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Facile scenario

L’inizio del progressivo crollo del sistema capitalistico occidentale si può far risalire, simbolicamente, all’abbattimento delle Torri Gemelle nel 2001, cui il Deep State americano non fu certo estraneo.
Beninteso non sta crollando il capitalismo in sé, ma solo la sua forma occidentale, quella dell’anglosfera, sommamente individualistica.
Nell’occidente collettivo il ruolo dello Stato è incidentale, tant’è che i tanti statisti (spesso privi di vere competenze) vanno e vengono con molta disinvoltura. D’altra parte la politica deve considerarsi al servizio dell’economia (e oggi soprattutto della finanza), per cui i veri “signori del mondo” sono altrove.
Le ultime crisi del capitalismo occidentale sono tutte finanziarie: quella più significativa è esplosa nel 2008, coi subprime americani, che ha coinvolto tanti Paesi occidentali, le cui banche, ancora oggi, sono piene di titoli tossici, inesigibili.
A questa crisi, durata un decennio, gli USA hanno risposto in due modi: internamente, indebitandosi all’estremo, cioè stampando dollari a volontà, come se nulla fosse; esternamente, provocando la pandemia da Covid, attraverso i loro biolaboratori: in tal modo veniva colpito il mondo intero.
Il capitalismo è entrato in crisi sul piano industriale, poiché non è più competitivo con l’economia cinese, che pur lo stesso occidente ha contribuito a creare, nella convinzione, rivelatasi illusoria, di poter tenere la Cina economicamente sottomessa per almeno un secolo. Ora invece produce qualunque cosa a prezzi imbattibili, avendo un costo del lavoro di molto inferiore al nostro e molte più materie prime.
In questo momento sono gli USA a trovarsi in gravi difficoltà: il debito pubblico è altissimo; lo Stato sociale quasi non esiste; non vi è abitudine al risparmio, ma, al contrario, a spendere al di sopra delle proprie capacità; il petrodollaro è in fase di smantellamento grazie ai BRICS+; la perdita di fiducia nella loro solidità obbliga a tenere i tassi d’interesse molto alti (il che non fa che aumentare il debito); si stampano continuamente banconote che valgono sempre meno; ci s’illude di potersi reindustrializzare velocemente imponendo dazi anacronistici (e autolesionistici) al resto del mondo; per dimostrare che si è ancora la prima economia del mondo, si ricorre a sanzioni, embarghi, minacce d’ogni genere, destabilizzando i commerci mondiali; e naturalmente si fomentano guerre ovunque sia possibile.
L’URSS implose per l’assenza del benessere capitalistico; l’occidente sta crollando per averne avuto troppo, usando mezzi e metodi violenti, illegali, cui oggi tutti gli altri vogliono opporsi.
Dopo essere finita in bancarotta, per aver adottato il capitalismo privato occidentale, oggi la Russia, col capitalismo statale di Putin, è in netta ripresa.
Piuttosto è l’occidente a essere privo di una qualche alternativa al proprio declino. Il socialismo statale di Russia e Cina era imploso senza causare guerre a potenze straniere. Invece l’occidente collettivo sta facendo proprio il contrario, forse perché, in definitiva, non può fare a meno del colonialismo, né di scaricare all’esterno il peso dei propri fallimenti. Ha bisogno assolutamente di crearsi dei nemici. In Medio oriente sono i palestinesi (fino a ieri erano gli islamici in senso lato); in Ucraina sono i russi; in Asia sono i cinesi; in Africa i Paesi che si ribellano al vecchio e nuovo imperialismo europeo.
Con un occidente così la guerra sembra essere alle porte. Ma sarebbe un errore pensare che la soluzione ai nostri problemi possa venire dall’esterno. L’occidente deve trovare in se stesso la forza per cambiare in maniera significativa, garantendo libertà e sicurezza al resto del mondo.

Comprendere e confrontarsi

A volte mi stupisco che le cose, nella storia, si ripetano in maniera così straordinaria, seppur nell’ovvio mutamento di forme e modi.
La differenza tra forme e modi è nota: le prime riguardano la materialità della vita, che incontriamo nascendo; i secondi invece riguardano i rapporti umani, che si costruiscono strada facendo. Forme e modi s’influenzano a vicenda.
Ma perché cambiano forme e modi e non cambia la sostanza dell’essere umano? Perché, se siamo umani, abbiamo il libero arbitrio, che ci permette, entro certi limiti, di fare determinate scelte.
I limiti sono predeterminati, nel senso che non è possibile compiere azioni di bene o di male la cui bontà o malvagità sia infinita o illimitata. Ci muoviamo in un range che appartiene alla nostra natura umana.
Viceversa la sostanza o essenza (in italiano non facciamo molta differenza tra le due parole) dev’essere sempre quella, altrimenti tra gli esseri umani la reciproca comprensione sarebbe impensabile. “L’essere è e non potrebbe non essere”, sentenziava Parmenide, pur senza capire che il “non essere”, cioè la negatività, può essere di aiuto, indirettamente, alla coscienza della libertà. Tutto serve nella vita, se lo si sa prendere nella giusta misura.
Se esistesse una dimensione ultraterrena in cui vivono tutti gli esseri umani che ci hanno preceduti, dovrebbe per forza essere possibile confrontarsi con ognuno di loro, senza alcuna eccezione. E il confronto non dovrebbe servire solo per “capirsi”, nel senso di “intendersi”, come quando due persone parlano lingue diverse, ma anche e soprattutto per “comprendersi”, che è un di più, cioè una specie di condivisione della giustezza di determinate scelte: diciamo una forma di compartecipazione.
A volte, di fronte a certe situazioni, siamo soliti dire una frase rituale: “Lo capisco ma non l’accetto” (cioè non lo giustifico). Viceversa, quando si pensa, implicitamente, al verbo “comprendere”, la frase dovrebbe essere questa: “Al tuo posto avrei fatto la stessa cosa”.
Ma come si fa a sapere che una certa scelta è giusta? Esiste appunto il “confronto”, da non confondere con quella parola che, nel linguaggio politico, traduce l’inglese “confrontation”, che vuol dire l’opposto. Nessuno ha la scienza infusa, nessuno è infallibile.
Ecco, quando vedo certi statisti contemporanei, così chiusi nei loro pregiudizi, così attaccati ai loro interessi, penso che manchino proprio della capacità di “confrontarsi” con le esigenze altrui. Non riescono proprio a comprenderle. Ebbene, non credo sia possibile che gente così mentalmente gretta e moralmente cinica abbia il diritto di governare intere popolazioni.

REITERAZIONI STORICHE E DISASTRI ECONOMICI

Nell’antica civiltà romana si doveva essere sempre in guerra per poter avere quanti più schiavi possibile. Gli schiavi arricchivano in varie maniere: erano oggetto di compravendita, come oggi le azioni di borsa; svolgevano lavori domestici o produttivi al posto delle persone giuridicamente libere; intrattenevano il pubblico con giochi o sport di vario genere; istruivano i figli degli schiavisti, se erano intellettuali, ecc.
Quando non fu più possibile continuare le guerre in maniera facilmente vittoriosa, in quanto il nemico aveva capito come difendersi efficacemente, gli schiavi ovviamente diminuirono. Ma siccome gli schiavisti volevano continuare a vivere una vita comoda, pensarono, astutamente, di trasformare il rapporto sociale da schiavile a servile. Cioè allo schiavo potevano essere riconosciuti taluni diritti, se in cambio continuava a sentirsi in obbligo nei confronti del proprio padrone. Fu così che nacque il Medioevo, una civiltà rurale, assai poco urbanizzata, almeno sino al Mille.
Quando le popolazioni germaniche e asiatiche fecero a pezzi l’impero romano d’occidente non conoscevano come sistema di vita né lo schiavismo né il servaggio, però nei confronti di quest’ultimo ebbero un certo apprezzamento. E quelle, di loro, che si convertirono al cattolicesimo-romano, furono le più fortunate. I Franchi, in particolare, diventarono egemonici in tutta l’Europa occidentale, il cui sovrano, spalleggiato dalla Chiesa, pretendeva addirittura di qualificarsi come imperatore del sacro romano impero, un titolo che in quel momento spettava solo al basileus bizantino.
Oggi sta avvenendo qualcosa di simile. L’occidente collettivo non è più in grado di espandersi, non solo sul piano militare, ma neppure su quello economico e finanziario. Glielo impediscono Russia, Cina, India e, in genere, i Paesi dei Brics+ o del Sud Globale.
Questo vuol dire che USA, UE, ecc. dovranno per forza abbassare, entro i propri confini, gli standard consueti di benessere. Le popolazioni protesteranno, perché non abituate a eccessive restrizioni. Si lasceranno strumentalizzare dai poteri dominanti per compiere nuove guerre, che inevitabilmente risulteranno perdenti, poiché il declino non potrà essere fermato. Dopodiché i cittadini saranno costretti a subire sempre maggiori controlli, da parte di poteri sempre più autoritari, sempre più militarizzati. Si può persino scommettere che il fulcro vitale si trasferirà dalle città alle campagne, e che la gente rinuncerà alla propria libertà giuridica pur di sopravvivere.

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Dietro Trump, che non sa nulla di economia, c’è Scott Bessent, ex chief investment officer di Soros Fund Management e figura influente nei circuiti della finanza globale.
Dall’alto della sua sapienza ha detto queste parole dal sapore magico: “Il governo degli Stati Uniti non andrà mai in default. Aumenteremo il tetto del debito.”
Per lui non sono niente 36 trilioni di dollari di debito (122% del PIL). In fondo il Giappone ha una percentuale doppia e nessuno se ne preoccupa. L’importante è che gli USA abbiano la fiducia di chi crede nella loro capacità di pagare i tassi d’interesse sul debito.
Tuttavia non è molto rassicurante sapere che gli USA possono evitare l’insolvenza non per solidità economica, ma perché stampano moneta a volontà, scaricandone il peso su inflazione e mercati esterni.
Finché il mondo accetta dollari, Washington non fallisce. Questo lo sappiamo, ma sarebbe meglio non darlo per scontato. Anche perché la crescente de-dollarizzazione promossa da BRICS e ASEAN mette a nudo la fragilità strutturale del sistema, che si regge in piedi solo con le stampelle.
Non è una bella cosa che il “tetto del debito” venga alzato tutte le volte che lo richiede la politica. L’economia ha proprie leggi, che non dipendono dalla volontà dei governi. Nessuno è obbligato a comprare i titoli di stato americani. Non foss’altro che per un sospetto: quando un impero afferma di non poter fallire, è il segno che ha già cominciato a temere il crollo.

Quale villaggio globale

Uno potrebbe chiedersi che male ci sia a vivere l’intero pianeta come un unico villaggio globale. Nessuno, se per “villaggio globale” s’intendesse qualcosa di libero, aperto, senza barriere o confini, senza pretese di dominio o di sfruttamento di risorse altrui.
Purtroppo però, anche quando gli esseri umani mostrano d’avere delle idee apprezzabili, le vivono nel modo peggiore. Non a caso molti ritengono che la nostra specie (o comunque quella sapiens) sia nata o si sia evoluta con un bug letale. Sembra che noi tutti si sia destinati all’autodistruzione, in forza del fatto che le nostre armi, col tempo, non lasciano scampo a nessuno, ovunque si viva.
Può darsi che la natura abbia da guadagnare dal nostro destino, riprendendosi ciò che le abbiamo sottratto. Ma per i sopravvissuti all’apocalisse sarebbe una magra consolazione apprezzare la rinascita della natura in cambio di uno spopolamento catastrofico del genere umano.
Possibile che non ci sia una via di mezzo tra libertà personale, giustizia sociale, tutela ambientale? Probabilmente, per quanti sforzi si possa fare, non c’è. Forse perché partiamo da un punto di vista sbagliato. Lo facciamo tutti, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Siamo tutti fermamente convinti che il modo migliore per trasformare qualcosa di “informe” in qualcosa per noi apprezzabile, vantaggioso sia quello di utilizzare una tecnologia così evoluta da rendere il nostro lavoro sempre meno faticoso.
Cerchiamo un benessere in cui la fatica sia ridotta al minimo. È evidente che con una tale visione delle cose a rimetterci sono le popolazioni con una tecnologia meno evoluta. La stessa natura, lì per lì, sembra non essere in grado di opporsi alle nostre pretese egemoniche, salvo poi farcelo capire dopo un certo tempo, quando avvengono taluni fenomeni atmosferici molto preoccupanti, come desertificazione dei suoli, scioglimento dei ghiacciai, surriscaldamento dei mari, inquinamento dell’aria, esondazioni dei fiumi, e così via.
L’evoluzione per noi è diventata sinonimo di artificiosità. Quanto più ci sentiamo lontani dalla naturalità delle cose, tanto più ci sentiamo avanzati. Aspiriamo a recuperare qualcosa di naturale nel tempo libero, e ci illudiamo di trovarlo, pur sapendo che abbiamo tutto antropizzato. Ci mancano persino i parametri per distinguere una cosa dall’altra. Non abbiamo neanche la manualità per compiere azioni che non siano caratterizzate da qualcosa di evoluto. Chi riuscirebbe a sopravvivere in una foresta dopo essere sopravvissuto a una guerra urbana?
È importante pensare a queste cose, poiché, anche nel caso in cui un vero ideale di giustizia prevalesse su una palese violazione dei diritti umani, alla fine resta sempre la domanda di fondo: “Adesso che facciamo perché la cosa non si ripeta? Esiste un paradigma positivo cui possiamo fare riferimento in maniera oggettiva?”.

NEWS del 28 aprile 2025

In questa guerra russo-ucraina l’atteggiamento più curioso degli occidentali (americani ed europei in primis) è la totale incapacità ad ammettere che la Russia sul piano militare è più forte dell’intero occidente collettivo.
Sono passati oltre tre anni e non c’è stato neanche un momento in cui le forze armate russe abbiamo mostrato che in una guerra di logoramento avrebbero potuto essere sconfitte.
La guerra è rimasta sul piano convenzionale (per fortuna, bisogna dire) e la NATO l’ha persa. La Russia ha saputo tener testa, da sola, a 32 Paesi! Non solo, ma, mentre vinceva sul piano militare, si riorganizzava su quello economico-finanziario, affrontando con successo le mille sanzioni occidentali, il congelamento di 300 miliardi di dollari della propria Banca centrale, e persino contribuendo alla creazione di un mondo multipolare e di una mastodontica organizzazione come quella dei BRICS, per non parlare delle nuove relazioni stabilite con quei Paesi africani che vogliono liberarsi del colonialismo europeo.
Dunque, a questo punto, l’occidente cos’ha intenzione di fare? Vuol fare intervenire direttamente la NATO nel conflitto, mantenendolo sul piano convenzionale? Vuole trasformarlo da convenzionale a nucleare? Prima di scendere in campo esplicitamente vuole investire miliardi di capitali nel riarmo? Al momento sembra che stia chiedendo all’Ucraina di resistere il più possibile, cioè il tempo sufficiente affinché la NATO si riarmi per bene e che possa dichiarare guerra alla Russia con un esercito numericamente non inferiore a quello russo. Ma può l’Ucraina resistere altri 3-4-5 anni?
Diciamo questo perché, a leggere le proposte di pace americane ed europee, appare chiaro che non esiste un vero negoziato risolutivo. Alla Russia si chiede soltanto di retrocedere dai territori conquistati. Sul piano giuridico le si riconosce solo la Crimea. Tutti gli altri territori vengono riconosciuti di pertinenza russa solo pro tempore, nel senso che se è vero che al momento li hanno conquistati militarmente, è anche possibile che li perdano in un prossimo futuro.
Si pretende, come base di partenza per una trattativa, la fine delle ostilità, cioè l’occidente pretende una cosa come se sul campo di battaglia fosse lui a vincere. Infatti parla di un cessate il fuoco totale e incondizionato in cielo, a terra e in mare, e che il rispetto di questo ceasefire sarà monitorato dagli Stati Uniti e sostenuto da Paesi terzi, i quali non possono essere disarmati.
Un’Unione Europea altamente belligerante e perdente chiede alla Russia come deve regolarsi nelle trattative di pace. Mi chiedo se nella storia delle guerre del genere umano si sia mai vista una cosa del genere. Sembriamo un chihuahua che abbaia a un rottweiler.

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Ammettiamo una cosa inconfutabile: dai tempi dell’espansione della NATO verso est l’occidente non ha mai fatto una proposta relativa alla sicurezza generale del continente europeo, valida per tutti i Paesi che lo compongono.
Altra verità lapalissiana è che la Russia non è solo un Paese asiatico, ma anche europeo. E la sua sicurezza esistenziale non può essere decisa dagli USA, dalla UE o dalla NATO. Va decisa, come minimo, in una conferenza europea, se non internazionale, visto che non si potrebbero escludere gli Stati Uniti.
Ma poi, pensiamoci bene, considerando che i commerci si svolgono a livello mondiale, come potrebbe essere esclusa da una conferenza del genere un Paese come la Cina? Chi più di lei avrebbe bisogno che nel continente europeo fosse garantita una pace di lunga durata? Un Paese che investe centinaia di miliardi nelle infrastrutture solo per potersi espandere commercialmente nel mondo, ha bisogno come il pane di sicurezza e stabilità.
Ebbene, in Europa non ci sono neanche le basi minime per assicurare la pace nel continente. E non possiamo credere che tale pace possa essere garantita dalle sceneggiate clownesche di Trump.

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Non facciamoci illusioni. Stiamo sì assistendo, in tempo reale, alla fine del capitalismo occidentale, ma non a quella del capitalismo in sé. Si tratta solo di un passaggio di testimone da una forma a un’altra.
Nella storia del genere umano queste transizioni sono eventi naturali, anche se per lo più avvengono in maniera cruenta, poiché, quando si costruiscono potenti società schiavistiche (e anche la nostra lo è, seppure il salariato è giuridicamente libero), non piace morire nel proprio letto: si preferisce combattere il più possibile.
Si pensi al passaggio dalla civiltà greca a quella romana, che rappresentavano due forme di schiavismo privato, con la differenza che uno era basato sull’autonomia delle città-stato, che alla bisogna si univano tra loro per formare delle leghe, mentre l’altro faceva del diritto, della cittadinanza, dell’impero e del suo principe qualcosa di universale.
Lo schiavismo statale era invece rappresentato da Egitto e Persia, che nulla poterono contro i Romani, il primo, e contro i Greci, la seconda.
I Romani erano affascinati dalla cultura greca, ma questo non gli impedì di dominarli fino a quando Costantino non decise di trasferire la capitale dell’impero a Bisanzio, favorendo così un’altra epocale transizione, quella dal paganesimo al cristianesimo.
Oggi sta avvenendo la stessa cosa: Russia e Cina, dopo aver ammesso la superiorità occidentale sul piano tecnico-scientifico, ora ci stanno facendo vedere di sentirsi superiori: l’una sul piano militare, l’altra su quello economico, ed entrambe contro l’intero occidente collettivo.
Smettiamola però con le infatuazioni, con gli entusiasmi da stadio. Sempre capitalismo è. E non diventa più umano o più democratico solo perché l’iniziativa produttiva e commerciale è controllata dallo Stato; o solo perché, come succede in Cina, il capitale viene schermato o circonfuso ideologicamente dalle dottrine del socialismo scientifico, seppur con caratteristiche atipiche.
Diciamo solo che in questo momento noi occidentali dobbiamo abbassare la cresta e guardare le cose da un angolo. Anzi, se fossimo davvero intelligenti, come nel passato abbiamo dimostrato in tanti campi dello scibile umano, dovremmo iniziare a cercare qualcosa che vada oltre i soliti criteri del profitto industriale o della rendita finanziaria, che noi stessi peraltro abbiamo inventato. E questo naturalmente senza ripetere gli errori del socialismo statalizzato.

Vivere a debito

L’America d’oggi è la rappresentazione del capitale fittizio: il dollaro funziona come valuta di riferimento del sistema internazionale dei pagamenti finché mantiene la fiducia nei suoi confronti.
Tuttavia la fiducia si dà alle cose serie e col Trump di oggi si fa molta fatica, che un giorno dice una cosa e il giorno dopo l’opposto, come se non fosse lui in persona a parlare, ma gli interessi che lo affiancano.
C’eravamo già accorti dei bluff colossali degli Stati Uniti in altre occasioni. Dapprima collegarono la convertibilità del dollaro all’oro, costringendo gli altri Paesi a collegare le loro monete al dollaro. Poterono far questo poiché si era capito chiaramente che gli USA avrebbero vinto la seconda guerra mondiale, senza subire in patria alcun vero danno. Anzi, sarebbero stati loro a finanziare la ripresa economica degli Stati europei semidistrutti.
Poi, quando loro stessi si accorsero che per sostenere le guerre successive al secondo conflitto mondiale, occorrevano ingentissimi capitali (si pensi solo alle guerre di Corea e del Vietnam), ecco che ci ripensarono, e decisero che il dollaro era meglio collegarlo al petrolio, visto ch’era una materia prima molto più diffusa e usata dell’oro e visto che in Medioriente gli USA avevano saputo efficacemente sostituirsi a Francia e Gran Bretagna, considerati “imperialisti” dal mondo arabo.
A partire dal 1971 iniziarono praticamente a vivere di rendita, in quanto tutti i Paesi industrializzati del mondo avevano bisogno del petrolio per svilupparsi.
Di questi improvvisi voltafaccia, in base ai quali gli USA pensano solo ai loro interessi nazionali, in barba a tutti i rapporti di fiducia con altri Paesi, e a tutte le alleanze commerciali e militari, ne abbiamo visti parecchi.
Durante la crisi dei mutui subprime del 2008 venne alla luce un immenso “schema Ponzi”, che non fu pagato solo dagli americani, ma anche dall’intero pianeta (tutte le banche si riempirono di “titoli tossici”, che non valevano nulla).
Quando uno Stato permette alle banche di emettere prestiti superiori alla consistenza dei loro depositi, vuol dire che si sta creando capitale fittizio. Quando uno Stato o una Banca centrale salva le banche in procinto di fallire, emettendo banconote come se fosse una tipografia, vuol dire che la ricchezza è puramente illusoria e altre bolle potrebbero scoppiare negli anni a venire.
Creare denaro dal denaro, grazie alla sua semplice circolazione, senza passare per la produzione di merci, può essere fatto solo da un Paese arrogante, che pensa di continuare a vivere di rendita e di continuare a dominare il pianeta sul piano militare. Queste pretese oggi vengono messe in discussione dai Paesi del BRICS+ e da tutto il Sud Globale. Gli USA han tirato troppo la corda e ora un capitombolo è inevitabile. La politica daziaria è un atteggiamento da disperati. Stanno facendo la parte dell’agrario feudale, cui la nascente borghesia toglieva il potere da sotto i piedi.

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Il debito funziona finché c’è circolazione di merci. Fu inventato dai mesopotamici (una delle prime società schiavistiche) per rispondere alle esigenze del lavoro della società e del commercio di materie prime come argento o legno. I babilonesi scambiavano i prodotti stipulando promesse di pagamento, delle proto-cambiali che fungevano da sostituto del denaro che veniva accettato nella misura in cui qualcuno lo garantiva.
Oggi tutti i Paesi sono indebitati e ogni Paese cerca di correggere questo processo scaricando sugli altri contraddizioni che così diventano mondiali. L’economia globale si basa su un debito che non è ripagabile, sul fatto che gli USA, come tutti gli altri Paesi, possono contrarre nuovo debito solo se qualcuno gli fa credito. Il rapporto debito globale/PIL supera il 300%.
Praticamente noi viviamo solo di debiti. Già alla nascita in Italia abbiamo 50.000 euro di debiti. Non c’è più alcuna responsabilità nei confronti del denaro. Possiamo fare qualunque progetto basato sul debito. Ogni giorno ci si chiede perché risparmiare quando i debiti sono diventati generalizzati, cioè riferibili all’intera popolazione nazionale e persino internazionale. È così che muore la fiducia tra le generazioni, quella che per es. tiene in piedi lo Stato sociale (pensioni, sanità scuola…).
A questo punto è evidente che, andando avanti di questo passo, l’unica vera alternativa al denaro diverrà il baratto: un bene contro un altro bene, il cui valore verrà deciso dall’uso, non dal mercato. Là dove c’è baratto, c’è valore d’uso non di scambio, e dove c’è valore d’uso c’è autoconsumo, e il mercato si riduce appunto al baratto.
Ma perché miliardi di persone possano fare autoconsumo, bisogna prima espropriare la terra a chi la usa come capitalista agrario. Poi, siccome sarà piena di veleni e supersfruttata, bisognerà riconvertirla. Insomma non sarà facile.

Ride bene chi ride ultimo

Trump si era divertito un mondo quando aveva detto a Zelensky, davanti ai giornalisti: “Non hai le carte per vincere”. Aveva dato sfoggio del fatto che è proprietario di alcuni casinò.
Ma sul piano commerciale ora è la Cina che gli dice: “Non hai le carte per vincere, datti una calmata”.
Infatti non c’è dubbio che le conseguenze dei dazi possono avere un certo peso per i produttori cinesi orientati all’export, soprattutto quelli delle regioni costiere che producono mobili, abbigliamento, giocattoli ed elettrodomestici per i consumatori americani.
Ma questi produttori sanno velocemente come regolarsi. Infatti la prima volta che Trump ha posto i dazi alla Cina è stato nel 2018. In quell’anno le esportazioni cinesi dirette negli USA rappresentavano il 19,8% dell’export totale della Cina. Ma già nel 2023 tale percentuale era scesa al 12,8%.
Entro il 2022 gli USA facevano affidamento sulla Cina per 532 categorie di prodotti chiave, quasi quattro volte il livello del 2000, mentre la dipendenza della Cina dai prodotti statunitensi si era dimezzata nello stesso periodo.
La Cina domina la catena di approvvigionamento globale delle terre rare, fondamentale per l’industria militare e high-tech, fornendo circa il 72% delle importazioni statunitensi di questi minerali.
La Cina mantiene anche la capacità di prendere di mira settori chiave dell’export agricolo statunitense, come pollame e soia, fortemente dipendenti dalla domanda cinese e concentrati negli Stati a maggioranza repubblicana.
I dazi praticamente avevano e ancora adesso hanno spinto il Paese ad accelerare la sua strategia di espansione della domanda interna, liberando il potere d’acquisto dei consumatori e rafforzando l’economia interna.
Hanno avuto la stessa funzione delle sanzioni nei confronti della Russia, le cui aziende hanno sostituito quelle che se ne sono andate. Inoltre hanno indotto a cercare nuovi partner commerciali.
Coi suoi dazi tariffe sanzioni embarghi crediti usurari l’occidente fa il bullo coi Paesi più piccoli, più deboli, ma con quelli più grandi e più forti trova solo un muro di gomma. Si mangia le mani per le occasioni perdute. Prepara delle ritorsioni di tipo militare, che però contro questi colossi lo metteranno al tappeto.
Noi siamo destinati a uscire dalla storia, proprio perché è la storia che vuole uscire da noi.

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Nel 2024 l’export statunitense verso la Cina ha raggiunto i 143,5 miliardi di dollari, in calo del 3% rispetto al 2023. Le importazioni dalla Cina però sono arrivate a 438,9 miliardi di dollari.
Dunque chi è più forte? Chi produce di più con una fatica immane o chi si diverte a speculare sul piano finanziario?
Si noti che nel 2000 il deficit americano nella bilancia commerciale con Pechino era di soli 83 miliardi di dollari.
Rispondendo alla domanda di un giornalista nello Studio Ovale della Casa Bianca, Trump ha già dovuto ridimensionare le sue pretese dicendo: “Il 145% è tanto. Non sarà così alto… non sarà nemmeno lontanamente vicino a quel livello. Scenderà significativamente, ma non arriverà allo zero”.
Ancora però non ha capito che con un Paese come la Cina lo squilibrio commerciale non si risolve. Per non parlare del fatto che proprio tale squilibrio ha come contropartita il fatto che la Cina (come tanti altri Paesi) sostiene il dollaro, i prestiti bancari, i titoli di stato, il bilancio e persino le borse e tutte le rendite parassitarie degli Stati Uniti.
Se Trump non si dà una calmata, la guerra commerciale si trasformerà in guerra militare, e questa volta, in maniera inedita, gli USA sperimenteranno distruzioni e devastazioni all’interno dei loro stessi confini.

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Visto che sul piano diplomatico l’intero occidente collettivo è piuttosto carente, o perché sostiene acute guerre commerciali, o perché non vuole concludere le due guerre militari in corso (quelle condotte dai due regimi dittatoriali di Kiev e Tel Aviv), siamo costretti a porci la seguente domanda: perché mai la guerra dovrebbe rappresentare un orizzonte di soluzione delle crisi generate dal capitale, che sostanzialmente sono dovute a una caduta del tasso di profitto?
Qui le risposte da dare potrebbero essere almeno quattro:
1) la guerra si presenta come una spinta non negoziabile a investimenti massivi, che possono rilanciare un’industria esangue. Grandi commesse pubbliche nel nome del “sacro dovere della difesa” possono riuscire a estrarre le ultime risorse pubblicamente disponibili per riversarle in commesse private. Di qui l’intenzione non solo di aumentare la quota del PIL riservata alla difesa nazionale, riducendo quindi quella destinata al Welfare, ma anche di usare i risparmi privati dei cittadini, depositati in banche e poste, per il riarmo europeo.
2) La guerra rappresenta una grande distruzione di risorse materiali, di infrastrutture, di esseri umani. Tutto ciò, che dal punto di vista del comune intelletto umano è una grande disgrazia, dal punto di vista dell’orizzonte di investimenti è una magnifica prospettiva. Infatti si tratta di un evento che “ricarica l’orologio della storia economica”, evitando quella saturazione di investimento micidiale per le sorti del capitale, bisognoso di autovalorizzarsi di continuo. Dopo una grande distruzione si riaprono praterie per investimenti facili, che non hanno bisogno di alcuna innovazione tecnologica: strade, ferrovie, acquedotti, case, e tutto l’indotto di servizi. Non a caso i grandi capitali cercano già ora di accaparrarsi le commesse per la futura ricostruzione, prima ancora che le guerre finiscano. La più grande distruzione di risorse di tutti i tempi – la seconda guerra mondiale – fu seguita dal più grande boom economico dagli inizi della rivoluzione industriale.
3) I grandi detentori di capitali finanziari non hanno paura di perdere il loro potere quando vi sono in atto delle guerre, a meno che non vengano espropriati da rivoluzioni popolari, che però in occidente mancano da un pezzo. Il denaro, avendo natura virtuale, rimane intoccato da qualunque grande distruzione materiale (purché ovviamente non vi sia un annichilimento planetario, ma nessuno vuole una soluzione finale del genere).
4) La guerra sembra avere il potere di congelare o arrestare tutti i processi di potenziale rivolta, tutte le manifestazioni di scontento dal basso. La guerra è un potente meccanismo per disciplinare le masse, ponendole in una condizione di subordinazione da cui non possono uscire, pena l’essere identificati come “complici del nemico”.
Per queste ragioni l’orizzonte bellico, per quanto al momento lontano dagli umori predominanti nelle popolazioni europee, è una prospettiva da prendere sul serio. Non dobbiamo pensare che una guerra possa scoppiare dall’oggi al domani. Ci vuole un certo tempo per attuarla, e non bastano né le armi né gli uomini. Ci vuole una propaganda convincente per le popolazioni che non saranno in prima linea, ma che dovranno comunque subire pesanti conseguenze.

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Chissà perché è molto più facile distruggere che costruire. Forse perché per costruire ci vuole l’impegno di intere popolazioni, mentre per distruggere bastano poche persone, cioè scienziati militari politici: pochi irresponsabili, privi di coscienza morale o che si danno intenti morali per compiere cose disumane.
Per uno scienziato costruire un ordigno particolare, che in un attimo produce un’energia immensa, è considerato un’impresa di successo, anche se sa benissimo che non avrà uno scopo civile ma militare.
La frenesia prende anche un militare che usa ordigni del genere su quanti più nemici possibili, proprio perché gli è stato insegnato che sono tutti pericolosi, tutti colpevoli di qualcosa, anche i neonati. E questa distruzione serve per evitare che muoiano i propri commilitoni. Abbiamo già visto questo film americano in Giappone, e ora lo stiamo rivedendo a Gaza.
Un politico poi, che, usando le tasse dei cittadini, chiede allo scienziato di produrre bombe di distruzione di massa e al militare di usarle contro un nemico ben individuato, non può che essere soddisfatto di sé quando vede che il nemico si arrende.
Siamo in mano a pazzi consapevoli di sé, che pensano di essere nel giusto proprio quando compiono azioni abominevoli. Se dopo una guerra costoro riusciranno a sopravvivere, come potranno essere giudicati? Come minimo, in via preventiva, il popolo che li giudica dovrebbe fare un’ammissione di colpevolezza e dire: “Questi mostri li abbiamo generati noi. Giudicandoli, giudichiamo noi stessi e tutta l’ideologia che ci ha indotti a compiere cose che ci apparivano assurdamente giuste”.

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La prima guerra mondiale è servita per distruggere i tardi imperi feudali che avevano appena iniziato a imborghesirsi: russo, prussiano, austro-ungarico e ottomano. Il grande capitalismo europeo (Francia e Inghilterra) aveva bisogno di smembrarli per meglio dominarli. Solo con la Russia non vi riuscì a causa della rivoluzione bolscevica.
La seconda guerra mondiale servì per impedire che le ultime nazioni giunte sulla strada del capitalismo (Germania, Italia, Giappone) potessero minacciare i poteri coloniali di Francia e Inghilterra, le quali però, pur uscendo vittoriose grazie all’impegno di USA e URSS, si trovarono nettamente surclassate dalla superiorità economica e finanziaria degli USA, che non avevano subìto alcun danno materiale al proprio interno, a parte il crack borsistico del 1929.
Ora sta per scoppiare la terza guerra mondiale. Ovviamente ci vorrà tempo. Ma sin da adesso è evidente, agli occhi delle potenze occidentali, chi sono i principali “Stati canaglia” dell’Impero del Male: Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. L’occidente teme anche il gruppo dei BRICS+, che, nel suo insieme, esprime una grande potenza produttiva e commerciale.
La compravendita di bunker sarà un affare colossale, al pari della fabbricazione di armi letali. I poveretti potranno illudersi coi kit salvavita. Se avranno qualche soldo in più si compreranno un rilevatore Geiger, magari in qualche negozio cinese.

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Nella prima guerra mondiale sono state eliminate più di 10 milioni di persone. Nella seconda più di 50 milioni. Nella terza potrebbero essere più di 500 milioni. Al capitale non importa molto: da tempo sostiene che siamo troppi e che non ci sono abbastanza risorse per tutti. L’ideologia è quella malthusiana.
Andando avanti di questo passo, le apocalissi finiranno solo quando saremo tornati all’età della pietra. Piccole comunità autarchiche che eviteranno di mettersi in contatto tra loro per paura di contaminarsi. Già oggi esistono comunità del genere, che non vogliono vederci neppure da lontano. Le chiamiamo “incontattate”.
In effetti se non cambiamo cultura ideologia mentalità, e ci limitiamo a un semplice pentimento morale per i disastri che combiniamo, la prossima volta sarà mille volte peggio, perché nel frattempo le armi saranno diventate più potenti e sofisticate. Né l’etica né la politica sono in grado di cambiare le cose in positivo e alla radice. Occorre una nuova visione della realtà.
E questa visione non pare possibile trovarla là dove esiste urbanizzazione, industrializzazione e finanziarizzazione. Qui è sbagliato il paradigma interpretativo, l’angolo visuale, la prospettiva.
Qui non è più questione di capitalismo (privato o statale) né di socialismo (statale o mercantile). C’è qualcosa di sbagliato a monte, qualcosa che precede le scelte politiche che si fanno a valle. È lo stile di vita che va ripensato, totalmente, integralmente.

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Certo che se ha ragione Marx quando diceva che il capitalismo ha bisogno periodicamente di distruggere le cose per poterle ricostruire, altrimenti non riesce ad autovalorizzarsi, possiamo capire il senso delle guerre e dell’odierna politica tariffaria di Trump.
A quanto pare le possibilità di trovare nuove aree di profitto all’estero si sono drasticamente ridotte per il capitalismo occidentale: praticamente c’è rimasta solo la rendita finanziaria. Vari Paesi asiatici (ma anche tanti del Sud globale) stanno pretendendo un protagonismo industriale e commerciale impensabile fino a qualche tempo fa.
L’occidente non è in grado di competere sui prezzi delle merci, poiché queste sono prodotte in condizioni troppo agevolate per i nostri standard (a partire naturalmente dal costo del lavoro, delle materie prime, dell’energia). Noi ci siamo ridotti a produrre merci per un’utenza selezionata, di livello alto.
Il problema è che da noi si deve comunque garantire un certo trend di benessere, altrimenti i poteri dominanti rischiano proteste a non finire. Di qui l’uso della guerra, che serve anche a sviluppare forme interne di dittatura politica, in grado di controllare l’intera popolazione tramite l’intelligenza artificiale.
La politica dei dazi è, se ci pensiamo, la prosecuzione dei conflitti militari (che ogni presidente americano deve da qualche parte scatenare) con altri mezzi, non meno efficaci.
Il processo di globalizzazione, che gli USA conducevano secondo lo schema “importiamo merci – esportiamo carta (cioè dollari e titoli statali)”, ha raggiunto il suo limite massimo. Ora possiamo aspettarci di tutto.

Ricatti trumpiani

Trump sta ricattando il mondo intero. Gli sta facendo piovere addosso tutte le colpe del suo stesso Paese. Gli USA non stanno assumendo le loro responsabilità, ma è come se dichiarassero guerra all’umanità. “America first” vuol dire “America contro tutti”.
Qui non stiamo assistendo, come nel caso dell’URSS, a una sorta di “implosione”, ma a una vera e propria dichiarazione di guerra commerciale contro un pianeta giudicato ingrato, che ha voltato le spalle a chi fino adesso ha avuto la pretesa di guidarlo, di dirigerlo verso il benessere consumistico, la democrazia e i diritti umani.
Trump vuol far vedere che gli USA sono ancora i più forti, ma se c’è qualcosa di “forte” è soltanto la loro mancanza di realismo, la pervicacia con cui vogliono rimanere sulla cresta dell’onda in un mondo che non vuole essere più dominato dalla loro economia, anzi dalla loro finanza, né dalle loro armi.
Gli unici Paesi a non subire la ghigliottina dei dazi sono quelli che a causa delle tante sanzioni già presenti, non hanno nessun commercio diretto con loro. Ora per avere uno sconticino su queste tariffe unilaterali, bisogna umiliarsi, come un servo col suo padrone.
E pensare che la giustificazione con cui le ha imposte, è totalmente falsa: non è vero che ha guardato le tasse che i Paesi importatori mettono alle merci americane, ma ha guardato soltanto il dislivello nella bilancia commerciale tra import ed export. In questa maniera ha punito il fatto che certi beni sono molto apprezzati dagli stessi cittadini americani, come per es. il cibo italiano. Ha punito il libero commercio, in cui il migliore ha diritto di vincere la concorrenza.
Ha punito il suo stesso Paese, poiché non è colpa dei consumatori se negli anni ’70 gli USA han preferito dare più importanza alla moneta che non all’industria. Si sono nello stesso tempo finanziarizzati all’eccesso (soprattutto con la politica del petro-dollaro e con la vendita di appetibili titoli statali) e deindustrializzati, delocalizzando le loro imprese all’estero, là dove era più vantaggioso sul piano dei profitti.
Compravano gran parte delle merci del mondo con una moneta priva di un sottostante reale, anche se ben protetta dalla forza militare. E ora pensano improvvisamente di rimediare, ricattando il mondo intero, con un atteggiamento a dir poco mafioso.
Sono ancora convinti di poter imporre la loro volontà. Fino a Biden volevano far credere che questa volontà veniva imposta per un fine di bene – la democrazia – o per combattere l’impero del male – il comunismo –, ma con Trump la verità è venuta a galla: gli USA mirano anzitutto a tutelare se stessi e degli altri Paesi non gli importa proprio nulla.
Senonché il mondo è cambiato. Non si lascia più intimidire. Nessuno può impedire il libero commercio a livello mondiale. Sono nati nuovi attori globali: Russia, Cina, India; e nuovi attori regionali stanno crescendo d’importanza: Iran, Brasile, Sudafrica… I commerci internazionali sono ora di pertinenza di un mondo multipolare, in cui la sovranità nazionale gioca un peso rilevante.
Lo dimostra anche il fatto che in Italia molte aziende stanno trasferendo la loro sede giuridica a San Marino, dove i dazi americani sono solo del 10%. Sta accadendo quel che si era già visto nei rapporti tra USA, Cina e Messico. La Cina, supertassata dagli USA, aveva trasferito le proprie sedi di riferimento in Messico, continuando a essere molto competitiva sul mercato americano.

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Ovviamente penso che la politica dei dazi, lanciata dall’amministrazione di Trump, sia contraria al libero commercio mondiale, per quanto questo sia largamente compromesso dai monopoli delle multinazionali e da una gestione ricattatoria del credito finanziario, che penalizza soprattutto i Paesi più deboli.
Tuttavia penso che a questo punto si dovrebbe anche rivalutare l’autarchia. Questo perché non ha davvero alcun senso comprare dei beni che provengono da migliaia di chilometri di distanza, prodotti in una maniera non controllabile e, nel caso di quelli alimentari, assurdamente presenti in qualunque momento dell’anno.
Dovremmo approfittare di questa scriteriata politica commerciale per ripensare un consumismo che ci fa diventare schiavi di bisogni inventati, non indispensabili, che ci fa diventare ideologicamente materialisti e totalmente indifferenti alle sorti della natura. Le cose vengono consumate e dismesse con una voracità e una velocità che per l’ambiente è del tutto insopportabile.

L’odierno capitalismo finanziario

Che cos’è il capitalismo finanziario? È il desiderio di fare soldi coi soldi. Quindi non più profitti dalle proprie aziende, sfruttando il lavoro salariato applicato alle macchine, acquistando materie prime a buon mercato, e così via, ma semplicemente interessi su investimenti, guadagni facili e veloci. Mentre gli altri lavorano, tu incassi cedole.
Si rischia e si scommette e si scommette sui rischi, in un gioco che di razionale ha ben poco.
In questa forma di capitalismo gli USA son dei veri maestri. È da quando le società informatiche si son quotate in borsa che creano bolle, cioè false aspettative che mandano a picco quasi l’intero pianeta.
La più grave è stata quella dei subprime immobiliari del 2008. Si pensava che i capitali attorno a un bene primario come l’abitazione fossero l’investimento più sicuro, e che nessuna banca avrebbe tratto in inganno i propri clienti investitori. Non produsse il crack del 1929 ma ci si andò vicini.
Dopo che la truffa bancaria si palesò di enormi proporzioni, si disse che le grandi banche non avrebbero mai potuto fallire. E così gli Stati, con le tasse dei cittadini e portando il debito pubblico alle stelle, le salvarono, con qualche eccezione.
Oggi si sta creando una nuova bolla: l’oggetto sono le armi. Qual è la differenza? È che se perdi la casa o il lavoro con cui paghi il mutuo sulla casa, finisci sotto un ponte. Le armi invece devi usarle, altrimenti invecchiano, si arrugginiscono, perdono di valore.
Se nel 2008 abbiamo rischiato di fare un balzo indietro, verso il Medioevo, oggi, se usiamo le armi su cui andremo a investire, torneremo alla preistoria. Non è difficile da capire, pensando al loro potenziale catastrofico.
È che la gente comune non sa cosa fare per impedirlo. A volte però mi chiedo se sia peggio essere in pochi senza possedere nulla o in tanti con delle atomiche in mano.

L’ebraismo affaristico negli Stati Uniti

Interessante l’art. di Thomas Dalton, “Una breve occhiata alla storia della ricchezza ebraica”, su renegadetribune.com. È del gennaio 2024. Ne riporto alcuni aspetti relativi alla contemporaneità americana.
– Dei 10 americani più ricchi, cinque sono ebrei: Mark Zuckerberg (72 miliardi di dollari), Larry Page (60 miliardi di dollari), Sergey Brin (59 miliardi di dollari), Larry Ellison (54 miliardi di dollari) e Michael Bloomberg (50 miliardi di dollari). La maggior parte di questo denaro proviene dall’industria high-tech: Facebook (Zuckerberg), Oracle (Ellison) e Google (Page e Brin).
– Dei 50 americani più ricchi, almeno 27 sono ebrei. Oltre ai cinque di cui sopra, abbiamo S. Adelson, S. Ballmer, M. Dell, L. Blavatnik, C. Icahn, D. Moskovitz, D. Bren, R. Murdoch (probabilmente in parte ebreo), J. Simons, L. Lauder, E. Schmidt, S. Cohen, C. Ergen, S. Schwarzman, R. Perelman, D. Newhouse, D. Tepper, G. Kaiser, M. Arison, J. Koum, S. Ross e C. Cook. Tecnicamente, questa lista dovrebbe includere anche George Soros, il cui patrimonio netto era di circa 26 miliardi di dollari fino a quando non ha “donato” 18 miliardi di dollari alla sua stessa organizzazione di beneficenza all’inizio del 2018. La ricchezza combinata di questi 27 individui ammonta a circa 635 miliardi di dollari. Nota: se gli ebrei fossero rappresentati proporzionalmente tra i primi 50, in questa lista ci sarebbe un solo individuo; invece ce ne sono 27.
– Prendiamo un’altra misura della ricchezza: il reddito del CEO. Tra i 10 CEO americani più pagati, quattro sono ebrei: Leslie Moonves (CBS), Nicholas Howley (TransDigm), Jeff Bewkes (Warner) e Stephen Kaufer (TripAdvisor). Tra i primi 35, non meno di 19 sono ebrei; oltre ai quattro di cui sopra ci sono D. Zaslav, S. Catz, A. Bousbib, R. Iger, M. Rothblatt, S. Wynn, M. Grossman, J. Sapan, B. Jellison, R. Kotick, J. Dimon, L. Fink, B. Roberts, L. Schleifer e S. Adelson.
– Quindi, sia che si considerino le attività totali o il reddito, i dati mostrano che, negli USA, gli ebrei possiedono o controllano circa la metà della ricchezza, almeno tra l’élite più ricca. Queste persone sono i promotori e gli agitatori del processo politico americano…
– Insomma se gli ebrei controllano circa la metà di tutta la ricchezza al vertice, è ragionevole dedurre che possano detenere una quota simile in tutta la gerarchia della ricchezza, almeno tra il 20% dei detentori di ricchezza, che collettivamente detengono più del 90% di tutta la ricchezza delle famiglie americane.
– Nel 2018 il “Wall Street Journal” ha riportato che il totale dei beni di tutte le famiglie private negli USA ha raggiunto i 100 trilioni di dollari per la prima volta in assoluto. Se gli ebrei “americani” possiedono o controllano la metà di questa cifra, allora si arriva a circa 50 trilioni di dollari, cioè 50.000 miliardi di dollari. Ora pensate a quanto potere possiede un uomo con un miliardo di dollari; ora considerate l’equivalente di 50.000 di questi individui, che lavorano più o meno all’unisono. Questo è il potere finanziario degli ebrei “americani”.
– Naturalmente non ci sono neanche lontanamente così tanti miliardari americani. Infatti il numero totale (ebrei e non ebrei messi insieme) è stato recentemente stimato da “Forbes” in soli 585. Se l’analisi di cui sopra è approssimativamente corretta, circa 290 di questi sono ebrei.
– A seconda di come li definiamo, ci sono circa 6 milioni di ebrei “americani”. Questi 6 milioni controllano, in media, circa 8 milioni di dollari a persona, cioè per ogni uomo, donna e bambino ebreo. Una tipica famiglia di quattro persone passerebbe quindi a circa 32 milioni di dollari.
– Ora consideriamo l’1% ebraico, che ammonta a circa 60.000 individui. Se la stessa distribuzione approssimativa vale tra loro come tra il pubblico in generale, allora questo 1% più ricco possiede circa il 35% della ricchezza ebraica totale. Quindi, i primi 60.000 ebrei possederebbero circa 18 trilioni di dollari. I restanti 32 trilioni di dollari verrebbero quindi divisi tra gli altri 5.940.000 ebrei “americani”, ottenendo una cifra ancora sbalorditiva di oltre 5 milioni di dollari a persona.
– Negli USA circa 160 milioni di persone possiedono un totale “combinato” di circa 0,3 trilioni di dollari, mentre circa 80 milioni di persone hanno un patrimonio netto negativo, ovvero più debiti che attività.
A fronte di questa situazione l’autore propone di tassare maggiormente gli ebrei. Mi chiedo che senso abbia farlo riferendosi a loro “in quanto ebrei”. E soprattutto che senso ha dire che “lavorano più o meno all’unisono”: se lo fanno, non è certo perché sono “ebrei”! Questo non ha capito che negli USA il capitalismo funziona così, e se gli ebrei fan più soldi degli altri, non è perché credono in Jahvè, e se vi riescono proprio perché sono “ebrei”, allora vuol dire che dal punto di vista del capitalismo l’ebraismo è migliore di qualunque altra religione o dell’ateismo. Il che, storicamente parlando, non è vero, in quanto il capitalismo, per formarsi e soprattutto per svilupparsi, ha avuto bisogno di altre due religioni: cattolicesimo e protestantesimo.
Fonte: https://www.renegadetribune.com/a-brief-look-at-the-history-of-jewish-wealth/

Il Manifesto di Ventotene

Il Manifesto di Ventotene, “Per un’Europa libera e unita”, fu redatto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni mentre si trovavano al confino come oppositori del regime fascista.
Sue affermazioni principali, critiche nei confronti di Germania nazista, Italia fascista e Giappone militarista, a favore di Regno Unito, Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, sono le seguenti.
– Il nazionalismo ha permesso la formazione di Stati indipendenti, ed è stato un bene; tuttavia dal nazionalismo borghese è nato l’imperialismo capitalistico, che a un certo punto ha voluto dire Stati totalitari (intenzionati a dominare su quelli più deboli) e guerre mondiali.
– Dopo la prima guerra mondiale le classi marginali cercarono di opporsi a quelle privilegiate, ma queste, per difendersi, optarono per le dittature, ch’erano per lo più razziste e imperialiste [da notare che la geopolitica viene considerata una pseudoscienza di questi Stati, che pretendono di dominare pezzi di mondo].
– Si prevede la fine degli Stati totalitari e il ritorno agli Stati nazionali imperialistici formalmente democratici. Questo perché la vera democrazia non è cosa che il popolo sa creare facilmente, come si è visto in Russia, Germania e Spagna, con le loro rivoluzioni finite male.
– D’altronde una rivoluzione proletaria rischia di isolare la classe operaia, anche perché collettivizzare tutti gli strumenti produttivi è utopistico e dipendere da Mosca fa compiere azioni contraddittorie.
– Bisogna però combattere le forze reazionarie (capitalisti privati, proprietari terrieri, capitalisti finanziari, chiese privilegiate), perché c’è il rischio che dopo la fine degli Stati totalitari, si torni di nuovo con gli Stati nazionali a porre le premesse per un nuovo conflitto mondiale.
– Per impedire la rinascita (anarcoide) degli Stati nazionali ci vuole una riorganizzazione federale dell’Europa, con cui sarà più facile trovare una base di accordo per una si­stemazione europea nei possedimenti coloniali.
– I futuri Stati Uniti d’Europa devono essere basati su istanze repubblicane (quindi le dinastie monarchiche devono finire). E dovranno avere un’unica forza armata europea al posto degli eserciti nazionali. Questo in previsione dell’unità politica dell’intero globo, quando vi sarà un unico Stato internazionale federato.
– La rivoluzione europea dovrà però essere socialista, cioè dovrà favorire l’emancipazione delle classi lavoratrici, senza per forza arrivare alla statalizzazione dei mezzi produttivi, cosa che rende lo Stato sommamente burocratico. Socialismo vuol dire che non sono le forze economiche a dominare gli esseri umani ma il contrario.
– Tuttavia alcune imprese (che tendono a essere monopolistiche) andranno per forza nazionalizzate, poiché la loro importanza potrebbe condizionare il governo di uno Stato: per es. quelle minerarie, siderurgiche, elettriche, i grandi istituti bancari, i grandi armamenti.
– Ci vorranno anche una riforma agraria, che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il nu­mero dei proprietari, e una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non statizzati, come le gestioni cooperative, l’aziona­riato operaio ecc.
– La scuola dovrà essere pubblica e gratuita. Vitto, alloggio e vestiario dovranno permettere una vita decente, quindi dovranno avere costi relativamente bassi.
– Indipendenza della magistratura e libertà di stampa e di associazione sono imprescindibili in uno Stato democratico.
– Il Concordato tra Stato e Chiesa andrà abolito, altrimenti è impossibile affermare la laicità dello Stato e l’uguaglianza di tutte le religioni.
– Il corporativismo fascista andrà abolito, poiché con esso lo Stato totalitario si serve dei sindacati per controllare i lavoratori in maniera poliziesca.
– Qualsiasi movimento rivoluzionario non può prescindere dall’unità tra operai e intellettuali.

Natura e tecnologia

Marx diceva – vado a memoria – che nel socialismo del futuro la produzione sarà totalmente automatizzata, per cui il lavoro sarà più intellettuale (di controllo) che manuale. In questa maniera ognuno avrà molto più tempo libero da dedicare ai propri interessi.
Oggi la stessa cosa viene detta dai grandi capitalisti occidentali, che naturalmente però non vogliono sentir parla di socializzazione dei mezzi produttivi. Promettono solo un reddito universale a chi si troverà senza lavoro a causa dell’intelligenza artificiale. Vogliono che tutta la popolazione sia tenuta sotto controllo per impedire rivolte di massa.
In entrambi i casi si prevede che l’automazione tecnologica debba trionfare. Mi chiedo che senso abbia. Almeno per due ragioni una cosa del genere sul nostro pianeta non avverrà mai in maniera indolore: 1) ci vogliono risorse energetiche d’immani proporzioni (principalmente quelle nucleari, cioè quelle più complesse, più costose e più rischiose); 2) l’inevitabile obsolescenza di tali risorse e tecnologie non potrà essere assorbita dalla natura.
Marx non poteva prevedere che un potente sviluppo industriale sarebbe stato catastrofico per la natura: ai suoi tempi non si parlava di ecologia. Noi però lo sappiamo. E, a parte tutti gli sforzi che facciamo per un’economia sostenibile, non ci piace che il nostro benessere debba essere pagato dalle risorse, umane e naturali, del Sud Globale.
Noi ormai siamo arrivati al punto da credere che una certa tecnologia sia diventata un male in sé, a prescindere dall’uso che se ne fa, a prescindere persino dal contesto socio-politico in cui viene gestita.
Noi stiamo creando un mondo in cui tutto è artificiale, compresa la stessa natura, i cui frutti, pieni di OGM, vengono prodotti in serre, a disposizione per l’intero anno. Noi non sappiamo più quali siano le esigenze o i ritmi della natura. Di fronte a sé la natura ha un solo destino: lasciarsi sfruttare fino a scomparire.
A questo punto è inevitabile che ci veda come il suo principale nemico. Ora deve solo decidere come farci fuori: circondati dalla sabbia? sommersi dall’acqua? avvelenati dall’aria? intossicati da un cibo dannoso alla salute? O sta aspettando che ci ammazziamo tra di noi per avere le ultime risorse strategiche del pianeta?

Quale passaggio di testimone?

Ormai è diventato facile capire che sarà la Cina a sostituire gli Stati Uniti nella guida del capitalismo mondiale, che naturalmente non avrà una connotazione privatistica ma statalistica, sfruttando la tradizione collettivistica di quel Paese, che l’occidente ha perduto molti secoli fa.
Perché non sarà l’India, che pur è destinata ad avere più abitanti della Cina? Perché ha ancora il problema delle caste da superare. Il capitalismo crea discriminazioni, è vero, ma sono di tipo economico o finanziario: tutte le altre non le sopporta, soprattutto se intralciano l’espansione globale dei mercati. Negli USA i nordisti vinsero i sudisti non perché fossero più democratici, ma perché con lo schiavismo non si sviluppa adeguatamente l’industria, anche se poi l’industria sviluppa uno schiavismo salariale.
Oggi però gli USA sono arrivati al capolinea, perché un capitalismo prevalentemente finanziario non regge il confronto con quello industriale, non ha un sottostante credibile, tant’è che ha bisogno di infinite guerre per sostenersi. In quel Paese l’unica vera industria che funziona è quella militare, con annessi e connessi.
Ma perché non può essere la Russia a prendere il testimone del capitalismo occidentale, visto che sul piano militare appare come la più forte di tutte le superpotenze? Non bastano le sue infinite risorse energetiche? Non ha abbastanza popolazione o potere finanziario? Non è forse intenta, già adesso, a gestire il capitalismo in chiave statale?
L’unico vero problema della Russia è la mentalità, troppo condizionata da una forma antica di cristianesimo, che non ha subìto i condizionamenti del cattolicesimo e del protestantesimo. In Russia manca una cultura borghese popolare: si fanno affari solo nelle alte sfere, ad alti livelli, e prevalentemente nelle grandi città dell’area europea, quella più occidentalizzata.
Ma come si è formata una cultura borghese così diffusa nella Cina tradizionalmente agrario-collettivistica? È stata la cultura confuciana, ereditata dal partito comunista. Non è stata quella buddistica, che pur ha scongiurato, essendo fondamentalmente ateistica, la possibilità di svolgere guerre civili sotto il pretesto di qualche religione.
La cultura confuciana permette qualunque comportamento sul piano sociale, salvo uno: l’obbedienza nei confronti delle istituzioni, da quelle statali a quelle familiari. Questa obbedienza è sacra, e chi la trasgredisce può pagarne gravi conseguenze.
Chiedere ai russi di obbedire a questi livelli, li indurrebbe a credere che lo stalinismo sia risorto, ed è molto difficile che possano accettare una cosa del genere. Putin viene accettato perché ha riscattato un Paese distrutto dal capitalismo privato degli anni ’90 e perché sa difenderlo dalle minacce della NATO, ma è impensabile che in questo momento si torni in Russia a parlare di socialismo. Tutti avrebbero l’impressione che si voglia fare un passo indietro.

Cosa rappresenta l’Ucraina?

L’Ucraina rappresenta uno Stato molto simile ad altri Stati dell’Europa orientale, generalmente ex sovietici. Nel senso che storicamente non ha le tipiche caratteristiche di un compiuto Stato democratico-borghese. Odia troppo l’ideologia socialcomunista per essere definito tale (un’ideologia che nell’Europa occidentale ha fatto la storia, prima ancora del marxismo). Odia troppo il Welfare State e la dialettica parlamentare. Tant’è che oggi i filorussi di tutti questi Paesi ex comunisti appartengono soprattutto ai ceti meno abbienti.

Questi sono tutti Stati autoritari, molto corrotti nei loro vertici politici, economici e militari, sempre favorevoli alla formazione di oligarchie, tendenzialmente fascisti o neonazisti, amatissimi dagli USA, che li preferiscono a quelli euroccidentali, poiché li possono manovrare meglio in funzione antirussa: è sufficiente elargire fiumi di capitali.

Tutto ciò stupisce alquanto, almeno di primo acchito, visto che per mezzo secolo sono Stati che han preteso di costruire un socialismo ideologicamente superiore al liberismo e liberalismo occidentale. Evidentemente il socialismo statale era stato avvertito come un’imposizione esterna, innaturale, da cui ci si sarebbe dovuti liberare senza tanti ripensamenti, proprio per poter abbracciare totalmente lo stile di vita occidentale. Di qui l’odio feroce nei confronti dello Stato che più ha impedito loro di emanciparsi in maniera borghese: la Russia.

Questi pseudo Stati borghesi sono quasi passati dal feudalesimo al socialismo statale, saltando quella lunga fase capitalistica che ha caratterizzato noi euroccidentali, e che loro stanno invece recuperando oggi, molto in fretta, lasciandosi colonizzare dalle potenze occidentali, che sfruttano le loro risorse, offrendo in cambio uno stile di vita privilegiato a poche categorie di persone.

Questi Stati han vissuto per molto tempo, come minoranze etnico-nazionali o regionali, all’interno di grandi regni o imperi più o meno feudali: lituano-polacco, austro-ungarico, russo e ottomano (e in parte anche quello prussiano, il più borghese di queste entità tardo-feudali).

Al tempo di questi regni e imperi non esistevano nell’Europa dell’est gli Stati democratico-borghesi, ma sistemi monarchici para-feudali, guidati da antiche dinastie e dall’aristocrazia agraria e militare. Erano sistemi nettamente condizionati dal capitalismo delle potenze occidentali, in primis da Francia e Regno Unito.

Quando nella I guerra mondiale tutti questi regni o imperi sono stati spazzati via, al loro posto si sono formati gli Stati democratico-borghesi. I quali però avevano tutti tendenze fortemente autoritarie, poiché a livello sociale mancava la mentalità borghese vera e propria, favorevole alla democrazia, seppur soltanto formale (quella delle libere elezioni, del libero mercato, del diritto civile e costituzionale, della separazione dei tre poteri fondamentali, della libertà di religione ecc.).

Di fronte alle contraddizioni sociali questi nuovi Stati borghesi, le cui Costituzioni erano state disegnate dalla Francia, usavano le maniere forti. Essendo stati abituati all’autoritarismo dei regni o imperi tardo-feudali, questi Stati, una volta divenuti capitalistici, non erano capaci di molta diplomazia. Di qui il loro centralismo esasperato e l’emarginazione se non la persecuzione delle minoranze.

Questa situazione è andata avanti fino a quando nel corso della II guerra mondiale il tentativo della Germania di far diventare la Russia bolscevica una propria colonia si è rivelato del tutto fallimentare. La Russia feudale-zarista era già colonizzata dal capitalismo europeo, ma la Russia stalinista non era un colosso dai piedi d’argilla. Non solo si difese ma inglobò anche quasi tutti quegli Stati neo-borghesi che si erano sviluppati tra le due guerre mondiali sulle ceneri degli antichi imperi tardo-feudali. E impose il socialismo statale, cioè il collettivismo forzato, che alcuni Stati arrivarono a rifiutare in maniera eclatante: Ungheria nel ’56, Cecoslovacchia nel ’68, Polonia nei primi anni ’80, fino alla caduta del muro di Berlino.

Il crollo dell’URSS ha ridato la possibilità a questi Stati di tornare ad essere borghesi. Di qui le rivoluzioni arancioni, i colpi di stato, le adesioni alla UE e alla NATO, il ritorno a ideologie anticomuniste, più o meno nazionalistiche e nazifasciste. In tutti questi Stati ex sovietici la russofobia è una costante ideologica molto netta, poiché la Russia viene accusata di aver interrotto brutalmente un processo lineare verso il capitalismo. Ecco perché questi Paesi non hanno dubbi nel sostenere gli USA e la UE per abbattere definitivamente la potenza russa. S’illudono di poter trovare nel capitalismo privato un’alternativa al socialismo statale.

Dunque cosa sta insegnando questa guerra all’Ucraina e in fondo al mondo intero? Fondamentalmente due cose, che se vuoi essere uno Stato borghese, non puoi esserlo senza rispettare le minoranze al tuo interno, né puoi pensare, aderendo alla NATO, di minacciare la sicurezza della Russia senza pagarne gravi conseguenze.

Il socialismo statale non esiste più in quasi nessuna parte del mondo. È stata un’esperienza fallimentare, che gli stessi russi han pagato in maniera molto tragica. Nutrire sentimenti antirussi a causa di un passato che non esiste più, è quanto di più stupido vi possa essere. Dietro questa assurda russofobia si nasconde in realtà il desiderio d’impadronirsi delle risorse di quell’immenso Paese. Tale atteggiamento neocolonialistico ci riporta ai secoli peggiori del protagonismo mondiale dell’occidente, prima europeo poi americano. Un protagonismo unipolare che non può più esistere, poiché vi si oppongono con successo non solo la Russia ma anche la Cina, l’India e altri Stati che non vogliono farsi mettere i piedi sulla testa.