Articoli

Usa: gli interessi sul debito superano le spese militari

di Mario Lettieri e Péaolo Raimondi**

Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano.

L’agenzia di stampa Bloomberg News stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.

E’ l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE.

Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!

Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente. La gran parte di quest’aumento si deve alla crescita di ben 184 miliardi per interessi sul debito. Sarebbe stato di 2.000 miliardi se la Corte Suprema non avesse bloccato il programma di cancellazione del cosiddetto “debito degli studenti”.

Il debito pubblico ha superato 26.200 miliardi, con un aumento di circa 2.000 miliardi rispetto al 2022. A ciò ha contribuito molto la diminuzione delle entrate di ben 457 miliardi, dei quali 456 sono meno tasse sui redditi dei cittadini. Altro che ripresa, è una realtà amara per la maggioranza della popolazione americana.

Gli alti tassi d’interesse hanno reso i prestiti più costosi, aumentando la pressione sul debito americano. Oggi i Treasury bond a 10 anni hanno un tasso di interesse di quasi 5 %, tre volte il livello di due anni fa! Nei mesi scorsi l’aumento dei tassi ha mandato a gambe all’aria parecchie banche regionali che erano piene di titoli pubblici a basso rendimento. La crescita dei tassi è andata di pari passo con l’inflazione. Adesso si afferma che quest’ultima sarebbe scesa al 3%. Molti si affidano alla smorfia napoletana per “indovinare” quali saranno i tassi futuri dei T-bond.

Questa situazione rischia di generare un permanente stato d’instabilità del bilancio federale. Il rischio di un shutdown al primo di ottobre era stato evitato all’ultimo minuto con un accordo bipartisan alla Camera dei deputati. Per legge, le agenzie federali devono far approvare dal Congresso i programmi di spesa per spendere i soldi. Il shutdown implica la sospensione di numerose operazioni del governo federale per mancanza di soldi, con effetti negativi sui lavoratori pubblici, sull’economia e sull’intera cittadinanza. Senza nuovi accordi, il 17 novembre ci potrebbe essere un nuovo shutdown. Certamente sarà ancora una volta evitato, ma queste montagne russe per il bilancio federale non sono un bel biglietto da visita per il resto del mondo.

A giugno scorso fu evitato il default con un accordo bipartisan, il “Fiscal Responsibility Act of 2023”, che sospende il fatidico tetto del debito federale fino al primo gennaio 2025. L’accordo prevede un limite di spesa discrezionale di 1.590 miliardi di dollari per due anni. In altre parole, il governo può prendere prestiti e spendere di più di quanto fissato nel bilancio federale. La ragione della crisi era dovuta al fatto che già in gennaio si era raggiunto il tetto del debito previsto per il 2023 di 31.400 miliardi. L’agonia fu protratta fino a giugno con “misure straordinarie” di carattere amministrativo-finanziario.

Persino due agenzie di rating americane, Standard &Poor’s e Fitch, da sempre molto generose nei confronti dei titoli americani, hanno dovuto ritoccare al ribasso il loro rating circa la capacità di ripagare il debito. Gli Usa hanno perso la tripla A, il massimo dei rating, e ciò potrebbe avere un effetto sia sul costo del debito sia sulla propensione degli investitori a fare prestiti al governo federale. Moody’s ha invece confermato la tripla A ma con un outlook da stabile a negativo.

Gli Usa guardano avanti e si aspettano che in dieci anni il debito federale sarà di 52.000 miliardi di dollari. Per il momento sembrano voler ignorare le cause profonde delle crisi, della finanza speculativa, delle banche too big to fail, dello shadow banking per concentrasi, invece, sul taglio delle spese sociali di bilancio e sull’aumento delle tasse. Non offrono nessuna idea nuova per affrontare i problemi succitati e i loro riverberi negativi in tutto il mondo, a partire dall’Europa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’Asean per una politica multilaterale


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi*
*
Nonostante i conflitti in atto e il rischio di guerra, qualcosa di positivo si muove nel mondo. Non ci sono solo i Brics che operano per una riorganizzazione economica e politica del pianeta in senso multilaterale. Nei giorni precedenti il vertice di settembre del G20 di Nuova Delhi, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ha tenuto il suo summit annuale a Jakarta, in Indonesia, proprio sul tema del multilateralismo. Ancora una volta, purtroppo, l’Europa ha pressoché ignorato l’evento, forse considerato “esotico”.

L’Asean è un’organizzazione intergovernativa regionale fondata nel 1967. Dopo l’Ue, l’Asean è considerata uno dei modelli di cooperazione regionale di maggior successo al mondo. Con i suoi dieci membri, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam, essa rappresenta 664 milioni di persone, l’8% della popolazione mondiale e il 3,5% del PIL globale (3.300 miliardi di dollari). Nel 2007 si è data una Carta valoriale e programmatica, con la creazione di organismi operativi come il Segretariato generale. Si propone di realizzare un’unione regionale politica e di sicurezza con l’eliminazione delle barriere doganali per una completa integrazione economica regionale.
Mantenendo relazioni importanti con i suoi partner chiave come Cina, India, Stati Uniti e Russia, essa si pone come organismo di incontro e di moderazione. L’Asean teme gli eventuali conflitti nei punti caldi della regione: il Mar Cinese Meridionale, il Mar Cinese Orientale, la Penisola Coreana e la questione di Taiwan.

Infatti, negli ultimi tempi la principale preoccupazione è stata l’acuirsi della contesa strategica tra Stati Uniti e Cina. L’Asean intende, perciò, far crescere il suo peso economico e la sua collaborazione interna proprio per accrescere anche il suo ruolo politico di bilanciamento. Proprio in quest’ottica il tema principale del vertice è stato “L’Asean: epicentro della crescita”.
Nella dichiarazione finale del citato incontro si afferma di voler diventare “il centro e il motore della crescita economica nella regione e oltre”. Con un tasso di crescita più rapido rispetto a quello attuale, intende rafforzare la resilienza del gruppo in tutte le aree identificate: salute, clima, sistemi alimentari ed energetici, catene di approvvigionamento e stabilità macroeconomica e finanziaria. La sicurezza alimentare è stata posta al centro del vertice. Davvero interessante tale scelta.

Il summit di Giacarta ha incluso anche il 18° vertice onnicomprensivo dei paesi dell’Asia orientale (Eas), che riunisce l’Asean e i suoi otto principali partner (India, Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti), in cui le rivalità e le tensioni della regione sono state messe a fuoco.
Joko Widodo, presidente dell’Indonesia e dell’Eas, ha avvertito che “se non saremo in grado di gestire le differenze, saremo distrutti”. E ha aggiunto: “Se ci uniamo alle correnti della rivalità, saremo distrutti”. Secondo noi, sarebbe un messaggio da recepire anche in Europa.

Il documento finale dell’Eas afferma di voler promuovere il dialogo e la soluzione pacifica di eventuali conflitti, riconoscendo il ruolo centrale di mediazione dell’Asean. Ci s’impegna anche a “promuovere un multilateralismo basato sulla legge internazionale e sui principi delle Nazioni Unite, compreso il rafforzamento dell’architettura multilaterale regionale”. L’Eas s’impegna anche a sostenere la cosiddetta “Chiang Mai Initiative Multeralization, come rete finanziaria regionale”. L’iniziativa di Chiang Mai fu la risposta alla crisi finanziaria dei paesi asiatici del 1997 e consisteva in un coordinamento tra le banche centrali contro le speculazioni. Fu rafforzata dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Oltre all’Asean, oggi vi fanno parte anche Cina, Giappone e Corea del Sud.

Nonostante fosse impegnato nell’organizzazione del G20 in programma a Nuova Delhi pochi giorni dopo, il primo ministro indiano Narendra Modi ha colto l’occasione del summit per andare a Giacarta e presenziare il 20° vertice Asean-India. L’India ha presentato delle proposte per rafforzare la cooperazione in tutti i settori, compresi quello marittimo e della sicurezza alimentare. Modi ha così sintetizzato il suo messaggio: “Il 21° secolo è il secolo dell’Asia”.
Sul fronte monetario anche l’Asean si muove da parecchio tempo per sottrarsi al dominio del dollaro.

Mentre si teneva il summit, il governo dell’Indonesia, l’economia più forte del gruppo, annunciava una task force nazionale, formata da diversi ministri e dalla banca centrale, per la de-dollarizzazione e l’utilizzo delle monete nazionali con i propri partner commerciali. La decisione seguiva il sostegno dichiarato nell’agosto precedente dai ministri dell’economia e dai governatori delle banche centrali dell’Asean per l’utilizzo delle monete locali nelle transazioni dell’intera regione.
°già sottosegretario all’Economia **economista

Piano Mattei per l’Africa: il progetto Transaqua

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In una recente intervista, citata in un articolo della rivista “Analisi Difesa”, l’ex primo ministro ed ex presidente della Commissione europea Romano Prodi affronta in modo concreto, lungimirante, anche giustamente polemico, lo sviluppo economico, infrastrutturale e sociale del continente africano. Lo fa da statista e non come uomo di parte.

Una delle aree più colpite dalla mancanza di sviluppo è quella del Lago Ciad, nel Sahel, la regione sub sahariana. Il lago sta scomparendo con l’avanzata del deserto. Dagli anni ’60 si è ridotto del 90% mentre la popolazione circostante è passata da 5 a 60 milioni. L’esistenza di intere comunità di agricoltori, di allevatori e di pescatori è minacciata. Secondo l’Onu, 34 milioni di persone sopravvivono grazie all’assistenza umanitaria La crisi ha provocato conflitti locali e ha favorito la penetrazione del terrorismo. La gente è in fuga verso tutte le direttrici dell’emigrazione.

La crisi non è inevitabile. Da più di quarant’anni c’è il progetto “Transaqua” che prevede un canale di 2.400 km con il trasferimento idrico per gravità dal bacino del fiume Congo verso il Lago Ciad. Ne abbiamo più volte scritto su questo giornale.

“Transaqua potrebbe essere una meravigliosa proposta, afferma Prodi, e l’Italia, che oggi lavora a un Piano Mattei per l’Africa, potrebbe fare da capofila, perché da sola non può farcela. Occorre una forte azione di sano lobbying, facendo appello all’Europa, alle Nazioni Unite, all’Unione Africana, agli Stati Uniti e anche alla Cina se serve. Occorrono la collaborazione di tutti e un cambio di paradigma. È ora di finirla con gli approcci separati in Africa, per i quali, ed è ormai sotto gli occhi di tutti, la Francia sta pagando un prezzo altissimo”.

Prodi ha parlato più volte di Transaqua negli anni passati, in particolare in qualità di inviato speciale Onu per il Sahel e di presidente della “Fondazione per la collaborazione tra i popoli”.

Il progetto fu presentato nel 1980 dalla società Bonifica, del Gruppo IRI, proprio quando Prodi ne era presidente. Esso permetterebbe la creazione di una vasta area di sviluppo agricolo e anche la produzione di corrente idroelettrica. Un volano di crescita che coinvolgerebbe direttamente i paesi che si affacciano sul bacino: Nigeria, Ciad, Camerun e Niger e, indirettamente, altri. Quarant’anni fa sarebbe costato 4 miliardi di dollari, oggi ne servirebbero circa 50. Sembra una somma enorme, ma non lo è se la paragoniamo alle decine di miliardi spesi in Africa per interventi tappabuchi, o al costo di un anno della guerra in Ucraina. Il G20 dovrebbe farlo suo, dando così concretezza ai tanti discorsi sul cambiamento climatico e alle tante promesse per lo sviluppo e per l’ambiente in Africa.

Nonostante esista una Commissione del Bacino del Lago Ciad (LCBC) che da decenni lavora per risolvere i problemi inerenti al prosciugamento del lago e nonostante che essa nel 2018 abbia identificato in Transaqua l’unica soluzione possibile, il progetto è sempre stato osteggiato, boicottato, a livello internazionale. Per esempio, Analisi Difesa cita un rapporto del 2020 finanziato dal Commonwealth britannico e da istituzioni del governo francese, “Soft Power, Discourse Coalitions and the Proposed Inter-Basin Water Transfer Between Lake Chad and the Congo River”, che sostiene che lo scopo di Transaqua, collocando l’idrovia al centro di un sistema più vasto di trasporti pan-africano, sarebbe “in linea con i precedenti sogni espansionistici dell’Italia nel Sahel”. Un’Italia neocoloniale nell’Africa sub sahariana? Assurdità. Che lo dicano poi inglesi e francesi…

“Quelle francesi, dice Prodi, sono obiezioni piuttosto curiose, come se in Africa non si debbano fare degli interventi infrastrutturali. Qui si tratta di aiutare la natura a recuperare una situazione di equilibrio interno a vantaggio dei popoli africani. E per capire l’importanza di Transaqua basta considerare che il bacino del Lago Ciad copre un ottavo del continente africano”.

Purtroppo la comunità internazionale sembra volersi ancora focalizzare più sugli interventi umanitari e ambientali di breve o medio termine che su interventi radicali e risolutori a lungo termine. Forse, tra non molto, la voce delle giovani generazioni africane si farà sentire più forte e il resto del mondo, soprattutto l’occidente, non potrà più ignorarla. In merito sarebbe bello se anche i giovani europei facessero sentire la loro voce.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Usa: debito, interessi e titoli pubblici


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi*
*
Quando all’inizio di agosto l’agenzia di rating Fitch ha declassato gli Usa da AAA a AA+ il governo americano ha subito risposto duramente. Janet Yellen ha dichiarato il suo totale disaccordo e definito “arbitraria” la decisione. Nel 2011 Obama reagì ancora più violentemente quando Standard & Poor’s fece lo stesso declassamento. Lo ricordino i governi europei quando le agenzie americane pontificheranno sull’andamento delle loro economie.
La ragione data da Fitch è troppo generica e non va al nocciolo del problema. Essa afferma che negli ultimi 20 anni c’è stato un continuo deterioramento negli standard di governance dell’economia anche rispetto alle questioni fiscali e debitorie”.
In verità, sarebbe stato opportuno entrare nel merito. Il debito pubblico americano totale (federale e regionale) è oggi di oltre 32.000 miliardi di dollari, era di circa10.000 miliardi quando esplose la grande crisi finanziaria del 2008. Si stima che entro la fine del decennio raggiungerà i 50.000 miliardi.

Inoltre, da molto tempo ogni anno i governi Usa non riescono a mantenere le spese entro i limiti di bilancio e, ritualmente, devono sfondare il tetto del debito per evitare la bancarotta dello Stato! Questa volta un accordo bipartisan ha deciso di sospendere il limite del debito federale fino a gennaio 2025, cioè per opportunità politica fino all’insediamento del nuovo presidente dopo le elezioni di novembre 2024. A seguito dello “sfondamento” del debito, si stima che quest’anno il deficit di bilancio salirà al 6,3% del pil. L’anno scorso era stato del 3,7%.

Il declassamento del rating inevitabilmente farà crescere il livello di interessi da pagare per le obbligazioni pubbliche, per i noti Treasury bond. Questo si andrà ad aggiungere all’aumento prodotto dagli alti tassi d’interesse imposti dalla Federal Reserve e giustificati come mossa indispensabile per contenere l’inflazione. A ciò occorre aggiungere che la Fed da mesi sta cercando di “smontare” il quantitative easing, evitando anche di comprare nuovi titoli di Stato o di rinnovare parte di quelli in scadenza.

Il risultato è che i titoli pubblici sono in una fase di grande fibrillazione. Il che non rivela soltanto un problema di gestione del debito pubblico. Come abbiamo visto nelle settimane passate, l’aumento del tasso d’interesse sui bond ha avuto pericolosissime ripercussioni sulla tenuta di alcune banche regionali, anche con dei veri e propri fallimenti.
Si noti che recentemente Moody’s ha declassato alcune banche regionali.
Infatti, il sistema bancario americano è pieno di titoli pubblici che, rispetto ai tassi di oggi, sono in perdita. Cercare di rimpiazzarli non è un’operazione lineare. Oltre a perdite da registrare nella foga delle vendite, l’effetto generale sui loro valori di mercato potrebbe essere molto destabilizzante per la loro tenuta.

Intanto, è opportuno registrare che nel periodo ottobre 2022 – giugno 2023, a seguito degli aumenti dei tassi voluto dalla Fed il pagamento per gli interessi è stato di 652 miliardi di dollari, addirittura superiore alle spese per la Difesa. L’ammontare è maggiore del 25% rispetto alle spese per interessi dello stesso periodo dell’anno precedente. Il Congressional Budget Office (Cbo) stima in 745 miliardi di dollari gli interessi da pagare nel 2024 e a oltre 10.000 miliardi nel decennio successivo.

Il problema sta anche nel fatto che il debito pubblico americano è “circondato” da innumerevoli bolle debitorie e speculative. Il declassamento, per esempio, avrà forti riverberi anche sui tassi applicati alle ipoteche e ai mutui che i cittadini devono pagare per l’acquisto delle proprie abitazioni. La somma del debito per le ipoteche residenziali e per gli edifici commerciali è di circa 18.000 miliardi di dollari. Un altro effetto negativo si vedrà sui debiti accesi per finanziare il percorso educativo, il cosiddetto “student debt”. Detta bolla è oggi pari a oltre 1.700 miliardi di dollari. Il pagamento degli interessi e delle quote di questi debiti era stato sospeso durante il periodo del Covid, ma, per decisione del governo, ripartirà da settembre.

Si teme, perciò, che nel tentativo di contenere i debiti pubblici e i deficit di bilancio a farne le spese possano essere i servizi pubblici, a cominciare dalla sanità e dalla scuola. Una ricetta, purtroppo, ben conosciuta anche in Italia.
I gravissimi problemi finanziari di Evergrande, il colosso cinese delle costruzioni e della finanza privata, oltre a creare seri problemi a Pechino, rischia di impattare l’incerto andamento finanziario e debitorio anche negli Usa e altrove.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Summit di Pietroburgo: l’Africa fa sentire la sua voce

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Il 28 luglio scorso è terminato a San Pietroburgo il secondo summit Russia – Africa. Vi hanno partecipato 49 Stati africani, rappresentati in alcuni casi da capi di governo, in altri da ministri degli esteri o da ambasciatori. Il primo summit fu organizzato a Sochi nell’ottobre del 2019. Nel frattempo il mondo è stato profondamente cambiato dal Covid e dalla guerra in Ucraina.

Molta stampa ha cercato di presentare il summit come un fallimento, poiché, rispetto a quello di Sochi, a San Pietroburgo sarebbe stato presente un numero inferiore di capi di Stato e di governo. Il fatto è vero, si è passati da 43 capi di Stato a 17, frutto di grandi pressioni occidentali. Anche se questa volta sono venuti altri capi di Stato importanti, come quello del Camerun, che non erano stati a Sochi.

A nostro avviso sarebbe un grave errore di calcolo geopolitico se l’Occidente, e in particolare l’Unione europea, valutasse il summit semplicemente come un atto di propaganda di Mosca o come un cedimento dell’Africa alle pressioni e alle supposte “manipolazioni” della Russia.

Sarebbe invece opportuno leggere la Dichiarazione finale non come un compromesso di posizioni ma come una dichiarazione programmatica e d’intenti dei paesi dell’Africa nei confronti del mondo intero. Ovviamente, la mano del Cremlino c’è stata ma si è limitata a far si che la parola “Ucraina” non fosse mai menzionata nella Dichiarazione.

L’Africa riafferma la necessità di opporsi al neocolonialismo, che impone condizioni e doppi standard, e di non permettere che queste pratiche privino gli Stati e i popoli del diritto di compiere scelte sovrane nei loro percorsi di sviluppo. Chiede di “contrastare l’imposizione nelle organizzazioni internazionali, principalmente nelle Nazioni Unite, di linee di divisione che ostacolano l’effettiva ricerca di soluzioni a questioni urgenti nell’agenda dell’Onu, comprese quelle che riguardano interessi vitali degli Stati africani… L’Africa vuole contribuire alla creazione di un ordine mondiale multipolare più giusto, equilibrato e stabile”. Ciò non è cosa da poco anche rispetto alle chiusure degli Usa e dell’Occidente in genere rispetto a tale necessità.

Nel campo economico e programmatico le posizioni dell’Africa sono anche più precise. Si afferma “l’opposizione all’applicazione di misure restrittive unilaterali illegittime, anche secondarie, e alla pratica del congelamento delle riserve valutarie sovrane.” Ovviamente è un’affermazione anche nell’interesse della Russia, per via delle sanzioni imposte dall’Occidente, ma riflette soprattutto la crescente preoccupazione, più volte espressa da tutti i Paesi emergenti, sull’utilizzo generalizzato delle sanzioni come arma di guerra.

Il sostegno dell’Africa a un processo politico multilaterale è manifestato chiaramente quando si dichiara di voler contribuire a una crescita economica sostenibile e globale e a un sistema più rappresentativo di governance economica internazionale per rispondere efficacemente alle sfide economiche e finanziarie globali e regionali. E anche quando si vuole “facilitare la ristrutturazione dell’architettura finanziaria globale per affrontare meglio le crescenti esigenze di sviluppo e riflettere gli interessi e la crescente influenza dei paesi in via di sviluppo e per superare l’impatto negativo delle condizioni loro imposte in relazione al pieno ed effettivo godimento dei diritti umani.”

Naturalmente si esprime profonda preoccupazione per le sfide legate alla sicurezza alimentare globale, compreso l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dei fertilizzanti, e l’interruzione delle catene di approvvigionamento internazionali, che hanno un impatto sproporzionato sul continente africano. Si sostiene, inoltre, la necessità di misure finanziarie multilaterali inclusive che alleggeriscano l’onere del debito per i paesi a basso e medio reddito.

Decisivo per l’Africa è “il rispetto dei principi e degli scopi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite per promuovere il ruolo centrale di coordinamento dell’Onu come il principale meccanismo multilaterale globale.” L’adesione dell’Unione africana (Ua) al G20 sarebbe un passo importante nella giusta direzione, così come l’auspicata partnership dell’Ua con i Brics.

Particolarmente rilevante è proprio la centralità data all’Onu rispetto al ruolo assegnatole dai 193 paesi aderenti. Purtroppo, nonostante la drammaticità di questo delicato momento, i paesi europei hanno scelto di svolgere un ruolo subalterno.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

L’Unione Africana nel G20

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il primo ministro indiano Narendra Modi ha preso l’iniziativa di invitare l’Unione africana (UA) a entrare nel G20. Lo ha fatto contattando al riguardo tutti i governi dei Paesi membri, anche in forza del fatto che nel 2023 l’India ne detiene la presidenza. A tal proposito, si ricordi che il prossimo summit si terrà il 9 settembre a Nuova Delhi. L’India si pone così come leader dei paesi in via di sviluppo e del cosiddetto Global South. Fa anche un passo in avanti nella sua aspirazione di diventare un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Si tratta di una mossa di grande rilevanza rispetto al progressivo e necessario multilateralismo della politica globale, allo spostamento in corso dell’asse geopolitico dal Nord verso il Sud del mondo e al cambiamento delle istituzioni di Bretton Woods. D’altra parte, se è vero che l’Africa è il continente del futuro, è inconcepibile tenerla ai margini, mantenendo nei suoi confronti un atteggiamento di vetusto sapore colonialista.

E’ da diversi anni che i governi africani e l’UA, il raggruppamento panafricano che raccoglie ben 55 Stati, operano per questo obiettivo. Nel febbraio di quest’anno il vertice dell’UA ha chiesto di far parte del G20. La proposta era stata presentata da Macky Sall, presidente del Senegal e allora anche dell’UA. Il vertice ha riaffermato “la necessità che l’Africa sia maggiormente coinvolta nei processi decisionali” sui temi della governance globale. Legittimo, opportuno e vera necessità.

All’ingresso dell’UA nel G20 sarebbero favorevoli 13 membri: Stati Uniti, Cina, Russia, India, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Brasile, Sudafrica, Indonesia, Giappone e UE. I non convinti e gli ostili sarebbero i restanti 7 paesi: Australia, Canada, Argentina, Messico, Corea del Sud, Arabia Saudita e Turchia. Come si può notare tra i membri c’è già l’Unione europea. L’UA non sarebbe un’eccezione.

L’ingresso dell’UA renderebbe il G20 più rappresentativo, inclusivo e, quindi, più influente. Oggi il G20 rappresenta il 65% della popolazione mondiale, domani, con l’Africa, rappresenterebbe l’80% del pianeta. Già rappresenta l’85% del pil globale e il 75% dell’intero commercio mondiale.

Durante una visita in Africa lo scorso febbraio, anche Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, aveva osservato che le comunità africane sono “sproporzionatamente vulnerabili agli effetti delle sfide globali. Qualsiasi soluzione seria richiede leadership e voci africane”. E’ confermato che sull’agenda dell’incontro di Modi con il presidente Biden c’era anche l’adesione dell’UA al G20. Nel Summit Usa – Africa dello scorso dicembre il presidente americano si era già espresso favorevolmente.

I vantaggi per l’Africa sono evidenti. Il G20 è profondamente coinvolto nella definizione di soluzioni alle sfide globali come la crescita economica, i cambiamenti climatici, la transizione energetica, lo sviluppo sostenibile, l’onere del debito, l’emancipazione delle donne e l’economia digitale. L’Africa avrebbe finalmente voce in capitolo in tutte le deliberazioni e decisioni.

I critici all’ammissione dell’UA sostengono che ciò ridurrebbe l’efficacia del G20, mettendo in discussione la capacità dell’Africa di fornire una partecipazione rilevante. Se si prende in considerazione la lista degli attuali membri anche l’argomento, circa eventuali simili richieste da parte di altri continenti, è poco pertinente. D’altra parte oggi l’unico membro africano è il Sud Africa. Il paragone con l’Europa è stridente: con meno della metà della popolazione africana, essa conta 6 membri: Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia e UE.

Molti, non solo gli scettici, ignorano il potenziale economico dell’Africa, della sua ricchezza mineraria, dell’espansione demografica, dell’integrazione economica attraverso l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) e della crescente influenza negli affari mondiali. L’intera UA oggi è soltanto al nono posto tra le maggiori economie, ma entro la metà di questo secolo coprirà il 25% della popolazione mondiale e, con il suo alto tasso di fertilità, potrebbe fornire circa la metà della forza lavoro del pianeta.

Gli esperti indiani ritengono opportuno che l’Africa sia inclusa nel G20 proprio durante la presidenza indiana. E, per rispondere a chi è fedele al marchio del G20, essi affermano che il nome può rimanere invariato. C’è già un grande precedente: anche con 134 paesi in via di sviluppo al suo interno, il G77, l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite per il disarmo e per un nuovo ordine economico internazionale, non ha cambiato nome. L’Unione europea, se parlasse con una sola voce, potrebbe subito fare la differenza a favore dell’adesione dell’UA al G20. Speriamo che ciò avvenga presto e nell’interesse generale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

La prossima svolta dei Brics

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il prossimo summit dei capi di Stato e di governo dei paesi Brics potrebbe segnare una svolta decisiva verso un più accentuato processo multipolare della politica e dell’economia mondiale. Si terrà il 22-24 agosto a Johannesburg, in Sud Africa, e vedrà anche la partecipazione di un folto gruppo di nazioni del Sud del mondo. Sono già 13 le nazioni che si sono ufficialmente candidate a farne parte. Altre 6 che hanno espresso il proprio interesse a parteciparvi.

Uno dei punti centrali nel programma dei lavori è la creazione di una nuova moneta allo scopo di favorire commerci e investimenti, all’interno del gruppo e con altri Paesi emergenti, senza dover utilizzare il dollaro. Senza, quindi, doversi sottoporre al controllo e all’influenza di una potenza esterna e senza dover pagare una tassa per il “servizio”.

Non si tratta di creare una moneta circolante, come l’euro. I Brics sono consapevoli che c’è molta strada da fare per tale obiettivo. Essi stanno, invece, analizzando i passi necessari per la creazione di una moneta di conto, come l’Ecu fu utilizzato in Europa negli anni che hanno preceduto l’Euro. Da parecchio tempo stanno studiando l’esperienza europea dell’Ecu. E l’Unione europea, inspiegabilmente, sembra ignorare questo passaggio storico.

Per preparare il summit nei giorni scorsi a Città del Capo si è tenuta la riunione dei ministri degli Esteri dei Brics, con la partecipazione dei rappresentanti di altri 15 paesi,. Naledi Pandor, ministro degli Esteri sudafricano ha ribadito l’intenzione del gruppo di continuare a lavorare sulla fattibilità di una moneta comune.

In un suo messaggio il presidente del Sud Africa, Cyril Ramaphosa, ha risposto a tutte le notevoli pressione esercitate dagli Usa e dalla Gran Bretagna, ribadendo che “noi vogliamo cogliere l’opportunità di promuovere gli interessi del nostro continente che è stato saccheggiato, devastato e sfruttato da altre nazioni e per questo vogliamo oggi costruire la solidarietà insieme ai Brics.”. E’ un passaggio molto importante se si mette in relazione alla creazione dell’Area di libero scambio del continente africano (Afcfta) che sta proprio discutendo della possibilità di creare una nuova unità di conto monetaria per favorire i commerci all’interno dell’Africa.

Per superare la sottomissione al dollaro e la dipendenza dalla rete dominante dello Swift, i Brics stanno studiando un loro sistema globale dei pagamenti. Non si tratta di rimpiazzarlo completamente, bensì di affiancarne uno alternativo per sottrarsi, in caso di necessità, ai condizionamenti e agli effetti delle sanzioni.

Secondo il Fmi nel 2022 i Brics hanno superato il pil del G7 del 4% se calcolato attraverso la misura del ppp, la parità del potere di acquisto, cioè tenendo conto del costo della vita e dell’inflazione. Nello stesso anno il loro surplus commerciale è stato di 387 miliardi di dollari, che ha favorito anche l’aumento delle loro riserve d’oro.

Si osservi che l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed fa crescere il valore del dollaro sui mercati valutari ma svaluta le monete dei paesi del Sud del mondo e, quindi, fa aumentare il loro debito. La diversificazione delle riserve monetarie è, infatti, un altro argomento nell’agenda dei Brics. E’ una politica favorita anche dalle banche centrali del cosiddetto Global South che stanno aumentando il peso dell’oro nelle loro riserve, a scapito del dollaro. La domanda generale e gli acquisti di oro da parte delle banche centrali sono cresciuti enormemente. Ciò sta portando a un aumento della produzione di oro e a una possibile rivalutazione del valore delle riserve auree.
Da parte sua il presidente brasiliano Lula da Silva, in occasione della conferenza dell’Unasur, la comunità economica e politica latinoamericana, ha detto di “sognare che i Brics abbiano una propria valuta, come l’Unione Europea ha l’euro”. Rivolgendosi agli altri paesi dell’America latina ha affermato che “dovremmo approfondire la nostra identità sudamericana anche in ambito monetario, attraverso meccanismi di compensazione più efficienti e la creazione di una comune unità di scambio, riducendo la dipendenza dalle valute extraregionali”.

A sua volta Dilma Rousseff, la nuova presidente della New Development Bank, la banca dei Brics, ha evidenziato l’importanza dei recenti accordi petroliferi in renminbi tra Cina e Arabia Saudita. Rousseff ha detto: “Credo che nel mondo attuale ci sia una crescente tendenza a promuovere gli scambi commerciali utilizzando le valute locali. Ci sono diversi esempi importanti. Ad esempio, il mercato del petrolio è un settore rilevante rispetto al cambio di valuta. I paesi del Sud del mondo utilizzano sempre più le valute locali per i pagamenti commerciali.”.

In conclusione, è opportuno riconoscere che un mondo unipolare con una sola moneta dominante stride con un’economia reale multipolare.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Aumentano i rischi per i derivati OTC

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**


L’ultimo bollettino della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea, con i dati del secondo semestre del 2022, proietta ombre oscure sull’andamento dei derivati finanziari otc. Com’è noto, oltre a essere non regolamentati e tenuti fuori bilancio, essi segnano la febbre e i rischi per le banche too big to fail.

Questa volta è il gross market value (valore lordo di mercato) degli otc a rivelare il problema. Nel semestre analizzato, è cresciuto del 13% toccando i 20.700 miliardi di dollari. Un livello mai visto nei 6 anni precedenti. Nelle poco comprensibili parole dei banchieri, questa enorme cifra sta indicare “la somma di tutti i contratti derivati otc in essere, con valori di sostituzione positivi e negativi valutati ai prezzi di mercato prevalenti alla data di riferimento”. In altre parole, se al 31 dicembre 2022 tutti i contratti otc fossero stati chiusi, quella sarebbe stata la somma necessaria per saldare le differenze.

L’enorme crescita è dovuta ai derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse (interest rate derivatives, ird) e riflette la grande incertezza provocata dall’inflazione e dagli aumenti dei tassi da parte della Fed e della Bce. E’ la stesa Bri a evidenziare il problema quando, spiegando il significato del gross market value, afferma che” i valori lordi di mercato forniscono informazioni sull’entità potenziale del rischio di mercato nelle transazioni in derivati e sul relativo trasferimento del rischio finanziario in atto”.

Il gross market value degli ird denominati in euro è aumentato del 23% nella seconda metà del 2022, dopo un aumento del 37% nella prima metà. Quello degli ird in dollari è aumentato rispettivamente del 40% e del 30%. Poiché i tassi fissati oggi dalle banche centrali sono saliti sopra quelli prevalenti al momento della stipulazione dei contratti, il loro valore lordo di mercato è, quindi, aumentato.

Ciò vuol dire che servono molti più soldi per coprire i contratti in scadenza o in difficoltà. Chi si trova in una simile situazione avrà bisogno di maggiore liquidità, per cui cercherà di far cassa vendendo degli asset in suo possesso, oppure pagherà con soldi presi in prestito a tassi molto salati. Tali comportamenti, ovviamente, influenzano negativamente i mercati.

Questo è il secondo effetto destabilizzante provocato dalla politica yo yo delle banche centrali: prima tasso zero e tanta liquidità inflattiva e poi, con l’aumento dei tassi, la repentina e continuata chiusura delle bombole di ossigeno. Il primo effetto è stato la mina posta sotto i titoli, soprattutto quelli pubblici, venduti in passato a tassi bassi e oggi, dopo il rialzo dei tassi, non più rimunerativi.

Nel secondo semestre 2022 il valore nozionale di tutti gli otc è, invece, rimasto quasi invariato, 618.000 miliardi di dollari, con un aumento di soli(!) 14.000 miliardi. Il valore nozionale è l’ammontare di tutti i derivati sottoscritti, una cifra enorme, quasi impensabile, che indica la dimensione della bolla in caso di collasso sistemico. I fautori della bontà dei derivati hanno sempre contrapposto il gross market value a quello nozionale, sostenendo che il secondo non rifletterebbe il vero rischio sottostante. Adesso, però, devono fare i conti con l’impennata del primo!

Recentemente, sull’argomento l’International Swaps and Derivatives Association (ISDA) di New York ha tenuto una conferenza a Chicago. L’ISDA è l’associazione che raccoglie tutti i partecipanti nel mercato dei derivati otc. Il resoconto ufficiale riporta che sono stati gli stessi operatori dei mercati sui derivati a dire che ci si dovrebbe preparare a nuovi eventi di stress per la mancanza di liquidità, com’era avvenuto nel marzo del 2020 e con i fallimenti bancari delle settimane passate. “Sta per succedere qualcosa: il fattore scatenante potrebbe essere diverso, ma accadrà“, ha affermato un dirigente della Bank of New York Mellon. Un’analisi condivisa da molti partecipanti il convegno di Chicago. Si aspettano anche che il deflusso dei depositi dalle banche regionali statunitensi potrebbe continuare, poiché i clienti cercano rendimenti più elevati.

E’ sconcertante il fatto che siano proprio gli operatori dei mercati a essere preoccupati sugli andamenti futuri. Purtroppo, le agenzie di controllo e le banche centrali sembrano essere rimasti sui libri di testo di economia del diciottesimo secolo! Oppure sono ammaliati dal feticcio del 2% d’inflazione annua.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il caso della First Republic Bank

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.

L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.

Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto, il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

*già sottosegretario all’Economia **economista

La Russia e l’Africa intensificano i rapporti

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Si intensificano le relazioni della Russia con l’Africa, perciò riteniamo che nei rapporti con i Paesi africani l’Italia e l’Unione europea dovrebbero mantenere un approccio sobrio e realistico, senza cedere alla tentazione di credere troppo alle narrazioni dell’Occidente sugli andamenti geopolitici planetari. Prima di tutto occorre comprendere le loro priorità che sono l’anticolonialismo, l’indipendenza e lo sviluppo del continente in un mondo multipolare.

Basti riflettere sui risultati del meeting “Russia Africa Parliamentary Conference” sul tema di un mondo multipolare, tenutosi a Mosca il 19-20 marzo, cui hanno partecipato parlamentari di 40 Stati africani. Si tratta di uno degli incontri preparatori per il secondo “Summit Russia-Africa” dei capi di Stato e di governo già fissato il 28-29 giugno a San Pietroburgo. Si noti che le delegazioni africane presenti a Mosca erano più numerose delle 36 che nel 2019 avevano partecipato al primo Summit di Sochi, tenutosi molto prima della guerra in Ucraina.

Prevedibile l’affondo politico fatto dal presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, che ha denunciato “Washington e Bruxelles di voler controllare, a loro beneficio, le risorse naturali della Russia e dell’Africa, con tutti gli strumenti possibili, anche con la forza.”.
Sebbene in quei giorni fosse impegnato negli incontri con il presidente cinese Xi Jinping in vista a Mosca, Vladimir Putin ha voluto parlare alla conferenza.

Il presidente russo ha affermato che i rapporti con i Paesi africani sono una priorità della politica estera di Mosca. Ha ricordato l’appoggio dell’Unione Sovietica nella lotta per l’indipendenza contro il colonialismo e per la cooperazione economica nel continente. Sebbene oggi i Paesi africani rappresentino soltanto il 3% del pil mondiale, Putin ha detto che, con un miliardo e mezzo di abitanti e un terzo di tutte le riserve minerarie del globo, essi naturalmente saranno leader del nuovo ordine multipolare globale.
Ha evidenziato che lo scorso anno il commercio è cresciuto fino a 18 miliardi di dollari e che Mosca ha cancellato vecchi debiti dei Paesi africani per oltre 20 miliardi. Ha anche offerto la possibilità di una collaborazione tra l’Unione economica eurasiatica e l’Area continentale africana di libero scambio creata nel 2021.

Il presidente russo si è impegnato a mantenere le forniture di cibo, di fertilizzanti e di energia verso l’Africa e a prolungare di 60 giorni l’”accordo sul grano” fatto a Istanbul per far transitare i prodotti agricoli ucraini attraverso il Mar Nero. Dopo tale periodo la Russia sarebbe pronta a mandare, a titolo gratuito, la stessa quantità di grano inviato in Africa nei mesi passati. Ha poi lanciato una provocazione: ”Del volume totale di grano esportato dall’Ucraina, circa il 45% è andato ai Paesi europei ben nutriti e solo il 3% all’Africa.”.

Propaganda russa? Speriamo si possa dimostrare, poiché le reazioni, le convinzioni e le realtà africane non sono quelle dell’Occidente.
Dopo aver detto che oggi circa 27.000 studenti africani frequentano le università russe, ha aggiunto che il personale militare di oltre 20 Paesi africani si perfeziona nelle università del ministero della Difesa russo

I rapporti si sono fatti molto intensi, un po’ in tutti i campi, anche in quello delle nuove tecnologie. Infatti, il 13-14 aprile prossimo si terrà a Mosca il forum Russia – Africa sulle tecnologie digitali in cui i rappresentanti dei governi e delle imprese private discuteranno su come realizzare la digitalizzazione nei settori della pubblica amministrazione, dell’economia, dell’educazione e della sanità.

Naturalmente un ruolo importante, di battistrada della cooperazione continentale africana, lo svolge il Sudafrica, come membro del gruppo BRICS. In un recente incontro tra rappresentati governativi russi e sudafricani si è convenuto di promuovere la creazione di una “BRICS geological platform”. Poiché questi Paesi hanno le più grandi riserve minerarie del mondo, il progetto intende mappare i territori per individuare, valutare ed esplorare nuovi depositi di minerali, in particolare delle cosiddette “terre rare”, al fine di promuovere una più stretta cooperazione tecnologica per il loro sfruttamento.

Trattasi di passi significativi nei rapporti con l’Africa che, per onestà bisogna riconoscere, la Russia ha iniziato decenni fa, anche a seguito delle errate politiche neocoloniali dell’Occidente
*già sottosegretario all’Economia **economista

Deutsche Bank e derivati: una vecchia storia

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Essendo la Deutsche Bank (DB) la maggiore banca tedesca, capire il perché dei suoi recenti, gravi, problemi è anche nel nostro interesse.
Il suo bilancio del 2022 era entusiasta: un utile di 5,6 miliardi di euro, il miglior risultato in 15 anni. L’utile record era stato nel 2007 di 8,7 miliardi. Ma la crisi globale del 2008 aveva lasciato profonde ferite da risanare e perdite per cinque anni consecutivi fino al 2019.
Dal 2019 il management asseriva di aver cercato di portare avanti un profondo rinnovamento del gruppo, riducendo le attività del suo investment banking, cioè il settore che cerca alti profitti con le speculazioni più rischiose. Quindi, meno business “esotici” e meno clienti hedge fund. L’idea, almeno sulla carta, era di tornare a essere una banca più europea e “per gli imprenditori”. La DB ha anche portato avanti l’integrazione della Postbank, che come il nostro BancoPosta, ha un numero altissimo di clienti, famiglie e imprese di piccole-medie dimensioni.
L’inversione sui tassi d’interesse ha fatto crescere gli attivi della banca fino a 27,2 miliardi di euro, con un aumento di oltre il 7% rispetto al 2021. Nonostante l’inflazione e i rallentamenti dell’economia, non si temevano insolvenze sui prestiti concessi. Nel 2022, contro tale rischio, la banca aveva accantonato ben 1,2 miliardi, più del doppio rispetto al 2021.

Tutto roseo il 2022 e lo sarebbe dovuto essere ancora di più il 2023. Al successo avevano contribuito anche i voti migliori delle agenzie di rating dopo i loro downgrade degli anni precedenti.

Non tutte le voci, però, erano così concordi. Il consiglio di sorveglianza interno alla banca lamentava che i miglioramenti programmati e gli obiettivi di sostenibilità non erano stati pienamente raggiunti, per cui decideva la riduzione del 5% dei bonus milionari per i dirigenti. In particolare a febbraio aveva sollevato forti preoccupazioni sulla gestione dei derivati.

La storia della banca conta e non si deve mai dimenticare. Lo scorso aprile la polizia tedesca aveva visitato il suo quartier generale di Francoforte nel corso di un’indagine sul riciclaggio di denaro. Negli anni passati il suo nome era apparso in quasi tutte le indagini su varie truffe e malversazioni finanziarie internazionali. Nel 2016, si ricordi, aveva pagato una multa di 7,2 miliardi di dollari per operazioni truffaldine con derivati legati alle ipoteche, in cambio della chiusura delle indagini.

Qualcosa non andava in DB se il costo dei suoi credit default swap, i titoli derivati che coprono il rischio di fallimento, è aumentato in modo rilevante. Dall’inizio dell’anno le sue azioni hanno perso circa un quarto del valore.

E’ vero che tutto il sistema bancario europeo e internazionale è sotto pressione ma Deutsche Bank sembra essere colpita più delle altre banche. Non si può paragonare al Credit Suisse, salvato dalla bancarotta, se non per il fatto che sono due tra le più grandi banche europee ritenute sistemiche.

La presidente della Bce Christine Lagarde e tutti i governi europei fanno a gara nell’affermare la solidità del sistema bancario europeo, “aiutato dalle riforme della regolamentazione bancaria avviate sulla scia della crisi finanziaria globale.” Forse dette riforme sono carenti.

Una di queste gravi mancanze ce la rivela proprio il bilancio di DB del 2022: il valore nozionale totale dei derivati finanziari è di 42.500 miliardi di euro, quasi tutti del tipo molto rischioso, gli over the counter (otc). Un aumento del 6% in un anno. Sono un po’ di meno rispetto al picco di 48.000 miliardi del 2018, ma la situazione non è veramente cambiata. Per quasi l’80% sono derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse.

Non solo la DB ma tutte le banche too big to fail sono coinvolte in queste operazioni speculative sui tassi d’interesse. E’ proprio il comportamento volatile delle banche centrali che li rende altamente “infiammabili”.

Anche se si ammettesse che la DB abbia provato a ridurre la sua esposizione nei derivati otc più rischiosi, occorre riconoscere che è un processo difficile in solitaria. Così come lo è per un drogato che vorrebbe liberarsi dalla dipendenza, ma continua a frequentare gli ambienti dello spaccio.

Il problema della speculazione finanziaria è globale ma, se non si affronta a livello internazionale una vera riforma, le crisi bancarie si faranno più frequenti e intense. Ci aspettiamo che le autorità e i governi europei facciano la prima mossa: eliminare la speculazione per difendere gli interessi reali dei cittadini, a cominciare dalla stabilità economica e dal benessere sociale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Crisi bancarie Usa: le responsabilità dei controllori

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve.

Il loro mancato intervento, a nostro avviso, è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail. C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250.000 dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

E’in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie. Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

E’ comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone. Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio.

Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008.

Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Credit Suisse e la bolla globale dei derivati

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195.000 miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank, promulgata dopo la grande crisi del 2008, richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.
Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che “le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39.000 miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale”. Un’esposizione ritenuta “sbalorditiva” e foriera di nuovi sconvolgimenti.

Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.
Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.
La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’interno sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.
Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni.
Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.
E’ chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori.
Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente FD Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.
*già sottosegretario all’Economia **economista

A rischio il mercato dei cambi valutari

A rischio il mercato dei cambi valutari

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nel suo recente “Triennual Survey”. Il succitato mercato è caratterizzato da un’eccezionale volatilità, dovuta all’andamento dei tassi d’interesse, all’aumento dei prezzi delle materie prime, all’inflazione e alle tensioni geopolitiche.

Il turnover nei mercati FX è, infatti, in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato, in media, pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019.  Circa il 90% delle operazioni sono fatte con la valuta americana. L’euro – la seconda valuta più scambiata, anche in dollari – ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010.La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

Si osservi che il predominio del dollaro nei mercati valutari globali è dovuto al fatto che solitamente due valute diverse non sono scambiate direttamente ma tramite il dollaro.

Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme “visibili” ad altre più opache. E’ la stessa differenza tra i derivati finanziari gestiti su piattaforme riconosciute e gli otc, over the counter, anch’essi contratti bilaterali e tenuti fuori bilancio.

Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85.000 miliardi. Essendo tenuto fuori bilancio, esso è perciò “mancante” nella contabilità dei bilanci. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale. Cifre enormi e preoccupanti.

Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26.000 miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi, quindi con un accesso limitato al credito della Federal Reserve, hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio, rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000.Sono più di 10 volte il loro capitale.

Le operazioni sulle valute, quindi, creano obblighi di pagamento (debiti) in dollari a termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Gran parte di questo debito è a brevissimo termine. Di conseguenza le esigenze di rollover, cioèil processo di mantenere una posizione aperta oltre la sua scadenza,comportano una grande tensione rispetto alla reale disponibilità di finanziamenti in dollari.

Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. Il fatto che non si vedano non vuol dire che non esistano e che non possano provocare degli sconquassi. Durante la Grande Crisi Finanziaria del 2008 e durante le turbolenze del mercato di marzo 2020, sono stati necessari interventi straordinari della Fed per evitare il peggio. In tempi di crisi, le politiche volte a ripristinare il regolare flusso di dollari a breve termine nel sistema finanziario sono incerte, avvolte nella nebbia.

La Bri afferma che ogni giorno dello scorso aprile, un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni.

Perciò, il rischio che una delle parti coinvolte in una negoziazione di valute non riesca a consegnare la valuta dovuta, può comportare perdite rilevanti per i partecipanti al mercato, a volte con conseguenze sistemiche.

In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.  Ci sembra di stare seduti su un vulcano pronto a esplodere! 

*già sottosegretario all’Economia **economista

La sfida africana alle agenzie di rating

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’Africa ha una sua agenzia di rating, la Sovereign Africa Ratings (Sar). E’ una novità importante nel panorama finanziario del continente africano, e non solo.

La Sar è nata in Sud Africa per iniziativa di un gruppo di imprenditori locali con l’intento di contrastare l’attività speculativa e la dipendenza dalle tre agenzie di rating americane.

Il modello di rating del credito di Sar comprende una serie di variabili classiche, quali alcuni aspetti fiscali, economici, monetari, ambientali e di governance, i cambiamenti climatici e la crescita del pil. L’elemento innovativo sta nel fatto che si attribuisce un peso rilevante alla ricchezza mineraria del territorio come indicatore di performance. Quindi, non solo le fonti energetiche ma anche le materi prime nascoste nelle viscere del continente: oro, diamanti, cobalto, rame, zinco, cobalto e le tante cosiddette terre rare.

Finora i Paesi africani sono stati vittime dei voti dati dall’oligopolio formato da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, che hanno il controllo del 95% del mercato del rating mondiale. Le “tre sorelle” sono delle imprese private il cui capitale azionario è controllato da grandi fondi d’investimento.

Nel 2022 dette agenzie avevano stilato dei rating di solvibilità molto negativi nei confronti dei governi, delle obbligazioni di Stato, dei titoli pubblici e privati africani. I loro giudizi si sono basati su previsioni insufficienti e molto superficiali. I governi, a cominciare da quello del Sud Africa, hanno lamentato la politica invasiva delle agenzie statunitensi.

Si ricordi che i declassamenti portano all’isolamento finanziario con un impatto devastante sulle economie africane. È, infatti, noto che un rating basso comporta il pagamento di un tasso d’interesse maggiore per ottenere dei crediti o per piazzare dei titoli sui mercati. Indebolisce anche l’offerta di capitali da parte degli investitori stranieri. Per i governi, questo implica scelte spesso impopolari come lo spostamento di fondi di bilancio dalle spese sociali verso il servizio sul debito pubblico.

Di solito i declassamenti accrescono l’esosità degli speculatori e delle multinazionali delle materie prime. Ciò significa povertà, instabilità sociale e sottosviluppo. 

Il rating creditizio di S&P per il Sud Africa è di BB- con outlook positivo. BB- equivale a junk, spazzatura. Di conseguenza, le obbligazioni sono considerate titoli speculativi. Le banche centrali, come la Bce, non accettano in garanzia titoli con tale voto. Le assicurazioni e i fondi pensione non possono acquistarli e sono tenuti a disfarsi di quelli già in possesso.

Invece, la Sar ha dato al Sud Africa il rating BBB (investment grade, degno di investimento), lo stesso che S&P concede all’Italia.

David Mosaka , chief rating officer dell’agenzia Sar, ritiene che l’economia del Sud Africa stia crescendo a un tasso dell’1,9% quest’anno e dell’1,4% nel 2023, il che certamente non favorisce l’occupazione e nuove entrate fiscali. Egli ritiene, però, che un approccio valutativo diverso rispetto al passato possa frenare le spinte speculative. Man mano che l’agenzia crescerà sui mercati internazionali, essa potrà produrre valutazioni per i Paesi africani al fine di contrastare il deprezzamento delle commodity e delle economie nazionali.

Lo scorso 15 maggio, anche Macky Sall, capo di Stato senegalese e attuale presidente dell’Unione Africana, aveva auspicato “La creazione di un’agenzia panafricana di rating finanziario”. Sall aveva affermato che il rating delle agenzie internazionali è “talvolta molto arbitrario”. Esse esagererebbero il rischio d’investimento in Africa, aumentando così il costo del credito. Secondo il presidente senegalese, almeno il 20% dei criteri di valutazione per i Paesi africani sarebbero “fattori culturali o linguistici piuttosto soggettivi, estranei ai parametri che misurano la stabilità di un’economia”.

L’iniziativa del Sud Africa si colloca all’interno dei programmi dei Brics, di cui il Paese fa parte. Tra le loro iniziative vi è proprio la creazione di un’agenzia di rating. E’ anche una lezione d’indipendenza e d’intraprendenza rispetto all’Unione europea che, dopo la grande crisi del 2008 in cui le “tre sorelle” ebbero un ruolo centrale e nefasto, aveva speso tantissime parole in merito alla creazione di un’agenzia di rating europea. Parole che sono rimaste solo sulla carta. Se ne ignora il perché.

*già sottosegretario all’Economia  **economista