Kazakistan, sostenuti dagli occidentali. Non ha potuto far nulla contro quello del 2014 in Ucraina, ma oggi sta recuperando il tempo perduto, tendendo a dividere il Paese in due parti.

Qual è il problema? Il problema è che dal 1991 ad oggi non si vede da nessuna parte una vera alternativa al socialismo e all’ateismo di stato. Certo il neonazismo ucraino, strettamente intrecciato con l’americanismo, è un’autentica vergogna dell’umanità, ma non sarà certo usando la forza militare che lo si potrà superare. Qui è la cultura laica e la politica democratica che mancano. E mancano in tutti: Russia, Europa, Stati Uniti e Ucraina.

Morta Nawal al-Sa’dawi, grande femminista egiziana

Tutte le religioni sono prigioni per le donne”, sosteneva con coraggio e lucidità la scrittrice e intellettuale femminista egiziana Nawal al-Sa’dawi, morta nel 2021 all’età di 90 anni. Suo padre era stato un funzionario governativo del ministero dell’Educazione Nazionale, che aveva preso parte alle lotte contro i britannici nel corso della rivoluzione del 1919.

Scrisse numerosi libri sulla condizione della donna nell’islam, dedicando particolare attenzione alla pratica della mutilazione genitale femminile, ancora presente in alcune parti della società egiziana e che lei stessa aveva subìto in giovane età.

Si laureò in medicina all’Università statale del Cairo nel 1955 e si specializzò in psichiatria. Mentre operava come medico nel suo villaggio natale di Kafr Tahla, denunciò le brutali ineguaglianze sociali cui erano sottoposte le donne in quell’ambiente rurale, e per questo fu richiamata al Cairo.

Divorziò da due mariti che volevano imporle di abbandonare la sua carriera di medico e di scrittrice, poiché consideravano queste attività imbarazzanti e ostacolanti per le proprie carriere rispettivamente di medico e di avvocato.

Divenne Direttrice della Sanità Pubblica e qui incontrò il suo terzo marito, Sherif Hetata, che ricopriva un incarico presso il ministero della Sanità. Hetata era stato prigioniero politico per 13 anni.

La Sa’dawi fu allontanata dal suo incarico presso il ministero della Sanità a causa della sua attività politica. Perse anche il posto di redattore-capo di un giornale sanitario e di Segretario Generale aggiunto dell’Associazione Medica in Egitto. Questo perché era stato ristampato il suo primo libro, Women and Sex, dopo essere stato bandito in Egitto per quasi due decenni.

Poi però dal 1973 al 1976 lavorò come ricercatrice nel campo delle nevrosi nella Facoltà di Medicina dell’Università statale di ‘Ayn Shams, al Cairo. Nel 1979-80 fu consigliera delle Nazioni Unite per il Women’s Programme in Africa e Medio Oriente.

I suoi libri (una cinquantina) sono sempre stati sottoposti a censura: autorità religiose, capi-villaggio e autorità statali l’accusavano di non rispettare i valori tradizionali e d’incitare le donne a ribellarsi contro la Legge e la religione. La sua autobiografia la scrisse in prigione sulla carta igienica con una matita per gli occhi ch’era stata introdotta di nascosto nella sua cella.

Fu incarcerata nel 1981 per crimini contro lo Stato, insieme a circa 1.500 attivisti, che protestavano contro il “Trattato di pace di Gerusalemme” firmato dal Presidente Anwar al-Sadat. Fu rilasciata alla fine dell’anno, un mese dopo l’assassinio di Sadat. Di quella sua esperienza ha scritto: “Il pericolo ha fatto parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna e ho scritto: ‘Niente è più pericoloso della verità in un mondo che mente’”.

Fonda The Arab Women’s Solidarity Association, la prima organizzazione legale indipendente femminista. Ciò le provoca nuove persecuzioni e minacce da parte di gruppi fondamentalisti islamici e la condanna a morte per eresia. Il suo nome era stato incluso in una lista di morte pubblicata in Arabia Saudita.

L’Associazione, dichiarata fuori legge, venne chiusa. Di nuovo Sa’dawi visse l’esperienza del carcere, fin quando, nel 1992, è costretta all’esilio. Si trasferì, insieme al terzo marito, medico e scrittore che curava la traduzione in inglese dall’arabo dei suoi libri, nel North Carolina, presso la Duke University (Asian and African Languages Department).

Nel 1996 tornò in Egitto, ma nel 2002 un avvocato integralista egiziano richiese il divorzio coatto tra lei e il marito, i quali però vinsero la causa grazie a una mobilitazione internazionale.

Continuò nella sua azione attivistica e prese in considerazione la possibilità di presentarsi candidata alle elezioni presidenziali del 2005 contro Mubarak, ma poi decise di boicottarle quando vide che i suoi seguaci erano stati minacciati di morte.

Nel 2007 fu denunciata due volte per apostasia, una volta con la figlia economista Mona Helmy, e la seconda volta per apostasia ed eresia a causa del suo spettacolo teatrale “God Resigns at the Summit Meeting”. Entrambe le cause sono state vinte dalla scrittrice egiziana.

Nel 2008 in Egitto sono state promulgate alcune leggi per le quali lei aveva lungamente combattuto: le donne egiziane hanno conquistato il diritto di registrare i figli nati fuori dal matrimonio con il proprio cognome; l’età minima per il matrimonio è stata alzata a 18 anni; la circoncisione femminile, la clitoridectomia e l’infibulazione sono ora un reato perseguibile e punibile con il carcere o una pena pecuniaria.

Nel 2010 divorziò anche da Hetata, che aveva una relazione con un’altra donna.

L’ultimo suo scontro con le autorità laiche e religiose avvenne nel 2011, all’età di 79 anni, quando si unì ai manifestanti in piazza Tahrir al Cairo per protestare contro il presidente Mubarak, che si dimetterà nello stesso anno.

Il tasso zero dell’etica liberistica

Scrive Luca Bottura il 30 ottobre su Repubblica.it: “La diffusa opinione che le vignette di Charlie Hebdo rappresenterebbero un brodo di coltura per il terrorismo somiglia a quella di chi pensa che la minigonna faciliti lo stupro. Tra i valori non negoziabili che la Francia ha insegnato all’Occidente c’è quello della laicità, più che del laicismo, e tutti poggiano sull’architrave della libertà di espressione. Dire che Macron se l’è cercata, con la sua difesa del foglio satirico parigino, rappresenta un grave equivoco e un ribaltamento plateale del rapporto di causa-effetto. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, è il paravento per una torsione democratica che non solo non dobbiamo permettere, ma non dobbiamo concedere agli estremisti islamici.

Le copertine di Charlie su Maometto erano orribili? Certo. Specie se sei musulmano. Quelle sull’Italia dopo il terremoto, col sangue dei morti paragonato al sugo, irricevibili? Ovviamente. Specie se sei italiano. I motteggi contro il Papa, le suore, altre religioni assortite, potevano risultare disturbanti? Se sei cattolico, di più. Perché di qualunque evenienza satirica è difficile dire che “non fa ridere”. Spesso fa ridere alcuni, non altri. Dipende da quanto ti tocca.

Ma c’è una differenza ancora più decisiva. Che dopo la pubblicazione, nessun italiano è mai entrato nella sede del giornale che le ha stampate per giustiziarne gli autori. E che nessun cattolico si è messo a sgozzare innocenti per lavare una presunta onta scritta con l’inchiostro.

Delle due, dunque, l’una: l’emancipazione non tanto culturale, ma esperienziale, di chi con la democrazia ha una consuetudine più lunga, va onorata continuando a difendere i valori che da noi sono ben riposti nella Costituzione all’altezza dell’articolo 21.

Oppure, mettiamo un tetto. Fissiamo delle regole di buon gusto, non foss’altro che per paura, a quel che si può dire. Sostituiamo l’opportunità al codice penale, che al momento stabilisce i limiti di ciò che è pronunciabile e cosa no.

A quel punto però si pone la domande delle domande: chi decide questi limiti? Chi decide dove sia la decenza? Chi mette il punto di non ritorno oltre il quale devono valere la censura o l’autocensura? Perché mica ce n’è una sola, di soglia da superare. Che tu sia cattolico, islamico, italiano, sammarinese, persino tifoso del Bologna, la tua percezione del sacro non è la stessa di quello che ti sta accanto. Figurarsi del legislatore. O del giudice.

Ma poi: ne basterebbe uno? Chi dovrebbe stilare il codice di auto-condotta?”.

Poi va avanti con altre amenità, quelle tipiche di chi ama l’individualismo delle nostre società liberistiche. Infatti arriva a dire “non riesco a immaginare nulla di più sottomesso che intimare a qualcuno di nascondere i propri disegni perché qualcuno se ne fa schermo per uccidere”.

Perché questi ragionamenti hanno un valore etico prossimo allo zero? Il motivo è molto semplice e lo diceva già Paolo di Tarso duemila anni fa: “Non possiamo fare della nostra libertà un motivo per scandalizzare gli altri”. Cioè in sostanza non basta affermare la laicità dei valori. Occorre anche che i valori siano umani e se sono umani non possono certamente essere imposti. Vogliamo che lo Stato imponga la laicità per tutti? Bene, ma laicità vuol dire rispetto delle idee umane e democratiche. Charlie Hebdo rispetta con le sue vignette indecenti la sensibilità, i valori, la fede religiosa degli altri? No, non lo fa. E allora lo si chiuda. Non è utile a nessuno. Non favorisce la convivenza civile. È antipedagogico per definizione. È una minaccia alla stabilità di un paese, anche perché può essere facilmente strumentalizzato da un governo con ambizioni autoritarie. Come appunto quello di Macron.

I vescovi cattolici tedeschi pronti allo scisma?

L’episcopato tedesco cattolico, preoccupato per la scarsità delle vocazioni, vuole che i preti abbiano la possibilità di sposarsi e che anche le donne possano accedere al sacerdozio.

Sono guidati da un cardinale che di nome fa Reinhard ma il cui cognome è tutto un programma: Marx. È uno degli uomini più fidati della “cerchia” di papa Bergoglio.

Dopo mezzo millennio una parte della Chiesa cattolica sembra che si stia avvicinando a quella protestante. Che poi in quella ortodossa non è mai stato approvato il celibato del clero, se non per le alte gerarchie.

Anche sulla morale sessuale i Teutonici esigono delle aperture, soprattutto per il controllo delle nascite, ma sono anche intenzionati a sposare coppie omosessuali. Pretendono inoltre un rito comune che possa essere considerato valido tanto dai protestanti quanto dai cattolici e chiedono che la gestione degli ambienti parrocchiali possa essere affidata anche ai laici.

Si accontentano di poco. Non una parola su quell’obbrobrio da chiudere chiamato “Stato del Vaticano” e su quell’assurdità da eliminare chiamata “monarchia teocratica assoluta”, che prevede l’infallibilità pontificia. Sono ancora lontani mille miglia tanto dai protestanti quanto dagli ortodossi.

Erdogan più laico di Macron?

L’insistenza del presidente francese Macron nel difendere la libertà di pubblicare le vignette contro il profeta Maometto sta provocando uno scontro di portata globale.

Alle proteste del presidente turco Erdogan si sono aggiunte quelle del premier pakistano Imran Khan, che giustamente ha detto: “Il presidente Macron avrebbe potuto puntare alla pacificazione e negare spazio agli estremisti piuttosto che creare ulteriore polarizzazione ed emarginazione che inevitabilmente portano alla radicalizzazione. È un peccato che abbia scelto di incoraggiare l’islamofobia attaccando l’Islam piuttosto che i terroristi che praticano la violenza, siano essi musulmani, suprematisti bianchi o ideologi nazisti”. Nel suo Paese l’hashtag #ShameOnYouMacron, “vergognati Macron”, è diventato la principale tendenza su Twitter, mentre #boycottfrance è tra le prime cinque.

In effetti i paesi che si affacciano sul Golfo Persico sembrano intenzionati a boicottare i prodotti “Made in France”.

In Libia è stata organizzata una manifestazione in piazza dei Martiri, nel centro di Tripoli.

Nella località tunisina di El Kamour, alle porte del Sahara, una marcia anti-francese ha riunito poche decine di persone.

Il leader del partito islamista algerino Fronte della Giustizia e dello sviluppo, Abdallah Djaballah, ha chiesto il boicottaggio dei prodotti francesi e la convocazione dell’ambasciatore francese.

Circa duecento palestinesi hanno protestato a Tel Aviv, davanti alla residenza dell’ambasciatore francese in Israele. Nella Striscia di Gaza i manifestanti hanno bruciato le foto di Macron. Hamas, che controlla la Striscia, ha affermato che gli “insulti nei confronti di religioni e di profeti” favoriscono “una cultura dell’odio”.

Una protesta formale viene anche dal governo giordano, secondo il quale la pubblicazione delle caricature “provoca amarezza in due miliardi di musulmani”. Il ministro degli Affari islamici, Mohammed al-Khalayleh, ha affermato che “offendere” i profeti “non è una questione di libertà personale ma un crimine che incoraggia la violenza”.

Un richiamo simbolico al boicottaggio è arrivato anche a Bab al-Hawa, un valico di frontiera nel nord-ovest della Siria, in mano ai ribelli e dove arrivano pochi prodotti francesi.

Il potente movimento sciita Hezbollah ha condannato “con forza l’insulto deliberato” rivolto al profeta, esprimendo in un comunicato il proprio “rifiuto della persistente posizione francese consistente nell’incoraggiare questo pericoloso affronto”.

In Kuwait, il ministro degli Affari esteri, lo sceicco Ahmed Nasser al-Mohammed al-Sabah “ha incontrato” l’ambasciatore francese Anne-Claire Legendre.

Chi obbliga Macron ad assumere una posizione così estrema per combattere quello che lui chiama il separatismo islamico? Gli Stati Uniti? Israele? O è tutta farina del suo sacco demenziale?

Lui dice di non accettare l’incitamento all’odio, ma sta proprio facendo questo.

Ha scritto: “Saremo sempre dalla parte della dignità umana e dei valori universali”. Eppure in nome di questi valori nega la dignità a quelli islamici. Ha assunto le posizioni della destra estrema. Dice infatti Marine Le Pen: “Mai scendere a compromessi con l’islamismo”. C’è forse una strategia occulta dietro questa ostentazione del laicismo più radicale?

Tutti i laici sanno che in ogni religione è possibile trovare il ridicolo, non essendo facile dimostrare ciò che predicano. Ma la satira esaspera errori o situazioni sbagliate per indurre a correggerli. Dileggiare è violenza, non è libertà. Maometto è stato un profeta che ha creato, per le esigenze culturali di molti paesi mediorientali, un tempo pagani, una fede che mancava. Nessuno ha il diritto di deriderla senza istigare la reazione dei fedeli. Se c’è chi reagisce col terrorismo, conviene continuare a provocarli?

Socialismo, Democrazia, Laicità e Religione

Premessa

Uno dei grandi meriti da riconoscere al principio della coesistenza pacifica è che dà tutto il tempo che si vuole per riflettere sulle proprie posizioni. Nella vita infatti si possono compiere molti errori, alcuni purtroppo fatali, ma il dramma più vero è quello di non volerli riconoscere. Quando non vogliamo ammettere l’evidenza è perché siamo influenzati, o meglio, ci lasciamo influenzare negativamente dalle circostanze: sicché diciamo e facciamo cose che in situazioni diverse non diremmo e non faremmo mai.

Probabilmente quando esistono situazioni favorevoli al socialismo e alla democrazia, diventa più facile ripensare i propri criteri interpretativi, i propri stili di vita. Bisogna però impegnarsi nel far sì che il cambiamento sia possibile nel momento stesso in cui si pongono le condizioni che lo rendono tale. Non c’è un prima da superare e un dopo da realizzare, ma un cammino da percorrere, qui ed ora.

Ateismo e religione: conflitto o pacifica convivenza?

Generalmente il cristianesimo si considera come una concezione del mondo contrapposta a quella del socialismo, assolutamente alternativa e incompatibile con i princìpi materialistico-dialettici del marxismo e del leninismo. Non foss’altro che per una ragione: il socialismo crede anzitutto nell’uomo, mentre il cristianesimo crede anzitutto in Dio.

Ora, è noto che questa tesi è condivisa dallo stesso marxismo. L’incompatibilità è a livello ideologico e quindi, in un certo senso, a tutti i livelli: un’intesa politica ci può essere (ad es. a favore della pace o dei diritti umani) non quando il comunismo si avvicina alla fede, ma quando il cristianesimo si avvicina alla ragione (e questo vale per tutte le religioni).

Tuttavia, un modo di procedere del genere sarebbe troppo schematico per essere vero. In effetti, se non esistesse alcuna possibilità di pacifica convivenza fra le due ideologie, non si spiega perché, quando i partiti comunisti vanno al governo, riconoscano il diritto alla religione, o per quale motivo ammettano un regime di separazione tra Chiesa e Stato. In teoria sarebbe assurdo che un governo tutelasse giuridicamente quanto gli è radicalmente ostile.

A ciò in genere i cattolici obiettano che se il comunismo tollera la Chiesa è per la forza morale di cui questa dispone, non per l’intrinseca democraticità di quello. Essi cioè considerano il comunismo come un fenomeno non solo antireligioso, ma anche antidemocratico. In sostanza, la presunta antidemocraticità non dipenderebbe, per questi cattolici, da motivazioni contingenti, praticamente risolvibili, ma dalla stessa laicità del comunismo, dal suo integrale umanesimo. È nota anche la contrapposizione che i cattolici pongono fra laicità e ideologia: il comunismo non sarebbe “laico” proprio perché “ideologico”.

I fatti però vogliono che come in politica estera i partiti comunisti sostengano la tesi della coesistenza pacifica fra Stati a diverso ordinamento sociale, così in politica interna essi ammettono che sul piano della libertà di coscienza il cittadino possa essere ateo o credente.(1) Ciò significa, in altri termini, che nella società socialista la religione, ha il diritto, tutelato dalla Costituzione, di considerarsi come una concezione diversa o distinta rispetto a quella dominante.

Oltre a ciò si può aggiungere che uno Stato socialista, se è davvero democratico, non può impedire con la forza che una confessione religiosa lo contesti pubblicamente. Lo Stato deve limitarsi a chiedere ai cittadini di discutere democraticamente i loro problemi: l’unica cosa che non può permettere è che una religione pretenda di imporsi sulle altre, cioè pretenda dei privilegi inaccettabili sul piano democratico. Concetti come “Stato della Chiesa”, “Chiesa di Stato”, “Stato confessionale”, “religione nazionale”, “religione maggioritaria”, ecc., sono storicamente superati. Se sopravvivono non è per la forza della religione, ma per la debolezza della laicità, per la sua incoerenza.

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Se oggi uno Stato viola qualche principio religioso, gli si dovrebbe fare opposizione non tanto in nome della fede (i cui valori sovrannaturali nessuno Stato laico potrebbe riconoscere), quanto piuttosto in nome della libertà di coscienza: un principio che lo Stato è tenuto a rispettare, in quanto facente parte dei diritti umani fondamentali.(2) Un cittadino-credente che volesse opporsi allo Stato, dovrebbe quindi farlo non in quanto “credente”, ma proprio in quanto “cittadino”. Oggi, in una qualunque società che si dice democratica, sarebbe assurdo disquisire sul valore dei dogmi religiosi, cioè opporre a un’idea religiosa un’altra idea religiosa. La fede cristiana ha avuto duemila anni di tempo per costruire una società democratica e non vi è riuscita: è solo con se stessa che deve prendersela. Stesso discorso – ovviamente in rapporto a tempi storici differenti – vale per tutte le altre religioni.

La particolarità del rapporto socialista fra Stato e Chiesa si esprime nell’impossibilità, da parte di quest’ultima, di fare della propria diversa ideologia un motivo per contestare politicamente quella dominante, cioè quella accettata dalla maggioranza della popolazione. Gli eventuali abusi che può compiere lo Stato vanno superati in modo laico, evitando strumentalizzazioni o atteggiamenti pretestuosi in nome della fede religiosa. La diversità quindi fra ateismo e religione, tutelata giuridicamente, non può e non deve mai trasformarsi in un conflitto ideologico o politico, tanto meno se viene sostenuto dai governi in carica o da confessioni religiose che ambiscono a politicizzarsi.

Ufficialmente o formalmente, per tutti i cittadini di uno Stato socialista dovrebbe esistere una sola ideologia, quella appunto socialista(3), poiché è questa che, impostasi per motivi storici, detiene il potere politico. Di fatto però molti cittadini, privatamente, possono avere anche un’altra ideologia, quella appunto religiosa, che, attraverso il culto, può essere manifestata anche pubblicamente.

Paradossalmente si viene a creare in un paese socialista una situazione tale per cui un cittadino può essere, a seconda dei casi e dei momenti, ateo o credente. Ci sono dei casi in cui l’ateismo è per così dire obbligatorio, come un modus vivendi acquisito per via indotta, cioè per via del regime di separazione tra Stato e Chiesa, anche se non è ovviamente obbligatorio professare l’ateismo esplicitamente, in quanto non si deve coartare la coscienza di nessuno né fare discriminazione per motivi religiosi. Si è dunque per così dire atei o, se si preferisce, laici nell’ambito delle istituzioni statali, nei pubblici uffici, nella scuola ecc.; e naturalmente ci sono dei casi in cui il cittadino può manifestare un comportamento religioso, nell’ambito che gli è proprio, secondo una precisa regolamentazione giuridica, senza che lo Stato abbia alcun diritto d’interferire.

Qui, a dir il vero, ci sono molti cattolici che sostengono che è la stessa regolamentazione giuridica a costituire un’ingerenza indebita nell’attività della Chiesa. Tuttavia lo Stato non interviene sull’attività del credente in quanto credente ma solo in quanto cittadino. La regolamentazione della libertà di coscienza non può ovviamente riguardare la coscienza, ma soltanto l’espressione della libertà, che va riconosciuta a tutti nella stessa misura.

È fuor di dubbio che, posta in questi termini, la condizione della religione subisce un mutamento significativo rispetto ai tempi delle formazioni sociali antagonistiche (schiavismo, servaggio, capitalismo). In particolare essa viene a perdere tutto il suo potere politico e tutti i suoi privilegi di casta. D’altra parte la religione per millenni non è riuscita a risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità; anzi, essa ha sempre fatto da supporto alle mire espansionistiche dello Stato politico di appartenenza.

In definitiva, più che essere un fenomeno antireligioso, il socialismo, nell’ambito dello Stato, è un fenomeno areligioso: esso cioè non perseguita le diverse confessioni religiose, ma vive secondo un’etica sociale completamente separata da qualsiasi riferimento alla religione, proprio perché deve far coesistere, in un medesimo territorio, una molteplicità di religioni. L’anti negativo subentra soltanto in quei casi in cui la religione vuole riportare indietro la storia, cioè vuole politicizzarsi o sostituirsi alla scienza, pretendendo così di porsi in alternativa all’ideologia laica dominante, accettata dalla stragrande maggioranza dei cittadini, e di riportare indietro la storia. Il socialismo spera che la religione si estingua in virtù del processo di maturazione delle masse popolari e lascia ch’esse si confrontino liberamente a livello sociale e culturale.

È stata la storia a decidere che l’imposizione politica, attraverso organismi istituzionali, di una determinata confessione religiosa, non ha più ragione di esistere. Peraltro, là dove esiste una Chiesa di stato, non si permette alle concezioni religiose diverse da quella dominante, di poter avere una rilevanza pubblica, sociologicamente significativa, o di poter esercitare un’opposizione politica. Non si capisce perché il socialismo, che garantisce a tutti i cittadini una libertà di coscienza e che considera tutte le religioni uguali di fronte allo Stato, aventi la facoltà di manifestare pubblicamente il proprio culto e le proprie convinzioni, debba essere considerato antidemocratico.

Cristiano e/o socialista?

Dire che chi vuole essere un “cristiano coerente” non può essere un “comunista coerente”, significa dare al cristianesimo una valenza e un contenuto politici.

Il cristianesimo petro-paolino non nacque per opporsi allo Stato romano, ma per convivere pacificamente al suo interno. L’unica cosa che non riconosceva era la divinizzazione dell’imperatore, ch’era un modo, da parte dello Stato, d’imporre una propria ideologia a tutti i cittadini. Ufficialmente il cristianesimo divenne una religione di Stato soltanto sotto l’imperatore Teodosio. E da allora ha sempre preteso di esserlo, almeno sino a quando sono scoppiate le rivoluzioni borghesi. Le quali, avendo affermato una concezione laica della vita, hanno imposto al cristianesimo di tornare ad essere quello che era prima di Teodosio: una semplice scommessa sull’incapacità umana di costruire una vera democrazia.

Tuttavia la storia ha dimostrato che, ogniqualvolta le società laiche, borghesi o proletarie che siano, falliscono i loro obiettivi politici, è facile che ne approfittino le varie concezioni religiose presenti in tutto il mondo (p.es. in Iran l’ha fatto l’islam sciita di Khomeini dopo la fine della shah Reza Pahlavi; in Afghanistan andarono al potere i talebani dopo la crisi del governo di Najibullah; in Egitto ci provarono i Fratelli Musulmani dopo la fine del governo di Mubarak. Nel mondo di lingua araba l’islam sembra essere diventato il linguaggio delle opposizioni politiche ai regimi filo-occidentali).

Lenin si rendeva conto di quanto fossero inconciliabili i princìpi del comunismo con quelli del cristianesimo; pur tuttavia si preoccupava di precisare che non era giusto impedire a un credente di iscriversi al partito comunista per un fine rivoluzionario, in quanto la suddetta inconciliabilità andava considerata come una “questione personale” del credente, ch’egli, col tempo, spontaneamente e liberamente, avrebbe dovuto risolvere. “Un’organizzazione politica – scriveva nel 1909(4) – non può sottoporre i suoi scritti a un esame sull’assenza di contrasti tra le loro opinioni e il programma del partito”. E ancora: “noi siamo assolutamente contrari a ledere in qualsiasi forma i convincimenti religiosi dei credenti; tuttavia noi li reclutiamo per educarli secondo lo spirito del nostro programma”.

Detto altrimenti, la libertà di opinione era certamente ammessa all’interno del partito bolscevico, ma “entro i limiti precisi fissati dalla libertà di associazione”. Se dunque la religione è un “affare privato” del cittadino di fronte allo Stato o per un credente che milita in un partito comunista, non può esserlo per il comunista che deve lottare “contro l’oppio del popolo, le superstizioni religiose, ecc.”. Una “lotta” che in Italia non è mai avvenuta in quanto il togliattismo voleva impedire che si sconfinasse nell’anticlericalismo.

Ora, è chiaro che se un credente non è disposto, in quanto comunista, a lottare contro il clericalismo e la superstizione, né quindi a privatizzare la propria scelta religiosa, ben difficilmente potrà continuare a svolgere un’azione politica all’interno di un partito del genere. La sua stessa Confessione religiosa gli farà capire, con la minaccia della scomunica, che un qualunque catto-comunismo è un controsenso. In effetti, il cristianesimo integralistico, volendo assumere il principio marxista della prassi in funzione anticomunista, si pone inevitabilmente in antagonismo con la realtà del socialismo e farà di tutto per abbattere i governi in carica: o in maniera diretta, mobilitando il clero, o indiretta, servendo dei politici laici.

Sappiamo tutti che il liberismo e il socialismo sono nati in Europa in conseguenza del fallimento del cristianesimo sul piano sociale. Già la filosofia borghese aveva dimostrato quanto fosse invivibile la teologia cristiana. È sufficiente questo per sostenere che al cristianesimo non può essere data, dopo duemila anni di storia, una nuova possibilità per imporsi come “religione di stato”. Sarebbe un processo del tutto antistorico tornare a una situazione precedente alla formazione e allo sviluppo della laicità, quanto meno nell’ambito del capitalismo e del socialismo. Peraltro oggi la presenza dei flussi migratori a livello mondiale obbliga i cittadini ad appartenere a Stati pluriconfessionali.

Essendo considerato dagli integralisti(5) un “cristianesimo senza Dio”, il socialismo è destinato a inverarsi nel suo contrario, in una forma di antiumanesimo, non riguardante solo gli aspetti etici e politici, ma anche quelli socio-economici. Di qui la rivalsa politica del suddetto cristianesimo, il quale appunto presume di svilupparsi sugli insuccessi del processo di socialistizzazione avviato a partire dalla rivoluzione d’Ottobre e che già presentava delle significative anticipazioni nella Comune di Parigi e in tutto il socialismo utopistico. Questa pretesa politicizzazione della fede la si è vista chiaramente in Polonia al tempo del sindacato Solidarność e durante il pontificato di Woytjla.

Il cattolicesimo polacco di matrice integristica cercò di porsi come compito quello di sostituirsi (ovviamente con l’appoggio delle forze reazionarie del capitalismo mondiale) a un socialismo statale ritenuto fallimentare. E, a tal fine, esso mirava a costituirsi come una società “dal volto umano” (negli interessi, nel linguaggio, negli scopi finali), una società che, nonostante la sua marcata religiosità, si sforzava di aprirsi a tutte le istanze di autentica umanità. Poi si è visto com’è andata a finire. Non esiste una “terza via religiosa” tra capitalismo e socialismo. Il cattolicesimo sociale non è in grado di garantire una vera democratizzazione del capitalismo. Come non sono in grado di farlo i fondamentalisti islamici andati al potere (o che hanno tentato di farlo) in varie parti del mondo, a partire dalla fine degli anni Settanta. L’unica alternativa possibile a un socialismo autoritario o burocratico è un socialismo democratico.

I cattolici integralisti della Polonia avevano pensato di poter recuperare lo spirito originario del cristianesimo primitivo, ed erano addirittura arrivati a ringraziare il socialismo statale del loro paese di aver “depurato” la spiritualità cristiana, obbligandola a una rigorosa separazione dalle questioni del potere politico, dai compromessi con le classi aristocratiche e borghesi. E si erano altresì illusi di poter recuperare la “dimensione eroica” che il cristianesimo aveva avuto al tempo delle persecuzioni romane, e di poter costruire con quell’eroismo una nuova società.

Oggi di questa illusione non esiste più nulla. Si è rinunciato al socialismo statale per affermare il capitalismo privato. Al massimo si sponsorizza un capitalismo monopolistico statale. Tutte le contrapposizioni ideologiche tra cristianesimo e socialismo sono servite soltanto per favorire un sistema sociale che del cristianesimo non sa che farsene o che lo usa soltanto in funzione anticomunista. Lo stesso cristianesimo moderno, col fatto di preferire, in ogni caso, il peggior capitalismo al miglior socialismo, ha perduto ogni residua credibilità. Sotto questo aspetto il cattolicesimo integralistico non è molto diverso dal sionismo religioso-nazionalistico, che appoggia tutti i governi di destra d’Israele, o dai buddisti radicali che nello Sri Lanka, non sopportando la minoranza islamica, chiedono che la nazione adotti il buddismo come religione di stato.

Contraddizioni soggettive e oggettive

Il cristianesimo integralistico è convinto che il marxismo divida la società in borghesi e proletari come se fossero due categorie etiche: il male e il bene. Lo dice come se questa caratteristica non sia stata invece un patrimonio culturale tipico del cristianesimo, cattolico o protestante che sia. Quante volte, proprio in nome della separazione tra eretici e ortodossi, tra cristiani e pagani, tra credenti e non credenti o tra cristiani e infedeli non sono stati compiuti grandi atti d’intolleranza politica e ideologica?

Ci sono due cose che del marxismo questo tipo di cristianesimo non ha capito o non vuole capire. La prima è che nella separazione di borghesi e proletari il socialismo non pretende tanto di dare un giudizio sul comportamento “soggettivo” di tali classi o degli individui ad esse appartenenti, quanto piuttosto sul ruolo “oggettivo” ch’esse ricoprono nell’ambito della società capitalistica. E, oggettivamente parlando, cioè a prescindere dalle intenzioni meramente soggettive che può avere, la borghesia si trova in una posizione socialmente ed economicamente antidemocratica, essendo materialmente detentrice, in via esclusiva, dei mezzi di produzione. Il che la rende, al di là di qualunque considerazione in merito, fautrice di oppressione materiale e spirituale.

La seconda cosa è che il marxismo non considera il proletariato come una classe in sé perfetta, esente da errori. È vero anzi il contrario: se dalla rivoluzione industriale ad oggi la borghesia monopolistica ha potuto continuare a svolgere, in Europa occidentale, la sua oppressione morale e materiale, ciò è unicamente dipeso dalla debolezza del proletariato e dei suoi dirigenti. Infatti, se il proletariato è oggettivamente la classe oppressa (a prescindere dalle intenzioni umanitarie che la borghesia può avere), lo stesso proletariato può soggettivamente sbagliare, indipendentemente dalla sua condizione di oppressione o di emancipazione dallo sfruttamento.

La verità dei fatti non è una cosa autoevidente, né è possibile acquisirla una volta per tutte; non è indipendente dalla libertà di scelta, dalla volontà personale di riconoscerla. Gli stessi credenti dovrebbero sapere che non è una grazia che concede il Padreterno a sua completa discrezione.

Ecco, in tal senso, non è affatto vero che il marxismo divida la società in “buoni e cattivi”. Tuttavia, una cosa è dire che il proletariato può sbagliare e che, per tale ragione non ha il diritto di emanciparsi totalmente dalla borghesia; un’altra è dire che gli errori soggettivi non intaccano la tesi che la rivoluzione è necessaria.

Filosofia del lavoro o Weltanschauung?

Un’altra tesi inaccettabile nelle riflessioni del cristianesimo integralista è quella che considera il marxismo come una semplice, ancorché significativa, “filosofia del lavoro”. Tale modo di vedere le cose è alquanto riduttivo. Parlare di “filosofia del lavoro” è come parlare di “metafisica del lavoro” o, nel migliore dei casi, di “sociologia del lavoro”.

Lo sfruttamento del lavoro è sì il problema centrale del pensiero marxista, ma solo fino a quando il partito non ha conquistato il potere e i mezzi di produzione non sono stati socializzati. A partire da quel momento lo sfruttamento perde la sua caratteristica oggettiva dominante. Determinati abusi e corruzioni potranno anche permanere o riprodursi nel periodo della transizione verso il socialismo democratico e autogestito, ma non per questo si renderà necessaria una nuova rivoluzione politica. Le rivoluzioni politiche, sempre molto dolorose, hanno senso solo in presenza di un antagonismo irriducibile di classe: quando questo antagonismo sarà definitivamente risolto, non ci sarà più né alcuna rivoluzione né alcuna politica.

Rebus sic stantibus, è impossibile ridurre il marxismo a una mera “filosofia del lavoro”. Esso in realtà è una vera e propria Weltanschauung, cioè un’ideologia integrale e totalizzante, concernente non solo gli aspetti materiali della produzione, ma anche quelli soggettivi della morale personale: è un’ideologia in fase di continua evoluzione e arricchimento creativo, conformemente ai princìpi essenziali elaborati dai suoi fondatori. Il materialismo storico-dialettico è più di un semplice strumento per l’emancipazione delle masse, è una concezione di vita. Non si può ridurre il marxismo a un economicismo, senza riconoscergli anche il suo valore etico e filosofico specifico.

Il cristianesimo integralistico fa questo ragionamento sbagliato: siccome il marxismo parla solo di “materia” e non anche di “spirito”, non può affrontare il problema dello sfruttamento meglio del cristianesimo. La realtà, ancora una volta, è un’altra. Il grande contributo del marxismo sta anche nell’aver saputo rivalutare “spiritualmente” la materia, nell’averle conferito “dignità ontologica”, dopo secoli e secoli di degradazione morale cui l’avevano costretta lo spiritualismo platonico e quello cristiano (come d’altra parte lo stesso Nietzsche aveva detto, pur essendo lontanissimo dal socialismo).

Il marxismo è l’erede legittimo di tutte le concezioni antiidealistiche e antimetafisiche della materia. E in ogni caso lo sfruttamento economico non lo si può risolvere in chiave etica. La separazione tra capitale e lavoro è basata su una contrapposizione oggettiva, su una forma irriducibile di antagonismo sociale, e chi non capisce questo, si pone, oggettivamente, dalla parte degli sfruttatori, anche quando dice di voler compiere un’opera di mediazione.

Sfruttamento economico e morale

Forse la critica più severa che il cristianesimo integralista ha potuto muovere al socialismo statale, ha riguardato lo sfruttamento del plusvalore. Tuttavia è stata una critica che tale cristianesimo ha mutuato completamente dalla socialdemocrazia borghese, e non riguardava, ovviamente, le questioni etiche vere e proprie, anche se tale cristianesimo l’ha sfruttata dicendo che nel socialismo statale esiste un’appropriazione indebita del plusvalore da parte dello Stato, in quanto l’ideologia socialista, essendo per definizione atea, non ha dei veri presupposti morali ed è quindi portata a vedere l’uomo come un semplice strumento economico. La critica in sostanza consiste in questo: nell’ambito del socialismo è lo Stato che si appropria del plusvalore dei lavoratori, per cui esso svolge le funzioni del capitalista classico. Quindi il socialismo statale non sarebbe altro che un capitalismo senza capitalisti.

In questa argomentazione due cose vanno preliminarmente contestate: anzitutto in un sistema economico socialista non può esistere un plusvalore di tipo capitalistico, né privato né statale, quindi è improprio parlare di “sfruttamento economico” (il plusvalore – si sa – è lavoro non pagato); in secondo luogo, essendo stata abolita la proprietà privata dei mezzi produttivi e garantita la distribuzione dei beni prodotti secondo il lavoro e tendenzialmente secondo il bisogno, in teoria non dovrebbe esistere uno Stato contrapposto al popolo lavoratore.

Non si può insomma parlare di “sfruttamento” quando non esiste né rendita fondiaria né profitto capitalistico, quando il lavoro è garantito di fatto a tutti i cittadini, quando con i “fondi sociali di consumo” lo Stato copre i tre quarti delle esigenze dei lavoratori, quando i prezzi sono controllati e tutto o quasi tutto è razionalmente pianificato. Non si può paragonare l’attività regolamentatrice dello Stato socialista con l’esigenza del capitalismo di ottenere il massimo profitto dai propri investimenti, a prezzo di uno sfruttamento disumano dei lavoratori.

Se il cosiddetto “socialismo reale” fosse stato una sorta di “capitalismo di stato”, avrebbe tollerato un qualsivoglia uso della proprietà privata, come appunto avviene nei paesi ove esiste un capitalismo monopolistico di stato.(6) Invece è fallito proprio perché non permetteva l’evoluzione verso un socialismo autogestito e cooperativistico, in cui il ruolo dello Stato, fatta salva la proprietà sociale dei mezzi produttivi, si riduce in maniera progressiva.

Il fatto è che il cristianesimo integralistico vuole porre un irriducibile contrasto fra lo Stato socialista e i cittadini lavoratori. P.es. una delle sue affermazioni ricorrenti è la seguente: il salario della stragrande maggioranza degli operai è sufficiente soltanto a soddisfare i bisogni elementari. Sembra non si voglia sapere quanto sia difficile per un operaio di media categoria vivere in un sistema capitalistico, ovvero di quali incertezze e di quanta precarietà sia costituita la vita quotidiana in Occidente.

La filosofia di vita di tale cristianesimo porta in sostanza ad accettare l’idea che sia sempre meglio avere una ricca aristocrazia operaia all’interno di un proletariato affamato, piuttosto che una classe operaia complessivamente garantita a un livello accettabile di sussistenza.

Certamente con questo non si vuol dire che in un paese socialista non sia possibile realizzare un benessere generalizzato. Si vuol soltanto dire che questo benessere non può essere raggiunto senza tener conto dello stato reale delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Le forze complessive di tutti i lavoratori dovrebbero procedere, affinché si realizzi un progresso equilibrato, in maniera regolare e uniforme.

Il cristianesimo integralistico dovrebbe in realtà porsi altre domande. P. es. questa: se il socialismo statale dei paesi est-europei avesse potuto beneficiare dello sfruttamento neocoloniale del terzo mondo, sarebbe crollato lo stesso? Detto altrimenti: che cosa succederebbe al capitalismo se non potesse più beneficiare di tale sfruttamento? E per quale ragione in Occidente i poteri dominanti non amano far sapere all’opinione pubblica da dove proviene tutto il benessere economico dei loro paesi?

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che il socialismo statale non avesse bisogno d’essere riformato in profondità. Di sicuro però l’introduzione del capitalismo di stato o addirittura privato non può costituire la soluzione ai problemi riscontrati. Il socialismo statale aveva il difetto di essere amministrato esclusivamente dall’alto, cioè dagli organi istituzionali dello Stato, per cui tendeva a disincentivare la produttività, ovvero a burocratizzare le decisioni e il modo di applicarle. Si faceva coincidere la proprietà sociale con la proprietà statale, senza porre in essere il progressivo smantellamento dello Stato e la valorizzazione delle autonomie locali.

Uno Stato burocratico o un socialismo da caserma non ha fiducia nei propri cittadini, diventa per forza di cose “paternalistico”, cioè autoritario e ideologico. L’alternativa a uno Stato del genere era una società che progressivamente si autogestisce, che sviluppa la cooperazione multilaterale, che si autofinanzia, gestendo in proprio i redditi da lavoro, insomma che decide autonomamente cosa produrre e come ripartire i risultati del proprio lavoro, affrontando i problemi del calcolo economico. Con la perestrojka di Gorbaciov si era iniziato a procedere in questa direzione, ma poi gli eventi ne presero una del tutto opposta. I cittadini, ad un certo punto, pensarono soltanto a distruggere l’autoritarismo, senza essere capaci di sostituirlo con una vera democrazia sociale.

L’esempio del padrone e del servo

Sono note a tutti le riflessioni filosofiche di Hegel sul rapporto sociale fra “padrone e servo”. A modo di vedere dell’idealista tedesco la contraddizione esistente fra queste due categorie sociali può essere risolta solo a condizione che il servo non la voglia assolutizzare. Ossia, come per il padrone la contraddizione del rapporto ha un carattere relativo, in quanto egli sa bene che il suo status sociale dipende dal lavoro del servo, così anche quest’ultimo deve maturare, pur nel rapporto di dipendenza oggettiva, la consapevolezza di una libertà interiore. In caso contrario la mediazione, che è poi una sorta di “pacifica convivenza”, sarebbe impossibile.

Hegel voleva forse fare l’apologia dello schiavismo o del servaggio? In un certo sì, e in un altro no. Per lui il rapporto padrone / servo non andava considerato storicamente ma in maniera naturale: ciò significa che se il servo si ribella al padrone, diventerà, a sua volta, inevitabilmente, un padrone di altri servi, e così all’infinito, proprio perché qui si ha a che fare con dei processi naturali, che vanno al di là dell’evoluzione storica. Infatti la mediazione, in tal caso, è possibile solo se il suddetto rapporto viene riconosciuto come un dato di fatto imprescindibile della vita di ogni essere umano, di qualunque epoca storica, come un aspetto non contraddittorio in maniera assoluta.

Per Hegel la contraddizione, quella vera, non sta tanto nel rapporto in sé tra padrone e servo, quanto piuttosto nella coscienza soggettiva che avverte quel rapporto in maniera alienante. La soluzione (ed è una soluzione che deve ricercare soprattutto il servo, poiché, in un certo senso, egli si deve trasformare in una sorta di “filosofo stoico”) sta nel considerare la schiavitù o il servaggio non come un fatto estrinseco alla persona, cioè oggettivo, ma come un fatto intrinseco, cioè eminentemente soggettivo. Siamo tutti schiavi di qualcosa o di qualcuno. Sotto questo aspetto neppure il padrone può considerarsi libero. Anzi, considerando che il servo è in grado di acquisire la propria libertà interiore in virtù del fatto che il suo lavoro gli offre una dignità personale, il padrone, che vive senza lavorare, è ancora più schiavo.

La schiavitù, in sostanza, non è qualcosa di “economico” ma di “morale”, come ad es. l’incapacità di essere se stessi o di accettare la propria condizione naturale o sociale. Ovviamente il padrone, secondo Hegel, dovrà far di tutto perché il servo si senta favorevolmente indotto ad accettare la propria condizione. La libertà, per l’idealismo, è qualcosa che appartiene allo “spirito” o al pensiero dell’uomo, ed è qualcosa che l’uomo può raggiungere a prescindere da qualsiasi circostanza a lui esterna, da qualsiasi impedimento naturale o sociale. Come si può facilmente notare, l’idealismo hegeliano non faceva che tradurre in chiave filosofica dei concetti chiaramente teologici, restando nell’ambito del cristianesimo.

Quanto questa concezione di vita sia pericolosa e reazionaria è evidente, soprattutto al giorno d’oggi. Praticamente Hegel, circoscrivendo nella sfera privata della coscienza il problema dell’emancipazione umana (che a quel tempo andava risolto conformemente alla volontà dello Stato confessionale prussiano), giustificava, sul piano pubblico, quell’ordine di cose che impediva all’uomo di emanciparsi anche sul piano sociale. Col pretesto che l’essere umano è tendenzialmente incline al male, egli in sostanza permetteva al più forte di prevalere sul più debole e impediva a quest’ultimo di reagire. Col principio che la libertà interiore può essere vissuta adeguatamente in qualsiasi situazione sociale ed economica, egli in definitiva legittimava quelle situazioni in cui lo sviluppo delle libertà sociali è sfavorito più che altrove. Hegel ragionava in maniera aristocratica e, per questa ragione, è considerato un filosofo conservatore, pur in contrasto con la sua avanzata dialettica degli opposti.

L’odierno cristianesimo integralistico fa lo stesso ragionamento, con la differenza che lo dirige contro il socialismo, cioè praticamente considera la soggettività del proletariato alla stessa stregua di quella della borghesia, arrivando tranquillamente a dire che il proletariato tende a prendere il posto dei capitalisti, per cui la rivoluzione comunista, come ogni altra rivoluzione, è inutile: sarebbe una rivoluzione delle “forme”, non della “sostanza”. Questo perché l’uomo non ha alcuna possibilità di tornare alla situazione precedente al cosiddetto “peccato originale”.

Ma allora perché – ci chiediamo – questi cattolici integralisti, così rassegnati sulle capacità umane di liberazione, vogliono ribellarsi allo stato di cose creato dal socialismo? Quali garanzie offrono che dalla loro rivoluzione cristiana non nascerà un nuovo “padrone”? O forse tutta la loro insofferenza nei confronti del socialismo dipende dal fatto che, per realizzare la propria rivoluzione, i comunisti non hanno chiesto la loro autorizzazione?

È possibile compiere una rivoluzione in nome del cristianesimo? Non poche volte, nell’ambito di questa confessione, si sono usati i vangeli per criticare le ricchezze dei poteri dominanti (ivi inclusi quelli ecclesiastici), ma la reazione è sempre stata quella di una dura repressione. Il cristianesimo al potere non ama essere messo in discussione da nessun’altra forza politica. Se di una cosa il socialismo statale meritava d’essere criticato, era proprio quella d’essersi comportato come il cristianesimo istituzionalizzato del periodo medievale.

La politicità della fede e il fondamentalismo monoteistico

La limitata concezione ideologica del cristianesimo integralistico dipende dall’aver assunto un punto di vista obiettivamente errato: quello di non voler considerare il socialismo superiore al capitalismo sul piano dei diritti sociali.

Il capitalismo è il trionfo dell’individualismo, è nato contrapponendosi alle esigenze delle comunità di villaggio, e ha vinto la sua partita contro il feudalesimo proprio perché sembrava garantire maggiore libertà e benessere.

Ma il capitalismo garantisce il benessere soltanto a chi è proprietario di capitali, o comunque a chi, per ottenerli, non ha scrupoli morali. Anche quando si parla di “capitalismo statale”, non si mette mai in discussione il principio della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi il diritto di sfruttare il lavoro altrui. Generalmente le istituzioni servono al capitale perché questo possa riprodursi più facilmente. Non riconoscere queste cose significa porsi fuori della storia, cioè mettersi esplicitamente dalla parte del capitale, anche se sul piano etico si predica la “condivisione del bisogno” o l’amore universale.

Pertanto, quando il socialismo dice che la religione deve restare una faccenda privata della persona, lo dice proprio in relazione al fatto che nessuna religione ha in sé degli elementi che possono permettere di superare i limiti fondamentali del capitalismo. Non foss’altro che per una ragione: o le religioni rimandano alla fine dei tempi la liberazione integrale dell’uomo o racchiudono quest’ultima in una dimensione individuale o di piccole comunità isolate, che non partecipano alla vita urbana. Quando le religioni pretendono di istituzionalizzarsi, diventando delle “Chiese statali o nazionali”, inevitabilmente restano soggette, al giorno d’oggi, alle dinamiche internazionali del capitalismo (basta vedere, p.es., l’ebraismo in Israele o l’islam nei Paesi del Medio oriente o il cattolicesimo in Polonia o nei Paesi le cui lingue provengono dal latino). Perché tale istituzionalizzazione sia scongiurata, occorre uno Stato autenticamente laico e democratico, cosa che è possibile solo nel socialismo, poiché qui si pongono le basi per il superamento dello stesso Stato.

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Di tutte le religioni quelle che meno sopportano d’essere relegate nell’ambito della coscienza o del culto sono ovviamente quelle monoteistiche. Chi crede in un unico Dio, che esclude l’esistenza di altri Dèi, è inevitabilmente intollerante.

Va detto tuttavia che le religioni monoteistiche pretendevano, al loro sorgere, di superare quelle politeistiche proprio nell’atteggiamento che queste avevano nei confronti delle istituzioni di potere: un atteggiamento rassegnato, che accettava supinamente le differenze di ceto e di classe, nonché l’immoralità dei ceti dominanti e il culto per l’imperatore.

Le religioni politeistiche erano politicamente disimpegnate, prone ai voleri degli Stati, prive di una dimensione universalistica. Viceversa, quelle monoteistiche pretendevano, almeno ai loro esordi o nelle loro intenzioni, di costruire delle nuove società, basate su valori più umani e democratici.

Il fatto però che tutte le religioni monoteistiche abbiano fallito i loro obiettivi, la dice lunga sul valore della religione in sé. È stato proprio il capitalismo a far capire all’umanità che una religione vale l’altra, ovvero che nessuna fede è in grado di opporsi alla rendita dei proprietari terrieri, alle esigenze del profitto, alla continua espansione del capitale, alle necessità dei mercati, allo sviluppo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, alla finanziarizzazione dei mercati, e così via.

Il socialismo non ha fatto altro che ereditare la convinzione secondo cui la religione ha senso nella misura in cui resta un affare privato della coscienza. Per tale ragione esso ha preferito rivolgere la sua critica al capitalismo, prendendo in esame le questioni socio-economiche. Qualunque religione pretenda oggi di dare alla fede una valenza politica, fa sempre, in qualche modo, gli interessi del capitale, anche quando presume di porsi come “terza via” tra capitalismo e socialismo.

Con questo naturalmente non si vuol sostenere che la fede non abbia diritto a professarsi pubblicamente o che la religione non debba avere una propria “dottrina sociale” o che non debba esistere una “educazione o istruzione religiosa”. Si vuol semplicemente dire che le istituzioni debbono essere laiche, cioè non devono “parteggiare” per nessuna religione, né possono permettere che per motivi religiosi venga minacciato l’ordine pubblico o messa in discussione la validità di leggi promulgate da un parlamento regolarmente eletto. Alla violazione di un diritto si risponde con un altro diritto.

Può un esponente del clero partecipare alla vita politica? Sì, ma dovrebbe farlo in quanto cittadino laico. Se pretende di farlo sostenendo la propria religione contro altre religioni o contro l’idea stessa di laicità, apparirà sicuramente, agli occhi di un laico, come un fanatico, uno che rischia di minacciare l’ordine pubblico, o persino di incitare all’odio o alla violenza. In ogni caso anche se vi partecipasse in una maniera così aggressiva, lo Stato dovrebbe assicurare a tutte le confessioni religiose un trattamento equipollente, a prescindere dalla loro rilevanza pubblica o sociologica. Tutte dovrebbero avere il medesimo diritto di parola, nelle medesime forme.(7)

D’altra parte lo Stato non può negare dei pubblici dibattiti in cui una confessione religiosa dichiari d’essere migliore di altre confessioni. I cittadini van lasciati liberi di decidere. L’unica cosa che lo Stato può fare è di impedire che una determinata confessione risulti privilegiata rispetto ad altre, ovvero ch’essa sfrutti la propria rilevanza sociale o nazionale, dovuta a motivazioni storiche, in un’occasione di discriminazione per le minoranze religiose.

Per il resto dovrebbero essere gli stessi credenti a capire, autonomamente, che il pieno rispetto della libertà di religione viene garantito quando si tutela la libertà di coscienza. Non si può impedire a un credente di fare proselitismo o di organizzare eventi per diffondere la propria fede, ma non gli si può permettere di utilizzare le istituzioni statali, che appartengono a tutti, per favorire la propria religione.

Ecco perché, p.es., una qualunque scuola privata non può essere finanziata con denaro pubblico. Se lo Stato decidesse, per ragioni contingenti (p.es. la scarsità di mezzi finanziari), di sostenere materialmente tutte le scuole private dei credenti (che ovviamente resterebbero di tendenza, cioè ideologiche), dovrebbe farlo con le tasse dei relativi cittadini credenti, anche se esse verrebbero sottratte, in tale maniera, all’edificazione di opere pubbliche comuni alla collettività. Questa però è una situazione anomala, che col tempo va superata.

Se le Chiese vanno tenute separate dallo Stato, per impedire privilegi di qualsivoglia natura, lo Stato deve necessariamente garantire un’educazione e un’istruzione improntata al laicismo, lasciando ovviamente alle Chiese il diritto di agire, in forma privata, secondo criteri propri, soggetti ad autofinanziamento. Lo Stato, da parte sua, deve garantire tutti i servizi pubblici, tra cui quello relativo all’educazione ai valori civili e all’istruzione. Non ha alcun senso che i servizi garantiti da una confessione religiosa vengano finanziati con le tasse dei cittadini aderenti ad altre confessioni o del tutto privi di riferimenti confessionali.

Etica e politica fra religione e ateismo

Da quando s’è imposto il capitalismo, le Chiese, se proprio vogliono continuare a dare un contenuto politico alla loro fede, possono farlo solo in maniera indiretta, cioè in chiave etica, opponendosi ai princìpi e ai valori professati dagli Stati laici. Le stesse Chiese tendono a dire di non voler fare politica direttamente, per quanto non abbiano scrupoli a servirsi, attraverso canali privati, dell’appoggio di fidati parlamentari.

P.es. uno Stato può essere favorevole a una legislazione che permetta di divorziare o di abortire, mentre una Chiesa è contraria. Può lo Stato impedire alla Chiesa di esprimere una propria opinione su un argomento di natura etica? No, non può. Se lo facesse, creerebbe una situazione pericolosa per l’ordine pubblico. Lo Stato deve soltanto garantire che, quando sono in gioco argomenti così “sensibili”, i cittadini possono e anzi debbono confrontarsi liberamente, lasciando che la decisione ultima in materia venga presa dal parlamento, che si presume regolarmente eletto.

La domanda però che, a questo punto, inevitabilmente si pone è la seguente, che qui vogliamo formulare in varie maniere: posto che una legge sia contraria ai princìpi di un credente, si può accettare che questi non la applichi? Può un credente, in nome della propria fede, impedire che un altro credente o non credente possa esercitare i diritti riconosciuti dallo Stato? Può un credente, quando esercita come cittadino una funzione pubblica nell’ambito delle istituzioni statali, appellarsi all’obiezione di coscienza e non applicare una determinata legge? Più in particolare, può un medico cattolico rifiutarsi di praticare l’aborto o di prescrivere al paziente degli anticoncezionali? O un sindaco credente rifiutarsi di sposare una coppia omosessuale? O un carceriere contrario alla pena di morte rifiutarsi di eseguirla? Sono tante le situazioni in cui si verifica una contraddizione inconciliabile tra la legge e la propria coscienza. Ai tempi di Don Milani si parlava di obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare: oggi tale problema è stato risolto rendendo il servizio del tutto facoltativo. Ma la soluzione migliore sarebbe stata un’altra: fare in modo che tutti i cittadini, di tanto in tanto, vengano esercitati a difendere il loro territorio locale.

La libertà di coscienza è una delle cose più preziose che lo Stato deve tutelare, ma non può farlo violando la volontà della maggioranza dei cittadini che, attraverso i propri rappresentanti parlamentari, liberamente eletti, si è espressa in una determinata direzione. A volte accade che, per non sentirsi costretto a prendere provvedimenti, obbligando gli obiettori di coscienza a cambiare mestiere, lo Stato, sul piano amministrativo, concede delle deroghe, cioè fa delle eccezioni. Ma in questi casi deve comunque appurare che il diritto, sancito per legge, non venga violato, onde evitare una qualsivoglia minaccia all’ordine pubblico o un inaccettabile disservizio.

Lo Stato non può permettersi il lusso d’essere denunciato perché non ha applicato o fatto applicare una legge votata in parlamento. L’unica scappatoia a una situazione così anomala è quella di responsabilizzare i propri funzionari affinché controllino che, nonostante la possibilità dell’obiezione di coscienza, la legge viene comunque rispettata. In altre parole, se p.es. un medico rifiuta di praticare un aborto, deve comunque esserci, in tempo reale, un altro medico in grado di sostituirlo. È responsabilità del dirigente assicurare tale alternativa, e dovrebbe pagare di persona nel caso in cui essa non si verifichi puntualmente. Se si accetta l’idea che la volontà della minoranza prevalga su quella della maggioranza, la democrazia è impossibile. Si possono tollerare le eccezioni, ma non a scapito della regola.

Laicità e democrazia

Vi sono al mondo delle nazioni in cui etica e religione coincidono, o quasi. Vi sono paesi in cui in parlamento siedono dei deputati appartenenti al clero. Addirittura in alcuni paesi il governo e i ministeri sono gestiti da membri del clero. È ovvio che in situazioni del genere la laicità è ancora un diritto da conquistare, e non potrà certo esserlo con la forza.

La laicità può diventare un valore significativo, destinato a durare nel tempo, solo usando la democrazia. Ed è usandola che la società civile e quindi lo Stato possono mettere le confessioni religiose in condizioni di dimostrare la propria antidemocraticità.

Di per sé la religione non può essere considerata più antidemocratica dell’etica laica, ma lo diventa subito se non accetta l’idea che, sulle questioni religiose, la si può pensare diversamente. Non si dovrebbe esser mai perseguiti per le proprie opinioni di coscienza. La libertà di pensiero e di parola dovrebbe essere riconosciuta in tutte le Costituzioni del mondo.

È ovvio che un determinato partito politico o una confessione religiosa non possono tollerare forme di dissenso interno che ne minaccino la stabilità. È possibile discutere quanto si vuole su taluni argomenti, ma poi vanno prese delle decisioni e, se si vuole che la democrazia continui a funzionare, occorre che la minoranza si adegui alla volontà della maggioranza (salvo che si ritorni sullo stesso argomento in un momento successivo, con nuove idee da discutere). Con questo non si vuole affermare che la “verità” sta sempre nella maggioranza, ma semplicemente che non si può “discutere” all’infinito, meno che mai quando si hanno delle decisioni politiche da prendere. Solo il tempo potrà dire se la decisione presa era stata giusta o sbagliata.

Ciò che un partito politico o una confessione religiosa non può impedire è che esistano altri partiti o altre confessioni aventi gli stessi diritti di parola e di associazione. Anche un governo in carica deve accettare l’idea ch’esista un’opposizione intenzionata a criticarlo. Questo è l’abc della democrazia.

Semmai è importante stabilire quale peso dare alle varie opposizioni al governo in carica. È evidente, infatti, che un’opposizione al 40% non può avere lo stesso peso di una che è al 4%. Il diritto di parola va concesso in misura proporzionale al numero dei cittadini che lo rivendicano. Tutti hanno il diritto di parlare, ma soprattutto quelli che sono rappresentati da forze sociali significative. I governi devono sempre porre le condizioni affinché le minoranze possano diventare maggioranze rispettando i princìpi della democrazia

Stato e Chiese possono coesistere pacificamente?

Il diritto che lo Stato concede al cittadino credente di professare pubblicamente la propria fede è implicito nel diritto a poter esercitare pubblicamente il proprio culto. Se tutti i culti fossero vietati, lo sarebbe anche la fede. Quindi fede e culto, in un certo senso, coincidono. È infatti il culto che distingue un credente da un altro o da un non credente. E ogni culto, in uno Stato laico e democratico, è ovviamente pubblico. Tant’è che là dove talune sette religiose esercitano il proprio culto solo privatamente, lo fanno perché temono i dettami della legge o l’opinione pubblica, a meno che ovviamente lo Stato non professi ufficialmente il proprio ateismo, come accadeva nell’Albania di Enver Hoxha, il quale aveva posto fuorilegge tutte le religioni.

È ovvio che se non esistesse uno Stato laico, una confessione religiosa potrebbe non accontentarsi di manifestare la propria fede solo attraverso il culto. Potrebbe pretendere insegnanti religiosi, funzionari religiosi, giudici religiosi e così via. Vi sono religioni, soprattutto quelle monoteistiche, che pretendono di conformare tutta la vita sociale, culturale e politica ai propri valori. Dicono di volerlo fare proprio perché esigono una stretta coerenza fra la teoria e la pratica (di qui p.es. la cosiddetta “Dottrina sociale della Chiesa”). In sostanza non accettano l’idea che un credente si comporti come un semplice cittadino di fronte allo Stato, poiché ritengono che tale atteggiamento dualistico sia una forma di sdoppiamento della personalità, un venir meno ai propri obiettivi.

Si comportano così perché rifiutano l’idea che l’etica abbia dei valori equivalenti a quelli della religione. Per tali Confessioni integralistiche un’etica non influenzata dalla religione è semplicemente priva di moralità e quindi tendenzialmente disumana. Non a caso si avvalgono del detto di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, all’uomo tutto è concesso”.

È dunque impossibile per uno Stato laico avvalersi dell’appoggio delle Confessioni integralistiche. Esse faranno sempre in modo da porre le condizioni perché il governo in carica venga sostituito da uno favorevole al clericalismo politico.

Il fondamentalismo religioso, infatti, non è pericoloso soltanto quando difende la superstizione contro la scienza, ma anche quando presume di dare un contenuto direttamente politico alla propria fede. Che uno Stato laico non sia tenuto a fare distinzione tra religione e superstizione è pacifico. È tenuto però a fare distinzione tra una Confessione che, in nome della propria fede, vuole smentire le acquisizioni della scienza, e una Confessione che si limita a sostenere idee soprannaturali nell’ambito delle proprie convinzioni. Ancor più deve fare distinzione tra una Chiesa che ritiene possibile la democrazia compiuta solo nell’aldilà, e una Chiesa che vuol fare di questa idea un motivo per rovesciare un governo in carica legittimamente costituito.

Con questo non si vuole negare che, in teoria, anche lo Stato laico può rischiare di finire nella superstizione o nel dogmatismo: si pensi soltanto a quando vuole imporre alla società civile l’idea che il mercato sia fonte di libertà o che la scienza è in grado di risolvere qualunque problema o che la democrazia parlamentare va esportata in tutto il mondo o che il diritto occidentale è l’unico in grado di garantire dei valori umani universali. Sono tutti dogmi privi di alcun fondamento, regolarmente smentiti dalla storia: sono le principali fonti di tutte le nostre illusioni.(8)

Qui si vuole semplicemente sostenere che i difetti di una democrazia laica vanno superati rendendo ancora più democratica la laicità. È compito degli Stati laici dimostrare alle Confessioni religiose che sono in grado di correggere da soli i propri errori e che, in ogni caso, sanno accettare le critiche costruttive provenienti anche dagli ambienti ecclesiastici.

I cittadini, credenti o non credenti che siano, devono saper trovare in loro stessi le ragioni per superare i limiti di quelle democrazie che sono tali solo all’apparenza. La stessa definizione di “Stato laico” è indubbiamente destinata a essere inglobata in quella di “società democratica”, in quanto una società davvero democratica non ha bisogno di uno Stato che garantisca la laicità delle leggi. Se uno Stato avesse la pretesa di garantire la laicità e la democrazia a prescindere dalla società civile, ebbene, proprio in quel momento le starebbe violando.

Quand’è che uno Stato è davvero laico e democratico?

Bisogna sempre fare molta attenzione al significato delle parole. “Stato laico” non vuol dire “Stato ateo”. Per capire la differenza prendiamo in esame una questione religiosa.

Noi possiamo facilmente constatare che oggi tutte le Confessioni monoteistiche dicono di voler fare politica solo indirettamente, dedicandosi agli aspetti sociali (assistenzialismo, volontariato, ecc.) e culturali (educazione, istruzione, editoria, ecc.). Molte poi si servono, in forme private o ufficiose, della collaborazione di taluni politici eletti in parlamento. Nessuna Chiesa oggi vuole sentirsi protagonista attiva sul piano politico, salvo quelle che sul proprio territorio hanno imposto una sorta di monarchia teocratica.(9)

Ebbene, anche gli Stati laici svolgono, di fatto, un’operazione di tipo “ateistico” in maniera indiretta, servendosi appunto della loro laicità. Se lo Stato fosse esplicitamente ateo dovrebbe impedire sia il culto che la fede. Uno Stato laico invece permette entrambe le cose.

Laicità vuol dire “indifferenza” nei confronti delle religioni, nel senso che lo Stato non parteggia per nessuna in particolare, ma le considera tutte uguali. È questo un atteggiamento ateistico? Indirettamente sì (o, se si preferisce, è di tipo agnostico), ma è un atteggiamento che ha il vantaggio di non violare la libertà di coscienza di nessuno.

Gli Stati non lottano contro le religioni in sé, ma possono farlo contro quegli atteggiamenti che, in nome della fede, negano credibilità alla scienza e un valore effettivo alla laicità e all’etica democratica. Semmai si oppongono con decisione a tutte le forme di clericalismo politico. Ma non per questo sono tenuti a sostenere una “democrazia atea”.

L’ateismo può essere un patrimonio culturale di un partito politico, che lo usa per contestare il valore delle religioni, ma non può essere una convinzione imposta con la forza della legge. Ateismo o agnosticismo non possono essere trasformati in una nuova religione, se si vuole salvaguardare il significato della laicità.

Il cittadino deve esser lasciato libero di credere in quel che vuole, anche perché, nel caso in cui alcuni valori religiosi vengono violati dallo Stato, egli ha il diritto di protestare. E, di fronte allo Stato (che assicura, nei suoi diritti fondamentali, quello alla libertà di coscienza), lo farà in quanto cittadino, non avendo bisogno di farlo in quanto credente in una specifica Confessione.

In ultima istanza, ovviamente, ogni cittadino è tenuto a conformarsi alla volontà della maggioranza. In una qualunque società o comunità il valore della maggioranza è decisivo per garantire il rispetto della legge. Il che ovviamente non significa che, nell’ambito della democrazia, una minoranza non possa diventare maggioranza. Non ha senso ipostatizzare delle posizioni politiche o ideologiche.

Certo, uno Stato laico, mettendo tutte le religioni sullo stesso piano, può far credere ch’esse siano soltanto una sopravvivenza del passato, una forma di oscurantismo; e, per questa ragione, può cercare di ostacolarle (anche solo sul piano amministrativo) in vari modi. L’abbiamo visto durante le rivoluzioni borghesi e proletarie: il fatto d’avere storicamente ragione offriva il pretesto per compiere cose umanamente riprovevoli o politicamente inaccettabili. Ricordiamo tutti quando Gorbaciov diceva che se è giusto tenere separata la Chiesa dallo Stato, è insensato pensare di poterla tenere separata anche dalla società civile.

Compito dello Stato è quello di stare molto attento a non porre le condizioni che possono indurre i cittadini a disobbedire alle sue leggi, anche perché, quando avviene un meccanismo del genere, ogni occasione diventa facilmente un pretesto per rincarare la critica al sistema. Alla fine tra cittadini e istituzioni non ci si comprende più, e prima o poi i cittadini vincono: se passa l’idea che qualcuno è ingiustamente perseguitato, inevitabilmente il consenso tende ad allargarsi.

Lo Stato governa la società civile, ma questa deve essere messa in grado di non aver bisogno di alcuno Stato per autogovernarsi. Lo Stato non dovrebbe mai esercitare il potere contro la società civile. Semplicemente dovrebbe essere considerato uno strumento che la maggioranza dei cittadini si dà per far rispettare le leggi. Tuttavia, nella misura in cui la società è davvero in grado di rispettarle, avendole acquisite per abitudine, nella consapevolezza della loro necessità, lo Stato diventa inutile.

Quando si dice che lo Stato è uno strumento che si dà la maggioranza dei cittadini per far rispettare a tutti determinate leggi, bisognerebbe anche aggiungere che se lo Stato non usa la persuasione ragionata, il confronto dialettico, il rispetto dei diritti umani, prima o poi, agli occhi della pubblica opinione, la suddetta maggioranza diventa “minoranza”, sicché all’ordine del giorno torna di nuovo il problema di come abbattere le istituzioni.

In tal senso lo Stato non deve temere che una Confessione religiosa, attraverso il proselitismo, aumenti il proprio consenso. È un diritto del cittadino non solo credere in ciò che vuole, ma anche pubblicizzare le proprie idee ed espandere la cerchia degli aderenti alla propria fede. Lo Stato deve semplicemente educare i cittadini alla tolleranza, al rispetto delle idee altrui, a credere nel pluralismo.

È vero che lo Stato è un ente astratto ed è quindi impossibile che il proprio compito educativo escluda a priori l’uso della forza. Lo Stato non può educare soltanto attraverso l’esempio etico dei propri funzionari. In ultima istanza si riserva sempre il privilegio esclusivo di poter usare la forza contro una popolazione disarmata o non adeguatamente attrezzata e preparata per affrontare i suoi corpi di polizia, le sue forze armate. Tuttavia la storia è piena di esempi in cui l’uso della forza non ha fatto altro che produrre una reazione contraria, spesso di intensità assai maggiore, che puntualmente ha trovato impreparati ad affrontarla i governi al potere.

Il più grande limite dello Stato è che per assicurare l’ordine pubblico usa degli organi repressivi separati dalla popolazione. Ecco perché i cittadini devono imparare a difendere da soli i propri diritti, cioè a educarsi reciprocamente, prendendo spunto dagli esempi concreti di persone reali, che vivono un’esistenza comune, del tutto normale. L’etica viene garantita, nella sua democraticità, soltanto quando i cittadini si sentono uniti liberamente.

Uno Stato è davvero laico e democratico quando si fida dei propri cittadini e non assume atteggiamenti paternalistici, anche perché, quando si possiedono le leve del potere, è facile passare dal paternalismo alla dittatura.

Può esistere una internazionalizzazione della fede?

Le Confessioni religiose non solo hanno diritto a fare proselitismo a livello nazionale, ma possono anche svolgere un’attività internazionale a favore della pace e dei diritti umani, con o senza l’aiuto dei loro rispettivi Stati.

Tali Confessioni sono organismi che i cittadini possono darsi per affrontare meglio i problemi della vita, propria e altrui. Gli Stati laici non hanno il diritto e tanto meno il dovere di sindacare sull’efficacia degli strumenti religiosi, a meno che con essi non vengano palesemente violate delle disposizioni di legge. Se una Chiesa è a favore della tutela ambientale, che è un valore riconosciuto a livello internazionale, ha tutto il diritto di dirlo e persino di contestare gli Stati che non lo rispettano o non lo fanno rispettare. Se una Chiesa, sul piano pratico, dimostra d’essere più coerente dello Stato nell’applicare i princìpi o le leggi che appartengono alla democrazia, sarà compito dello Stato modificare il proprio atteggiamento.

Noi non possiamo sapere a priori quali sono tutti i modi in cui l’obiettivo della democrazia può essere realizzato. Sappiamo soltanto che la forza dovrebbe essere esercitata dopo aver provato inutilmente tutte le altre modalità. Ma è a tutti evidente che forza e democrazia non possono, alla lunga, stare insieme. Quando i cittadini usano la forza per compiere le rivoluzioni politiche, non possono pensare di continuare a usarla ad libitum, dopo averle compiute. È vero che una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla, ma l’obiettivo finale non è quello di stare sempre sulla difensiva.

Le istituzioni non possono diventare paranoiche e vedere nemici in ogni dove, anche perché in una situazione del genere è molto facile accusare qualcuno ingiustamente. L’abbiamo eloquentemente visto nelle dittature staliniana e maoista. Quando uno Stato si sente debole e non ha fiducia nei propri cittadini, non vede l’ora di dimostrare con esempi eclatanti (p.es. dei processi giudiziari) chi è che comanda. Può anche arrivare a compiere atti di terrorismo, scaricando la colpa su nemici completamente inventati. Si badi che, per far questo, non è obbligatorio essere degli Stati “socialisti”.

Se al mondo esistesse un minimo di democrazia, noi dovremmo vedere gli Stati chiedere alle Confessioni religiose di esprimersi chiaramente a livello internazionale quando i diritti umani o civili vengono minacciati o violati. La democrazia non è forse un bene per tutti, credenti e non credenti?

Probabilmente se le Chiese non avvertissero se stesse in competizione tra loro; se fossero abituate a confrontarsi liberamente e francamente e non si limitassero a difendere gli interessi nazionali o “di parte”, potrebbero svolgere un ruolo più produttivo nel mondo. Dovrebbero smetterla di sentirsi in colpa per aver assunto nel passato una posizione favorevole ai poteri dominanti; anche perché gli stessi Stati hanno svolto il ruolo di difendere gli interessi dei potentati economici. Gli Stati esistono da circa 500 anni, un periodo che, guarda caso, coincide con quello in cui si è sviluppato il capitalismo moderno.

Teoricamente gli Stati sono a favore del diritto internazionale, ma praticamente difendono gli interessi del capitale, sia esso nazionale o globale. In tal senso le Confessioni religiose potrebbero dimostrare, se solo lo volessero, maggiore coerenza; soprattutto dovrebbero essere capaci di andare oltre i retaggi del passato, che le condizionano negativamente. P. es. chi appartiene alla Confessione islamica difficilmente emetterebbe dei comunicati congiunti con chi appartiene alla Confessione cristiana, poiché gli sembrerebbe di fare un favore al passato colonialismo occidentale.

Eppure vi sono argomenti trasversali a tutte le religioni, come p.es. il diritto alla vita, alla pace, al lavoro, a un ambiente naturale, il rispetto delle minoranze e delle categorie sociali più deboli, ecc. Che senso ha che le Confessioni religiose vogliano espandersi a livello internazionale, e poi si comportino come se fossero degli organi vincolati a esigenze nazionali? O come se dovessero difendere degli schieramenti geopolitici (occidente contro oriente, nord contro sud, Euro-America contro Asia, ecc.)?

Poiché il Medioevo è finito da un pezzo, le Confessioni religiose non hanno il diritto di sostituirsi agli Stati. Né, per essere meglio accettate in un mondo sempre più laico, devono sentirsi in obbligo di rinunciare alla loro specifica identità religiosa. Semplicemente esse hanno il dovere di compiere una pressione morale là dove i valori laici e democratici non vengono concretamente rispettati. Sarà poi la storia a decidere se per un credente è preferibile la religione o l’ateismo.

Stati e Chiese nazionali

Oggi è ancora molto facile vedere come gli Stati difendano a spada tratta gli interessi delle loro Chiese nazionali, accettate dalla maggioranza dei cittadini; spesso lo fanno contro gli interessi delle Confessioni minoritarie o addirittura contro quelle Confessioni straniere che nel mondo si pongono in maniera concorrenziale rispetto alle loro Chiese nazionali. Non è poi infrequente che gli Stati laici si servano delle Chiese presenti nei loro territori in maniera ostile nei confronti di altri Stati.

Le Chiese si prestano facilmente a tali strumentalizzazioni. Anzi, si può con certezza dire che le Chiese nazionali sono ben contente di poter fruire di una protezione o di un privilegio statale che le metta al riparo dalla concorrenza sul piano religioso. In questa maniera le Chiese minoritarie vengono semplicemente “tollerate” dalle istituzioni, ma devono stare sempre molto attente a come si comportano, alle parole che dicono: soprattutto devono evitare di fare “proselitismo”, o comunque limitarsi a farlo in maniera molto privata. Le Chiese nazionali o maggioritarie possono pretendere d’essere inserite nel “diritto pubblico”; le altre devono accontentarsi di appartenere al “diritto privato”.

Ora, il fatto che là dove esiste una larga tutela statale, le Chiese maggioritarie la accettino ben volentieri, è la riprova che i valori religiosi non sono migliori di quelli laici. In genere si ha come l’impressione che le Chiese non abbiano alcuna fiducia nel loro futuro. Il confronto con le rivoluzioni borghesi e proletarie le ha come disarmate. Avvertono di poter sopravvivere solo perché esistono ancora degli Stati che, ignorando il senso della laicità, le proteggono in varie maniere.

L’unica identità o personalità che possono far valere è quella giuridica. Sul piano propriamente etico non hanno da dire qualcosa di diverso dai loro Stati di appartenenza. Non riescono neppure a chiedere a tali Stati di essere apertamente democratici e pluralisti. Preferiscono sentirsi privilegiate. Si comportano come le Chiese pagane nei regimi schiavistici. Non sono neppure in grado di trovare tra loro delle strategie comuni per indurre tutti gli organismi internazionali a essere più coerenti nell’applicare i princìpi laici che professano.

Le Chiese hanno una visione internazionale delle cose soltanto quando ognuna di loro può espandersi geograficamente a spese delle altre. Il loro principale obiettivo è quello di svolgere una sorta di “governo nazionale indiretto” e, per potersi diffondere all’estero, non hanno scrupoli a servirsi del potere o dei servizi dei loro rispettivi Stati nazionali, i quali naturalmente non mancheranno di chieder loro qualcosa in cambio. Se una missione religiosa fa del bene a una comunità locale del Terzo Mondo, sul piano scolastico o sanitario, non è forse più facile alle aziende che appartengono al medesimo Stato di quella missione sfruttare economicamente quella comunità o lo Stato in cui essa vive?

Quando gli Stati politici si comportano in maniera antidemocratica, le confessioni religiose possono anche sponsorizzare delle rivoluzioni politiche vere e proprie. Possono addirittura passare da un governo “indiretto” a uno effettivo vero e proprio. L’esempio dell’Iran è quello più eclatante: vedere gli imam che gestiscono un’intera nazione, a noi occidentali fa abbastanza impressione. A dir il vero però, in tutto il mondo islamico, dopo la caduta di alcuni leader governativi filo-occidentali, il fondamentalismo religioso ha voluto assumere una funzione direttamente politica, e senza farsi tanti scrupoli dall’usare mezzi terroristici.

In una situazione del genere i valori religiosi non hanno alcuno spessore etico. D’altra parte chi nutre atteggiamenti integralistici difficilmente sopporta che la propria fede religiosa resti priva di una veste politica ben definita. E purtroppo questa fede riesce anche ad avere la meglio sull’etica laica, quando la politicità che tale etica esprime, viene esercitata in forme autoritarie, corrotte, antidemocratiche.

Una volta giunta al potere, l’etica laica deve dimostrare quotidianamente d’essere superiore ai valori e all’esperienza religiosa, altrimenti un’insurrezione sarà sempre possibile. E un’insurrezione fatta in nome di valori religiosi facilmente oggi si trasforma in un’aberrazione. Nella storia il tempo non passa invano.

Etica e religione: quale futuro?

Sembra, ma è solo un’apparenza, che la religione sia più antica dell’etica, cioè abbia un’esistenza di più lunga durata.

L’autonomia dell’etica, la sua indipendenza dalla religione, è andata di pari passo col distacco della filosofia dalla mitologia, al tempo dei Greci. Anche nel corso del basso Medioevo la riscoperta dell’aristotelismo ha contribuito non poco a separare la metafisica dalla teologia.

Tuttavia si sono dovute aspettare le rivoluzioni borghesi e proletarie prima di avere una significativa affermazione dell’etica laica. La borghesia ha avuto il compito di laicizzare il cattolicesimo, creando una confessione, il protestantesimo, e una cultura generale, l’Umanesimo, nonché una specifica tipologia artistica, il cosiddetto Rinascimento, che di religioso avevano solo la parvenza. La quale, poi, è stata completamente rimossa dal socialismo scientifico, dopo aver subìto terribili colpi demolitori dalla rivoluzione francese, dalla Comune di Parigi e dagli sviluppi ateistici dell’idealismo hegeliano (Feuerbach, Stirner, i fratelli Bauer e Strauss).

Il merito del socialismo scientifico è stato quello di aver fatto capire che più importante ancora dell’ateismo è il superamento del capitalismo. L’attenzione quindi si è spostata dalle questioni filosofiche e teologiche a quelle economiche (Marx) e politiche (Lenin).

Oggi la religione è solo uno degli strumenti (neanche il più importante: la cinematografia, p.es., lo è molto di più) di cui si serve il capitale per riprodurre culturalmente se stesso. Il capitalismo si serve di tante cose per riprodursi: il consumismo ad oltranza, la democrazia formale, la forza militare, il diritto astratto, la superiorità tecnologica, e via dicendo. Tutti questi strumenti in genere vengono usati in maniera tale che l’etica risulta priva di vera umanità. Essa è sì separata dalla religione (e per farlo ha dovuto dimostrare d’essere migliore), ma vive come se fosse del tutto alienata: sul piano teorico vengono affermati princìpi altamente democratici; su quello pratico ci si comporta in maniera completamente opposta.

L’etica borghese è schizofrenica, e il motivo di ciò sta proprio nelle contraddizioni economiche del capitalismo, profondamente lacerato tra la proprietà dei mezzi produttivi e il lavoro di chi non li possiede. Questa è un’etica che riesce a imporsi sulla religione non per la sua forza morale intrinseca, ma perché alla base è sostenuta da una continua rivoluzione tecnico-scientifica.

Le religioni, per dire qualcosa di utile o di convincente, devono prima aspettare che l’etica borghese, in forza del proprio cinismo, procuri sommi disastri all’umanità, come p. es. le guerre mondiali o le devastazioni ambientali.

Oggi tuttavia è raro trovare qualcuno che creda nella possibilità di superare i limiti dell’etica borghese grazie alla religione. In Occidente i cittadini sono troppo disincantati. È più facile credere che tali limiti siano insuperabili. Al massimo si pensa, ma si tratta di convinzioni molto minoritarie, ch’essi potranno essere superati solo dopo aver abbattuto il sistema capitalistico con una rivoluzione proletaria. In Occidente si è smesso di credere in questa possibilità dopo il fallimento di quella stagione eversiva iniziata nel Sessantotto e conclusa una decina d’anni dopo. Il colpo di grazia l’hanno dato il crollo del “socialismo reale” e l’insuccesso della perestrojka gorbacioviana, con cui si sperava di poter passare dal socialismo burocratico a quello democratico.

Nel mondo della sinistra radicale non manca chi pensa che nell’attuale Cina sia possibile far coesistere una politica governativa di tipo socialista con una economia prettamente borghese, ma si tratta di un’illusione. Là dove sul piano sociale si sviluppa il capitalismo, l’etica e la politica ne risentono inevitabilmente. Una volta affermato il primato del valore di scambio, l’etica sottesa al valore d’uso tende progressivamente a scemare, fino a scomparire del tutto, e tale declino non può essere impedito da una politica che, per affermarsi, usa la forza.

In Cina si sta sperimentando soltanto una forma di capitalismo in cui lo Stato ha la pretesa di fare da arbitro, cioè di giocare il ruolo del controllore. Il fatto che in questo paese la religione non conti pressoché nulla, è la riprova che un’etica laica, di per sé, non rende migliore la società. Potrà farlo soltanto quando sarà sostenuta da una democrazia effettiva, anzitutto sociale ed economica, di cui quella politica sia un semplice riflesso.

Per milioni di anni il genere umano non ha avuto alcun bisogno della religione, proprio perché viveva una forma di socialismo del tutto compatibile con le esigenze riproduttive della natura. Gli uomini primitivi erano atei non perché culturalmente arretrati, ma perché nella loro essenza umana e naturale non soffrivano di contraddizioni antagonistiche, quelle che appaiono irrisolvibili.

Oggi abbiamo bisogno di tornare a quel periodo, con o senza la scienza e la tecnica di cui siamo capaci. Di sicuro non possiamo nutrire nei confronti della scienza quegli stessi atteggiamenti devozionali o fideistici che nel passato si nutrivano nei confronti delle divinità.

Etica e politica nel socialismo

Davvero il socialismo pone la politica al di sopra dell’etica? Gli integralisti religiosi sostengono che è sufficiente tale convinzione per non concedere nulla al socialismo. Infatti per loro la politica, quando ha un primato sull’etica, inevitabilmente si disumanizza, sicché nei confronti della religione diventa ancor peggio dell’etica laica.

In realtà la questione andrebbe rovesciata, nel senso che ci si dovrebbe chiedere se davvero esistono dei valori etici universali, la cui applicazione possa prescindere dallo spazio e dal tempo, cioè dei valori che siano indipendenti dalle interpretazioni che determinate comunità locali o nazionale possono darne.

Prendiamo ad es. il diritto alla vita. Apparentemente sembra essere il diritto umano più universale: ne sanno qualcosa i medici col loro “Giuramento di Ippocrate”. Eppure le religioni lo interpretano come vogliono. Tante di loro prevedono tranquillamente la pena di morte. Quasi tutte negano alle donne il diritto di abortire, cioè ritengono che abbia più diritti una persona che non c’è di una in carne ed ossa. E non si preoccupano di sapere quale sia la causa di una scelta così dolorosa.

Vi sono Confessioni religiose i cui aderenti, in caso di guerra, rifiuterebbero di difendere la loro patria occupata da una potenza straniera, e solo perché, impugnando le armi, sarebbero costretti a uccidere il nemico. Quante volte sentiamo di genitori credenti che uccidono le loro figlie quando queste decidono di non accettare un “matrimonio combinato” o di sposare chi non segue la loro religione? Sono innumerevoli i casi in cui il diritto alla vita subisce delle interpretazioni unilaterali che impediscono di considerarlo un valore umano universale.

È per questa ragione che il socialismo non sopporta le astrattezze. La politica serve per dare concretezza all’etica. Predicare un’etica universale è una forma di idealismo astratto, una vuota filosofia. Significa, in sostanza, fare gli interessi della politica dominante, cioè fare gli interessi di potere, che generalmente sono di tipo economico, di quelle classi sociali che, per nascondere la privatezza dei loro interessi, predicano appunto i valori universali. Oggi i valori universali che vanno per la maggiore solo la libertà di mercato e la democrazia parlamentare: due valori che fanno anzitutto gli interessi dei monopoli economici e degli organismi finanziari internazionali.

Nelle società divise in classi sociali opposte il potere si è sempre servito della religione per affermare se stesso. E il compito della religione è appunto questo, far credere che esistono valori al di sopra della politica, cui la stessa politica deve rendere conto. In un certo senso la religione è una specie di finta opposizione al sistema: da un lato si serve della propria etica per contestare la politica laica; dall’altro fa concretamente gli interessi di quella politica che vuole strumentalizzarla in funzione anticomunista. Essa odia il socialismo proprio perché il socialismo le impedisce di svolgere questo lavoro ambiguo, che rende ipocriti anche quando lo si compie con le migliori intenzioni.

Un vero credente dovrebbe esser grato al socialismo di averlo tolto dall’imbarazzante posizione di chi, da un lato, predica il bene universale e, dall’altro, oggettivamente, è costretto a fare gli interessi del bene particolare delle classi dominanti.

Quante volte il cristianesimo ha predicato un amore incondizionato per i nemici, tacendo, per opportunismo o convenienza, sulle loro ingiustizie? Quante volte lo ha predicato distinguendo tra nemico e nemico? E quante volte lo ha soltanto predicato? È utopica l’idea di poter superare una società basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, senza dover ricorrere alla forza politica e, se occorre, anche militare. Non s’è mai visto da nessuna parte che gli sfruttatori abbiano rinunciato spontaneamente al loro mestiere limitandosi ad ascoltare delle “belle parole”.

Il socialismo non afferma il primato della politica per negare all’etica il suo valore: se lo facesse sarebbe cinico o machiavellico o gesuitico. Non è forse stato Machiavelli a far nascere la scienza della politica subordinando nettamente a quest’ultima ogni considerazione di tipo morale? Perinde ac cadaver non era forse il motto principale dei gesuiti?

In realtà è proprio il socialismo democratico che sa benissimo come non ci possa essere alcuna etica migliore di quella in grado di dimostrare concretamente il proprio valore. È la prassi il criterio della verità. Semmai è la politica borghese che si deve preoccupare di creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di un’etica davvero umanistica.

Compito del socialismo è quello di chiedere all’etica, e quindi anche alla religione, di affermare dei valori che facciano gli interessi non di classi particolari, ma della stragrande maggioranza dei cittadini. Il popolo ha bisogno di valori in cui potersi riconoscere, e questi valori devono essere veri, non costruiti artificiosamente dai poteri dominanti. Valori veri sono quelli che permettono al popolo di vivere un’esistenza dignitosa, non lacerata da conflitti che costituiscono una minaccia quotidiana e che costringono a fare scelte indesiderate o che inducono a comportarsi in maniera alienata, degradante.

Il valore della libertà di scelta

Se tutti potessero esercitare concretamente il diritto alla libertà di scelta, senza limitarsi a fruirne in maniera puramente teorica, i valori universali si formerebbero spontaneamente. Finché questa libertà non esisterà fattivamente per tutti i cittadini del mondo, la politica avrà tutti i diritti di pretendere un primato sull’etica astratta. Quando invece essa esisterà, scompariranno sia la politica che regolamenta i conflitti di classe o che cerca di superarli, sia la religione che dà per scontato che su questa Terra essi non siano risolvibili. Resterà solo l’etica, umana e democratica.

Invece di pensare ad astratti valori umani universali, i credenti dovrebbero chiedersi, quando vedono i poteri dominanti manifestare una profonda incoerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno: “Che cosa possiamo fare per risolvere tale antinomia?”. Cioè non dovrebbero limitarsi a contestare il socialismo solo perché questo non ha idee religiose, ma dovrebbero anche dire basta al consumismo sfrenato, al saccheggio ambientale, alle discriminazioni di genere, allo sfruttamento della forza-lavoro e a tante altre cose che il capitalismo mette in atto quotidianamente sull’intero pianeta.

Cosa fanno i credenti per dimostrare che non sono dei “sepolcri imbiancati”? Che non predicano soltanto pazienza e rassegnazione? Che non sono disposti a chiudere un occhio sulle aberrazioni del capitalismo pur di avere in cambio una fetta del potere?

È palesemente falso sostenere che il socialismo mette in discussione non soltanto l’esistenza di Dio, ma anche il diritto dell’uomo ad avere una speranza ultraterrena. È vero il contrario: una volta risolta la principale questione economica, cioè il conflitto tra capitale e lavoro, tutti saranno finalmente liberi di credere in ciò che professano, senza impedimenti o condizionamenti di sorta. Questo poi senza considerare che il socialismo non nega affatto che possa esistere una dimensione vitale diversa da quella terrena. La materia è eterna e universale, soggetta a perenne trasformazione. Semplicemente il socialismo considera il nostro pianeta come il luogo in cui sperimentare il lato umano e democratico della materia. Che poi questa materia sia fatta anche di antimateria o, se si preferisce, di spirito anima energia dynamis… chi mai potrebbe escluderlo? Non abbiamo ancora elementi sufficienti per conoscere l’intera “sostanza” di cui l’universo è fatto.

Politica ed etica, nel socialismo democratico, sono strettamente connesse, nel senso che gli obiettivi dell’una sono gli obiettivi dell’altra. Quando il socialismo si comporta in maniera difforme da tale coerenza, è perché sta imitando il sistema borghese, che è cinico per definizione. Con questa differenza: i capitalisti sono disposti a calpestare qualunque valore etico quando in gioco sono i loro interessi economici; i socialisti imborghesiti lo fanno quando vogliono restare legati alla loro ideologia, senza tener conto della realtà concreta.(10)

Delle due aberrazioni, quella borghese, essendo nata un migliaio di anni fa nei Comuni italiani, è stata in grado di condizionare la realizzazione di tutte le rivoluzioni socialiste. Partorire un socialismo davvero democratico si è rivelato un’operazione incredibilmente complessa, oltre ogni immaginazione. Due guerre mondiali non sono state sufficienti per trovare la giusta strada.

L’umanità però di fronte a sé continua ad avere due sole alternative: o socialismo o barbarie. E se il socialismo che si vuole e si deve creare non è sufficientemente umano e naturale, la barbarie è assicurata.

Compiti del futuro socialismo democratico

Il socialismo democratico non è altro che un ritorno al comunismo primitivo nella consapevolezza di tutti gli errori compiuti nella storia. Le religioni sono nate in conseguenza della fine del comunismo primitivo. Il cosiddetto “peccato originale” non è stato che la nascita dello schiavismo, cioè di quella esperienza storica che ha posto fine a quel comunismo. Si tratta di capire se questa fine va considerata irreversibile.

La differenza tra socialismo e religione sta nel fatto che quest’ultima non ritiene più possibile su questa Terra un ritorno al paradiso perduto, quello della foresta. La liberazione da tutti i “mali” è prevista soltanto nell’aldilà. Ecco perché socialismo e religione sono del tutto incompatibili, almeno nell’obiettivo finale che si propongono, che però condiziona tutto il resto, anzitutto i mezzi con cui conseguirlo.

Fino ad oggi la storia ha sperimentato varie forme di oppressione sociale, ma ognuna di esse, al suo sorgere, si poneva l’obiettivo di superare i limiti dello stile di vita precedente. Schiavismo, feudalesimo e capitalismo, nelle forme statali o private, sono state delle formazioni sociali che pretendevano di superare i limiti della precedente. Il socialismo statale ha preteso, vanamente, di superare i limiti del capitalismo.

La mia generazione, nata negli anni Cinquanta, ha assistito al superamento del capitalismo privato con quello sostenuto dallo Stato; ha assistito al crollo repentino del socialismo statale, sostituito dal capitalismo statale o privato; sta osservando l’esperimento cinese, in cui un partito sedicente comunista al governo sta gestendo un capitalismo privato e statale. Inoltre nella cosiddetta area “terzomondiale”, usata dal capitalismo occidentale in forma “coloniale”, le contraddizioni sono diventate talmente esplosive che hanno iniziato a sperimentarsi varie forme di socialismo, con risultati però del tutto insoddisfacenti.

L’umanità procede in maniera contorta, molto diversificata, sulla base di specifiche condizioni storiche. Le uniche esperienze di “socialismo democratico” sembrano essere quelle delle ultime, sparute, comunità primitive che vivono nei luoghi più impervi della Terra.

Che cosa possiamo fare oggi per sopravvivere in maniera dignitosa? Indubbiamente lottare contro le contraddizioni antagonistiche di tutti i sistemi sociali e politici. Bisognerebbe farlo lì dove si è nati e cresciuti, evitando d’illudersi di potersi emancipare emigrando altrove. La conoscenza del proprio territorio, di tutte le sue caratteristiche, è di fondamentale importanza. In secondo luogo occorre recuperare il valore del comunismo primitivo, non solo sul piano teorico, approfondendo gli studi antropologici, ma anche tutelando gli interessi delle ultime comunità rimaste, che non possono essere lasciate da sole a combattere i meccanismi perversi del capitale. In terzo luogo bisogna associare l’idea di socialismo a quella di ambientalismo, poiché solo oggi ci stiamo accorgendo che le risorse naturali sono in via di esaurimento e che taluni danni compiuti alla natura hanno la caratteristica d’essere irreversibili. Infine, per non ripetere gli errori del passato, bisognerebbe cercare di capire bene i motivi per cui, dopo essere risultata clamorosamente vittoriosa, l’esperienza rivoluzionaria del bolscevismo si è trasformata, sotto lo stalinismo (e successivamente sotto il maoismo), in una incredibile dittatura.

Note

(1) Si noti che nella nostra Costituzione non è neppure previsto che un cittadino possa essere ateo.

(2) Attenzione che l’obiezione di coscienza non ha lo stesso valore della libertà di coscienza. Nell’ambito delle istituzioni civili o statali non ci si può opporre a una legge del parlamento sulla base di una convinzione religiosa. Se lo Stato permettesse una cosa del genere, la laicità perderebbe la sua ragion d’essere. Lo Stato può soltanto evitare che un cittadino compia qualcosa contro la propria coscienza, ma non può non intervenire quando un cittadino, per far valere la propria libertà di coscienza, viola quella altrui o altri diritti fondamentali.

(3) D’altra parte in uno Stato capitalista esiste una sola ideologia dominante, cui tutti devono formalmente attenersi, quella liberista.

(4) Proprio nello stesso anno nasceva invece il fondamentalismo protestantico nordamericano, che si opponeva all’esegesi laica della Bibbia e che poi, col nome di Christian Right, appoggerà sempre il partito repubblicano.

(5) Si pensi solo a tutta la filosofia politica di Augusto Del Noce e di Rocco Buttiglione.

(6) In Cina il governo interviene sull’uso della terra, che è rimasta statale, solo in ultima istanza, quando sono in gioco degli interessi statali: per il resto viene concessa ad uso privato, dietro il pagamento di un affitto.

(7) Cosa che in Italia è la stessa Costituzione, con l’art. 7, a impedirlo. La differenza tra “Concordato” con una religione e “Intese” con tutte le altre è abissale.

(8) A proposito di “illusioni”, non sono forse gli Stati capitalistici che alimentano la convinzione di poter vivere al di sopra delle proprie effettive risorse? Di poter pagare qualunque cosa se il costo viene rateizzato? O che si può sempre vincere in una lotteria milionaria per superare la propria precarietà? Dogmi e superstizioni possono riguardare tranquillamente tanto le religioni quanto il laicismo.

(9) Ufficialmente le monarchie teocratiche risultano essere oggi quella vaticana e quella del Monte Athos in Grecia, ma in Iran la repubblica è ierocratica, gestita dal clero islamico; e in Arabia Saudita i non musulmani non possono ottenere la cittadinanza saudita e la pratica religiosa privata non è definita legalmente; nel Regno Unito non può esserci un sovrano che non sia di religione anglicana; in Norvegia fino al 1º gennaio 2017 il luteranesimo era la religione di stato; in Israele il Gran Rabbinato è in grado di legiferare autonomamente su molte materie etico-religiose, senza che lo Stato possa dire alcunché.

(10) Da notare che sotto la denominazione di “socialismo imborghesito” è possibile farci stare sia la socialdemocrazia occidentale, che è socialista a parole e borghese nei fatti, sia il socialismo burocratico e autoritario, tipico, almeno sino al crollo degli anni Novanta, dei paesi est-europei, ma anche asiatici. Il cosiddetto “socialismo reale” era una forma di dittatura ideologica da parte di una casta di intellettuali, analogamente al giacobinismo della rivoluzione francese. La disumanità della socialdemocrazia borghese era evidente là dove si accettava l’imperialismo occidentale, cioè lo sfruttamento dei popoli coloniali. Quella invece del cosiddetto “socialismo amministrato dall’alto” era evidente là dove lo Stato e il governo in carica impedivano alla società civile ogni forma di libertà di pensiero e di parola.

Fonti

Luca Ozzano, Fondamentalismo e democrazia, ed. Il Mulino, Bologna 2009

Gabriel A. Almond, R. Scott Appleby, Emmanuel Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, ed. Il Mulino, Bologna 2006

Enzo Pace – Renzo Guolo, I fondamentalismi, ed. Laterza, Roma-Bari 2002

Gilles Kepel, La rivincita di Dio, ed. Rizzoli, Milano 1991

I rischi del credere

Qualunque credenza religiosa comporta sempre il rischio che, al cospetto di un’esigenza di liberazione nei confronti di contraddizioni insostenibili, il soggetto assuma atteggiamenti nocivi o controproducenti al raggiungimento di uno scopo comune.

Il credente, infatti, oscilla sempre tra due atteggiamenti opposti: l’ingenuità e il fanatismo, che spesso portano a medesime conseguenze, anche del tutto involontarie.

L’ingenuità sta nel fatto che il soggetto crede in entità astratte, ritenute onnipotenti sotto ogni aspetto, per cui può essere facilmente raggirato o tratto in inganno. Può infatti diventare fanatico quando gli si chiede di compiere determinate azioni, in virtù delle quali gli viene fatto credere d’essere molto più in linea con la volontà divina.

In genere è abbastanza facile riconoscere credenti del genere, poiché sono quelli che antepongono le idee ai fatti, che privilegiano l’ideologia alla politica, che subordinano la soddisfazione dei bisogni al rispetto dei precetti religiosi, che praticano discriminazioni di vario tipo: fede religiosa, genere sessuale, provenienza geografica, lingua parlata e cose analoghe.

Con questo ovviamente non si vuole sostenere che per realizzare una liberazione nazionale o una qualche forma d’insurrezione non debbano esserci dei martiri. Semplicemente non dovrebbero esserci dei martiri influenzati dalle idee estremistiche di qualche intellettuale.

Si può morire per una giusta causa, ma a condizione che questa sia “popolare”, cioè condivisa da ampi strati della popolazione. Quando si lotta per una giusta causa, non si può venir meno ai princìpi della democrazia o ai valori umani universali.

Una minoranza non può imporre le sue regole di vita, i suoi punti di vista alla maggioranza. Non si possono fare rivoluzioni o insurrezioni o moti popolari senza il consenso di ampi strati di cittadini e di lavoratori, senza dibattiti pubblici, senza confronto alla pari con chiunque voglia impegnarsi in progetti del genere.

La persuasione ragionata è la prima arma della democrazia. La seconda è l’autodifesa. Sarebbe assurdo, infatti, rinunciare a difendere le conquiste di un moto eversivo o di una qualche rivendicazione popolare solo perché l’avversario ha scatenato una controffensiva.

Dunque, ci si può fidare dei credenti? Diciamo fino a un certo punto. Quando sono in gioco interessi collettivi, che coinvolgono credenti di varie religioni e anche non credenti, sarebbe bene non affidare ad alcun credente delle responsabilità direttive o strategiche, proprio perché qualunque credente è una persona potenzialmente inaffidabile.

Non è infatti possibile sapere fino a che punto egli s’impegni, come cittadino, a favore della democrazia in sé o non piuttosto per ottenere dei privilegi proprio in quanto credente. D’altra parte non si può indurlo a compiere determinate azioni facendo leva sulla sua fede religiosa, poiché ciò implicherebbe una strumentalizzazione delle sue convinzioni. Neppure è possibile farlo agire come se tali convinzioni non le avesse (chi avrebbe il coraggio d’imporre a un ebreo o a un islamico di mangiare carne di maiale?), e tanto meno è possibile rinunciare alla sua disponibilità a lottare per il bene comune solo perché ha determinate convinzioni.

Bisogna sapere trovare un punto d’incontro che soddisfi l’obiettivo comune della liberazione dagli antagonismi sociali. Di regola, al cospetto di obiettivi del genere, si chiede ai partecipanti d’impegnarsi a prescindere dall’atteggiamento che si può avere in campo religioso, ma è evidente che i credenti, proprio perché tali, non mancheranno di far valere, quando lo riterranno opportuno, la loro diversità. Ecco perché non ci si può fidare ciecamente di loro.

Tuttavia bisogna fare attenzione a non ostacolarli per motivi di opinione e a non offenderli nei loro sentimenti, cioè a non creare, da parte degli organi di potere, degli inutili martiri. Se c’è una cosa, infatti, che induce a credere ancora di più nella verità delle proprie idee, è vedere che per queste stesse idee qualcuno è disposto ad accettare qualunque persecuzione.

Le regole generali, democratiche, da far valere nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle religioni dovrebbero essere le seguenti: 1) la religione dev’essere dichiarata un affare privato (della coscienza), senza ch’essa possa aspirare a pretese di tipo politico o nazionalistico; 2) ognuno dev’essere lasciato libero di professare qualsiasi religione o di non riconoscerne alcuna, cioè di essere ateo o agnostico; 3) è inammissibile tollerare delle differenze sostanziali nei diritti dei cittadini motivate da credenze religiose, ovvero ci si può opporre a determinati comportamenti o leggi degli organi di potere se viene violata la libertà di coscienza, che è un diritto riguardante chiunque, credente o non credente che sia; 4) un partito politico può anche fare propaganda a favore dell’ateismo senza per questo violare la libertà di coscienza di nessuno; anche le chiese o le associazioni religiose possono fare propaganda delle loro idee; 5) sono possibili alleanze fra credenti e atei sulla base di piattaforme politico-programmatiche che nulla hanno a che vedere né con l’ateismo né con la religione; 6) se un credente accetta la linea politi­ca di un partito aconfessionale, deve poi preoccuparsi da solo di risolvere le sue in­coerenze sul piano ideologico: dal partito avrà soltanto l’assicurazione che non verrà discriminato per la sua diversa ideologia; 7) si può ammettere all’interno di un partito la libertà di opinione, ma entro i limiti fissati dalla libertà di associazione: non possono essere ammessi predicatori attivi di concezioni respinte dalla maggioranza del parti­to.

 

Si può davvero scegliere tra Galilei e Bellarmino?

La diatriba tra lo scienziato Galilei e il cardinale Bellarmino era sin dall’inizio impostata male. Basteranno alcune considerazioni per convincersene.

Che la Bibbia non potesse dir nulla sulla verità razionale degli esperimenti scientifici, laboratoriali, di Galilei, appare oggi pacifico. Solo una concezione integralistica della fede religiosa, che fa della teologia un’imposizione politico-istituzionale, cui un’intera società deve attenersi, poteva sostenere il primato “scientifico” della Bibbia su discipline come la matematica, la fisica e l’astronomia.

Una diatriba del genere non avrebbe mai potuto esserci là dove la Chiesa non pretende di avere un ruolo politico. Senza un tale ruolo, infatti, non si ha neppure la pretesa di egemonizzare la cultura e la scienza. Sotto questo aspetto Galilei avrebbe potuto avere seri problemi anche se avesse avuto a che fare non con la Chiesa romana, profondamente controriformistica, ma semplicemente con uno Stato confessionale (cattolico o protestante che fosse), ivi incluso quello ideologico e ateistico del regime staliniano.

Idee scientifiche così innovative come le sue e, per molti aspetti, chiaramente favorevoli a una visione laica della vita, potevano trovare, a quel tempo, ampi consensi solo se la borghesia si poneva il compito di difenderle. Cosa niente affatto scontata. Copernico, ad es., diede alle stampe le sue analisi rivoluzionarie solo poco prima di morire. E nessun testo degli scienziati del XVII e XVIII secolo mette in dubbio l’esistenza di dio. Tutti hanno paura di spiacevoli conseguenze per la loro carriera e persino per la loro incolumità, siano essi cattolici o protestanti.

È noto che Lutero, Melantone e Calvino giudicarono assai negativamente le idee di Copernico: non accettarono neppure la riforma gregoriana del calendario (che tra l’altro si basava proprio sui suoi calcoli matematici). Se gli scienziati dell’Europa protestante ebbero maggiore libertà d’azione, fu solo perché qui la borghesia era notevolmente più sviluppata, come lo era stata quella italiana prima del Concilio di Trento. Questo per dire che se anche la Chiesa romana si fosse astenuta dal criticare le idee scientifiche di Galilei e Copernico, rinunciando ad avvalersi della propria autorità politica, non avrebbe comunque potuto esimersi dal criticare le conseguenze laicistiche di quelle teorie.

Tuttavia è proprio su questo punto, relativo alla critica del laicismo implicito in quelle teorie scientifiche, che l’azione della Chiesa romana si è rivelata del tutto inadeguata. Cosa, d’altra parte, naturale quando si vuole sostenere una visione altamente ideologica della vita, la quale, peraltro, non permette neppure di capire sino in fondo le implicazioni di teorie opposte a quelle dominanti.

Da un lato infatti la Chiesa era tutta preoccupata di dimostrare che la Bibbia non poteva essere letta, là dove si voleva, avvalendosi di allegorie o metafore, poiché così si sarebbe potuta facilmente sostenere una qualunque interpretazione. Dall’altro però non riusciva a capire che la concezione della natura che aveva Galilei era pericolosa non tanto perché vicina all’ateismo, quanto perché profondamente “borghese”, cioè connessa a una concezione della vita e dei rapporti con la natura tutt’altro che democratica.

Galilei amava fare scienza secondo un preciso scopo, ch’era quello di tutti gli scienziati dell’epoca: dominare la natura. Secondo lui la scienza doveva essere posta al servizio delle esigenze di dominio di una classe sociale particolare. La Chiesa romana non lo contesta mai su questo aspetto, né vede che quelle teorie possono diventare pericolose per l’integrità della natura, per il rispetto dell’ambiente. Lo contesta semplicemente per il fatto ch’egli vuole sostenere delle idee contrarie a quelle dominanti.

In altre parole la Chiesa, come istituzione avente un determinato potere politico, teme che se la società si convince che quelle teorie scientifiche, così diverse da quelle ufficiali della teologia, risultano essere più credibili, allora è il suo stesso potere istituzionale che rischia d’essere minacciato. Bellarmino critica ideologicamente Galilei perché in realtà si sente rappresentante di una Chiesa preposta a gestire un potere politico. Più volte infatti aveva sostenuto che l’Inquisizione non avrebbe avuto nulla da eccepire se gli scienziati si fossero limitati a dire che le loro teorie erano semplici ipotesi interpretative, prive di qualunque attendibilità: cosa che sul piano fisico-matematico era quanto meno una richiesta irricevibile.

Su questi temi si potrebbero scrivere interi trattati, sia perché quando si sostiene (e gli scienziati lo facevano) che tra fede e scienza non vi è contraddizione, in quanto sono separati i loro ambiti e diversi i loro obiettivi, si sta in realtà sostenendo una posizione ambigua, di compromesso, che è poi chiaramente falsa, poiché uno sviluppo della scienza è sempre incompatibile con una posizione religiosa (almeno con una teologia tradizionale, chiaramente definita). Ma anche perché lo sviluppo “borghese” della scienza è straordinariamente somigliante a quello della religione cattolica e protestante (la prima sul piano politico-istituzionale, la seconda su quello socio-economico); nel senso che sia la teologia che la scienza hanno sempre avuto la concezione dell’uomo come “dominatore” della realtà, libero di usare gli strumenti più opportuni (quindi anche quelli più arbitrari) per affermarsi.

In Bacone (al servizio dei Tudor, una dinastia particolarmente sostenuta dalla borghesia inglese) è evidentissima l’equazione di scienza e potere. Né l’una né l’altro, nella sua filosofia, possono essere dati dai sillogismi della logica aristotelica o dalle magie e astrologie dell’Umanesimo del Quattrocento, ma solo dalla matematica e dalle scienze naturali con cui si scoprono le leggi della materia.

Ecco, sotto questo aspetto la differenza tra teologia cristiana (cattolica o protestante) e scienza borghese verteva soltanto sui mezzi o sugli strumenti da usare. Gli scienziati del Seicento portano alle più logiche conseguenze le filosofie laico-umanistiche sviluppatesi nei secoli precedenti, le quali, a loro volta, non avevano fatto altro che laicizzare ulteriormente le posizioni dell’ultima Scolastica, soprattutto di quella francescana presente in Inghilterra, chiaramente favorevole al sensismo e all’empirismo.

Questo sviluppo “borghese” della scienza è potuto avvenire in Europa occidentale proprio perché qui era maturata una teologia che di “umano” aveva assai poco: sia perché non conosceva in alcun modo il senso della “democrazia” (che si ritrova a quel tempo nello spirito conciliare della chiesa ortodossa), sia perché il rispetto della natura non era intrinseco alla teologia cattolica ma semplicemente relativo al fatto che ancora non si era compiuta la rivoluzione industriale.

A partire da Copernico (che peraltro era un ecclesiastico!) la scienza borghese non si poneva affatto (nonostante si pensasse il contrario) come un’alternativa alla teologia fondamentalista della Chiesa romana, ma si poneva come la sua immagine speculare, privata semplicemente di quegli orpelli mistici che il tempo aveva reso obsoleti. Tant’è che gli stessi scienziati erano così affascinati dalle loro scoperte che non tardarono a fare della nuova scienza una nuova “religione”. Il fatto stesso di voler tradurre tutta la realtà in rapporti matematici, lo dimostra; e anche il fatto di voler trascurare la qualità delle cose a tutto vantaggio della quantità.

Tutti, nessuno escluso, sono convinti che la nuova scienza debba servire per “dominare” la natura; e, pur di realizzare questo obiettivo, compiono cose che oggi giudichiamo eticamente discutibili, come ad es. il fatto di riprodurre in laboratorio condizioni ambientali private di tutte quelle imperfezioni, eccezioni, incongruenze… che nella realtà quotidiana sono del tutto naturali e che generalmente si accettano come facenti parte di una vita normale, in cui le contraddizioni vengono giudicate inevitabili.

La scienza da laboratorio, quella tipica di Galilei, pretendeva (e lo pretende ancora oggi) d’essere “pura”, aliena da condizionamenti socio-ambientali. Invece di chiedersi come superare “scientificamente” le contraddizioni sociali, la scienza borghese si poneva al servizio di quella classe che, in mezzo a quelle contraddizioni, ambiva soltanto a cercare un’affermazione personale, esclusiva, ch’era sì ostile ai poteri dominanti, ma soltanto per ottenere un proprio spazio nell’ambito di quegli stessi poteri. Per questa scienza non contava più chiedersi il “perché” delle cose ma solo il “come”. L’essenza stessa dei fenomeni veniva ridotta a un’operazione di calcolo. Si voleva far credere che un approccio alla realtà di tipo matematico potesse essere esente da valutazioni ideologiche, e quindi condivisibile da chiunque.

Questa scienza fisica e astronomica rappresenta le premesse culturali di quella scienza che di lì a poco sarebbe stata l’economia politica classica. Si vuol fare della scienza un qualcosa di asettico, di neutrale, indipendente da ogni valutazione etica (che quella volta coincideva con la religione); e, così facendo, si pongono le basi per una qualsivoglia scoperta o invenzione, privando la scienza di un criterio che possa stabilire quando una ricerca è “sensata” (cioè a misura d’uomo) oppure no.

La scienza borghese è tutto meno che scientifica, proprio in quanto rifiuta di confrontarsi con l’etica. Infatti solo a posteriori, dopo che sono avvenuti immani disastri, la borghesia si chiede come porvi rimedio. Un criterio per stabilire i limiti della ricerca viene rifiutato categoricamente, come se la scienza fosse un dio da adorare in maniera indiscutibile. Infatti quando avvengono i disastri (che oggi sono sempre più di carattere internazionale), non si mette mai in discussione la scienza in sé, ma solo il metodo con cui la si è applicata. Si pensa cioè di poter risolvere i suoi difetti semplicemente rendendo gli uomini migliori, più umani, e non si pone mai all’ordine del giorno il problema di come rivedere i criteri con cui si fa “scienza”.

E così, come sempre accade, gli uomini, eticamente migliorati per necessità oggettive, determinate dalle varie devastazioni, si trovano nuovamente a gestire dei criteri e dei mezzi tecnologici per i quali la loro eticità continua a rivelarsi del tutto insufficiente. Tant’è che dopo un certo periodo di tempo avvengono nuovi disastri, nuove apocalissi, in una spirale senza fine. Guarite le ferite, si torna a combattere una battaglia persa in partenza. Andando avanti di questo passo si rischia soltanto di porre delle condizioni sempre più autodistruttive, per le quali sarà impossibile trovare dei rimedi efficaci alle nostre assurde pretese di dominio.

La chiesa e lo sviluppo del pensiero scientifico

La scienza moderna, nata nel XVII secolo, non va contestata perché contraria alla religione, ma perché contraria all’etica. Qualcuno potrà dire che, a quel tempo, religione e morale coincidevano, in quanto era la chiesa a dire come ci si doveva comportare in ogni situazione della vita, e quindi anche in campo scientifico. E tuttavia l’etica della chiesa, essendo appunto “religiosa”, non poteva essere laica, cioè aperta a soluzioni non dogmatiche.

Anche questa però può essere un’affermazione molto discutibile, in quanto l’etica religiosa della chiesa romana conteneva molti aspetti di laicità, sin dalla riscoperta accademica dell’aristotelismo, che si poneva in antitesi alla tradizione platonico-agostiniana. Possiamo addirittura dire che il progresso verso il pensiero scientifico fu proprio una conseguenza, indiretta o involontaria, di quella distinzione che gli Scolastici cominciarono a fare tra funzioni della fede e funzioni della ragione. A forza di distinguere le due facoltà umane si arrivò, ad un certo punto, a dire con la ragione cose molto diverse da quelle che per tradizione o secondo autorità si dicevano con la fede.

E la rottura fu inevitabile, non solo con Galilei, messo agli arresti domiciliari e obbligato all’abiura, ma anche con Machiavelli, le cui opere vennero messe tutte all’Indice, o Giordano Bruno, messo sul rogo, o Campanella, che passò 27 anni in carcere, e tanti altri. La reazione della chiesa fu durissima, poiché, essendo un soggetto eminentemente politico, temeva di perdere il proprio potere temporale. Di conseguenza, invece di considerare l’evoluzione del pensiero scientifico come necessariamente separato o distinto dalla riflessione teologica, lo interpretò come una minaccia alla propria stabilità.

Sbagliò in questo comportamento? Se si accetta l’idea che una chiesa debba fare politica, certamente no. Ma la cosa sarebbe da discutere anche solo dal punto di vista etico. Infatti è sotto gli occhi di tutti che la scienza cosiddetta “sperimentale” o “induttiva”, nata con Bacone e Galilei, ha prodotto, a distanza di quattro secoli, immani disastri ambientali. E continua a farlo imperterrita, nonostante gli allarmi degli ecologisti.

Ovviamente le autorità ecclesiastiche non si opponevano ai princìpi della scienza sulla base di una salvaguardia della natura. E tuttavia ci si può chiedere se una difesa dei valori squisitamente religiosi avrebbe potuto in qualche modo favorire un maggior rispetto dell’ambiente.

Qui però bisognerebbe aprire una parentesi, ponendo in discussione il concetto stesso di “valori religiosi”, poiché, guardando quelli professati dal papato, vien da pensare che fossero più che altro dei valori politici rivestiti da un’ideologia di tipo religioso. Anzi, ci si può addirittura chiedere se non fosse stata proprio questa fondamentale incoerenza a favorire, nella classe borghese, l’esigenza di uno sviluppo del pensiero scientifico del tutto autonomo dalla fede, il quale, dando più peso alla ragione, voleva porsi in maniera più coerente. In tal senso dovremmo dire che, condannando la scienza, la chiesa romana, in realtà, stava condannando se stessa, o comunque stava condannando un prodotto inevitabile di un proprio comportamento che di “religioso” aveva assai poco.

Problematiche del genere non si ponevano neppure nel Seicento. Tuttavia era forte la consapevolezza negli scienziati di voler “dominare” la natura, cioè di voler conoscere le sue leggi per meglio permettere alla borghesia di sfruttarla. Le scoperte scientifiche venivano incontro alle esigenze di una classe emergente, quella appunto borghese, che, a partire dalla nascita dei Comuni, aveva cominciato a farsi strada in Europa occidentale, e che, a partire dalla scoperta dell’America, aveva cominciato a dominare dei territori extraeuropei, e che, a partire dalla formazione delle monarchie assolutistiche, aveva cominciato a ridimensionare i poteri dell’aristocrazia, laica ed ecclesiastica.

Le suddette problematiche, quindi, non si ponevano non tanto o non solo perché non si aveva alcuna consapevolezza ambientale, quanto perché i poteri che si contrapponevano erano entrambi autoritari: quello ecclesiastico perché di tipo feudale, quello borghese perché di tipo capitalistico. La chiesa subordinava la natura a una concezione religiosa favorevole alla teocrazia; la borghesia subordinava la natura alle esigenze del profitto economico.

Quindi tra chiesa romana e scienziati la contrapposizione era molto relativa, in quanto, in definitiva, essi rappresentavano le due facce di una stessa medaglia. Nessuno dei due contendenti stava difendendo un’etica davvero democratica e umanistica, e tanto meno un’etica ambientalistica.

È vero che la chiesa non parlava di “dominare” la natura (nel Genesi l’Eden andava “custodito”), ma è anche vero che non le riconosceva alcuna autonomia: la natura veniva considerata un semplice strumento che dio metteva a disposizione dell’uomo e che, in ultima istanza avrebbe sempre potuto riprendersi (p.es. nei confronti dell’idea di “fine del mondo” era implicito che dio si sarebbe servito di imponenti fenomeni naturali).

Tra dio, natura e uomo vi era lo stesso rapporto che il mondo feudale esprimeva tra sovrano, terra (o feudo) e vassallo. Il feudo non veniva dato in “proprietà” (anche se, a partire dall’877, per i grandi vassalli, cominciò a esserlo), ma solo in “usufrutto”, e in teoria poteva essere revocato in qualunque momento. Il fatto che i vassalli insistessero per averlo in proprietà (e nel 1037 vi riuscirono tutti), sta proprio a indicare che nel feudalesimo dell’Europa occidentale le esigenze di tipo individualistico sono sempre state molto forti.

Questo per dire che se in epoca feudale la chiesa si trovò a essere meno invasiva nei confronti della natura, fu solo perché disponeva di mezzi tecnologici di molto inferiori a quelli che si diede la classe borghese. Da un lato quindi la chiesa romana considerava la natura uno strumento nelle mani di dio (al pari del tempo (1)); dall’altro però non si sarebbe fatta scrupolo di sottomettere la natura alle esigenze umane di dominio, o comunque non sarebbe stata capace di trovare nella propria ideologia valide motivazioni per impedirlo (né le trova oggi: basta vedere come inquina l’ambiente con le onde elettromagnetiche di Radio Vaticana).

Quando la chiesa si opponeva allo sviluppo scientifico, non era tanto per tutelare le esigenze riproduttive della natura, quanto piuttosto perché in quello sviluppo scorgeva degli aspetti che mettevano in discussione le fondamenta del proprio potere politico. Se la propria autorità politica si basa anche sul fatto che tutti devono credere nel geocentrismo, è evidente che se qualcuno parla di eliocentrismo, fosse anche un esponente del clero in tutta la sua buona fede (come lo fu p.es. Copernico), non è possibile non sospettarlo di “eresia”.

Al papato ci sono voluti 400 anni prima di ammettere che nei confronti di Galilei ci si era sbagliati. Tuttavia Wojtyla, facendolo, non si era reso conto che contro quella scienza antiecologica è invece venuto il momento di dire qualcosa che sia davvero umanistico e naturalistico. Paradossalmente quindi la chiesa romana nei confronti di Galilei ha sbagliato due volte.

Nota

(1) Il tempo era considerato uno strumento nelle mani di dio, al punto che si vietava il prestito a interesse, anche se poi, con la nascita dei comuni, la teologia scolastica cominciò a tollerarlo a condizione che l’interesse non fosse eccessivo. Dopodiché la chiesa fu costretta a inventarsi i monti di pietà per venire incontro alle esigenze di quei cristiani che non erano in grado di pagare eccessivi interessi. La storia dell’usura, sotto questo aspetto, sembra anticipare quello che sarebbe avvenuto nell’evoluzione del pensiero scientifico.

Guerra e religioni

I credenti, di qualsivoglia religione, possono compiere guerre in nome del loro dio? Una domanda del genere è mal posta, per almeno una ragione: la guerra in sé non è un male; lo è solo quando è offensiva; chi rifiuta una guerra difensiva è solo un codardo e, in definitiva, fa gli interessi del nemico.

Semmai ci si dovrebbe chiedere cosa si è fatto per impedirla. Il detto latino, si vis pacem para bellum, guerrafondaio per definizione, andrebbe rovesciato, nisi bellum vis para pacem (“se non vuoi la guerra, prepara la pace”). Una guerra difensiva ha sempre una ragione in più, anzi ha l’unica ragione possibile, anche se chi la fa non è un campione di democrazia. Lo zarismo, p. es., vinse giustamente le truppe napoleoniche, e lo stalinismo quelle hitleriane, e il Vietnam quelle americane, e via discorrendo.

Ancora oggi vediamo, nel mondo islamico, che alcune sue componenti scatenano stragi, eccidi, persecuzioni in nome del fatto che hanno un dio diverso da far valere o un modo diverso di vivere precetti religiosi più o meno simili.

Questa cosa non si verifica solo nel mondo islamico, ma anche là dove esistono Stati confessionali o pluriconfessionali. È sufficiente infatti che nelle compagini governative vi siano elementi del clero o che uno Stato abbia un rapporto privilegiato con una determinata confessione, o che un capo di Stato o un primo ministro, pur essendo un laico sul piano dello status civile, chieda una “benedizione divina” per il buon esito di un conflitto bellico appena fatto scoppiare, ed ecco che il rischio del fanatismo fa capolino. Rischi del genere si corrono anche coi cosiddetti “Stati laici e a-confessionali”; figuriamoci con tutti gli altri.

Ormai sembra essere diventata l’idea stessa di “Stato” a non garantire più nulla di democratico. La democrazia è diventata una lotta quotidiana del cittadino comune, al punto che la pretesa di garantirla, da parte di uno Stato, sembra equivalere, tout court, a una sua violazione.

Laddove esistono società basate sugli antagonismi sociali, è facile diventare “talebani”, anche senza richiamarsi a una religione specifica o a una modalità particolare di vivere i suoi dogmi. Non solo quindi è la religione in sé che si presta facilmente alle strumentalizzazioni del potere politico ed economico, ma vi si prestano anche tutte quelle culture o quei valori di tipo “fondamentalistico”, che sono “laici” solo all’apparenza.

Chiunque sia convinto d’avere la verità in tasca, sia egli credente o meno, non potrà certo essere favorevole alla democrazia politica o all’eguaglianza sociale o al rispetto dei valori umani universali. Laicità vuol dire non avere alcuna idea che possa interferire con la necessità di soddisfare bisogni indispensabili alla sopravvivenza del genere umano.

Indubbiamente oggi usare la religione per cercare d’imporre la propria volontà, fa parte d’un retaggio medievale. Ma è anche vero che chi lo fa, si trova a essere privo di altri strumenti culturali, è ideologicamente immaturo, appunto perché proviene da ambienti disagiati, dove le contraddizioni sono molto evidenti. Chi soffre si esprime come può quando decide di lottare.

Una persona di vedute aperte dovrebbe cercare di andare oltre certi modi di esprimersi, per capire quali situazioni di disagio materiale vi stanno dietro. E, in tal senso, fomentare scontri di civiltà – come fece p. es. l’ultima Oriana Fallaci -, opponendo un “credo” a un altro, non fa che aumentare le distanze. Laicità vuol dire abbassare i reciproci ponti levatoi, uscire disarmati dai propri castelli e riempire insieme i reciproci fossati con della terra comune, che possa servire a far pascolare le rispettive idee. In Italia vi sono stati addirittura degli alti prelati che, preoccupati per un massiccio afflusso di immigrati islamici, chiedevano di favorire solo quelli chiaramente “cristiani”!

Se guardiamo alla storia della chiesa cattolico-romana, dobbiamo dire che, dopo la svolta costantiniana e soprattutto teodosiana, che fece diventare il cristianesimo l’unica religione lecita, non c’è stato un momento in cui il papato o comunque il clero o gli esponenti laici più intolleranti di questa confessione, non abbiano usato motivazioni religiose per giustificare persecuzioni, eccidi e guerre d’ogni genere. L’elenco è così lungo che ci vorrebbero dei libri: in tal senso ci si può limitare a quelli di K. Deschner, Il gallo cantò ancora (Massari ed.) e di W. Peruzzi (scomparso di recente), Il cattolicesimo reale (Odradek ed.), vere “bibbie” sull’intolleranza cattolica.

La politica della non-credenza

Non può essere considerato casuale che nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo non si sia mai messo in discussione il concetto di “dio”. Da un lato i teologi cristiani avevano la pretesa di poter costituire una netta alternativa a tutte le religioni politeistiche (così succubi, peraltro, ai diktat degli Stati imperiali); dall’altro però si rendevano conto di non poter superare un limite invalicabile, il concetto appunto di “dio”, oltre il quale non è possibile alcuna religione.

In mezzo a questo atteggiamento ambiguo ve n’era un altro: quello di credere sufficiente, ai fini del riscatto sociale degli oppressi, il passaggio da un’idea religiosa a un’altra. Sotto questo aspetto è giustissimo sostenere che il cristianesimo è sorto dal fallimento dell’esperienza politica del movimento nazareno: è stato proprio quel fallimento a indurre i successori del Cristo a reintrodurre il concetto di “dio”, eliminando definitivamente qualunque obiettivo rivoluzionario. L’unica rivoluzione possibile doveva avvenire soltanto a livello sovrastrutturale, passando appunto da un’idea religiosa a un’altra.

E in parte vi si riuscì, in quanto il cristianesimo seppe introdurre alcuni concetti che il paganesimo non poteva ammettere e che, per certi versi, non era neppure in grado di pensare. Per esempio l’idea che, avendo il credente una “coscienza libera” e una propria “fede religiosa”, l’adesione alle leggi dello Stato e alle direttive degli imperatori poteva essere data solo vincolandola al rispetto di una certa libertà personale. I cristiani cioè si sentivano liberi di non credere nella presunta divinità degli imperatori e neppure nel valore di alcun culto pagano (di qui l’accusa che veniva loro mossa d’essere atei).

Essi erano disposti a farsi ammazzare pur di non tradire i loro princìpi. E lo Stato romano, confermando il proprio lato “confessionale” in campo religioso, si sentì indotto a perseguitarli per ben tre secoli, con la compiacenza dei sacerdoti e dei seguaci del paganesimo.

L’altra idea sconosciuta al politeismo, o comunque poco praticata, era l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a dio, ovvero il diritto, per chiunque, a una retribuzione ultraterrena (il premio del paradiso) in rapporto alla professione di fede manifestata sulla Terra. Non si finiva più tutti nell’Ade; l’immortalità e la beatitudine non erano più garantiti soltanto agli dèi; le classi superiori, proprio per i poteri di cui disponevano, dovevano sentirsi a rischio circa il loro destino nell’oltretomba cristianizzato; i cristiani non avrebbero fatto nulla per difendere le istituzioni dagli attacchi dei nemici esterni, quando loro stessi si sentivano considerati dei “nemici interni” dalle proprie istituzioni.

Insomma il cristianesimo, grazie naturalmente all’influenza dell’ebraismo (seppur nella forma mistica del paolinismo), presentava un aspetto di politicizzazione che il paganesimo non aveva mai avuto, se non nella forma, vagamente eversiva, del dionisismo.

Il destino poi ha voluto che, a partire dal momento in cui gli imperatori smisero di perseguitare i cristiani, le parti in qualche modo si rovesciassero. Invece di affermare uno Stato laico, indifferente a tutte le religioni, si preferì un nuovo Stato confessionale, questa volta cristiano, ostile a tutti gli altri culti. Erano gli imperatori stessi che lo esigevano: tutte le dittature hanno sempre bisogno di una religione di stato.

E a ciò i cristiani non si sono affatto opposti, o comunque la loro opposizione (tipica nelle correnti ereticali) non è risultata decisiva. Per tutto il Medioevo l’unica differenza, all’interno della cristianità europea, è stata quella tra una Chiesa di stato (slavo-bizantina) e uno Stato della chiesa (cattolico-romano).

Oggi il ruolo ottenuto dal cristianesimo nei confronti del paganesimo, lo svolge l’ateismo nei confronti del cristianesimo. Gli atei sono odiati dai credenti perché hanno abolito il concetto di “dio”, facendo indubbiamente progredire la storia del pensiero umano. Un progresso che però ci riporta alle concezioni di vita che aveva l’uomo preistorico, troppo legato al mondo naturale per potersi dare dei concetti astratti di divinità, meno che mai quando questi concetti servono per giustificare discriminazioni di casta o di classe.

Una differenza però l’abbiamo rispetto all’uomo preistorico: oggi l’ateismo è più che altro connesso a un prodigioso sviluppo tecnico-scientifico urbanizzato (nettamente anti-naturalistico), che induce a credere in una certa onnipotenza dell’essere umano, non più bisognoso della provvidenza divina. Oggi siamo così indifferenti alla religione che ci comportiamo da non-credenti anche quando non facciamo alcuna professione di ateismo. Anzi, chi la fa, ci appare come una sorta di fanatico alla rovescia. Più che verso l’ateismo, le nostre simpatie vanno verso l’agnosticismo, che è quella totale indifferenza verso le questioni religiose, che però non arriva a fare della non-credenza una bandiera politica o l’occasione per una battaglia culturale.

Ed è un errore, almeno in Italia. Qui infatti non si ha a che fare con uno Stato laico che garantisce a tutti, laici e credenti, il rispetto delle loro convinzioni, ma con uno Stato confessionale, sancito dall’art. 7 della Costituzione, che considera il cattolicesimo una religione privilegiata rispetto alle altre.

Indubbiamente oggi non siamo così sprovveduti da credere possibile un riscatto degli oppressi limitandoci a realizzare una transizione dalla religione all’ateismo. Però è fuor di dubbio che fino a quando una religione ambisce a porsi in maniera politica, la lotta della non-credenza non può che assumere una veste politicizzata. Se gli atei e gli agnostici avessero uno Stato laico, potrebbero limitarsi a considerare il cattolicesimo-romano come un semplice fenomeno storico-culturale. Invece così diventa tutto più difficile.

Che cos’è il diritto laico?

Quando si parla di “diritto laico” s’intendono, generalmente, due cose: la libertà di coscienza e il regime di separazione tra chiesa e Stato. Là dove manca anche uno solo dei due elementi, è impossibile parlare di “diritto laico”, se non in maniera molto approssimativa.

Una piena libertà di coscienza non è mai esistita in Europa occidentale, almeno da quando esistono le civiltà basate sugli antagonismi sociali. Infatti quando una minoranza comanda una larga maggioranza, o quando il potere statuale domina la società civile, la concessione di una piena libertà di coscienza fa sempre paura. Non a caso essa è stata negata ai cristiani per i primi tre secoli della nostra era bimillenaria, e i cristiani l’hanno negata agli altri per i secoli rimanenti.

Per avere la libertà di credere in una confessione cristiana diversa da quella cattolico-romana s’è dovuta attendere la fine della Guerra dei Trent’anni (1648), e unicamente per dire, col principio cuius regio eius religio, che i sudditi dovevano conformarsi alla religione del loro principe (cattolico o protestante che fosse) oppure emigrare.

Quindi c’era poco di cui gloriarsi. Le rivoluzioni borghesi (olandese, inglese e francese) han sempre fatto molta fatica a concedere la libertà di coscienza. I protestanti olandesi e gli anglicani inglesi la negavano ai cattolici, impedendo loro di accedere alle cariche più prestigiose del potere politico, militare o giudiziario.

Spesso si sente dire che l’Olanda protestante concedeva la libertà di coscienza a qualunque perseguitato per motivi di religione. Eppure si dovette aspettare la rivoluzione liberale del 1848 prima di veder soppressa la religione di stato e trasformate le confessioni religiose in associazioni di diritto privato.

Quanto ai rivoluzionari francesi, il massimo che riuscirono a fare, con Robespierre, fu quello di sostituire tutti i culti religiosi col culto filosofico, organizzato dallo Stato, della dea Ragione. L’anticlericalismo dei giacobini fu esasperante, specie quando vollero imporre la scristianizzazione con la forza.

D’altra parte la rivoluzione americana non era stata migliore: il presidente doveva giurare sulla Bibbia e persino sulle banconote doveva essere scritto (e lo è ancora oggi) “In God we trust”. Il presidente americano è sempre stato considerato una sorta di “papa laico”, seguace di una delle tante fedi religiose di quel paese, generalmente di tipo protestantico.

Nessun paese cristiano o ebraico o islamico ha mai concesso la piena libertà di coscienza, e se l’ha fatto – spinto dalle pressioni popolari -, al massimo ha tutelato la libertà di credere in una qualche fede monoteistica, certamente non quella di non credere in alcuna religione.

Il primo Stato che ha equiparato giuridicamente la fede all’ateismo, cercando di legittimare entrambe le scelte, è stato quello russo l’indomani della rivoluzione d’ottobre. La quale, non a caso, aveva proclamato il regime di separazione dello Stato da tutte le chiese, dicendo ai credenti di opporsi, se del caso, alle leggi civili o alla loro applicazione in quanto “cittadini”, non in quanto “credenti”.

Ma già sotto Stalin s’iniziò a fare dell’ateismo una sorta di “religione laica di Stato”. Lo Stato sovietico, infatti, smettendo d’essere laico, era diventato ideologico, anche se, in maniera ufficiale, solo quello albanese diceva d’essere “ateo”.

La storia dell’Europa occidentale (ivi inclusa la sua parte russa) è passata dunque da un confessionalismo religioso a un confessionalismo ateistico. Di conseguenza non è mai esistito uno Stato davvero laico, cioè “separato” da tutte le chiese, intenzionato non solo a non permettere alcuna ingerenza clericale nei propri affari, ma anche a non esercitarla nei confronti di alcuna chiesa, se non appunto per tutelare la propria laicità.

“Diritto laico” vuol dire che uno deve essere lasciato libero di credere in ciò che vuole, se ciò non è lesivo del diritto altrui di fare altrettanto. Vuol dire rispettare tutte le fedi religiose e, nel contempo, l’assenza di qualunque fede.

Uno Stato è laico soltanto quando tutela la “forma” della libertà di coscienza, non il suo contenuto. Bisogna infatti fare attenzione che uno Stato resta confessionale anche quando, pur dichiarandosi aperto a tutte le religioni, tende a preferire quella maggioritaria o quella considerata nazionale per motivi storici.

I contenuti laici o religiosi devono essere tutelati dai diretti interessati, i quali forse un giorno smetteranno d’aver bisogno di un ente esterno che insegni loro a vivere pacificamente, senza fare delle diversità di opinione, di fede, di credenza un motivo per odiarsi reciprocamente.

Povertà della logica ateistica

Nel numero 5/2013 di “MicroMega”, intitolato Ateo è bello! Carlo Bernardini basa il proprio ateismo “scientifico” su ciò che disse un accademico neopositivista, Richard von Mises: “Non esiste la dimostrazione della non-esistenza di ciò che non esiste”.

Detto da un esponente del Circolo di Berlino (non di Vienna), la cui filosofia aveva apprezzato quella del Trattato di Wittgenstein, fa un po’ specie. Che poi lo ripeta un fisico prestigioso come Bernardini, è increscioso.

È dai tempi del logico Frege, anzi forse da quelli di Hume e Leibniz, che non ci si permette più di dire che, in campo logico, una proposizione è vera se ha una qualche corrispondenza nella realtà. La logica moderna non è come quella aristotelica: non si basa su soggetto e predicato, che devono trovare conferme nella realtà, secondo il famoso sillogismo: “Se tutti gli uomini sono mortali, e Socrate è un uomo, Socrate è mortale”. Cosa che gli Scolastici neo-aristotelici chiamavano “adaequatio rei et intellectus”.

La logica moderna, quella astratta della borghesia, si basa invece sul fatto che anche una proposizione falsa è sensata, cioè un’espressione può essere sensata anche in quanto “logicamente” falsa. L’esempio di Wittgenstein è famoso: “piove o non piove”: anche la negativa è vera e può convivere tranquillamente con l’affermativa, anzi, proprio questa sussistenza permette di creare qualunque tipo di proposizione.

L’informatica si nutre di queste cose, facendo suo l’esempio, in positivo, che Bernardini usa per dimostrare la fondatezza del proprio ateismo: “La dimostrazione dell’esistenza del pane è il pane”. Bella tautologia questa, che, per quanto esistenzialmente povera, Wittgenstein avrebbe però rovesciato immediatamente nel suo contrario, proprio per rendere la logica più stringente: “La dimostrazione dell’esistenza (sottinteso: logica) del non-pane è il non-pane”.

In campo informatico, quando si devono elaborare algoritmi, “pane” e “non-pane” si equivalgono perfettamente. In logica la forma è sostanza. Pertanto dire che dio non esiste perché il credente non può dimostrarne l’esistenza, non ha senso. In campo logico non si deve “dimostrare” alcunché di metafisico, se non una propria interna coerenza formale, che i logici si guardano bene dal contraddire prendendo esempi dalla realtà. E in questo, purtroppo, bisogna dire che sbagliano, poiché la logica della vita, per quanto contraddittoria sia, è sempre più interessante e avvincente della logica formale dei segni e dei simboli.

Non è comunque sul piano della “dimostrazione logica” che l’ateismo può giocare la propria partita con il misticismo. Non è certo con la tautologia del pane che si dimostrano le contraddizioni del pane eucaristico! Infatti non si tratta – diceva Wittgenstein – di “di/mostrare” qualcosa. In campo etico si può soltanto “mostrare” qualcosa, cioè al massimo l’ateo può essere più convincente del credente se “mostra” sul piano etico d’essere migliore di lui. E quando riuscirà a farlo, sul piano etico, che è quello dell’affronto dei bisogni e delle umane contraddizioni, possiamo star tranquilli che sarà migliore anche di quell’ateo che basa il proprio ateismo su affermazioni meramente logiche.

Separare ragione e fede

Ragione e fede devono per forza restare separate, così come la chiesa, anzi le chiese dallo Stato, poiché la fede non può obbligare la ragione a credere in cose indimostrabili. Certo, anche la ragione può credere in cose indimostrabili, ma non deve farlo perché glielo chiede la fede. Semplicemente fa parte della natura umana credervi: che si sia amati dal proprio partner o che l’universo sia eterno e infinito, non può certo essere dimostrato razionalmente, eppure, non per questo, pensiamo d’essere affetti da misticismo.

Il campo della fede dovrebbe essere tutto quello che non si può dimostrare razionalmente e in cui ci si può credere senza alcun obbligo di farlo. E, in tal senso, non dovrebbe essere di pertinenza della sola religione, ma anche dell’etica e della morale laica. Ecco perché una fede politicizzata o una chiesa che voglia svolgere una funzione di supplenza nei confronti dello Stato, sono aspetti del tutto estranei alla democrazia e quindi alla libertà di coscienza.

Con questo non si vuole affatto dire che una società in cui esistesse solo lo Stato e nessuna religione, sarebbe, solo per questo motivo, più democratica. E non si vuol neppur dire che una società deve esistesse solo una fede, sarebbe più antidemocratica di quella in cui esistesse solo la ragione. La democraticità di una società è questione pratica, non teorica, cioè va dimostrata di volta in volta, anche se resta fuor di dubbio che non c’è democrazia là dove manca la libertà di coscienza, che è quella di credere o non credere nel valore di determinate cose, o – se si preferisce – in ciò che si vuol far passare come “vero”.

Ritenere che la verità sia un’evidenza in cui si “deve” (per forza) credere, o per fede o secondo ragione, è una pretesa insensata, poiché non c’è nulla che sia evidente di per sé. Persino il fatto di esistere è relativo, in quanto la morte potrebbe essere solo una trasformazione da una condizione di vita a un’altra.

L’ideale sarebbe che non esistessero affatto le istituzioni, poiché è il concetto stesso di “istituzione” (laica o ecclesiastica che sia) che induce a credere che la verità sia un’evidenza.

Facciamo un esempio molto banale: quello degli incroci stradali, così frequenti nelle città. Un tempo erano i vigili che decidevano quando un automobilista doveva passare. Esercitavano un potere secondo coscienza. Ci si doveva affidare al loro buon senso e alla loro intelligenza. Poi vennero i semafori, per risparmiare sul personale e per non obbligarlo ad ammalarsi d’inquinamento. Ma i semafori sono schematici: hanno una regolamentazione predeterminata una volta per tutte, e non possono tener conto delle reali esigenze del momento. Invece di agevolare il traffico, i semafori lo intasavano, portando lo stress a livelli insostenibili, tanto che, ad un certo punto, furono sostituiti dalle rotonde. Era il trionfo dell’autonomia decisionale. L’automobilista diventava prudente per libera scelta, dovendo rispettare soltanto la regola che chi è già dentro la rotonda ha la precedenza.

Ma perché c’è voluto così tanto tempo prima di capire che bastava un piccolo accorgimento per potersi autogestire? Il motivo sta nel fatto che noi viviamo in società dominate da istituzioni, le quali vogliono far credere che le cose funzionano solo quando le decisioni vengono prese dall’alto. Le istituzioni non si fidano dei cittadini, né della democrazia e tanto meno della libertà di coscienza, per quanto ci si voglia far credere ch’esse siano preposte proprio a questo.

Le istituzioni sono nate quando una piccola minoranza le ha volute per imporsi sulla grande maggioranza. Le loro regole cambiano soltanto quando la grande maggioranza non ne può più, cioè non quando iniziano ad apparire sbagliate determinate decisioni di vertice, ma proprio quando la loro assurdità ha raggiunto livelli assolutamente insopportabili. Ecco perché il progresso a favore della democrazia e della libertà di coscienza è così incredibilmente lento. Le istituzioni devono prima convincersi che i cambiamenti di forma non pregiudicheranno la sostanza del privilegio. I mutamenti sono veloci solo quando scoppiano le rivoluzioni, che però, purtroppo, vengono facilmente tradite.

Ora però torniamo al punto di partenza. Perché oggi diamo per scontato che ragione e fede debbano marciare separate? Qui la motivazione non può che essere di natura storica. Se nel passato l’esperienza della fede avesse soddisfatto le esigenze umane (di giustizia, di libertà, di sicurezza, di autenticità, ecc.), è evidente che la ragione non avrebbe chiesto di agire autonomamente. Ciò però non toglie che, storicamente, non sia accaduto anche il contrario, e cioè che la fede sia sorta in seguito a un cattivo uso della ragione. La fede nel non-razionale, in altre parole, può essere emersa quando un uso arbitrario della ragione ha reso la vita molto difficile, facendo apparire irrisolvibili le sue contraddizioni.

In un certo senso la fede appare come una ragione rassegnata al male, che spera di poterlo risolvere solo in una dimensione ultraterrena. Tuttavia gli uomini “ragionevoli” possono anche stancarsi di questa rassegnazione e prendersi la loro rivincita sugli uomini di chiesa.

Ecco, a questo punto vien d’obbligo chiedersi: perché ancora oggi la fede sussiste? La risposta va cercata unicamente nelle modalità in cui la ragione ha cercato di vivere la propria emancipazione. Se queste modalità non erano davvero democratiche e quindi rispettose della libertà di coscienza di ogni essere umano, appare del tutto naturale che si continui ad avere un atteggiamento di fede. Non è dunque la fede che impedisce alla ragione di svilupparsi, ma è la stessa ragione che non riesce a trovare in sé motivi sufficienti, anzi, modalità adeguate per diventare sempre più democratica.

La fede è come un sadico che gode quando vede fallire i tentativi che la ragione compie per essere libera. Assomiglia a quegli animali opportunisti che si avventano sulle loro prede quando le vedono in gravi difficoltà. In realtà la vera fede è quella che vive la ragione senza concedere nulla alla religione. È inammissibile che, a causa della naturale fede o fiducia umana, si possa formare una casta privilegiata chiamata “clero”, sia esso laico o ecclesiastico. E tanto più lo è il fatto che, in presenza di tali caste, ci si chieda di credere nelle istituzioni per risolvere i problemi che quelle stesse caste hanno creato o che impediscono, solo per la loro presenza, di risolvere.

Ateo è bello ma non banale

Sul n. 5/2013 di “MicroMega” (Ateo è bello!), interamente dedicato all’ateismo, la Presentazione di Paolo F. D’Arcais merita d’essere commentata. Proprio perché di alcuni luoghi comuni in materia di ateismo non se ne può più, soprattutto da parte degli intellettuali.

Continuare a ribadire che devono essere i credenti a esibire “prove” della loro fede, quando ormai il concetto di “prova” è stato di molto ridimensionato dalla stessa scienza contemporanea, nel senso che nessuno può vantarsi d’averne in maniera inconfutabile, è quanto meno un segno d’arretratezza culturale. L’esempio del Sole che, sin dal tempo degli eliocentristi perseguitati dalla chiesa, sta lì nel mezzo mentre la Terra gli gira attorno, come volevasi appunto “dimostrare”, è ridicolo: sia perché anche il Sole si muove insieme a noi, sia perché sul piano pratico la cosa è abbastanza indifferente all’uomo comune, sia perché, infine (e questo lo dice Wittgenstein, che credente non era), non c’è nulla sul piano logico che obblighi il Sole a risorgere una volta tramontato.

D’Arcais afferma che “il ricorso alla parola ‘mistero’ è impraticabile in ogni discussione razionale”. Bene, così abbiamo fatto un bel regalo alla religione: l’unica titolata a parlarne! Chissà che tipo di parola dovremo trovare per definire quel 90% di materia di cui ancora non sappiamo un fico secco.

Servirsi poi delle argomentazioni ingenue dei classici filosofi greci, le quali ritenevano incompatibile la presenza di un dio assoluto con la presenza di un male così radicato sulla Terra, è quanto meno puerile: qualunque religione un po’ scafata obietterà che dio non può violare il libero arbitrio, altrimenti si sarebbe limitato a creare animali non esseri umani. Un qualunque credente arriva molto facilmente a sostenere l’esistenza di dio, proprio partendo dal fatto che l’azione umana, nonostante il male compiuto, alla fine rientra sempre in un progetto salvifico più generale. Semmai a un credente del genere si potrebbe far presente che proprio l’esistenza del male dimostra, seppur negativamente, ch’esiste un “dio” chiamato “uomo”, l’unico essere dell’universo che compie il male contro il proprio istinto di bene, e che non ha bisogno di nessun altro dio per comportarsi diversamente.

Invece D’Arcais preferisce parlare di “caso e contingenza”, che per essere smentiti avrebbero bisogno di un “determinismo assoluto e onnipervasivo”, che per fortuna – dice lui – nella realtà non esiste. E’ ridicolo. Il caso ovviamente esiste, ma ha un ruolo determinato, entro un certo ventaglio di possibilità: come scegliere una carta nel mazzo. Se il caso fosse assoluto, sarebbe relativa qualunque parola usassimo per definirlo. Ed è curioso che un atteggiamento che si presume “scientifico” attribuisca al caso l’origine di tutto. Se c’è una categoria che la scienza dovrebbe detestare è proprio quella della “casualità”: infatti, proprio nel momento in cui la usa, smette d’essere “scientifica” e diventa “filosofica”.

E’ assoluta o relativa la libertà di coscienza? Se relativa, perché ci diamo così tanto da fare per tutelarla? perché addirittura morire per difenderla? Quando lo fanno i credenti, dobbiamo pensare che a ciò siano meno legittimati, in quanto il dio della loro rivendicazione è qualcosa di indimostrabile? La libertà di coscienza non è forse fonte di una morale umana universale, a prescindere dalle sue pratiche realizzazioni, sulle quali comunque è sempre bene confrontarsi?

“L’azione del ‘caso’ rende imprevedibile l’esito”, dice D’Arcais. In che senso? Nessun esito può essere così imprevedibile da violare le leggi di natura. O forse, per togliere ai credenti l’idea di creazione predeterminata, vogliamo negare che l’essere umano sia soggetto a leggi di natura, indipendenti dalla sua volontà? Non è certo un caso che mutazioni genetiche avvengano in popolazioni che non praticano l’esogamia o che sono sottoposte a inquinamenti ambientali. Davvero “il caso esclude il finalismo”? Davvero è così assurdo pensare che un puntino insignificante dell’universo, chiamato Terra, possa pretendere, all’interno di tale contenitore, d’avere uno “scopo” e un “senso”? Anche l’embrione umano appena concepito è, nell’utero, un puntino insignificante. Anche il Tirannosauro nell’uovo che l’ha generato. E allora?

E con quale sicurezza si può sostenere che “tutte le facoltà che chiamiamo ‘spirituali’ cessano con la morte”? E se fosse la “morte” a non esistere? Come possiamo sapere che questa non sia soltanto una parola imprecisa con cui cerchiamo di definire un “trapasso naturale” da una condizione a un’altra? Quando mai nell’universo si può parlare di “morte” senza parlare, nel contempo, di “trasformazione”? L’antimateria esiste, eppure noi non la vediamo: gli scienziati si limitano a supporla, e nessuno ha l’ardire di definirli “credenti” solo per quest’ammissione di ignoranza.

Per concludere. Quando si dialoga coi credenti è meglio partire dal presupposto che non esiste “prova” che non possa essere smentita. Più che aver la pretesa di “dimostrare” qualcosa, dovremmo limitarci a “mostrarla”, usando sì argomentazioni a supporto, ma senza privilegi di esclusività. Le cose assumono significati diversi a seconda delle circostanze di spazio e tempo e del punto di vista con cui o da cui vengono osservate, benché non si possa escludere l’esistenza di leggi di natura, universalmente valide.

Dobbiamo accontentarci di argomentazioni che rendono soltanto plausibili determinate affermazioni, cioè ragionevolmente possibili, senza che ciò comporti alcuna forma di misticismo, laica o religiosa che sia. Non possiamo rischiare di assumere un atteggiamento “mistico” anche nei confronti dello stesso concetto di “prova”, col risultato di fare della scienza una nuova religione. Un’evidenza che presuma di auto-dimostrarsi è una semplice tautologia, avente quindi un contenuto semantico poverissimo. In campo astronomico la parola “mistero” non è l’eccezione ma la regola. Ma anche in campo medico, quando le guarigioni vengono ottenute per cause psichiche.

Il mistero fa parte della natura in generale e di quella umana in particolare, in quanto, in ultima istanza, resta sempre qualcosa d’insondabile nella natura delle cose, ed è proprio questo aspetto che stimola la ricerca e permette alle cose di assumere forme o fisionomie sempre diverse. Non c’è mai nulla di uguale a se stesso.

E’ assurdo pensare che le popolazioni del passato, solo per il fatto di non avere le nostre stesse conoscenze, non fossero “razionali”. Non ha alcun senso sostenere che è “vero” solo ciò che è empiricamente dimostrabile. Questo è fanatismo scientifico. Neppure l’amore tra due persone è “dimostrabile” empiricamente, eppure diciamo di non aver dubbi a riguardo. Qualunque risposta a qualunque perché “ontologico” resta scientificamente indimostrabile. Dobbiamo elaborare un altro concetto di “scienza”, più legato non tanto alla tecnologia quanto alle profondità dell’umano, che sono poi le stesse della natura.