Quale futuro?

Secondo i classici del marxismo lo Stato va considerato come uno strumento provvisorio per vincere la resistenza di chi vuol continuare a vivere sfruttando il lavoro altrui, e che, per poterlo fare, è disposto a chiedere aiuto a forze esterne.
Secondo me però, una volta compiuta la rivoluzione o vinta la guerra civile, bisogna pensare subito a quali basi concrete porre in essere per smantellare lo Stato in maniera progressiva. Anzi, sul piano teorico bisogna pensarci prima, per non trovarsi impreparati dopo.
La nuova società civile dovrà assumersi la responsabilità di eliminare, in quanto pericoloso, il fardello che impedisce una vera liberazione sociale, un’autentica emancipazione delle masse popolari. Qualunque istituzione statale, fosse anche la più innocua o, in apparenza, la più utile, rappresenta una forma di espropriazione della libertà personale.
Le cose non funzionano delegandone la gestione a persone specifiche, ma assumendole in proprio, in tutte le loro sfaccettature. Cioè la responsabilità personale non può essere delegata, se non in maniera molto limitata, soprattutto nelle funzioni e nel tempo. Neanche la rivoluzione può essere delegata a un partito destinato a occupare le leve dello Stato.
Il centralismo va smantellato. “Centralismo democratico” diventa molto presto una contraddizione in termini. La società civile deve essere in grado di autogovernarsi e di autodifendersi. Lo Stato può servire solo nella fase iniziale, che inevitabilmente sarà quella più cruenta. Ma una volta che il nemico, interno o esterno, avrà capito con chi ha a che fare, bisognerà porre le condizioni favorevoli all’autogestione della società, che inevitabilmente dovrà basarsi sulla democrazia diretta.
Il perno attorno a cui deve ruotare l’edificazione del socialismo democratico è la comunità locale, padrona non solo di tutti i principali mezzi produttivi, ma anche della facoltà di gestirli in autonomia, senza dover sottostare a direttive che provengono dall’alto. Le infinite comunità locali devono essere lasciate libere di interagire tra loro, come meglio credono. Non può esistere un ente o un’istituzione che dall’esterno stabilisce i loro rapporti, regolamenta le loro leggi o dirime le loro controversie. Se queste controversie ci sono, gli stessi interessati devono pensare a come risolverle.

Facile scenario

L’inizio del progressivo crollo del sistema capitalistico occidentale si può far risalire, simbolicamente, all’abbattimento delle Torri Gemelle nel 2001, cui il Deep State americano non fu certo estraneo.
Beninteso non sta crollando il capitalismo in sé, ma solo la sua forma occidentale, quella dell’anglosfera, sommamente individualistica.
Nell’occidente collettivo il ruolo dello Stato è incidentale, tant’è che i tanti statisti (spesso privi di vere competenze) vanno e vengono con molta disinvoltura. D’altra parte la politica deve considerarsi al servizio dell’economia (e oggi soprattutto della finanza), per cui i veri “signori del mondo” sono altrove.
Le ultime crisi del capitalismo occidentale sono tutte finanziarie: quella più significativa è esplosa nel 2008, coi subprime americani, che ha coinvolto tanti Paesi occidentali, le cui banche, ancora oggi, sono piene di titoli tossici, inesigibili.
A questa crisi, durata un decennio, gli USA hanno risposto in due modi: internamente, indebitandosi all’estremo, cioè stampando dollari a volontà, come se nulla fosse; esternamente, provocando la pandemia da Covid, attraverso i loro biolaboratori: in tal modo veniva colpito il mondo intero.
Il capitalismo è entrato in crisi sul piano industriale, poiché non è più competitivo con l’economia cinese, che pur lo stesso occidente ha contribuito a creare, nella convinzione, rivelatasi illusoria, di poter tenere la Cina economicamente sottomessa per almeno un secolo. Ora invece produce qualunque cosa a prezzi imbattibili, avendo un costo del lavoro di molto inferiore al nostro e molte più materie prime.
In questo momento sono gli USA a trovarsi in gravi difficoltà: il debito pubblico è altissimo; lo Stato sociale quasi non esiste; non vi è abitudine al risparmio, ma, al contrario, a spendere al di sopra delle proprie capacità; il petrodollaro è in fase di smantellamento grazie ai BRICS+; la perdita di fiducia nella loro solidità obbliga a tenere i tassi d’interesse molto alti (il che non fa che aumentare il debito); si stampano continuamente banconote che valgono sempre meno; ci s’illude di potersi reindustrializzare velocemente imponendo dazi anacronistici (e autolesionistici) al resto del mondo; per dimostrare che si è ancora la prima economia del mondo, si ricorre a sanzioni, embarghi, minacce d’ogni genere, destabilizzando i commerci mondiali; e naturalmente si fomentano guerre ovunque sia possibile.
L’URSS implose per l’assenza del benessere capitalistico; l’occidente sta crollando per averne avuto troppo, usando mezzi e metodi violenti, illegali, cui oggi tutti gli altri vogliono opporsi.
Dopo essere finita in bancarotta, per aver adottato il capitalismo privato occidentale, oggi la Russia, col capitalismo statale di Putin, è in netta ripresa.
Piuttosto è l’occidente a essere privo di una qualche alternativa al proprio declino. Il socialismo statale di Russia e Cina era imploso senza causare guerre a potenze straniere. Invece l’occidente collettivo sta facendo proprio il contrario, forse perché, in definitiva, non può fare a meno del colonialismo, né di scaricare all’esterno il peso dei propri fallimenti. Ha bisogno assolutamente di crearsi dei nemici. In Medio oriente sono i palestinesi (fino a ieri erano gli islamici in senso lato); in Ucraina sono i russi; in Asia sono i cinesi; in Africa i Paesi che si ribellano al vecchio e nuovo imperialismo europeo.
Con un occidente così la guerra sembra essere alle porte. Ma sarebbe un errore pensare che la soluzione ai nostri problemi possa venire dall’esterno. L’occidente deve trovare in se stesso la forza per cambiare in maniera significativa, garantendo libertà e sicurezza al resto del mondo.

Russia, Cina e Occidente collettivo

La Russia non ha assolutamente la stessa capacità della Cina di condizionare il mondo dal punto di vista economico e finanziario. Non ha sviluppato l’industria leggera quando esisteva il socialismo statale, e fino alla guerra in Ucraina non si preoccupava di dipendere dalle aziende straniere per la fornitura di tantissimi beni industriali. Ciò in quanto era convinta che, grazie alle sue enormi risorse energetiche, vendute a buon mercato, i Paesi occidentali sarebbero stati dei folli a privarsene per qualche motivo ideologico o militare.
Solo quando queste aziende sono andate via dal suo territorio, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ha cominciato a sostituirle, o in proprio o facendo entrare aziende straniere non occidentali. Ma i suoi veri progressi restano quelli sul piano militare. E naturalmente resta potente sul piano energetico, anche se le sanzioni occidentali l’hanno inevitabilmente danneggiata.
È evidente, per motivi geografici, che la UE tema militarmente di più la Russia che la Cina. Questo perché è un Paese europeo che potrebbe politicamente condizionare altri Paesi europei e che potrebbe impedire a questi Paesi di espandersi militarmente verso oriente. La teme anche perché nella UE il capitalismo statale è in via di smantellamento dagli anni ’80: cosa sempre più evidente da quando abbiamo creato l’Unione Europea vera e propria, che praticamente è in mano a delle oligarchie private.
Ma sul piano produttivo, cioè economico, il terrore per noi resta la Cina, perché fa passi da gigante in tempi brevissimi, avendo molte più risorse, umane e materiali, di qualunque altro Paese al mondo. E quando un Paese come la Cina ti entra in casa sul piano economico, finanziario e commerciale, è inevitabile aspettarsi che prima o poi ti chieda il conto anche sul piano politico.
È vero, la Russia al momento sembra avere più prestigio al mondo, in quanto combatte da sola contro l’occidente collettivo, aiuta militarmente a liberarsi del colonialismo occidentale, fornisce aiuti umanitari a chiunque li chieda (spesso a titolo gratuito), e porta avanti il discorso sul multipolarismo, condiviso da tantissimi Paesi. Tuttavia se c’è un Paese destinato a ereditare (superandoli) gli sviluppi tecnico-scientifici, economico-finanziari e commerciali del capitalismo occidentale, è la Cina. Su questo non si possono avere dubbi.
È anche vero che in Cina sembra esistere un regime più autoritario di quello russo, più lontano da quello della democrazia rappresentativa occidentale. Peraltro in Cina non si potrebbe parlare, al momento, di “capitalismo statale” vero e proprio, come l’abbiamo conosciuto noi in Europa. Sarebbe meglio parlare di “socialismo mercantile”, poiché esiste un’ideologia ufficiale, quella del materialismo storico-dialettico, statalizzata a partire dal maoismo, e revisionata, significativamente, a partire da Deng Xiaoping, che ha occidentalizzato la Cina, dando più peso all’economia che non all’ideologia. A dir il vero in Cina l’elemento del collettivismo fa parte di una cultura ancestrale. Si potrebbe anzi dire che la Cina è socialista proprio in quanto è sempre stata collettivistica.
Viceversa, il socialismo scientifico non ha più una rilevanza significativa in Russia. Semmai qui esiste un’idea di “collettivismo” non meno antica, ma più che altro nella sua area asiatica. E comunque l’ideologia di Putin non ha nulla a che fare col socialismo. Si configura di più come un “nazionalismo ortodosso”, aperto ad altre confessioni religiose, dove il patriottismo, l’eroismo, il sacrificio di sé giocano, come valori collettivi, un ruolo fondamentale. Di qui l’importanza che si concede al militarismo, arma strategica con cui difendersi dalle mire imperiali dell’occidente.
Sotto questo aspetto né la Russia né la Cina costituiscono per l’occidente dei modelli da imitare, se non negli aspetti dell’efficienza produttiva e militare. Per es. la capacità che il regime cinese ha di controllare la popolazione suscita una certa ammirazione da parte delle élite occidentali, sempre più intenzionate a trasformare la democrazia formale in una dittatura reale del capitale.
Infatti, se andiamo avanti così, il destino dell’Unione Europea (che si configura come destino di un capitalismo sempre più privatizzato imposto a tutti i Paesi che fanno parte di questa entità politica) non sarà molto diverso da quello degli Stati Uniti e degli altri Paesi dell’occidente collettivo: sarà sicuramente un destino tragico.

Rubio e le solite minacce americane

Il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha dichiarato che non esiste una soluzione militare al conflitto tra Russia e Ucraina. Questa guerra non si concluderà militarmente, ma diplomaticamente.
Questo è davvero un modo strano di ragionare. Sembra quasi una minaccia. Gli USA non capiscono che l’operazione militare speciale prevedeva un confronto diretto tra Russia e Ucraina. Non era prevista una guerra tra Russia e NATO o tra Russia e Occidente collettivo.
Sembra che gli USA, la UE, la NATO e l’intero Occidente vogliano dire alla Russia che se non rinuncia agli obiettivi iniziali di questo conflitto, cioè se non accetta di concluderlo pacificamente, mostrando che non può vincerlo sul piano militare, sarà inevitabile una escalation, oltre che un aumento delle sanzioni.
Questi ancora non han capito che con Putin non è possibile ragionare così. Putin vuole garanzie per una pace sicura, che facciano sentire il suo Paese libero dall’incubo di poter essere colpito da armi a lunga gittata, scagliate dalle basi NATO. E nessuno gliele vuole offrire a priori. Eppure lui sa di averne diritto.
Questi pensano di avere a che fare con una nullità come Eltsin o con un ingenuo come Gorbaciov. Ma a Putin non interessa affatto smembrare l’Ucraina. Non è questa la “soluzione finale”. Prima che scoppiasse il conflitto, nel febbraio 2022, Putin sarebbe stato disposto a che il governo di Kiev riconoscesse alle due piccole repubbliche di Donetsk e Lugansk un’autonomia equivalente a quella che l’Italia concesse al Sud-Tirolo. L’Ucraina poteva restare perfettamente integra. Se lui voleva il Donbass, non avrebbe aspettato otto anni prima d’intervenire.
È stato l’appoggio della NATO a Kiev a fargli capire che doveva occupare i quattro oblast’ e che il conflitto poteva essere risolto solo sul campo e solo sulla base di una resa incondizionata. Secondo lui, in altre parole, più si va avanti e più dovrà essere la stessa NATO a rimetterci. Gli incontri diplomatici servono solo a far capire che il tempo per perdere tempo è finito. Chi vuol la guerra l’avrà. La Russia è pronta e non farà sconti a nessuno, anche perché il patrimonio militare acquisito in oltre tre anni viene considerato equivalente a quello che l’URSS acquisì dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa. È vero, i sovietici ebbero un numero incredibile di morti, ma alla fine si presero mezza Europa.
Noi europei vogliamo ripetere questo scenario o siamo disposti a più miti consigli?

Orsini e io, su Russia e Ucraina

Il sociologo Alessandro Orsini ha detto che Putin assai difficilmente porrà come argomento di trattativa con Kiev le sue tre richieste di sempre: non ingresso nella NATO, riconoscimento dei quattro Oblast facenti parte della Russia sin dal 30 settembre 2022, smilitarizzazione completa (o comunque sufficiente a una difesa non a un attacco contro la Russia).
Tuttavia sull’ultima richiesta ha detto che Putin non può impedire che i Paesi europei diano armi a Zelensky. L’unico modo per impedirlo è conquistare Kiev e tutta l’Ucraina, ma Putin non vuole governare le regioni che odiano la Russia. L’Europa può sperare di ottenere che l’Ucraina conservi un esercito. Ma il pessimismo è doveroso perché Putin non concederà all’Ucraina di dotarsi di migliaia di missili della NATO a lunga gittata o di aerei di quarta e quinta generazione. Quindi in definitiva Putin non può trattare veramente, perché non è disposto a rinunciare a nessuno dei suoi obiettivi strategici.
Naturalmente Orsini sa benissimo che neanche la UE vuole trattare veramente, in quanto sta cercando soltanto una tregua per riarmare l’Ucraina. Non può desiderare la pace perché la pace tra Russia e Ucraina passa attraverso la sconfitta militare o della Russia o della UE.
Sono affermazioni semplici, le sue, ma calzanti. Possono apparire perentorie, ma sicuramente sono realistiche. Come anche queste:
L’Ucraina ha combattuto una guerra terribile per entrare nella NATO, ma non entrerà nella NATO; ha combattuto per entrare nell’Unione Europea, ma non entrerà nell’Unione Europea; ha combattuto per difendere la propria integrità territoriale, ma sarà smembrata; ha combattuto per difendere le proprie città, che sono rase al suolo; ha combattuto per difendere la propria indipendenza, ma adesso è sottoposta alla doppia sferza padronale di Russia e Stati Uniti. L’Ucraina ha perso tutto.
Ma perché si è arrivati a una conclusione così tragica? Orsini lo dice chiaramente: per la Russia la guerra in Ucraina è una guerra di popolo; per l’Europa è soprattutto la guerra di un’élite che deve nascondere il proprio fallimento. Gli europei non sono disposti a sacrificare una sola vita umana per l’Ucraina. I russi sono disposti persino alla guerra nucleare.
Non vorrei aggiungere niente a queste sacrosante affermazioni. Salvo una considerazione: per me la Russia è già pronta per una guerra esplicita o diretta contro la NATO. Il conflitto con l’Ucraina l’ha addestrata in maniera sufficiente. La NATO è lontanissima dall’avere una capacità analoga. Anzi non ha nemmeno armi sufficienti per affrontare un conflitto di lunga durata. Trump l’ha capito subito, poiché gli USA sono abituati a fare le guerre. Gli statisti europei invece non l’hanno ancora capito, poiché malati di ideologia russofobica.
Per me la Russia si sta preparando a sferrare un colpo demolitore nei confronti della NATO. Vuole fargliela pagare per tutti i soldati morti che ha avuto. Infatti se non ci fosse stata la NATO, davvero la guerra sarebbe stata soltanto una pura e semplice “operazione speciale”. E inizierà a muoversi là dove avverte le basi NATO con maggior fastidio: Finlandia, Svezia, Paesi Baltici, Mar Baltico, Polonia, Romania… In fondo Putin l’ha sempre detto: “Non vogliamo basi NATO ai nostri confini”.
L’unica proposta che può fare a Zelensky potrebbe avere questo tenore (mi si perdonerà la franchezza): “Se non ti arrendi, raderemo al suolo Kiev e tutte le altre città dell’Ucraina, dando ovviamente ai civili il tempo di andarsene, poiché non siamo bestie come voi. Tu stesso quindi è meglio che te ne vai quanto prima, perché per te e per il tuo governo filonazista il tempo è scaduto. Non facciamo le parate muscolari per sport. Se vi arrendete subito, ci prenderemo solo la parte orientale del fiume Dnepr e l’Ucraina potrà continuare a esistere, altrimenti prenderemo tutto”. Ovviamente non gli spiegherà il motivo di questa improvvisa fretta, ma quello, se saprà smettere di recitare, lo capirà benissimo.

NEWS del 12 maggio 2025

Il capo del Consiglio di Stato della Crimea, Vladimir Konstantinov, ha detto che Mosca riprenderà i colloqui di pace direttamente con Kiev, visto che da Washington non ha ottenuto nulla di concreto.
Il compromesso dovrà per forza essere basato, secondo lui, su una soluzione di tipo coreano. Nel senso che Kiev riconoscerà Zaporozhye, Kherson, Donetsk e Lugansk come appartenenti di fatto ma non di diritto alla Russia.
Per me non sa quel che dice. Queste quattro regioni sono già state riconosciute da Mosca come facenti parte giuridicamente della Federazione Russa. Non credo assolutamente che Putin voglia tornare indietro, neanche se l’occidente rimuovesse tutte le sanzioni economiche e finanziarie che ha imposto al suo Paese. Putin non ha mai dato segni d’essere una persona venale. I territori conquistati col sangue dei propri militari non verranno ceduti in cambio di niente. E poi non farà mai alcun accordo con un presidente come Zelensky, il cui mandato è ormai scaduto da un anno.
È vero, Putin ha chiesto a Erdoğan di organizzare a Istanbul nuovi negoziati diretti tra Mosca e Kiev, ma Kiev non è nulla senza l’appoggio occidentale. Qui si rischia di ripetere quanto successe nel 2022, allorché Kiev era sì disposta all’accordo, ma gli angloamericani glielo impedirono. Kiev potrà anche sembrare una città viva, con un proprio governo, un parlamento nazionale, ecc. Rappresenta però uno Stato morto, economicamente fallito ed enormemente corrotto, che se aprisse le proprie frontiere, vedrebbe espatriare tutti gli uomini abili per essere arruolati.

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Mi è piaciuto Fico contro la Kallas. Nonostante gli Stati Baltici gli abbiano chiuso lo spazio aereo nel disperato tentativo di ostacolare la sua decisione di andare alla parata di Mosca, lui non si è fatto intimorire. È stato l’unico leader della UE ad avere avuto il coraggio di ignorare gli ordini di Bruxelles e di ricordare che la parola “sovranità” non è ancora un reato penale.
Gliele ha cantate senza peli sulla lingua, dicendo:
– In primo luogo, io sono a Mosca per rendere omaggio agli oltre 60.000 soldati dell’Armata Rossa caduti per liberare la Slovacchia.
– In secondo luogo, in qualità di alto funzionario della Commissione Europea, lei non ha assolutamente l’autorità di criticare il primo ministro di un Paese sovrano, che si impegna in modo costruttivo nell’intera agenda europea.
– In terzo luogo, non sono d’accordo con la politica della nuova cortina di ferro a cui lei sta lavorando così intensivamente.
– In quarto luogo, le chiedo come si possa fare diplomazia e politica estera se i politici non possono incontrarsi e condurre un normale dialogo su questioni su cui hanno opinioni diverse.
La Kallas è una inadeguata al suo ruolo, esattamente come la von der Leyen. Il fatto però che le abbiano scelte indica una profonda limitatezza etica e politica nelle istituzioni rappresentative dell’intera Unione Europea.

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La Forza di spedizione congiunta (JEF) della NATO sta organizzando la più grande esercitazione militare, detta “Tarassis 25”, in un’area che si estende dal Mar Baltico all’Atlantico settentrionale e all’Oceano Artico. JEF comprende Gran Bretagna, Danimarca, Paesi Bassi, Islanda, i tre Paesi Baltici e i tre Scandinavi.
L’obiettivo principale è quello di mettere in pratica un attacco sincronizzato nel tempo e coordinato nello spazio contro la Russia lungo l’intera lunghezza del confine settentrionale, da Murmansk a Kaliningrad, distruggendo le forze operative e strategiche della Russia in grado di effettuare una rappresaglia o un contrattacco.
I Paesi occidentali sono certi al 101% che la Russia “non oserà” utilizzare armi nucleari strategiche. In questo modo è possibile conquistare e annettere Kaliningrad e, con un po’ di fortuna, San Pietroburgo e tutta la Carelia.
Non capisco chi dia a questi Paesi la sicurezza che la Russia non userà le atomiche. I loro abitanti non sono imparentati coi russi, come succede con gli ucraini. È vero che nei Paesi Baltici ci sono parecchi russofoni, ma Putin non sarà così cinico da non avvisarli in tempo di espatriare prima che possa incenerire quelle nazioni in un batter d’occhio. O forse la NATO pensa di tenere i russofoni del Baltico come ostaggi?
Negli anni scorsi i generali della NATO sembravano più consapevoli dei politici circa la forza militare della Russia. Ora mi devo ricredere. Ai nostri militari piace sicuramente giocare a Wargame o a Risiko, ma come fanno a essere sicuri di vincere? Non lo sanno che i russi, dopo più di tre anni di guerra in Ucraina, in cui sono state utilizzate quasi tutte le armi moderne, sono diventati incredibilmente esperti? Giusto in maniera virtuale o facendo mere esercitazioni simulate si può pensare di sconfiggerli o sognare di occupare qualche loro territorio.
La UE sembra specializzarsi sempre più nel nuocere a se stessa, come certe persone psicotiche che vanno sedate o contenute per evitare che assumano atteggiamenti autolesionistici.

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Trump fa e dice cose come se non dipendesse da nessuno. Poi deve ritrattare perché qualcuno gli fa capire che, se va avanti così, porta gli USA a un disastro epocale. Lui da solo non lo capisce. Non ha le basi per capirlo.
Chissà perché ancora nessuno gli ha spiegato che se Netanyahu continua con questo genocidio, gli USA perderanno il controllo del Medioriente: in quella regione saranno il Paese più odiato di tutti i tempi, peggio di Francia e Inghilterra.
È assurdo infatti pensare che Egitto e Giordania o qualche altro Paese islamico accetteranno l’ingresso di milioni di profughi palestinesi.
La struttura dell’attuale alleanza tra USA, Paesi arabi e Israele è stata stabilita da Nixon e Kissinger dopo la guerra del Kippur (1973), per fare degli USA la potenza globale dominante nella regione. Quella diplomazia forgiò gli accordi del 1974 tra Israele, Siria ed Egitto. Questi gettarono le basi per il trattato di pace di Camp David, che a sua volta gettò le basi per gli Accordi di Pace di Oslo. Il risultato fu una regione dominata dagli USA, dai suoi alleati arabi e da Israele.
Oggi sta cambiando tutto. L’intero pianeta sta cominciando a rendersi conto che si è in presenza di una pulizia etnica. Gli Houthi non li ferma nessuno. L’Iran è in procinto di realizzare l’atomica con cui affrontare Israele e già adesso, a livello convenzionale, non gli è inferiore. La Turchia non vuole avere Israele né in Siria né in Libano. La Cina ha già fatto capire che in quello che fa Netanyahu non c’è niente di legale. La Russia, finché è impegnata in Ucraina, non può aprire un secondo fronte. Ha soltanto dimostrato che le sue basi in Siria possono continuare a esistere. La Lega Araba sta cominciando a pentirsi d’aver lasciato scorrere troppo tempo da quando questa pulizia etnica è iniziata.
Si rende conto Trump che alla fine agli USA non resterà che l’uso del nucleare per farsi valere in Medioriente? Se rinunciano alla diplomazia, che cosa resta? Se praticano una diplomazia che non porta a niente, perché dovrebbero essere rispettati?

Un altro discorso alla parata

Se fossi stato in Putin, avrei detto altre cose alla parata moscovita. Anzi, l’avrei impostata diversamente, non in maniera muscolare.
La Russia non ha bisogno di dimostrare che, avendo vinto il nazifascismo, è un Paese da temere. Lo sanno già tutti. Quegli statisti che fingono di non saperlo, lo fanno perché, avendo abituato ai rapporti di forza il loro elettorato, temono di perdere consensi.
Ora la Russia ha bisogno di un’altra cosa: come farsi amare. Cioè come farsi rispettare per le parole di pace e di speranza a favore dell’intera umanità. Che è poi quello che ambisce di fare il pontefice, senza però riuscirvi, in quanto non ha la forza per non lasciarsi pesantemente condizionare dai poteri dominanti in occidente. È dal Concilio Vaticano II che questa Confessione ha accettato di compromettersi senza se e senza ma con l’intera ideologia borghese: la parentesi di Wojtyla è servita soltanto a scomunicare la teologia della liberazione e a finanziare la rivolta di Solidarność in Polonia, che comportò conseguenze tragiche in Italia per Calvi, Sindona e Ambrosoli, su cui non è mai stata fatta luce, né mai lo sarà, fino a quando gli archivi vaticani resteranno interdetti agli studiosi.
Ebbene, quale discorso avrebbe potuto pronunciare Putin? Un discorso sulle civiltà. Avrebbe dovuto dire: “Il nostro Paese non vuole far la guerra con nessuno non solo perché è enorme e non ha bisogno di niente, ma anche perché contiene al proprio interno tante etnie e nazionalità, la cui cultura e civiltà vuole conservare a tutti i costi, essendo un patrimonio di inestimabile valore sia per noi che per l’intera umanità.
Noi russi, per esempio, abbiamo una civiltà millenaria, ereditata da un’altra civiltà millenaria, quella bizantina o greco-ortodossa. Ma nella nostra Federazione vi sono anche le civiltà islamiche ed ebraiche; anzi, vi sono tante culture e civiltà appartenenti al mondo asiatico, che sono addirittura precedenti a quelle delle religioni monoteistiche.
Noi vogliamo conservare tutto, proprio in nome del multipolarismo. Questa nostra preoccupazione vorremmo che appartenesse a tutti, soprattutto alle civiltà dell’occidente collettivo, che non può andare avanti pretendendo di dominare il mondo. Viviamo in un unico villaggio globale. C’è spazio per tutti. Possiamo confrontarci, per un arricchimento comune, sul piano culturale e materiale, scientifico e tecnologico. Possiamo commerciare liberamente ciò che vogliamo, nel reciproco vantaggio. Possiamo rispettarci pur avendo sistemi politici differenti. Al tempo della guerra fredda abbiamo sempre creduto nella coesistenza pacifica.
Non c’è alcun bisogno di scontrarsi militarmente. In passato siamo stati disposti a rinunciare progressivamente al nostro arsenale nucleare. Lo siamo anche adesso, se vengono smantellate le basi militari che minacciano la nostra esistenza. In un mondo multipolare tutti devono potersi sentire sicuri entro i propri confini. Chissà che un giorno anche questi stessi confini, in un mondo disarmato, non verranno abbattuti.
Al momento sappiamo solo che la sicurezza è un bene unico, indivisibile, deve riguardare tutti contemporaneamente. Non può essere pretesa a scapito della sicurezza altrui.
Queste non sono parole difficili da comprendere e sono parole sincere, che partono da un senso di preoccupazione per le sorti dell’umanità. Nessuno può dare per scontato che il genere umano riuscirà a sopravvivere in caso di conflitto nucleare. Ecco perché queste non sono parole di circostanza. Noi vogliamo costruirci sopra qualcosa di utile per le generazioni future. Non vogliamo essere ricordati come una generazione che non ha fatto abbastanza per scongiurare l’apocalisse”.

NEWS del 10 maggio 2025

È normale che, in certe famiglie, dove l’educazione dei genitori è stata molto severa, i figli si ribellino. A volte si tratta proprio di scontri generazionali, come quelli accaduti durante la contestazione operaio-studentesca, che all’incirca coinvolse il decennio 1968-78.
Ecco, in un certo senso si può dire la stessa cosa per spiegare l’odio che gli ex Paesi sovietici provano nei confronti dell’attuale Russia. Non riescono a liberarsi da quell’incubo che hanno vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale all’implosione dell’URSS (1945-91), ch’era poi l’incubo del socialismo statalizzato, cioè di quel socialismo da caserma o poliziesco che lo stalinismo volle imporre senza tante discussioni, semplicemente avvalendosi del fatto che il nazi-fascismo era stato soprattutto sconfitto dal comunismo sovietico.
Oggi l’odio è così forte che viene addirittura messa in dubbio l’attribuzione di tale vittoria. Si guarda la storia con una visione deformata e si distruggono i monumenti che la fanno ricordare. E a nessuno importa che la stessa Russia abbia fatto il “mea culpa” per gli errori compiuti nel passato. Gli Stati che la odiano continuano a ripetere che, nella sostanza, è rimasta uguale a se stessa e che Putin è un dittatore come tutti gli altri.
Tuttavia, guardando bene questi Stati che, con tanta fatica, si sono liberati del cosiddetto “socialismo reale”, si resta molto delusi dalle alternative che sono riusciti a costruire. Praticamente sono tutti passati dalla padella del socialismo statale alla brace del capitalismo privato di marca euro-americana. Prima avevano un’uguaglianza imposta, ora hanno una libertà fittizia. Hanno fatto le loro rivolte, le loro rivoluzioni, i loro colpi di stato per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano (ad eccezione ovviamente degli oligarchi e dei soliti noti).
In effetti non è semplice passare da un socialismo statale a uno democratico. Sembra che nessuno Stato vi sia riuscito, anzi, sembra che nessuno “Stato” vi possa riuscire. Infatti, nel mentre si compie il tentativo, arrivano subito i canti delle sirene di Ulisse, con le loro promesse mirabolanti, le loro fantastiche illusioni…
Ecco, la guerra russo-ucraina può essere inserita in questo contesto: i russofoni del Donbass preferiscono tornare alla “madre Russia”, piuttosto che soffrire sotto i nazionalisti e neonazisti di Kiev.
Avevamo già visto una cosa del genere coi russofoni della Transnistria in Moldavia e con quelli dell’Abcasia e Ossezia del Sud in Georgia. Ora cominciamo a vederla, molto timidamente, con l’Ungheria di Orbán, la Slovacchia di Fico, la Serbia di Vučić. E possiamo scommettere che qualcosa di simile la vedremo anche coi Paesi Baltici.
Certo, non si tratta sempre di aspirazioni da parte di russofoni, ma piuttosto di rivendicazioni di maggiore sovranità nazionale da parte di taluni Stati che, dopo essere entrati nell’Unione Europea, ora cominciano a chiedersi come uscirne e come aderire alla nuova formazione geopolitica chiamata BRICS+, che tanto successo ha avuto, grazie al proprio multipolarismo, in questi ultimi tempi.
La domanda cui tutti dovremmo cercare di rispondere è però un’altra: esiste una terza via tra socialismo e capitalismo? No, non c’è, ma questo non vuol dire che sia facile costruire la democrazia. La Russia non vinse il nazi-fascismo perché aveva un socialismo migliore, ma perché l’intera popolazione avvertì che quella era una “guerra esistenziale”, in cui l’alternativa era “vivere o morire”.

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Bisogna ammettere che fa abbastanza impressione vedere una fetta di mondo concentrata sull’elezione del nuovo pontefice, che parla di “pace disarmata e disarmante”, e un’altra fetta di mondo che assiste alla parata di un esercito che chiede la pace esibendo la propria forza.
Istintivamente vien voglia di credere che le parole di Leone XIV siano più umane, più democratiche di quelle di Putin. Ripensandoci un po’, invece, è tutto il contrario.
Il papa è sicuramente una figura politica, oltre che religiosa, altrimenti non ci sarebbe questo gran clamore sulla sua intronizzazione. In un mondo in guerra come il nostro (in cui si spara non solo coi cannoni, ma anche con sanzioni embarghi dazi e confische di beni privati e statali) è normale che popolazioni inermi, sprovvedute, ripongano le loro ultime speranze in una sorta di “pastore superman”, dotato di poteri sovrumani.
Non si sono mai viste analoghe aspettative in altre confessioni, né queste ambiscono a coltivarle. Alcuni considerano Prevost l’unico vero statista internazionale: negli USA addirittura la destra più conservativa lo qualifica come “marxista”!
Purtroppo però al cattolicesimo romano è rimasto solo il papa per sopravvivere. Questa infatti è una confessione piena zeppa di scandali, anche molto gravi, da cui ha sempre meno forza per uscire. Tant’è che gli stessi pontefici li coprono, anche perché spesso vi è coinvolto l’alto clero.
È vero, ogni tanto dai papi vengono fuori parole indovinate, come quando Bergoglio parlò della NATO che abbaia alle porte della Russia, o come quando disse a Zelensky che arrendersi non è umiliante.
Tuttavia, in genere, proprio mentre parlano di pace senza fare riferimento alla giustizia e alla sicurezza collettiva, non fanno altro che avvalorare l’arroganza dell’occidente globalista e unipolare.
Non serve a niente parlare in astratto, senza entrare nel merito dei problemi. Alla fine non si fa altro che favorire il culto della personalità e le illusioni che i conflitti possano essere risolti da una sorta di messia spirituale, equidistante dai cosiddetti “potentati”.

Comprendere e confrontarsi

A volte mi stupisco che le cose, nella storia, si ripetano in maniera così straordinaria, seppur nell’ovvio mutamento di forme e modi.
La differenza tra forme e modi è nota: le prime riguardano la materialità della vita, che incontriamo nascendo; i secondi invece riguardano i rapporti umani, che si costruiscono strada facendo. Forme e modi s’influenzano a vicenda.
Ma perché cambiano forme e modi e non cambia la sostanza dell’essere umano? Perché, se siamo umani, abbiamo il libero arbitrio, che ci permette, entro certi limiti, di fare determinate scelte.
I limiti sono predeterminati, nel senso che non è possibile compiere azioni di bene o di male la cui bontà o malvagità sia infinita o illimitata. Ci muoviamo in un range che appartiene alla nostra natura umana.
Viceversa la sostanza o essenza (in italiano non facciamo molta differenza tra le due parole) dev’essere sempre quella, altrimenti tra gli esseri umani la reciproca comprensione sarebbe impensabile. “L’essere è e non potrebbe non essere”, sentenziava Parmenide, pur senza capire che il “non essere”, cioè la negatività, può essere di aiuto, indirettamente, alla coscienza della libertà. Tutto serve nella vita, se lo si sa prendere nella giusta misura.
Se esistesse una dimensione ultraterrena in cui vivono tutti gli esseri umani che ci hanno preceduti, dovrebbe per forza essere possibile confrontarsi con ognuno di loro, senza alcuna eccezione. E il confronto non dovrebbe servire solo per “capirsi”, nel senso di “intendersi”, come quando due persone parlano lingue diverse, ma anche e soprattutto per “comprendersi”, che è un di più, cioè una specie di condivisione della giustezza di determinate scelte: diciamo una forma di compartecipazione.
A volte, di fronte a certe situazioni, siamo soliti dire una frase rituale: “Lo capisco ma non l’accetto” (cioè non lo giustifico). Viceversa, quando si pensa, implicitamente, al verbo “comprendere”, la frase dovrebbe essere questa: “Al tuo posto avrei fatto la stessa cosa”.
Ma come si fa a sapere che una certa scelta è giusta? Esiste appunto il “confronto”, da non confondere con quella parola che, nel linguaggio politico, traduce l’inglese “confrontation”, che vuol dire l’opposto. Nessuno ha la scienza infusa, nessuno è infallibile.
Ecco, quando vedo certi statisti contemporanei, così chiusi nei loro pregiudizi, così attaccati ai loro interessi, penso che manchino proprio della capacità di “confrontarsi” con le esigenze altrui. Non riescono proprio a comprenderle. Ebbene, non credo sia possibile che gente così mentalmente gretta e moralmente cinica abbia il diritto di governare intere popolazioni.

RIFLESSIONI ESTEMPORANEE

Sinceramente parlando, quando si dice che una banca o una borsa o uno Stato è troppo grande o troppo importante per fallire, ci credo poco. È una pia illusione, anzi una forma di raggiro per continuare a credere in qualcosa di aleatorio, che pretende di autogiustificarsi.
Soprattutto mi indispongo quando vedo che da questa affermazione traggono le conseguenze che si può procedere coi soliti sistemi, tanto non può succedere niente di irreparabile.
È come se qualcuno dicesse: “La password per entrare in questa cassaforte superblindata l’ho solo io, quindi a me non può accadere nulla”. Queste manie di grandezza sono insopportabili, anche perché basta guardare la storia per vedere che non esistono Stati, Imperi, Città che durano in eterno, o almeno che durano con la medesima forza, potenza, estensione…
Quando parliamo di impero romano, spesso scordiamo che il suo vero momento di gloria l’ebbe sotto la repubblica, non sotto il principato. I suoi massimi confini erano già stati stabiliti al tempo di Augusto: Reno, Danubio, Tigri, Eufrate, Nilo, Giordano (per stare ai fiumi). Gli ulteriori tentativi di espansione non ebbero un grande successo, salvo la conquista dell’odierna Romania. I cittadini dell’impero sperimentarono la peggiore forma di dittatura proprio sotto il principato (o dominato), al punto che speravano d’essere salvati dalle cosiddette “popolazioni barbariche”.
C’era più pace e più continuità esistenziale quando le popolazioni non avevano mire egemoniche, quando si accontentavano del minimo indispensabile per campare, quando avevano un rapporto armonico con la natura, quando non esisteva lo schiavismo o il servaggio e nessuno doveva lavorare fino allo sfinimento per un tozzo di pane. Oggi ti viene soltanto voglia di odiare il mondo e di sperare di andartene quanto prima.

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Ho l’impressione che più la guerra russo-ucraina si prolunga, e più i russi cercheranno di controllare l’intero Paese. Nel senso che mentre l’area orientale del Dnper apparterrà giuridicamente alla Federazione Russa, l’area occidentale invece dovrà garantire assoluta neutralità, militarizzazione al minimo indispensabile, nessun rapporto con la NATO. Quest’area potrà anche gestirsi autonomamente in senso democratico, ma dovrà garantire la denazificazione. E la garantirà per forza, poiché il governo di Mosca, che ha una memoria da elefante, pretenderà i processi a carico dei neonazisti che han provocato la strage di Odessa, i bombardamenti per 8 anni nel Donbass, le torture o le esecuzioni sommarie nei riguardi di civili russi (o russofoni) e militari della Federazione, e vorrà anche sapere chi sono stati gli artefici dei biolaboratori e delle sceneggiate tipo Bucha.
Secondo me non sarà possibile che la guerra si concluda senza che il Cremlino abbia fatto piena chiarezza su quanto è successo in Ucraina dal golpe del 2014 ad oggi. Anzi il governo russo vorrà avere contezza di tutti i rapporti che gli oligarchi, i nazionalisti e i neonazisti ucraini hanno avuto con l’occidente collettivo sin da quando l’Ucraina ha voluto staccarsi dall’ex URSS.
Finita la guerra, molti ucraini saranno costretti a fuggire dal loro Paese, perché irrimediabilmente coinvolti in azioni vergognose, meritevoli di condanne senza appelli, e verranno nella UE convinti di poter continuare a fare i nazisti e i terroristi come prima.
Nessun Paese occidentale sarà in grado di fare da paciere in questa guerra. Anzi, sarà molto probabile che, dopo averla vinta, la Russia comincerà a pretendere di smantellare le basi NATO che la minacciano più da vicino, a partire da quelle finniche.
Hanno ragione a dire che non sarà finita, anche perché la sicurezza non può essere garantita in maniera irrisoria, parziale. O c’è o non c’è. E quando Stoltenberg diceva che alla richiesta della Russia di avere “meno NATO” si è risposto dandole “più NATO”, quell’uomo dalla testa vuota non si rendeva conto d’aver posto le basi per un conflitto tra Russia e Unione Europea che andrà avanti per un bel pezzo. Lui stesso dovrà rendere conto di non aver fatto assolutamente nulla per impedire che la NATO si trasformasse in una grave minaccia per l’incolumità del genere umano.

REITERAZIONI STORICHE E DISASTRI ECONOMICI

Nell’antica civiltà romana si doveva essere sempre in guerra per poter avere quanti più schiavi possibile. Gli schiavi arricchivano in varie maniere: erano oggetto di compravendita, come oggi le azioni di borsa; svolgevano lavori domestici o produttivi al posto delle persone giuridicamente libere; intrattenevano il pubblico con giochi o sport di vario genere; istruivano i figli degli schiavisti, se erano intellettuali, ecc.
Quando non fu più possibile continuare le guerre in maniera facilmente vittoriosa, in quanto il nemico aveva capito come difendersi efficacemente, gli schiavi ovviamente diminuirono. Ma siccome gli schiavisti volevano continuare a vivere una vita comoda, pensarono, astutamente, di trasformare il rapporto sociale da schiavile a servile. Cioè allo schiavo potevano essere riconosciuti taluni diritti, se in cambio continuava a sentirsi in obbligo nei confronti del proprio padrone. Fu così che nacque il Medioevo, una civiltà rurale, assai poco urbanizzata, almeno sino al Mille.
Quando le popolazioni germaniche e asiatiche fecero a pezzi l’impero romano d’occidente non conoscevano come sistema di vita né lo schiavismo né il servaggio, però nei confronti di quest’ultimo ebbero un certo apprezzamento. E quelle, di loro, che si convertirono al cattolicesimo-romano, furono le più fortunate. I Franchi, in particolare, diventarono egemonici in tutta l’Europa occidentale, il cui sovrano, spalleggiato dalla Chiesa, pretendeva addirittura di qualificarsi come imperatore del sacro romano impero, un titolo che in quel momento spettava solo al basileus bizantino.
Oggi sta avvenendo qualcosa di simile. L’occidente collettivo non è più in grado di espandersi, non solo sul piano militare, ma neppure su quello economico e finanziario. Glielo impediscono Russia, Cina, India e, in genere, i Paesi dei Brics+ o del Sud Globale.
Questo vuol dire che USA, UE, ecc. dovranno per forza abbassare, entro i propri confini, gli standard consueti di benessere. Le popolazioni protesteranno, perché non abituate a eccessive restrizioni. Si lasceranno strumentalizzare dai poteri dominanti per compiere nuove guerre, che inevitabilmente risulteranno perdenti, poiché il declino non potrà essere fermato. Dopodiché i cittadini saranno costretti a subire sempre maggiori controlli, da parte di poteri sempre più autoritari, sempre più militarizzati. Si può persino scommettere che il fulcro vitale si trasferirà dalle città alle campagne, e che la gente rinuncerà alla propria libertà giuridica pur di sopravvivere.

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Dietro Trump, che non sa nulla di economia, c’è Scott Bessent, ex chief investment officer di Soros Fund Management e figura influente nei circuiti della finanza globale.
Dall’alto della sua sapienza ha detto queste parole dal sapore magico: “Il governo degli Stati Uniti non andrà mai in default. Aumenteremo il tetto del debito.”
Per lui non sono niente 36 trilioni di dollari di debito (122% del PIL). In fondo il Giappone ha una percentuale doppia e nessuno se ne preoccupa. L’importante è che gli USA abbiano la fiducia di chi crede nella loro capacità di pagare i tassi d’interesse sul debito.
Tuttavia non è molto rassicurante sapere che gli USA possono evitare l’insolvenza non per solidità economica, ma perché stampano moneta a volontà, scaricandone il peso su inflazione e mercati esterni.
Finché il mondo accetta dollari, Washington non fallisce. Questo lo sappiamo, ma sarebbe meglio non darlo per scontato. Anche perché la crescente de-dollarizzazione promossa da BRICS e ASEAN mette a nudo la fragilità strutturale del sistema, che si regge in piedi solo con le stampelle.
Non è una bella cosa che il “tetto del debito” venga alzato tutte le volte che lo richiede la politica. L’economia ha proprie leggi, che non dipendono dalla volontà dei governi. Nessuno è obbligato a comprare i titoli di stato americani. Non foss’altro che per un sospetto: quando un impero afferma di non poter fallire, è il segno che ha già cominciato a temere il crollo.

Quale villaggio globale

Uno potrebbe chiedersi che male ci sia a vivere l’intero pianeta come un unico villaggio globale. Nessuno, se per “villaggio globale” s’intendesse qualcosa di libero, aperto, senza barriere o confini, senza pretese di dominio o di sfruttamento di risorse altrui.
Purtroppo però, anche quando gli esseri umani mostrano d’avere delle idee apprezzabili, le vivono nel modo peggiore. Non a caso molti ritengono che la nostra specie (o comunque quella sapiens) sia nata o si sia evoluta con un bug letale. Sembra che noi tutti si sia destinati all’autodistruzione, in forza del fatto che le nostre armi, col tempo, non lasciano scampo a nessuno, ovunque si viva.
Può darsi che la natura abbia da guadagnare dal nostro destino, riprendendosi ciò che le abbiamo sottratto. Ma per i sopravvissuti all’apocalisse sarebbe una magra consolazione apprezzare la rinascita della natura in cambio di uno spopolamento catastrofico del genere umano.
Possibile che non ci sia una via di mezzo tra libertà personale, giustizia sociale, tutela ambientale? Probabilmente, per quanti sforzi si possa fare, non c’è. Forse perché partiamo da un punto di vista sbagliato. Lo facciamo tutti, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Siamo tutti fermamente convinti che il modo migliore per trasformare qualcosa di “informe” in qualcosa per noi apprezzabile, vantaggioso sia quello di utilizzare una tecnologia così evoluta da rendere il nostro lavoro sempre meno faticoso.
Cerchiamo un benessere in cui la fatica sia ridotta al minimo. È evidente che con una tale visione delle cose a rimetterci sono le popolazioni con una tecnologia meno evoluta. La stessa natura, lì per lì, sembra non essere in grado di opporsi alle nostre pretese egemoniche, salvo poi farcelo capire dopo un certo tempo, quando avvengono taluni fenomeni atmosferici molto preoccupanti, come desertificazione dei suoli, scioglimento dei ghiacciai, surriscaldamento dei mari, inquinamento dell’aria, esondazioni dei fiumi, e così via.
L’evoluzione per noi è diventata sinonimo di artificiosità. Quanto più ci sentiamo lontani dalla naturalità delle cose, tanto più ci sentiamo avanzati. Aspiriamo a recuperare qualcosa di naturale nel tempo libero, e ci illudiamo di trovarlo, pur sapendo che abbiamo tutto antropizzato. Ci mancano persino i parametri per distinguere una cosa dall’altra. Non abbiamo neanche la manualità per compiere azioni che non siano caratterizzate da qualcosa di evoluto. Chi riuscirebbe a sopravvivere in una foresta dopo essere sopravvissuto a una guerra urbana?
È importante pensare a queste cose, poiché, anche nel caso in cui un vero ideale di giustizia prevalesse su una palese violazione dei diritti umani, alla fine resta sempre la domanda di fondo: “Adesso che facciamo perché la cosa non si ripeta? Esiste un paradigma positivo cui possiamo fare riferimento in maniera oggettiva?”.

NEWS del 1° Maggio

È piuttosto impressionante vedere come nella UE gli statisti che si rifanno al socialismo o alla socialdemocrazia siano, salvo eccezioni, perfettamente in linea con gli statisti neoliberisti in merito all’idea di opporsi con tutte le forze alla Russia. Neanche che questa fosse comunista…
Paradossalmente sono più feroci contro la Russia, che pur ci ha riforniti di tante materie prime a basso costo (di cui quelle energetiche sono state fondamentali per garantire alla UE grande competitività nel mondo), che non contro la Cina, che pur si dichiara ufficialmente socialista e che con le sue merci sottocosto manda in fallimento le nostre imprese e i nostri negozi, salvo quelli naturalmente che in qualche maniera fanno affari con gli stessi cinesi.
Perché questa russofobia? Perché questa assoluta miopia? questa inspiegabile ingratitudine?
Una volta si capiva di più che il socialismo o la socialdemocrazia occidentale odiasse visceralmente il comunismo sovietico, il leninismo, lo stalinismo, il socialismo statalizzato. Ma oggi tutto ciò non esiste più.
La stessa classe operaia europea produce armi con cui si distruggono popolazioni straniere. E anche quando non siamo in guerra, questo proletariato industriale, una volta considerato il fiore all’occhiello del socialismo scientifico, non fa che produrre inquinamento per l’ambiente, esattamente come la classe agraria quando produce per il mercato.
Questo per dire che la socialdemocrazia borghese ha stravinto in Europa. Che bisogno ha di pretendere la sconfitta della Russia? Prima del 2022 si andava d’amore e d’accordo. Che cosa ci è successo? Non è possibile che nei nostri statisti si sia maturata un’acredine così ideologica senza alcuna vera motivazione. Si ha insomma la netta impressione che la Russia, ma anche la Cina, siano solo pretesti da utilizzare per nascondere agli occhi dell’opinione pubblica il fallimento generale di un sistema, quello del capitalismo privato, un fallimento progressivo, incalzante, che ha subìto un primo duro colpo ai fianchi con la crisi dei subprime americani del 2008, un secondo colpo con la pandemia, un terzo colpo con l’illusione di vincere celermente la guerra contro la Russia, e un quarto colpo con l’incredibile sviluppo economico della Cina.
Gli statisti europei non riescono più a controllare la situazione e probabilmente stanno per compiere qualcosa che li metterà definitivamente al tappeto. Dipenderà molto da come sapranno reagire gli stessi europei, la cui pazienza non potrà durare all’infinito.

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Nell’articolo “Commercio britannico”, pubblicato sul “New York Daily Tribune” il 3 febbraio 1858, Marx previde che il maggior Paese imperialistico della sua epoca, l’Inghilterra, sarebbe stato costretto, a causa dell’esportazione di merci e capitali, cui doveva corrispondere un aumento delle importazioni, a finanziare i suoi concorrenti, cioè l’America, e così a scavarsi la fossa.
Infatti esportare senza importare può essere fatto se si domina in toto una colonia. Ma se in quella colonia emigrano gli stessi abitanti della madrepatria imperialista, questi stessi diventano imprenditori e commercianti e quindi vogliono esportare, e vogliono farlo alla pari, senza dover subire dazi sanzioni embarghi… Ecco perché gli americani fecero una rivoluzione anticoloniale contro gli inglesi. Al tempo in cui scriveva Marx l’Inghilterra stava già subendo un certo disavanzo commerciale, proprio perché gli americani stavano diventando più competitivi. E non solo loro, ma anche i cinesi, gli indiani, i russi, ecc. I prezzi erano più bassi e la qualità era equivalente.
A volte non c’è neppure bisogno di occupare un Paese per farlo diventare una colonia per il capitalismo. I suoi stessi abitanti, imitando i ritrovati tecnologici dei Paesi più avanzati, entrano da soli, spontaneamente, nel mercato capitalistico (vedasi, per es., il Giappone, che passò dal feudalesimo al capitalismo avanzato in pochissimo tempo).
Oggi gli USA stanno vivendo lo stesso rapporto col mondo, soprattutto con la Cina. Sono stati loro a volere un mercato globale, un free market. Vengono finanziati dal resto del mondo esattamente come lo erano gli inglesi, perché il mondo non comprava solo le loro merci, ma doveva pagare anche i propri debiti.
Tuttavia, come con gli inglesi il mondo si è stufato d’essere sfruttato, così oggi vuole farlo nei confronti degli americani. Tanto più che gli USA non han più niente da vendere, o comunque niente che sia più competitivo di quello che viene da altri Paesi del mondo.

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Il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) ha rilasciato i numeri delle spese militari nel mondo per il 2024, decimo anno consecutivo di aumento della spesa militare globale.
Con 2,7 trilioni di dollari la spesa militare globale ha raggiunto la sua nuova cifra record, con un aumento del 9,4% rispetto all’anno precedente.
Gli Stati Uniti sono il primo Paese con 997 miliardi di dollari di spesa, il 37% delle spese militari totali mondiali.
Stati Uniti, Cina, Russia, Germania e India rappresentano il 60% della spesa globale totale. La Germania, nella UE, è quella che spende di più: 88,5 miliardi di dollari (il 28% in più). Anche Polonia e Svezia hanno registrato aumenti significativi, con una spesa rispettivamente del 31% e del 34%. In generale la UE è arrivata a 693 miliardi di dollari (il 17% in più).
Naturalmente l’Ucraina ha registrato il più alto onere militare al mondo nel 2024, con una spesa militare pari al 34% del suo PIL. Tutte le entrate fiscali del Paese sono state assorbite dalle esigenze di difesa, mentre la spesa sociale ed economica si è basata interamente sugli aiuti esteri.
Israele, a causa delle sue continue guerre, cui sembra non possa fare a meno, ha guidato la corsa all’armamento, aumentando la sua spesa militare del 65% (46,5 miliardi di dollari). L’onere militare del Paese è salito all’8,8% del PIL, il secondo più alto al mondo, che poi, in gran parte, viene pagato dagli USA. A confronto l’Iran è un poveraccio: spende solo 7,9 miliardi di dollari, nonostante il sostegno che deve dare a Hezbollah e Houthi.
La Cina ha proseguito la sua modernizzazione militare su larga scala, spendendo circa 314 miliardi di dollari nel 2024, con sviluppi in velivoli stealth, droni e un arsenale nucleare in rapida espansione.
Anche il Giappone ha aumentato il suo bilancio militare del 21%, portandolo a 55,3 miliardi di dollari: questo perché teme d’essere invaso dalla Cina, senza voler ammettere che lo è già dagli USA sin dai tempi delle atomiche.
Insomma oltre 100 Paesi si armano in maniera incredibile, come se non dovesse esserci un domani, come se i programmi socioeconomici non contassero assolutamente nulla. E di questi Paesi quelli che fanno più paura appartengono all’occidente collettivo, che non ha nessuna intenzione di cedere lo scettro ai concorrenti.
Tuttavia la cosa che più stupisce è un’altra. La NATO in totale ha speso 1.506 miliardi di dollari (il 55% della spesa militare globale) e ha perso la guerra con la Russia che ne ha spesi solo 149! Negli ultimi 10 anni i Paesi europei appartenenti alla NATO hanno speso 1.800 miliardi di euro in più rispetto alla Russia!
Qui le conclusioni che si possono trarre sono due: o non sanno spendere i soldi, oppure Russia e Cina li sanno spendere benissimo. E poi la scriteriata della von der Leyen, nota per buttar via i soldi altrui, ci viene a raccontare che bisogna aumentare le spese militari di altri 800 miliardi di euro a livello europeo?

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Mi è piaciuta la “Lettera aperta al Presidente Mattarella” spedita dal prof. Augusto Sinagra il 20 febbraio 2025.
Sul piano del metodo il punto focale, secondo me, è il seguente: “secondo la Costituzione, non appartiene alle competenze del Capo dello Stato la gestione o l’orientamento della politica estera della Nazione, che è prerogativa del governo e del parlamento.”
In effetti un Presidente dovrebbe essere più equidistante e far rispettare a tutti i governi in carica la Costituzione. L’art. 11 parla chiaro. Inviare armi a un Paese belligerante potrebbe essere fatto, al massimo, dopo una risoluzione dell’ONU, che non c’è mai stata per il conflitto russo-ucraino.
Personalmente poi ritengo che neanche in presenza di una risoluzione del genere, l’Italia dovrebbe farlo. Al massimo potrebbe inviare aiuti economici o finanziari o qualunque altra forma di assistenza, ma non armi, né consiglieri militari. Dovrebbe puntare esclusivamente sulla diplomazia, in maniera martellante, al massimo minacciando qualche sanzione, che non colpisca però la popolazione civile. Sanzioni fattibili sono quelle del ritiro degli ambasciatori o quella dell’espulsione dall’ONU o quella di una condanna da parte di una Corte Internazionale, e cose del genere.
Sarebbe invece da discutere, sul piano del merito, il problema sollevato dallo stesso Sinagra là dove afferma che “il diritto internazionale conosce l’Istituto della ‘legittima difesa preventiva’. Cioè proprio la Carta dell’ONU consente il legittimo intervento armato di uno Stato contro altro Stato se ciò appare veramente finalizzato a porre fine a una violazione sistematica e massiccia dei diritti umani fondamentali.”
Qui è impossibile dargli torto, poiché la guerra in corso avrebbe potuto essere evitata rispettando i due Accordi di Minsk, che in sostanza non erano altro che una riedizione degli accordi che lo stesso Stato italiano aveva stipulato col Sud-Tirolo, ribattezzato Alto-Adige dal fascismo.
Semmai lo si può contestare laddove afferma che la Russia non ha mai attaccato nessuno: l’ha fatto in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. È vero ch’erano già due Paesi del COMECON, ma se ci fosse stato Lenin, non ci sarebbe stato alcun intervento armato, poiché lui prevedeva che una nazionalità dell’URSS fosse libera di andarsene.
Fonte: https://www.ilgiornaleditalia.it/news/politica/684363/lettera-aperta-al-presidente-mattarella-la-invito-calorosamente-a-presentare-le-sue-scuse-al-popolo-russo.html

NEWS del 28 aprile 2025

In questa guerra russo-ucraina l’atteggiamento più curioso degli occidentali (americani ed europei in primis) è la totale incapacità ad ammettere che la Russia sul piano militare è più forte dell’intero occidente collettivo.
Sono passati oltre tre anni e non c’è stato neanche un momento in cui le forze armate russe abbiamo mostrato che in una guerra di logoramento avrebbero potuto essere sconfitte.
La guerra è rimasta sul piano convenzionale (per fortuna, bisogna dire) e la NATO l’ha persa. La Russia ha saputo tener testa, da sola, a 32 Paesi! Non solo, ma, mentre vinceva sul piano militare, si riorganizzava su quello economico-finanziario, affrontando con successo le mille sanzioni occidentali, il congelamento di 300 miliardi di dollari della propria Banca centrale, e persino contribuendo alla creazione di un mondo multipolare e di una mastodontica organizzazione come quella dei BRICS, per non parlare delle nuove relazioni stabilite con quei Paesi africani che vogliono liberarsi del colonialismo europeo.
Dunque, a questo punto, l’occidente cos’ha intenzione di fare? Vuol fare intervenire direttamente la NATO nel conflitto, mantenendolo sul piano convenzionale? Vuole trasformarlo da convenzionale a nucleare? Prima di scendere in campo esplicitamente vuole investire miliardi di capitali nel riarmo? Al momento sembra che stia chiedendo all’Ucraina di resistere il più possibile, cioè il tempo sufficiente affinché la NATO si riarmi per bene e che possa dichiarare guerra alla Russia con un esercito numericamente non inferiore a quello russo. Ma può l’Ucraina resistere altri 3-4-5 anni?
Diciamo questo perché, a leggere le proposte di pace americane ed europee, appare chiaro che non esiste un vero negoziato risolutivo. Alla Russia si chiede soltanto di retrocedere dai territori conquistati. Sul piano giuridico le si riconosce solo la Crimea. Tutti gli altri territori vengono riconosciuti di pertinenza russa solo pro tempore, nel senso che se è vero che al momento li hanno conquistati militarmente, è anche possibile che li perdano in un prossimo futuro.
Si pretende, come base di partenza per una trattativa, la fine delle ostilità, cioè l’occidente pretende una cosa come se sul campo di battaglia fosse lui a vincere. Infatti parla di un cessate il fuoco totale e incondizionato in cielo, a terra e in mare, e che il rispetto di questo ceasefire sarà monitorato dagli Stati Uniti e sostenuto da Paesi terzi, i quali non possono essere disarmati.
Un’Unione Europea altamente belligerante e perdente chiede alla Russia come deve regolarsi nelle trattative di pace. Mi chiedo se nella storia delle guerre del genere umano si sia mai vista una cosa del genere. Sembriamo un chihuahua che abbaia a un rottweiler.

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Ammettiamo una cosa inconfutabile: dai tempi dell’espansione della NATO verso est l’occidente non ha mai fatto una proposta relativa alla sicurezza generale del continente europeo, valida per tutti i Paesi che lo compongono.
Altra verità lapalissiana è che la Russia non è solo un Paese asiatico, ma anche europeo. E la sua sicurezza esistenziale non può essere decisa dagli USA, dalla UE o dalla NATO. Va decisa, come minimo, in una conferenza europea, se non internazionale, visto che non si potrebbero escludere gli Stati Uniti.
Ma poi, pensiamoci bene, considerando che i commerci si svolgono a livello mondiale, come potrebbe essere esclusa da una conferenza del genere un Paese come la Cina? Chi più di lei avrebbe bisogno che nel continente europeo fosse garantita una pace di lunga durata? Un Paese che investe centinaia di miliardi nelle infrastrutture solo per potersi espandere commercialmente nel mondo, ha bisogno come il pane di sicurezza e stabilità.
Ebbene, in Europa non ci sono neanche le basi minime per assicurare la pace nel continente. E non possiamo credere che tale pace possa essere garantita dalle sceneggiate clownesche di Trump.

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Non facciamoci illusioni. Stiamo sì assistendo, in tempo reale, alla fine del capitalismo occidentale, ma non a quella del capitalismo in sé. Si tratta solo di un passaggio di testimone da una forma a un’altra.
Nella storia del genere umano queste transizioni sono eventi naturali, anche se per lo più avvengono in maniera cruenta, poiché, quando si costruiscono potenti società schiavistiche (e anche la nostra lo è, seppure il salariato è giuridicamente libero), non piace morire nel proprio letto: si preferisce combattere il più possibile.
Si pensi al passaggio dalla civiltà greca a quella romana, che rappresentavano due forme di schiavismo privato, con la differenza che uno era basato sull’autonomia delle città-stato, che alla bisogna si univano tra loro per formare delle leghe, mentre l’altro faceva del diritto, della cittadinanza, dell’impero e del suo principe qualcosa di universale.
Lo schiavismo statale era invece rappresentato da Egitto e Persia, che nulla poterono contro i Romani, il primo, e contro i Greci, la seconda.
I Romani erano affascinati dalla cultura greca, ma questo non gli impedì di dominarli fino a quando Costantino non decise di trasferire la capitale dell’impero a Bisanzio, favorendo così un’altra epocale transizione, quella dal paganesimo al cristianesimo.
Oggi sta avvenendo la stessa cosa: Russia e Cina, dopo aver ammesso la superiorità occidentale sul piano tecnico-scientifico, ora ci stanno facendo vedere di sentirsi superiori: l’una sul piano militare, l’altra su quello economico, ed entrambe contro l’intero occidente collettivo.
Smettiamola però con le infatuazioni, con gli entusiasmi da stadio. Sempre capitalismo è. E non diventa più umano o più democratico solo perché l’iniziativa produttiva e commerciale è controllata dallo Stato; o solo perché, come succede in Cina, il capitale viene schermato o circonfuso ideologicamente dalle dottrine del socialismo scientifico, seppur con caratteristiche atipiche.
Diciamo solo che in questo momento noi occidentali dobbiamo abbassare la cresta e guardare le cose da un angolo. Anzi, se fossimo davvero intelligenti, come nel passato abbiamo dimostrato in tanti campi dello scibile umano, dovremmo iniziare a cercare qualcosa che vada oltre i soliti criteri del profitto industriale o della rendita finanziaria, che noi stessi peraltro abbiamo inventato. E questo naturalmente senza ripetere gli errori del socialismo statalizzato.

NEWS del 27 aprile

Funzionari ucraini ed europei hanno respinto alcune proposte statunitensi su come porre fine al conflitto ucraino.
Ma cos’è che dà tanto fastidio? Il riconoscimento alla Russia dei territori sud-orientali che ha conquistato sul campo o che hanno voluto passare sotto Mosca tramite regolari referendum? Queste non sono cose che Putin potrà mettere nel negoziato. Se non vengono riconosciute, la trattativa non parte neanche.
Peraltro gli USA riconoscono de jure solo il possesso della Crimea; per gli altri quattro territori (Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson) accettano solo un possesso de facto, dovuto alla forza militare non al diritto dei referendum. Questa è una posizione assolutamente ridicola, poiché implica che, appena l’Ucraina si sarà ripresa militarmente, la guerra scoppierà di nuovo.
Mosca non può accettare neppure che possa essere istituito, preventivamente, un cessate il fuoco, e solo dopo l’avvio dei negoziati. Ancora non s’è capito che la procedura dev’essere invertita: prima l’occidente deve smettere di appoggiare finanziariamente e militarmente Kiev, poi Kiev deve chiedere la resa, e infine si stabilisce la divisione del territorio. In caso contrario la guerra continuerà ad libitum e i russi prenderanno sempre più territori, benché non siano interessati all’area occidentale del Paese, a ovest del Dnepr. A meno che la NATO non voglia entrarvi: in tal caso procederà a occupare anche questa parte del Paese.
L’altra assurda proposta americana prevede che l’Ucraina riconquisti il territorio nella provincia di Kharkov (Kharkiv), che confina proprio con le due regioni di Donetsk, Luhansk. Certo, così da lì, tra qualche anno, i neonazisti potrebbero far ripartire il contrattacco. Proprio non ci siamo. Quello che si è conquistato sul piano militare non può essere ceduto in alcuna maniera. Neppure gli USA lo farebbero. Non si capisce perché debba farlo la Russia.
Anche l’idea stessa che gli USA si prendano il controllo della centrale nucleare di Zaporizhzhia non sta né in cielo né in terra. È inutile che Trump dica che è Zelensky a non volere la pace. È altrettanto inutile che minacci la Russia di spiacevoli conseguenze se non accetta proposte del genere. La pace non può essere ottenuta pensando di fare un favore agli interessi economico-finanziari degli USA, tanto meno se su un territorio già russo.
La delegazione americana chiede anche che gli ucraini possano ottenere un passaggio senza ostacoli lungo il fiume Dnepr, che arrivi sino al controllo della costa di Kinburn, occupata dai russi sin dal maggio 2022. Così, di fatto, potranno accedere al Mar Nero da un territorio già russo, osservando bene l’intera flotta russa e organizzando degli attentati terroristici contro i russi, civili o militari che siano. Anche questa è una proposta fantapolitica, che fa solo perdere tempo. Peraltro proprio a Kinburn si svolse nel 1855 una battaglia navale che i russi persero contro gli anglo-francesi durante la guerra di Crimea. Non lo sanno gli occidentali che i russi sono un popolo amante dei simboli?
Altra proposta priva di qualunque prospettiva: la sicurezza dell’Ucraina sarà garantita da Paesi europei e “altri Paesi amici” (?). Ovviamente l’Ucraina non entrerà nella NATO ma potrà sempre entrare nella UE. Si può essere più antidiplomatici di così? Come può Mosca accettare una presenza militare europea, seppur con funzioni di peacekeeping, quando in questo momento la UE viene considerata l’ostacolo principale al raggiungimento della pace (tant’è che non viene neppure ammessa in sede negoziale)? Peraltro, essendo la UE quasi coincidente con la NATO, è evidente che, se anche si assicura che l’Ucraina non entrerà nella NATO, questa però entrerà in Ucraina.
E che dire della proposta economica di Trump, relativa al fatto che Washington e Kiev attueranno un accordo di cooperazione in materia di minerali? In quali territori ciò avverrà se ancora non si sa come sarà divisa l’Ucraina?
Insomma l’unica cosa valida delle proposte americane riguarda la revoca delle sanzioni e la ripresa della cooperazione economica in materia di energia e altri settori industriali. Ecco, deve essere stata questa cosa che agli statisti russofobici della UE non è andata a genio. Per loro le sanzioni devono rimanere a tutti i costi e i miliardi congelati alla Banca centrale della Russia vanno utilizzati per ricostruire l’Ucraina.

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Ha scritto Trump: “Putin non aveva motivo di lanciare missili contro aree civili, città e paesi negli ultimi giorni. Questo mi fa pensare che forse non vuole fermare la guerra, ma sta solo giocando con me e che bisogna trattarlo in modo diverso, attraverso ‘operazioni bancarie’ o ‘sanzioni secondarie’? Troppe persone stanno morendo!”.
Trump parla come un bambino viziato, capriccioso. Appena dice qualcosa, pretende che gli altri si conformino ai suoi desiderata, come fossero dei lacchè. Non capisce che Putin va trattato come suo pari. Non è uno scolaretto che va punito per colpa di qualche marachella. Anche perché potrebbe, se volesse, distruggere completamente l’Ucraina in pochi giorni. E non ci sarebbe alcun Paese al mondo in grado di fermarlo. Se non lo fa, è perché ha un certo senso dell’etica, è lontanissimo dall’idea di terrorizzare i civili, tanto più che gli ucraini sono strettamente imparentati coi russi. Lo sono da quando il cristianesimo ortodosso ha messo le prime radici tra gli slavi proprio in quel Paese. La Chiesa russa fa risalire le sue origini al battesimo del principe Vladimir I di Kiev nel 988. Per i russi non ha alcun senso distruggere questa nazione. Sarebbe come cancellare la propria memoria. Né possono farlo per far capire agli occidentali che non hanno intenzione di scherzare. Non possono radere al suolo Kiev per far capire agli euroamericani che devono smettere di sostenere militarmente i neonazisti che governano il Paese.
Sono in grado gli americani o gli europei di capire questa cosa? Sarebbero disposti gli americani a bombardare a tappeto una città come Londra? Le atomiche le hanno sganciate sui giapponesi perché li consideravano una razza inferiore. Ma non l’avrebbero mai fatto sulla Germania nazista, che pur non era meno feroce del Giappone.
A volte ci si chiede: la von der Leyen, la Kallas, Borrell, Stoltenberg, Rutte, Metsola, Macron, Starmer, Draghi, Meloni, Tajani e tanti altri statisti e persone di spicco in Europa da dove vengono? In quale pianeta vivono? Che studi hanno fatto? Hanno mai capito qualcosa dei russi o degli slavi in generale? Riescono vagamente a intuire che non hanno radici culturali identiche alle nostre?
Insomma si fa una certa fatica a capire se Trump sia proprio limitato di suo, o se sia impossibile aspettarsi che gli USA possano votare un presidente migliore. Da come parla, sembra che gli americani non sappiano nulla né di storia né di democrazia. Si esprimono come da noi si potrebbe fare al bar o dal barbiere.

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Forse non ci rendiamo bene conto che contro i russi, in una guerra convenzionale, è impossibile vincere. È un territorio troppo grande.
Hitler infatti non pensava minimamente di occupare la sua area asiatica. Sapeva benissimo di non averne le forze. Si sarebbe accontentato dell’area europea, che per lui andava dal Mare di Barents al Mar Nero. Semplicemente sperava che, occupando Mosca, l’intera URSS si sarebbe arresa. Tuttavia quando si rese conto che Mosca non riusciva a espugnarla, fece un errore che pagò caro: invece di attestarsi sulle posizioni già acquisite, decise di occupare Stalingrado, poiché gli facevano gola le riserve energetiche del Caucaso.
Forse pochi sanno che il tentativo di conquistare questa città, gli costò una sconfitta colossale: 1,5 milioni di uomini, tra morti, feriti e arresi. Non si era mai vista una cosa del genere. Lo stesso Hitler fu costretto a dichiarare il lutto nazionale nel febbraio 1943.
Nonostante ciò non si arrese. Anzi, nel saliente di Kursk, fu organizzata una gigantesca battaglia di carri armati: in tutto ve n’erano 1.200. I nazisti erano convinti che i loro Tigre, Pantera e Ferdinand fossero migliori, imbattibili. Invece fu un’altra tragedia: i tedeschi persero un altro mezzo milione di uomini.
Sappiamo tutti come andò a finire. I nazisti si arresero solo a Berlino. Ma, prima di questa resa incondizionata, aveva già perso milioni di militari. Sono cifre che nessuna “NATO” al mondo, per nessuna ragione, potrebbe sopportare, nessun Paese occidentale sarebbe disposto a sostenere, neanche se si preparasse alla guerra nell’arco di una decina d’anni.
I tedeschi iniziarono la guerra in Russia il 22 giugno 1941 e la terminarono in Germania l’8 maggio 1945. Nessun esercito europeo o americano sarebbe in grado di condurre una guerra così devastante per un periodo così prolungato e con perdite così colossali. La stessa Russia perse oltre 27 milioni di persone. L’intera Italia a quel tempo arrivava a circa 45 milioni di abitanti. Immaginiamo cosa possa voler dire che, finita la guerra, più di una persona attorno a ognuno di noi è scomparsa.
Quando la NATO attacca usa la tattica hitleriana della guerra-lampo. Questo vuol dire che prepararsi per una guerra convenzionale di lungo periodo, destinata ad avere perdite colossali, è una cosa che può venire in mente solo a dei politici che non sanno nulla di questioni militari. Al loro confronto i nostri generali sono delle menti illuminate.
Dunque una guerra contro la Russia può essere condotta solo sul piano nucleare, col rischio però di tornare, nel migliore dei casi, all’età della pietra.
L’occidente ha provato a distruggere la Russia al tempo della guerra fredda, usando propaganda, spionaggio e consumismo, e quasi vi era riuscito. Ma con Putin la musica è cambiata. I russi se lo ricorderanno nei secoli a venire.
La Russia non ha solo infinite riserve sul piano energetico, ma anche grandi capacità di riscatto sociale, di orgoglio nazionale, di tenuta morale, di spirito collettivistico, di sopportazione dei sacrifici che noi in Europa (ma diciamo pure nell’occidente collettivo) abbiamo perduto dopo molti secoli di vita borghese.
Tenere in allarme le popolazioni europee può voler dire solo una cosa: gli statisti, e naturalmente tutte le oligarchie che loro rappresentano, essendo profondamente corrotti, si stanno preparando a sostituire la democrazia formale con una dittatura reale. La Russia servirà solo come pretesto, proprio perché nessuna dittatura ha senso se non vi è un pericoloso nemico da sconfiggere. E gli Stati Uniti faranno lo stesso con la Cina, tanto tra europei e americani ci s’intende.

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In Italia il mainstream ha taciuto del fatto che Zoran Milanović ha trionfato nel secondo turno delle elezioni presidenziali croate, tenutesi lo scorso 12 gennaio, venendo confermato alla guida del Paese per un altro mandato quinquennale (il regime però è parlamentare non presidenziale, e sia il parlamento che il governo restano sotto il controllo del centro-destra, apertamente filo-atlantista).
Aveva avuto un risultato schiacciante: il 74,68% dei voti, contro il 25,32% raccolto dal suo avversario, Dragan Primorac, candidato sostenuto dall’Unione Democratica Croata, formazione di centro-destra che fa capo al premier Andrej Plenković, e che è stata oggetto di numerosi scandali di corruzione, tant’è che al tempo del suo primo mandato, anche grazie alle sue denunce, ben 30 ministri furono costretti a dimettersi.
La vittoria è stata snobbata perché rappresenta un segnale politico che vede sempre più popoli europei votare contro le politiche militariste della NATO e dell’Unione Europea.
Già durante il suo primo mandato Milanović (sostenuto dalle forze di centro-sinistra e in particolare dal partito socialdemocratico) aveva bloccato l’invio di ufficiali croati alla missione NATO in Germania per la formazione di truppe ucraine e aveva promesso che nessun soldato croato avrebbe partecipato a missioni in Ucraina.
Milanović ha sottolineato l’importanza di proteggere il Paese dall’essere “trascinato in guerra” e ha ribadito che il suo obiettivo è mantenere una posizione equilibrata che tenga conto degli interessi nazionali, piuttosto che seguire ciecamente i diktat di Bruxelles e Washington.
Insomma sarebbe una gran cosa se nella UE si cominciassero a premiare dei politici o degli statisti che promuovono una visione più indipendente della politica estera, opponendosi all’interventismo militare.