Val davvero la pena conoscere la storia delle civiltà che hanno distrutto la natura e altre civiltà (umane e disumane)? Davvero pensiamo che lo studio di aspetti negativi della storia possa servirci per non ripeterli? E allora perché ancora oggi presentiamo l’epoca cosiddetta “preistorica” come una fase da cui era necessario uscire per creare le civiltà? Perché vediamo gli uomini primitivi non in funzione di quello che erano ma di quello che dovevano diventare?
Oggi forse, considerando i disastri delle ultime due civiltà (quella capitalistica e questa socialista di stato, cui si sta aggiungendo quella socialista di mercato, stando almeno all’esperienza cinese), sarebbe meglio conoscere, della storia, solo quelle cose che ci possono aiutare a uscire dalle civiltà cosiddette “antagonistiche”, quelle che si sono venute formando a partire dagli Egizi e dai Sumeri.
Noi oggi studiamo le civiltà cercando di scorgere in esse le radici della nostra. Siccome ci sentiamo autoreferenziali e ai vertici del progresso mondiale, quando studiamo il passato, noi in realtà studiamo sempre noi stessi, il nostro passato di occidentali, borghesi, mercanti, affaristi, il nostro passato di tecnici, ingegneri, architetti o di scienziati, militari, dirigenti di qualcosa di produttivo, dominatori di qualcosa d’importante, propagatori di idee assolute e universali…
Noi studiamo la nostra infanzia, la nostra adolescenza, per compiacerci di quello che siamo oggi. Cerchiamo nel passato solo delle conferme per il nostro presente. Facciamo questo perché siamo convinti che non ci possa essere un futuro diverso dal nostro presente; siamo convinti che al nostro sistema di vita non ci possa essere alternativa, sia perché – consciamente o inconsciamente – lo riteniamo il migliore, sia perché, in ogni caso, lo riteniamo invincibile, indistruttibile, almeno se messo a confronto con altre civiltà antagonistiche contemporanee.
Siamo troppo forti economicamente, troppo potenti militarmente perché qualcuno possa credere di abbatterci. Chiunque pensi di farlo, non farà che rafforzarci, perché offrirà soltanto pretesti alle nostre continue esigenze di imporre le nostre ragioni con l’uso della forza (ammantata, naturalmente, con le vesti del diritto).
Siamo una civiltà violenta per definizione e se qualcuno cerca di difendersi da noi, noi diciamo che si sta violando la pace, la democrazia, il diritto internazionale. Chi cerca di modificare lo status quo, in cui noi abbiamo un ruolo privilegiato, si mette dalla parte del torto. Noi siamo come i Greci e i Romani, che consideravano “barbari” tutti quelli che non erano come loro.
Chiunque voglia distruggerci usando la forza, perirà miserabilmente. Quante volte abbiamo detto, nei conflitti regionali da noi stessi fatti scoppiare: “Abbiamo armi sufficienti per farvi tornare all’età della pietra”? Che poi questa frase piace di più ai militari che non agli affaristi, che preferiscono invece l’altra: “Non vi preoccupate delle distruzioni; abbiamo mezzi per ricostruire tutto: basta che paghiate”.
Solo una civiltà più forte della nostra potrebbe impensierirci, ma in questo momento dov’è? Neppure se tutti i musulmani del mondo si alleassero, sarebbero più forti di noi. Forse se lo facessero Cina, Russia e India (che insieme, quanto a risorse umane e materiali, fanno quasi la metà dell’umanità), ma per una cosa del genere ci vorrebbero dei secoli.
Noi siamo omogenei, loro no. Noi siamo gerarchici, loro no. Da noi tutto l’occidente è sotto la tutela militare ed economica degli Usa. L’India potrebbe mai esserlo della Cina? o la Cina della Russia? Prima che esista un’alternativa all’occidente, occorre che in oriente la Cina (che in questo momento, dei tre suddetti colossi è la più forte, anche se le maggiori risorse energetiche sono della Russia) s’imponga con la forza sugli Stati limitrofi, ma anche per questo ci vorranno dei secoli.
E in ogni caso, quando arriverà quel momento, noi avremo soltanto ottenuto la sostituzione di una civiltà con un’altra. Non avremo fatto neanche un passo avanti in direzione dell’umanizzazione dei nostri rapporti sociali. Ecco perché dobbiamo studiare sin da adesso il modo di uscire non solo dall’occidente, ma anche dallo stesso concetto di “civiltà”. Noi dobbiamo studiare tutto quanto ci serve per non apparire “civili”, tutto quanto ci serve per diventare “barbari” e “selvaggi”.
Dovremmo anzitutto chiederci quali sono le cose assolutamente essenziali che ci permettono di sopravvivere e a cui non potremmo rinunciare per alcuna ragione. Vediamole: aria pulita, acqua pulita, una fonte di calore, una fonte di luce, un mezzo ecocompatibile per muoverci, uno spazio in cui vivere, un rapporto equilibrato con la natura e con gli animali, un’occupazione utile alla collettività, degli abiti con cui vestirci, la possibilità di riprodurci.
E poi cosa? Cosa di veramente essenziale oltre a questo? La possibilità di prendere decisioni comuni, la necessità di rispettare l’altro per quello che è e di ricondurre ogni azione alla valorizzazione dell’umano che è in noi.
E poi cosa? Cosa di veramente irrinunciabile oltre a questo? Avere dei libri da leggere? una musica da ascoltare? un film da vedere? la possibilità di coltivare l’arte, la cultura, lo svago, il tempo libero, il divertimento…? Pensiamoci bene, perché su questo ci divideremo. Bisognerà essere ben consapevoli che non si possono pretendere cose che altri non possono avere, né, tanto meno, si può pretendere il surplus quando a tutti non viene garantito neppure l’essenziale.
Dovremmo fare un discorso serio, impegnato, collettivo, su ciò che è veramente essenziale per riprodursi e ciò che invece è futile, facoltativo, secondario… Se partissimo dall’idea di consumare ciò che produciamo, ridurremmo al minimo le spese, gli sprechi, il superfluo. Se ci chiedessimo, ad ogni nostra azione, in quale altra maniera meno dispendiosa avremmo potuto farla (meno impattante sull’ambiente), avremmo sicuramente molto più rispetto della natura.
La parola “sviluppo” va bandìta dal vocabolario ecologista, poiché essa si riferisce unicamente a parametri quantitativi, che sono i primi a negare uno sviluppo qualitativo della coscienza, della dignità umana. La qualità della vita non può sottostare agli indici quantitativi del prodotto interno lordo, anche perché è immorale vedere che un alto indice di produttività può essere compatibile con un alto indice di disoccupazione o che, in ogni caso, la piena occupazione resta un miraggio a prescindere da qualunque indice di produttività.
Se vivessimo non al di sopra delle nostre possibilità, senza sognare che vi sia sempre qualcuno che risolverà i nostri problemi, evitando con cura di scaricare sulle generazioni future il compito di sanare i nostri disastri, noi capiremmo meglio il concetto di responsabilità. Noi, in questa civiltà, siamo abituati a rifiutare la responsabilità personale delle nostre azioni e a delegarla sempre allo Stato, al sistema, alle istituzioni…
Noi non potremmo permetterci neanche lontanamente il benessere che abbiamo, se sotto di noi non vi fosse l’80% di umanità da sfruttare. Sono 500 anni che andiamo avanti con questo sentimento di dominio internazionale (e per altri 500, nel basso Medioevo, l’abbiamo preteso a livello di Mediterraneo, per non parlare degli altri 500 della Roma imperiale). E pretendiamo ancora oggi di porci come modello per gli altri, quando, se davvero gli altri si comportassero come noi, noi saremmo in una condizione di guerra permanente.
Che poi, in un certo senso, lo siamo lo stesso, con la differenza che i conflitti regionali non sono a casa nostra (se non indirettamente, quando ammazzano i nostri militari o quando ci ritornano indietro devastati nella loro psiche) e se ce li fanno vedere troppo alla televisione, ce ne stanchiamo abbastanza in fretta.