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Cosa rappresenta l’Ucraina?

L’Ucraina rappresenta uno Stato molto simile ad altri Stati dell’Europa orientale, generalmente ex sovietici. Nel senso che storicamente non ha le tipiche caratteristiche di un compiuto Stato democratico-borghese. Odia troppo l’ideologia socialcomunista per essere definito tale (un’ideologia che nell’Europa occidentale ha fatto la storia, prima ancora del marxismo). Odia troppo il Welfare State e la dialettica parlamentare. Tant’è che oggi i filorussi di tutti questi Paesi ex comunisti appartengono soprattutto ai ceti meno abbienti.

Questi sono tutti Stati autoritari, molto corrotti nei loro vertici politici, economici e militari, sempre favorevoli alla formazione di oligarchie, tendenzialmente fascisti o neonazisti, amatissimi dagli USA, che li preferiscono a quelli euroccidentali, poiché li possono manovrare meglio in funzione antirussa: è sufficiente elargire fiumi di capitali.

Tutto ciò stupisce alquanto, almeno di primo acchito, visto che per mezzo secolo sono Stati che han preteso di costruire un socialismo ideologicamente superiore al liberismo e liberalismo occidentale. Evidentemente il socialismo statale era stato avvertito come un’imposizione esterna, innaturale, da cui ci si sarebbe dovuti liberare senza tanti ripensamenti, proprio per poter abbracciare totalmente lo stile di vita occidentale. Di qui l’odio feroce nei confronti dello Stato che più ha impedito loro di emanciparsi in maniera borghese: la Russia.

Questi pseudo Stati borghesi sono quasi passati dal feudalesimo al socialismo statale, saltando quella lunga fase capitalistica che ha caratterizzato noi euroccidentali, e che loro stanno invece recuperando oggi, molto in fretta, lasciandosi colonizzare dalle potenze occidentali, che sfruttano le loro risorse, offrendo in cambio uno stile di vita privilegiato a poche categorie di persone.

Questi Stati han vissuto per molto tempo, come minoranze etnico-nazionali o regionali, all’interno di grandi regni o imperi più o meno feudali: lituano-polacco, austro-ungarico, russo e ottomano (e in parte anche quello prussiano, il più borghese di queste entità tardo-feudali).

Al tempo di questi regni e imperi non esistevano nell’Europa dell’est gli Stati democratico-borghesi, ma sistemi monarchici para-feudali, guidati da antiche dinastie e dall’aristocrazia agraria e militare. Erano sistemi nettamente condizionati dal capitalismo delle potenze occidentali, in primis da Francia e Regno Unito.

Quando nella I guerra mondiale tutti questi regni o imperi sono stati spazzati via, al loro posto si sono formati gli Stati democratico-borghesi. I quali però avevano tutti tendenze fortemente autoritarie, poiché a livello sociale mancava la mentalità borghese vera e propria, favorevole alla democrazia, seppur soltanto formale (quella delle libere elezioni, del libero mercato, del diritto civile e costituzionale, della separazione dei tre poteri fondamentali, della libertà di religione ecc.).

Di fronte alle contraddizioni sociali questi nuovi Stati borghesi, le cui Costituzioni erano state disegnate dalla Francia, usavano le maniere forti. Essendo stati abituati all’autoritarismo dei regni o imperi tardo-feudali, questi Stati, una volta divenuti capitalistici, non erano capaci di molta diplomazia. Di qui il loro centralismo esasperato e l’emarginazione se non la persecuzione delle minoranze.

Questa situazione è andata avanti fino a quando nel corso della II guerra mondiale il tentativo della Germania di far diventare la Russia bolscevica una propria colonia si è rivelato del tutto fallimentare. La Russia feudale-zarista era già colonizzata dal capitalismo europeo, ma la Russia stalinista non era un colosso dai piedi d’argilla. Non solo si difese ma inglobò anche quasi tutti quegli Stati neo-borghesi che si erano sviluppati tra le due guerre mondiali sulle ceneri degli antichi imperi tardo-feudali. E impose il socialismo statale, cioè il collettivismo forzato, che alcuni Stati arrivarono a rifiutare in maniera eclatante: Ungheria nel ’56, Cecoslovacchia nel ’68, Polonia nei primi anni ’80, fino alla caduta del muro di Berlino.

Il crollo dell’URSS ha ridato la possibilità a questi Stati di tornare ad essere borghesi. Di qui le rivoluzioni arancioni, i colpi di stato, le adesioni alla UE e alla NATO, il ritorno a ideologie anticomuniste, più o meno nazionalistiche e nazifasciste. In tutti questi Stati ex sovietici la russofobia è una costante ideologica molto netta, poiché la Russia viene accusata di aver interrotto brutalmente un processo lineare verso il capitalismo. Ecco perché questi Paesi non hanno dubbi nel sostenere gli USA e la UE per abbattere definitivamente la potenza russa. S’illudono di poter trovare nel capitalismo privato un’alternativa al socialismo statale.

Dunque cosa sta insegnando questa guerra all’Ucraina e in fondo al mondo intero? Fondamentalmente due cose, che se vuoi essere uno Stato borghese, non puoi esserlo senza rispettare le minoranze al tuo interno, né puoi pensare, aderendo alla NATO, di minacciare la sicurezza della Russia senza pagarne gravi conseguenze.

Il socialismo statale non esiste più in quasi nessuna parte del mondo. È stata un’esperienza fallimentare, che gli stessi russi han pagato in maniera molto tragica. Nutrire sentimenti antirussi a causa di un passato che non esiste più, è quanto di più stupido vi possa essere. Dietro questa assurda russofobia si nasconde in realtà il desiderio d’impadronirsi delle risorse di quell’immenso Paese. Tale atteggiamento neocolonialistico ci riporta ai secoli peggiori del protagonismo mondiale dell’occidente, prima europeo poi americano. Un protagonismo unipolare che non può più esistere, poiché vi si oppongono con successo non solo la Russia ma anche la Cina, l’India e altri Stati che non vogliono farsi mettere i piedi sulla testa.

Ho amato e odiato la Russia

Ho amato la Russia quando Mosca disse, vedendo il tradimento teologico della Roma cattolica (con la sua idea di “primato petrino”) e di quello politico della Roma bizantina (che cercava appoggi antiturchi a Roma invece che in Russia), che lei era diventata la “terza Roma”.

Poi ho odiato lo zarismo perché opprimeva i contadini e le popolazioni tribali della Siberia.

Ho amato la Russia quando fece fuori l’autocrazia zarista e creò il primo Stato socialista della storia, esaltando il ruolo degli operai e dei contadini.

Ma poi l’ho odiata quando ha trasformato questa vittoria in un mostruoso socialismo statale, in mano a un’intellighenzia politica, amministrativa e ideologica.

Ho amato il popolo russo quando ha resistito alle orde barbariche dei Mongoli, degli Svedesi, dei Teutonici, dei Polacchi-Lituani e dei nazisti. E ho sempre pensato che Napoleone, per quanto espressione di una cultura più avanzata di quella zarista, non avesse il diritto d’imporla con la forza degli eserciti, per cui fui contento della sua sconfitta.

Ho amato la Russia quando si è liberata da sola dello stalinismo e della successiva stagnazione.

Ma poi l’ho di nuovo odiata quando ha rinunciato all’idea di socialismo democratico che voleva realizzare Gorbačëv. La Russia di El’cin, di Putin e degli oligarchi, privati e statali, non mi è mai piaciuta. Passare dal socialismo statale al capitalismo privato e statale è stato un grave errore.

La Russia ha tradito se stessa, anche se è stata grande nel non far pagare ad altri il peso delle sue contraddizioni, cioè le conseguenze della sua dissoluzione.

Ha sciolto il Patto di Varsavia, sopportando il vergognoso ampliarsi della NATO. Ha permesso alle Repubbliche federate della ex URSS di scegliere liberamente il loro destino. Si è limitata a soccorrere militarmente le comunità russe perseguitate nelle ex Repubbliche sovietiche. In ciò ha dato l’impressione di voler ricostituire il passato impero zarista. Ma non ha alcun bisogno di farlo, poiché, rispetto alla sua enorme estensione, ha ben pochi abitanti. Chiede solo maggiore sicurezza ai propri confini.

Oggi il capitalismo mondiale la vuole morta. Non gli è bastato che diventasse capitalistica. La vogliono smembrare e privarla dei suoi beni. È infatti evidente che il vero problema non è Putin. Non è certo per colpa sua che gli USA han deciso di circondarla con le loro basi militari.

Con le sanzioni economiche che le hanno imposto, la Russia rischia di diventare un Paese autarchico, obbligato a basarsi unicamente sulle proprie risorse. Il che non sarà un male. In fondo la vera alternativa al capitalismo qual è? L’autoconsumo, cioè la fine della dipendenza dai mercati.

Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels

L’ateismo del comunismo primitivo

È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.

Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.

Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.

Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.

Ma facciamo ora mente locale e cerchiamo di ricordare come sono fatte le tante pitture rupestri dell’uomo preistorico trovate in vari luoghi del pianeta. Presentano forse una simbologia magico-religiosa o animistico-totemica? Purtroppo per Engels dobbiamo dire che appaiono molto realistiche e naturalistiche, per quanto le figure siano stilizzate, appena abbozzate. Esse dovevano soltanto rimandare ad altro, non avevano la pretesa d’aver un significato in sé. Il pittore preistorico non voleva rappresentare tutto se stesso, né faceva della sua arte una forma di consolazione o di evasione o di protesta in rapporto alle contraddizioni della sua vita. Picasso rimase molto stupito di questo realismo ingenuo e cercò d’imitarlo nelle sue raffigurazioni dei tori.

Ora, perché questa assenza di riferimenti religiosi? Il motivo è molto semplice: nel comunismo primitivo non esisteva alcuna religione. Il fatto che seppellissero i loro morti con tutto ciò che d’importante avevano usato in vita, non voleva affatto dire che basassero la loro esistenza in funzione di una credenza religiosa. Non c’erano sacerdoti che si distinguevano dal resto della comunità, rivendicando un potere particolare. Se c’erano sciamani o stregoni, non svolgevano riti non compatibili con le funzioni attribuite alla natura. Alcuni eminenti studiosi han detto che non c’era la religione perché il cervello degli uomini primitivi non era sufficientemente sviluppato. Allora non lo è neppure quello dei socialisti! Ancora oggi ci si imbatte in qualche studioso di mentalità borghese che legge il passato con gli occhi del presente o che ritiene sia impossibile non credere in un’entità superiore.

Gli uomini primitivi erano forse religiosi perché mancava la scienza? Ma la fede cieca nella scienza non rende forse altrettanto superstiziosi? L’unica vera scienza è forse quella occidentale? La conoscenza diretta della natura, trasmessa per prove ed errori attraverso le generazioni, va considerata non scientifica? La scienza è davvero “scientifica” solo quando fa esperimenti in laboratori asettici, neutrali, non influenzati dall’ambiente esterno? La vera scienza è soltanto quella che sa “dominare” la natura perché ne conosce a fondo tutte le sue leggi?

Sono tutte domande le cui risposte, oggi, dovrebbero essere scontate, anche perché l’uomo primitivo, avendo una visione olistica delle cose, era inevitabilmente molto più scientifico degli odierni scienziati, sempre molto settoriali e privi di senso etico, in quanto, se sono idealisti, non si ritengono responsabili quando le loro ricerche vengono usate dalla politica o dall’economia in maniera negativa, oppure, se sono venali, si chiedono come ricavare dalle loro ricerche un utile economico. Quando parliamo di medicina non stiamo forse lì a chiederci perché in occidente si curi soltanto l’organo malato e non si abbia un vero rapporto col paziente?

Vivendo rapporti sociali naturali, l’uomo primitivo non poteva avere alcuna religione, e se aveva delle credenze che oggi qualifichiamo, sbagliando, col termine di “religiose”, esse non lo facevano sentire in balìa delle forze della natura, non provenivano da un senso d’impotenza nei confronti di tali forze, poiché la natura era considerata “madre”, non “matrigna”. Semmai è sotto lo schiavismo che si inizia ad attribuire a forze innaturali o sovrannaturali la causa e, insieme, il rimedio delle proprie frustrazioni. È così che si creano delle personificazioni simboliche, astratte, di ciò che si vive (il male) e che si vorrebbe vivere (il bene) nella realtà.

Gli uomini primitivi non si sentivano “dominati” dalla natura, né avvertivano il desiderio di “dominarla”. Per loro la natura era una partner dotata di personalità autonoma (che, p.es., non si poteva ferire con l’uso dell’aratro, per non devastarne il ventre, come dicevano tante popolazioni antiche). Era considerata una madre severa, esigente, ma anche protettiva, rassicurante, con cui misurarsi alla pari, man mano che si diventava adulti, senza mai scordarsi che gli esseri umani sono tutti “figli della natura”. Concepivano la natura come fonte esclusiva1 delle loro risorse, della loro stessa vita. Se per il fatto di ritenerla una sorta di “divinità” è necessario definirli “religiosi”, indubbiamente lo erano. Ma allora dovremmo considerare tali anche gli antichi filosofi ilozoisti o panpsichisti, quando invece erano fondamentalmente atei.

Credere che esista un aldilà o che la morte sia una forma di passaggio da un’esistenza a un’altra non significa essere “religiosi”, poiché anche la scienza parla di eternità e infinità della materia e dell’universo che la contiene, e della sua perenne trasformazione. Per non essere “religiosi” è sufficiente non credere in un dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, preveggente…, in grado di leggere il pensiero umano, di anticiparne le decisioni, di condizionarne le scelte, di indurlo in tentazione e altre amenità del genere, che fanno sentire l’uomo una marionetta nelle mani di dio. Chi crede nell’eternità della natura, non ha bisogno di credere in dio, oppure crederà in un dio che sostanzialmente avrà caratteristiche umane. Il livello massimo di religione che potevano avere gli uomini preistorici era il culto degli antenati, che è quanto di più umano vi possa essere.

Schiavismo e paganesimo

Il secondo aspetto sbagliato nella sintesi di Engels, sullo sviluppo del fenomeno religioso, è che non mette in relazione il paganesimo con lo schiavismo. Eppure avrebbe dovuto essere scontato. Tutte le religione cosiddette “pagane” o politeistiche sono nate quando già esisteva la fine del comunismo primitivo. Tali religioni avvertivano la natura come un pericolo o una minaccia, in quanto gli uomini vivevano così i loro rapporti sociali. Cioè consideravano la natura uno strumento nelle mani degli dèi, che lo usavano a loro discrezione, il più delle volte per punire gli uomini di qualche mancanza; oppure veniva invocato l’aiuto degli dèi per nuocere al nemico.

Non è mai esistito – come invece dice Engels – un periodo in cui gli uomini temevano le forze della natura, antecedente a un secondo periodo in cui hanno iniziato a temere le forze sociali antagonistiche. Dopo la fine del comunismo primitivo l’uomo ha subito avvertito il proprio simile come un nemico, e là dove non riusciva a sconfiggerlo, a sottometterlo, s’inventava delle forze supplementari astratte che potessero aiutarlo. Oppure chi era in grado d’imporsi con la forza o l’astuzia, escogitava delle entità simboliche per giustificare la propria superiorità.

Che poi sotto il paganesimo ci fossero tante divinità, mentre sotto le cosiddette “religioni del libro” ve ne fosse una sola, non ha molta importanza. Forse le religioni monoteistiche sono emerse quando il peso dei condizionamenti sociali antagonistici era troppo forte per essere sopportato. Esse infatti appaiono come una forma d’illusione a un livello superiore, più astratto e sofisticato: hanno sostituito qualcosa che aveva fatto il suo tempo, nella convinzione che occorressero ideali più elevati, da realizzarsi a tutti i costi. Le religioni monoteistiche sono legate più alla storia che non alla natura, più all’azione che non alla contemplazione, più a una organizzazione collettivistica con addentellati politici che non a un approccio alla divinità di tipo clanico-parentale o individuale, più a una sensibilità universale che non a un riferimento urbano o locale, più a rigidi dogmi che non a riti conformi ai ritmi della natura. Il passaggio da tante divinità che si possono rappresentare visivamente a un unico dio non rappresentabile o, come nel cristianesimo, a un personaggio che insieme è umano e divino, potrebbe anche essere visto come una forma di cripto-ateismo, di disincantamento da una certa ingenuità di fondo.

Insomma la formazione e lo sviluppo delle religioni sono stati molto sfaccettati nei secoli e nei diversi luoghi geografici, per cui non è possibile stabilire un “prima” e un “dopo” tra una forma e l’altra. L’unica cosa che si può dire è che, se si escludono le religioni animistico-totemiche, tutte le altre riflettono rapporti sociali conflittuali, cui s’è cercato di trovare una spiegazione fantastica a seconda delle circostanze. Tutti gli dèi servono per giustificare la posizione delle classi dominanti, o possono essere inventati per contrastare tale posizione. Le divinità possono assumere col tempo nomi, funzioni, caratteristiche, modalità d’azione… incredibilmente diversi, a seconda della fantasia umana: quello che non cambia è che esse vengono sempre usate in rapporto agli antagonismi sociali.

Anche oggi esistono divinità laicizzate che chiamiamo Stato politico, Libero mercato, Scienza laboratoriale, Diritti umani universali, Democrazia parlamentare… Persino la Scrittura, rispetto alla semplice Oralità, è considerata una divinità. Siamo in grado di “deificare” qualunque cosa, vivendo in sua funzione, sottomettendoci come servi: il denaro da accumulare, lo shopping per spendere il denaro accumulato, il sesso da godere, la droga per evadere, lo sport della squadra del cuore, l’attività ginnica che tiene sempre in forma, la medicina che risolve ogni problema fisico, l’alimentazione che rende sani, giovani e belli, i film che fanno sognare, la musica che distrae, le chat che coinvolgono, il gioco d’azzardo che ipnotizza, l’analista cui confidare i nostri problemi… Quando dominano i rapporti antagonistici, tutto può essere trasformato in una “religione”, persino l’ideologia con cui vengono criticati questi rapporti.

La religione è una fissazione da cui è molto difficile liberarsi, se non ci si libera di ciò che la origina. Con uno sforzo di volontà personale al massimo si può passare da una fissazione a un’altra. Tutto può diventare una forma di dipendenza, esattamente come le classiche religioni. L’oppio dei popoli oggi è il capitalismo, ma, in alcuni Paesi del mondo, per 70 anni è stato il cosiddetto “socialismo reale”. Gli stessi Marx ed Engels avevano il culto per la scienza e la tecnica e avevano concepito una transizione socialista che non prescindesse minimamente da ciò che la borghesia aveva realizzato sul piano tecnologico.

Ecco perché oggi, se davvero vogliamo realizzare un socialismo democratico, dobbiamo rimettere tutto in discussione. Oggi ci vantiamo di conoscere la natura molto meglio di quanto potessero fare gli uomini prima della rivoluzione tecnico-scientifica del Settecento. Ma chiediamoci: forse per questo abbiamo eliminato il concetto di “religione”? O non l’abbiamo piuttosto trasformato in qualcosa di più laico, conseguente al fatto che la società borghese ha aumentato, col consumismo, gli oggetti di cui possiamo disporre per illuderci di superare le nostre alienazioni?

Tutte queste opinioni limitate di Engels non dipendono solo dal fatto che risalgono a 150 anni fa, ma anche e soprattutto da una visione piuttosto terribile della preistoria. Scrive a tale proposito: “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi”. In queste condizioni verrebbe da chiedersi come sia stata possibile un qualunque forma di progresso.

Se osserviamo che talune comunità primitive, ancora oggi esistenti, sono rimaste ferme al neolitico, pur essendo consapevoli, almeno a grandi linee, di un certo progresso tecnico-scientifico e urbanistico, avvenuto non molto lontano dai loro villaggi, verrebbe quasi da pensare che i membri di tali comunità non appartengano affatto alla specie “homo sapiens”. A Engels sarebbe parso del tutto incredibile che, pur consapevoli di un certo progresso tecnologico al di fuori del loro habitat, tali comunità abbiano preferito rinunciarvi altrettanto consapevolmente, nella convinzione che, così facendo, avrebbero potuto conservare meglio le caratteristiche della loro identità, le proprietà del loro ambiente vitale.

Purtroppo gli stessi etnologi che visitano tali comunità spesso non sono in grado di capire ch’esse, a causa dei condizionamenti esterni che subiscono, non sono più come vorrebbero essere. Esse sanno benissimo che il cosiddetto “mondo civilizzato” non vede l’ora di espropriarle delle loro risorse naturali. Il fatto stesso che vi siano degli studiosi che vanno a conoscerle come se fossero animali in via di estinzione, è indicativo del profondo abisso che ci separa da loro. Per Engels il criterio fondamentale che spiega la differenza tra “loro” e “noi” è il rapporto con la natura, che per loro sarebbe di “dipendenza”, mentre per noi è di “dominio”, come se il concetto di “dominio” ci caratterizzasse, nei confronti della natura, come “esseri umani”.

Dunque a che serve il sedicente “socialismo scientifico” se nei confronti della natura ha lo stesso atteggiamento “imperialistico” del liberismo borghese? Abbiamo davvero bisogno di “razionalizzare” un atteggiamento che è sbagliato nei suoi presupposti di fondo? Finché per noi il rapporto con la natura si configura solo come dominio, che possibilità abbiamo di diventare noi stessi, cioè “enti di natura”? È forse giusto ritenere che nel mondo primitivo l’uguaglianza fosse soltanto un prodotto inevitabile della loro impotenza nei confronti della natura? un effetto della loro povertà materiale? della loro incapacità produttiva? Per quale motivo è così difficile capire che una qualunque produzione umana deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura?

Addendum riepilogativo

Là dove c’è paganesimo, c’è sempre schiavismo. E lo schiavismo è sempre basato sui rapporti di forza, in cui p.es., sul piano personale/sessuale, l’uomo domina la donna. Se esistono riferimenti ancestrali al primato della natura, all’eternità-infinità dell’universo ecc., ciò va considerato un retaggio del comunismo primitivo, che ha caratterizzato la vita del genere umano in tutto il pianeta per almeno un milione di anni (in genere si fa partire lo schiavismo a circa 6000 anni fa).

Là dove c’è schiavismo, non è possibile considerare il paganesimo migliore del cristianesimo: semmai si possono fare differenze tra ortodossia religiosa (di derivazione greco-bizantina) e cattolicesimo-romano, in cui il papato si considerava politicamente superiore agli imperatori.

Il cristianesimo è quella religione che favorisce il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in quanto ha un maggior senso dell’etica, proveniente dall’ebraismo. Questo almeno fino a quando, assumendo atteggiamenti neopagani, desunti dalla passata civiltà greco-romana, il cristianesimo non arriverà a trasformare la dipendenza personale del servaggio in dipendenza contrattuale del lavoro salariato. Un processo, quest’ultimo, iniziato in Italia, con la formazione dei Comuni borghesi e sviluppatosi enormemente con la Riforma protestante, specie nella variante calvinistica. Criticando il cattolicesimo borghese del papato, la Riforma sembrava voler riprendere la severità del cristianesimo primitivo; invece estese soltanto la corruzione a tutta la società civile, facendo di ogni credente il pontefice di se stesso.

Tutte queste cose: schiavismo/paganesimo, servaggio/ortodossia-cattolicesimo, capitalismo/protestantesimo vanno superate con una forma di socialismo democratico e ateistico (umano-naturalistico), che riprenda lo stile di vita del comunismo primitivo, l’unico in cui vigeva l’uguaglianza sociale e quindi quella di genere. Questo per dire che non potremo ereditare nulla di significativo né dallo schiavismo pagano, né dal servaggio cristiano, né dal capitalismo borghese, e neppure dal socialismo statale (di matrice russa) o mercantilistico (di matrice cinese).

Nota

1 Oggi non usiamo più il termine “esclusiva” ma “prioritaria”, in quanto ci vantiamo di poter costruire artificialmente ciò di cui abbiamo bisogno.

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Il senso della storia

Qual è il senso della storia? Di sicuro non quello di Nikolaj Berdjaev, che vedeva nella storia terrena una ripetizione di qualcosa già avvenuto nei cieli. Diciamo che se una qualche “ripetizione” deve esserci o, per dirla con Nietzsche, un qualche “eterno ritorno”, allora potremmo dire che il senso della storia sta nel tornare all’esistenza dell’uomo primitivo, ovviamente con la consapevolezza di tutti gli errori compiuti. È una specie di “ritorno alla terra” – per restare alla terminologia nicciana -, con un movimento però non lineare, che sarebbe troppo ottimistico, troppo illusorio: il movimento è a spirale, dove i cerchi concentrici si restringono sempre più, fino a diventare un punto solo. Nel suo Anti-Dühring, a proposito di questi cerchi, F. Engels diceva ch’essi avrebbero raggiunto la loro fine collidendo col centro.

L’essere umano e naturale è soltanto quello preistorico. La storia, infatti, è una successione di eventi che di umano e naturale hanno ben poco. Gli unici aspetti meritevoli d’essere ricordati sono quelli in cui gli uomini han fatto il possibile, anche sacrificando la loro vita, per recuperare ciò che hanno perduto, di cui la prima cosa in assoluto è l’innocenza, quella condizione che si viveva quando non esistevano rapporti antagonistici irriducibili, quando le contraddizioni non erano insormontabili.

Il senso della storia è tutto racchiuso nella parabola lucana del figliol prodigo, salvo in un punto: l’atteggiamento invidioso o addirittura rancoroso dell’altro figlio, che sembra essere rimasto col padre solo per interesse o perché non aveva il coraggio di vivere una propria vita, non aveva sufficiente “spirito imprenditoriale”.

Perché si possa giungere a una condizione innocente di vita, valida per tutto il pianeta, oggi occorrerebbe un evento catastrofico, apocalittico, che rendesse equivalenti i diversi livelli di consapevolezza, che dipendono dalle diverse tipologie di vita. Ci vorrebbe però un evento epocale, che azzerasse quasi tutta l’umanità, lasciando in vita una sorta di “piccolo resto d’Israele”. Questo perché il capitalismo ha infettato il mondo intero, ha corrotto anche gli angoli più remoti della Terra. Persino quando si crea il socialismo di stato, se ne resta profondamente condizionati.

Certo, queste son cose che non si dovrebbero dire, ma purtroppo è la stessa storia – questo mattatoio a cielo aperto – che ci costringe a farlo. Si deve fare eticamente di tutto per scongiurare i cataclismi, ma se sarà del tutto vano, s’imporranno da soli altri mezzi e metodi. La stessa natura non ci sarà sempre benigna, come vuole il Pascoli. E, in ogni caso, già oggi si dispongono di armi nucleari in grado di distruggere l’umanità non una ma più volte.

È probabile che tutti gli esseri umani che hanno già lasciato questo pianeta e che si trovano a vivere in qualche luogo dell’universo (che – ci piace ricordarlo – è eterno nel tempo e infinito nello spazio), siano impegnati nel rendere uniformi o allineati gli eterogenei livelli di consapevolezza storica, che riguardano l’etica e la democrazia. “La discesa di Cristo agli inferi”, così come viene raffigurata nelle icone bizantine, non può non avere questo significato. L’omogeneità assiologica dovrebbe essere facilitata dal fatto che un’esistenza secondo natura è più democratica, più egualitaria, più umana.

Su questa Terra i livelli di consapevolezza sono tra i più vari proprio perché ci siamo allontanati tantissimo, in tempi e modi diversi, dall’esistenza naturale dell’uomo primitivo. È vero che oggi il globalismo del capitale tende a omogeneizzare le menti a livello mondiale. Ma lo fa con la forzatura dei mercati, che impongono i loro valori di scambio, a prescindere da quelli d’uso. Il risultato è che non sappiamo più chi siamo e facciamo cose senza senso, senza volerlo, pur sapendo che non dovremmo farle.

Negli stessi vangeli i redattori han messo in bocca al Gesù crocifisso le parole: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”. Peccato però che anche i redattori non sapessero quel che scrivevano: Gesù Cristo, infatti, era ateo. Per lui non c’era nessun “Padre” dai poteri sovrumani. Lo disse chiaramente agli ebrei nel quarto vangelo: “Voi siete dèi”.

Ritornare al punto di partenza con la consapevolezza di tutto il male compiuto significa, sul piano scientifico, che la materia deve tornare allo stato energetico iniziale, come se non vi fosse stata alcuna vera dissipazione. Nella storia la materia si è sviluppata in varie forme, prendendo strade diverse, ma l’energia è rimasta intatta, poiché non può essere violata al punto da mutare la propria natura. La coscienza, su cui si basano le intenzioni, può sempre tornare ad essere quel che era. E la nostra vera “energia” è l’autoconsapevolezza di sé.

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Un’anticipazione di questo fenomeno possiamo constatarlo nella Sindone: lì un corpo in carne ed ossa s’è trasformato in energia, rendendosi invisibile all’occhio umano. Come ciò sia potuto accadere è impossibile saperlo. Di sicuro sappiamo che su questa strana trasformazione o trasmutazione non si doveva costruire una nuova religione. Interpretare la tomba vuota come resurrezione è stata una forzatura, del tutto arbitraria, di Pietro, in quanto il concetto di “resurrezione” presume che un corpo ricompaia integro dopo morto e che sia facilmente riconoscibile. Il che non è mai avvenuto: tutti i racconti evangelici di riapparizione del Cristo sono stati chiaramente inventati. Né la cosa sarebbe potuta avvenire senza violare la libertà di coscienza degli uomini, che vanno appunto lasciati liberi di credere nelle condizioni spazio-temporali del loro pianeta.

Finché restò in vita, Gesù non mostrò d’aver nulla che non fosse “umano”. Un sospetto subentrò quando si trovò il sepolcro vuoto. Ma nessuno era in grado di dire che cosa era cambiato, e tanto meno in che maniera. La materia era tornata ad essere energia, ma senza poterlo far vedere agli uomini, ai quali è interdetta la possibilità d’aver di fronte a loro, sulle questioni cosiddette “sensibili” (quelle implicanti una decisione di coscienza), un’evidenza che s’imponga da sé. La verità autoevidente è un’ingenuità degli antichi filosofi greci e dei teologi medievali, una pigrizia del pensiero.

Ognuno di noi, tuttavia, è destinato a sperimentare su di sé lo stesso fenomeno. Per entrare su questa Terra siamo usciti da un tunnel e non senza fatica; per entrare in una nuova dimensione, dovremo uscire da un altro tunnel, e con una fatica ancora più grande, poiché ci porteremo dietro tutti i nostri pregiudizi.

Poiché la morte è solo una forma di passaggio da una condizione di vita a un’altra (come il bruco e la farfalla o il seme e il frutto), noi ci vedremo trasformati in una sostanza energetica, la cui natura ci sfugge. Paolo di Tarso parlava di “corpo glorioso”, ma lo diceva come se gli interessasse la lotta contro “le potenze dell’aria” e non contro “la carne e il sangue”. Il suo era solo un delirio mistico.

Dove sta la differenza tra noi e il Cristo sepolto? Nel corpo. Il nostro imputridisce. Noi non vorremmo che fosse così. I ricchi Egizi imbalsamavano i loro corpi nella convinzione che quello era il modo migliore per giungere nell’aldilà: avevano bisogno delle fattezze del loro corpo, al quale però dovevano togliere gli organi interni. Era anche questa una forma d’ingenuità, peraltro abbastanza classista, in quanto i poveri non si potevano permettere un trattamento così costoso e meno ancora una piramide.

Anche oggi riusciamo a imbalsamare perfettamente i cadaveri: i russi l’han fatto col rivoluzionario Lenin, i cinesi con Mao Zedong, i vietnamiti con Ho Chi Minh. È un modo, un po’ patetico, di trasformare gli eroi in icone. Negli Stati Uniti, pagando cifre astronomiche, ci si può far ibernare, anche se ancora non esiste una tecnica per farsi “risvegliare”.

Si vuol far durare la vita in eterno, fingendo di non sapere che su questa Terra non è possibile farlo in alcuna maniera. A dir il vero la Bibbia dice che Adamo ed Eva, prima del peccato, non conoscevano la morte, e che Dio, a causa dell’iniquità degli uomini, si vide costretto ad accorciare di molto la durata della loro vita. Forse per questo siamo convinti che la morte non sia la fine di tutto.

Solo le idee di una persona possono sopravvivere al suo corpo. Ma occorre che siano conosciute e che qualcuno le erediti e le sviluppi, in base alle nuove condizioni di vita che la storia ci obbliga a vivere. Non c’è niente di peggio di un’idea statica, sempre uguale a se stessa. Eraclito diceva che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.

Può anche sopravvivere qualcosa nell’immaginario popolare, a prescindere dalle idee del proprio mito. La persona viene eternizzata per qualcosa che ha fatto. Ci ricordiamo, p.es., di Che Guevara perché morì in un agguato in Bolivia, dopo aver fatto la rivoluzione cubana; ma chi si ricorda di cosa egli abbia mai detto?

Tutto ciò lascia pensare che la morte ci stia stretta, cioè che non faccia parte del nostro senso della vita. Infatti, anche quando diciamo che è naturale morire, la morte l’avvertiamo sempre con dolore, come se qualcosa d’importante venisse meno o ci venisse a mancare. Non siamo affatto contenti quando muore qualcosa o qualcuno che ci piace o che amiamo o che stimiamo e ammiriamo. Anche quando abbiamo a che fare con soggetti particolarmente sgradevoli, speriamo sempre che cambino carattere o atteggiamento. Non ci piace augurare la morte a qualcuno. I sentimenti negativi ci fanno star male.

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Ma torniamo alla domanda di prima: perché il nostro corpo imputridisce, mentre quello del Cristo non ha conosciuto corruzione? Cosa c’è che ci differenzia da lui?

La sua morte è stata reale, non apparente: l’attesta il colpo di lancia che gli trafisse il cuore. E nella trasformazione l’energia non ha abbandonato il proprio corpo, ma se l’è ripreso integralmente e immediatamente. Sepolto di venerdì pomeriggio, sarà scomparso la notte stessa, quando nessuno poteva vederlo. Poi la Chiesa s’è inventata la storia dei tre giorni. Per uscire dal sepolcro ha dovuto spostare la pietra che lo chiudeva. Quindi il suo corpo aveva mantenuto le caratteristiche della fisicità.

Nel racconto inventato sull’apostolo Tommaso che non crede in ciò che non vede, i redattori fanno dire a Gesù: “Metti il dito nelle mie piaghe”. Pur mentendo poeticamente, avevano capito che non si poteva parlare di “puro spirito” (cosa che nessun ebreo, peraltro, avrebbe mai fatto per tutto l’oro del mondo).

In quell’uomo materia ed energia potevano tranquillamente coesistere anche dopo morto. Per dimostrare la fondatezza di tale asserzione, la Chiesa arrivò a escogitare il sacramento dell’eucaristia, in cui si consuma una sorta di pasto totemico simbolizzato. Si era trasformata l’idea di comunismo primordiale in qualcosa di assolutamente fantastico.

Come mai in noi materia ed energia sono disgiunte? Per quale motivo la Chiesa parla di “resurrezione dei corpi” solo al momento del cosiddetto “giudizio universale”? E come mai sentiamo il desiderio di una loro indissolubile unità? Noi non vorremmo morire mai. O meglio, vorremmo poter rivivere, dopo morti, con un corpo perfetto, privo di difetti, sempre giovane e forte.

Chi davvero desidera morire è perché è disperato. Ha una visione falsata della realtà, con cui p.es. s’immagina di poter ottenere un premio nell’aldilà. A meno che uno non desideri liberarsi di una sofferenza assolutamente insopportabile, o che comunque giudica tale. Non dobbiamo infatti dimenticare che per un altro la medesima sofferenza potrebbe essere giudicata “relativamente” sopportabile. La soglia della sofferenza varia da persona a persona. Variano anche le motivazioni con cui si giustifica la sofferenza. Siamo animali molto complessi.

In ogni caso è da ottusi non capire che la morte può anche essere vista come liberazione da un male incurabile o da sofferenze indicibili. Dire che non possiamo toglierci la vita perché ce l’ha data Dio, significa essere “ideologici”, cioè schematici. Uno deve essere padrone del proprio corpo, se vogliamo che eserciti una responsabilità personale. Dobbiamo smetterla di sentirci sotto tutela di qualcuno.

Il suicidio può essere visto anche come una forma di protesta. A dir il vero ci si può uccidere per tanti motivi: una delusione d’amore o un senso di abbandono, un tradimento subìto o una clamorosa sconfitta, un atto vergognoso che s’è compiuto… Non ci sono solo le malattie incurabili e le sofferenze indicibili.

Catone lo fece perché non tollerava il passaggio dalla Repubblica all’Impero; Jan Palach perché rifiutava la presenza dei sovietici a Praga; i monaci tibetani si bruciano perché non sopportano l’occupazione cinese… Kierkegaard volle far credere che il suo suicidio era stato una sorta di “omicidio” da parte della Chiesa di stato danese.

Oggi non pochi fanatici musulmani si fanno saltare in aria come forma di protesta contro l’Occidente. Non sanno che anche il capitalismo potrebbe comportarsi nella stessa maniera se si sentisse profondamente minacciato nella propria incolumità. Cosa si saranno detti i Romani quando a Masada videro che oltre novecento ebrei si erano suicidati pur di non essere schiavizzati? Abbiamo sentito parlare di suicidi di massa anche in talune sette religiose fanatiche, come segno di devozione (o di plagio?), da parte degli adepti, nei confronti dei loro leader.

Hitler l’ha fatto perché non voleva essere giudicato dalla storia: tanto coraggioso quanto vigliacco. È che quando il coraggio si esprime nelle forme della spietatezza, l’etica scompare. Il suicidio, in tal caso, appare come una forma di ingiustificata debolezza. Si capisce di più chi si uccide perché, posto sotto tortura, teme di tradire i compagni.

Tuttavia uno dovrebbe mettere alla prova se stesso. “Fin dove siamo in grado di resistere?” – questo dovremmo chiederci. Non si può aspirare all’eroismo senza dimostrare un minimo di coraggio. In fondo le sofferenze, oltre un certo limite, non possono andare: il corpo non le regge.

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Ma torniamo alla domanda di partenza: perché in Cristo materia ed energia non potevano restare separate? Nell’universo le stelle sono energia che si trasforma in materia, e questa, a sua volta, si ritrasforma in energia. Il processo può durare miliardi di anni, anche se prima o poi finirà, poiché tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, come disse il giudice G. Falcone in riferimento al destino della mafia (avrebbe però dovuto aggiungere che solo il popolo potrà eliminarla: certamente non lo Stato, di cui lui si sentiva un fedele servitore).

Con sicurezza possiamo dire che anche il nostro pianeta è destinato a finire, e non in concomitanza alla fine del Sole, ma molto prima. Anzi, se andiamo avanti con questa devastazione ambientale, il tempo che ci resta è davvero poco. Con le nostre capacità autodistruttive possiamo soltanto affrettarne il decesso.

La Terra è figlia del Sole: nell’Universo siamo tutti “figli delle stelle”, come diceva quella bella canzone di Alan Sorrenti. Ma se le stelle prima o poi esplodono o implodono, davvero noi umani siamo destinati all’eternità? Oppure dobbiamo soltanto accontentarci di vivere qualche miliardo di anni? Perché diciamo che l’universo è eterno e infinito quando al suo interno tutte le cose hanno, almeno all’apparenza, un tempo limitato? Più che le cose in sé, sembra essere eterno il processo rigenerativo, quello che le riproduce. Le cose muoiono, ma per rinascere in forme diverse. La dialettica hegeliana di tesi – antitesi – sintesi, con la sua negazione della negazione, pare davvero essere la legge dell’intero universo.

Forse i cosiddetti “buchi neri” sono in qualche modo responsabili di questa perenne trasfigurazione della materia, in cui nulla si crea e nulla si distrugge in maniera irreversibile. Esiste una sorta di “antimateria” che ci è del tutto ignota. Non ci è però ignoto il fatto che dentro di noi esiste qualcosa che sfugge a una nostra esaustiva comprensione: è la coscienza. La coscienza è qualcosa di così vasto e profondo che sembra essere il contenuto più adeguato dell’universo che la contiene.

Nella nostra coscienza vi è qualcosa di eterno e di infinito che fa sembrare gli esseri umani più grandi di qualsiasi altra cosa dell’universo. In un certo senso siamo o possiamo diventare l’autoconsapevolezza dell’universo. Sembriamo essere destinati a popolarlo in lungo e in largo. La Terra è come un banco di prova delle nostre possibilità. È una specie di esperimento in laboratorio per saggiare le nostre capacità umane e naturali. E finché non abbiamo imparato a comportarci in maniera degna, non possiamo pensare di meritarci l’universo.

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Sì, ma la domanda resta: perché nel Cristo materia ed energia coincidono perfettamente, mentre in noi non avviene? Se siamo stati creati “a immagine e somiglianza” della divinità, anche noi dovremmo avere questa straordinaria caratteristica.

Qui è difficile rispondere. Non riusciamo infatti a capire se questa dicotomia è avvenuta in un particolare momento della storia o se sia invece una nostra caratteristica naturale. Siamo un prodotto malriuscito della divinità, che potrebbe farci fuori in qualunque momento, come ai tempi di Noè; oppure, una volta creati, godiamo del privilegio dell’immortalità?

È indubbio che se noi siamo la copia di un modello originario, cioè il prodotto derivato di un prototipo ancestrale, non fatto da mano umana, qualcosa ci deve mancare, altrimenti non esisterebbe un “prima” e un “dopo”. Un qualche primato ontologico dovrà pur esserci nell’universo. Non siamo “divini” per “essenza” ma solo per “partecipazione”, diceva l’Aquinate. I figli che mettiamo al mondo sono un nostro prodotto, ma non sono copie identiche di noi, non foss’altro perché sono il risultato di un rapporto di coppia.

Se il Cristo è il modello originario dell’umanità, qualcosa di diverso deve averlo. E poi di quale umanità sarebbe il modello? Certamente non di quella femminile. Devono per forza esistere due modelli eterni, divisi per genere. Lo si intuisce in quel “facciamo l’uomo” (cioè l’essere umano bisessuato) nel racconto della creazione. In principio era il due, non l’uno solitario. C’è una relazione che fa l’identità: non c’è prima l’identità e poi la relazione, ma il contrario.

La differenza tra il modello e la copia non è però così grande da metterci in imbarazzo. Non esiste alcun dio che non abbia caratteristiche umane, per cui possiamo star tranquilli che nessuno ci leggerà mai nel pensiero, né sarà in grado di anticipare le nostre mosse o di prevedere le decisioni che prenderemo. Noi siamo destinati a esistere, che lo si voglia o no, ma nelle forme che riterremo opportune, e senza poter violare la libertà di coscienza degli altri. Non potrai fare lo schiavista se nessuno vorrà fare lo schiavo.

Il suicidio non sarà altro che una forma di disperazione, un non voler essere se stessi, umani e naturali. Ma avremo tutto il tempo per pentirci delle nostre colpe. E per essere perdonati. Il problema infatti non sarà soltanto quello di pentirsi del male che si è fatto, direttamente o indirettamente, ma anche quello di convincere chi l’ha subìto che il pentimento è sincero. E quando vi sono di mezzo le questioni sensibili della coscienza, tutto è maledettamente complicato. Dicono che il tempo sia la migliore medicina, ma occorre anche una certa disposizione d’animo.

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E con ciò non abbiamo affatto risposto alla domanda iniziale: se nel Cristo materia ed energia coincidono strettamente, dobbiamo considerarlo davvero umano? O era una specie di extraterrestre di cui ci sfugge la vera identità? Finché è rimasto vivo, nessuno ha potuto dubitare della sua umanità (evitiamo qui di considerare le amenità dei vangeli, i cui redattori mirano a presentare come reali cose assolutamente fantastiche).

Le falsificazioni e le mistificazioni su di lui sono subentrate subito dopo la sua morte. Certo, lo misconoscevano anche quando era vivo, ma nessuno pensava che fosse una divinità. La fantasia poetica a sfondo religioso subentrò solo dopo aver visto vuota la tomba, che poi tanto vuota non era, visto che trovarono la Sindone, il lenzuolo di lino che aveva avvolto frettolosamente il cadavere. Il fatto che fosse stata ripiegata e posta da una parte, escludeva l’ipotesi del trafugamento della salma. Fu così che cominciarono ad attribuirgli cose che non aveva mai detto e mai fatto. Ecco perché se la Sindone è vera, tutto il resto, nel Nuovo Testamento, è falso.

La stranezza tuttavia rimaneva. Se la sua morte era stata reale e nessuno aveva rubato il corpo, seppellendolo da qualche altra parte (magari per far credere ch’era risorto), come aveva fatto a scomparire? L’aveva fatto da solo o era stato aiutato da un’entità esterna? Per i credenti ciò è del tutto irrilevante. Invece noi pensiamo che l’ha fatto da solo proprio perché non esiste alcun dio che non sia umano. E questo dio è fatto di materia ed energia, legate indissolubilmente, altrimenti avrebbe potuto lasciare il suo corpo e andarsene con la sua anima.

Finché rimase in vita, il suo messaggio, nettamente travisato dai vangeli, era chiaro: liberare la Palestina dall’occupante romano e dalla classe sacerdotale corrotta e collusa col nemico. L’obiettivo finale era quello di tornare al comunismo primordiale, quello abbandonato col peccato originale.

Tuttavia in quella tomba diede un messaggio ulteriore, la cui importanza fu dai cristiani esagerata proprio per trascurare l’obiettivo politico: dopo la vita terrena ne esiste un’altra, extra o ultraterrena. La Terra è solo un ovulo fecondato, da cui dobbiamo uscire per popolare l’intero universo. E dobbiamo farlo secondo natura, conformemente alla nostra natura umana.

Avere eliminato la sua proposta di vita non è servito a nulla. Abbiamo soltanto aumentata, in intensità e durata, la nostra sofferenza. Il compito che abbiamo è rimasto sempre quello: come essere se stessi. Se avessimo seguito le sue direttive, ci saremmo risparmiati le sofferenze dello schiavismo, del servaggio feudale, del capitalismo e del socialismo statale.

Vorrà dire che dovremo imparare dai nostri errori. Lui ha soltanto voluto dimostrare che per essere se stessi occorre umanità sul piano etico e democrazia su quello politico. La Chiesa, che ha preteso di rappresentarlo, non ha realizzato né l’una né l’altra: non sa proprio che cosa siano, anche se la Chiesa ortodossa appare più umana e democratica di quella cattolica e di quella protestante.

Forse, con l’ingresso nel terzo millennio, si è aperta una nuova fase per l’umanità. Ci troviamo a vivere completamente atei, ma ancora non siamo capaci di vera democrazia. Non riusciamo a superare i rapporti antagonistici che ci affliggono quotidianamente. Non siamo capaci di rivoluzionare la società, di trasformare il sistema in un qualcosa di completamente diverso. La paura ci frena. L’illusione ci condiziona. Pensiamo sempre che chi ci comanda possa attenuare le sue pretese. O che le cose si possano risolvere da sole. Abbiamo trasformato la scienza in una nuova religione e facciamo dei nostri fondamenti politici ed economici (il diritto internazionale, la democrazia parlamentare e il libero mercato) degli idoli da adorare.

Siamo ancora molto immaturi, lontani dal Sapere aude kantiano. E quando dimostriamo coraggio, non siamo capaci di coerenza. “Non faccio quello che voglio ma quello che non voglio”, diceva san Paolo duemila anni fa. Facciamo le cose a metà. Il servo della gleba non era uno schiavo, ma non era neppure libero. L’operaio salariato è giuridicamente libero, ma è socialmente schiavo. L’Occidente è ricco, ma vive sulle spalle del Terzo mondo. Le cose sono sì paradossali – come è giusto che siano -, ma al negativo. Qualcosa va sempre storto e qualcuno ci rimette sempre.

Il falso benessere su cui poggia la nostra pseudo-democrazia è in attesa di uno sconquasso internazionale che ne riveli la vera natura. E noi non siamo capaci di innescare la miccia propositiva. “Non sono venuto a portare la pace ma il fuoco, e quanto vorrei fosse già acceso”, diceva Joshua nei vangeli.

Quand’anche fossimo capaci di accendere questo fuoco purificatore, sapremo poi impedire che si ricada nel male di sempre? Il problema, infatti, non sta solo nel saper porre le premesse della transizione, ma anche nel saperle gestire “dopo” averla avviata. Gli uomini sembrano non aver mai le idee chiare. Dopo aver fatto un passo avanti, con la rivoluzione d’Ottobre, ne hanno fatti due indietro con lo stalinismo industriale e il maoismo agricolo.

Sembra che tornare al comunismo primordiale sia diventata la cosa più difficile di questo mondo. Ci siamo complicati inutilmente la vita, e ora tutto quello che ci diciamo sul piano teorico, lo smentiamo puntualmente su quello pratico. Forse prima di dimostrare che sappiamo essere coerenti, dovremmo recarci in un deserto e stare a digiuno per quaranta giorni e quaranta notti.

Che cosa vuol dire “progresso”?

Non ho mai sostenuto d’essere contrario al progresso tecnico-scientifico. Sarebbe molto sciocco esserlo. Ciò che non mi ha mai convinto è stata l’idea, di origine borghese, che lo sviluppo tecnologico fosse di per sé indice di progresso. Ogni volta che si esamina un fenomeno, bisogna sempre chiedersi quali sono state le motivazioni che l’hanno generato e quali hanno contribuito a farlo sviluppare in una direzione e non in un’altra.

Penso che debba essere considerato come un dato di fatto che l’essere umano possieda un certo desiderio di cercare nuove forme di vita, di fare nuove esperienze. L’esigenza di conoscere l’ignoto, di gestire razionalmente ciò che sembra sfuggire al controllo, di creare ordine da ciò che appare caotico, appartiene da sempre a ogni popolo della storia. In tal senso dovremmo ringraziare la prima donna del genere umano che, trasgredendo un divieto e convincendo il marito a fare altrettanto, ha permesso il sorgere di qualcosa che prima non c’era.

Eppure ciò è avvenuto in maniera anomala, trasgredendo appunto un divieto, cioè un’esperienza pregressa, delle tradizioni comuni, dei valori più o meno consolidati. Gli esseri umani sono usciti da una condizione d’ingenua innocenza per avventurarsi in un’esperienza di vita, perlopiù negativa, dalla quale non avrebbero più potuto prescindere.

Cosa c’era di sbagliato in quella scelta? Non eravamo forse destinati a compierla? L’unica cosa sbagliata era la tipologia della modalità. Gli esseri umani (almeno una parte di essi) avevano deciso di vivere una vita che rompesse col loro passato e che affermasse una sorta di esperienza arbitraria, del tutto inedita.

L’essere umano è destinato, per natura, a progredire infinitamente nella conoscenza e nel modo di applicare le nozioni che apprende. Tuttavia deve imparare a farlo secondo natura e secondo l’etica che lo caratterizza umanamente, rispettando le condizioni spazio-temporali in cui è chiamato a vivere. Per ogni cosa ci sono le dovute modalità e c’è anche il suo tempo: ogni arbitrio e ogni anticipazione sono indebiti.

Indubbiamente il pianeta contiene aspetti negativi che vanno superati. Ma questi aspetti sono naturali: servono a formare il carattere, a migliorare se stessi. Abbiamo bisogno di avversità climatiche, di asperità ambientali, di sconvolgimenti tellurici non solo per capire che siamo soltanto “ospiti” della madre Terra, ma anche perché è l’affronto delle contraddizioni che ci fa crescere, che ci rende forti. Questa pedagogia è universale e ci riguarderà anche quando non esisterà più il nostro pianeta: cambieranno soltanto le forme, i mezzi e le strategie di affronto dei problemi.

In realtà il vero nodo gordiano da sciogliere è un altro: come affrontare le contraddizioni restando umani, cioè senza perdere le caratteristiche fondamentali che qualificano la nostra specie. Questo, da quando è nato lo schiavismo e sino ad oggi, è diventato il nostro problema principale, cui non sappiamo trovare una soluzione convincente.

Alcuni studiosi attribuiscono tale transizione negativa, cioè il momento della nascita della tragedia, alla scoperta dell’agricoltura. Tuttavia in sé non c’è nulla che possa impedirci d’essere noi stessi. L’agricoltura ha cominciato a costituire un grave problema (le cui contraddizioni apparivano insormontabili) soltanto quando si è imposta la proprietà privata, non prima.

Si badi: che questa proprietà appartenga a sfruttatori individuali o che sia gestita, a livello statale, da una élite burocratica, risulta abbastanza irrilevante. Se si guardano i progressi compiuti sul piano tecnologico e quindi economico, dovremmo dire che la proprietà privata ha prodotto risultati più significativi di quella statale. Ma se guardiamo la stabilità dei sistemi, dovremmo dire il contrario, tant’è che storicamente la prima forma di proprietà a imporsi (Egitto, India, Cina, Mezzaluna fertile, Civiltà precolombiane) è stata quella statale, gestita da un sovrano imperiale o da una città-stato.

Infatti, quando gli imperi caratterizzati dalla proprietà statale sono crollati, ciò non è avvenuto per motivi endogeni, ma perché essi incontrarono altri imperi che, essendo basati sulla proprietà privata (e quindi su una forte competizione interna), avevano sviluppato meglio le tecnologie e gli apparati militari. A volte gli scontri epocali erano tra popoli stanziali e popoli nomadici o tra allevatori e agricoltori. Ma la storia ha deciso che dovesse prevalere la stanzialità, prima agricola e poi industriale.

Oggi lo Stato che sembra conciliare meglio istanze private di business con forme di autoritarismo politico-statale, sembra essere la Cina, il paese più idoneo a sostituire la leadership degli Stati Uniti, il cui capitalismo è fondamentalmente privato e lo Stato interviene soltanto per correggere le sue storture, facendone pagare interamente il prezzo al comune cittadino.

I limiti di fondo dell’economia politica

Prendiamo un qualunque Manuale di economia politica scritto da un marxista: quello di Antonio Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972). Sin dalle prime pagine si capisce che c’è qualcosa che non va, ovviamente non perché si è contro il capitalismo, quanto perché non si riesce a valorizzare sino in fondo il pregio di un’economia naturale basata su autoconsumo e baratto. Questo è un limite di fondo di tutti i manuali di economia politica, siano essi borghesi o socialisti.

Un manuale marxista di economia politica non dovrebbe porsi anzitutto in antitesi allo sviluppo capitalistico, poiché se si esordisce facendo questo, l’antitesi non sarà mai davvero radicale, ma sempre relativa. Per essere un minimo obiettivi, si dovrebbero anzitutto valorizzare tutte quelle forme di produzione economica in cui non esisteva una forte divisione del lavoro, una propensione accentuata per gli scambi commerciali, l’esigenza di avere tutte le comodità possibili, la necessità imprescindibile di produrre di più in minor tempo e con minor fatica e altre caratteristiche tipiche delle società basate sull’antagonismo sociale.

È vero che è stata la borghesia a inventare la scienza dell’economia, ma quando si parla di economia bisognerebbe anzitutto farne una storia, eventualmente avvalendosi degli studi di etno-antropologia, altrimenti rischiano di apparire falsati i presupposti metodologici della critica materialistica. Non si può fare del “materialismo dialettico” con uno sguardo rivolto solo verso al futuro, senza tener conto che siamo figli di un passato ancestrale, le cui caratteristiche, quando si viveva di caccia, pesca, raccolta di frutti selvatici, erano completamente diverse da quelle che si sono formate con la nascita delle prime civiltà urbanizzate.

Vediamo ora due capitoli: il II (Il mercato e i prezzi) e il III (Il valore). Basta leggersi questi capitoli per capire i limiti di fondo e come superarli. Quel che c’interessa infatti non è tanto analizzare nel dettaglio come funziona il capitalismo (cosa già fatta dai classici del marxismo-leninismo), quanto piuttosto come uscirne completamente sul piano economico. Sul piano politico, infatti, l’unico modo per superarlo è fare la rivoluzione. Si possono realizzare singole riforme su aspetti particolari, ma, in ultima istanza, nessuna di esse è in grado di risolvere il problema dell’antagonismo in maniera radicale.

La nostra impostazione metodologica parte da un presupposto storicamente inconfutabile: tutte le rivoluzioni politiche anticapitalistiche già compiute si sono rivelate fallimentari, nel senso che, dopo un certo periodo di tempo, sono state reintrodotte, in un modo o nell’altro, dinamiche di tipo borghese. È evidente quindi che c’è qualcosa che non funziona non tanto sul versante politico, quanto proprio su quello economico. E noi non possiamo dare per scontato che, siccome sul versante economico non c’è alcuna possibilità di superare il capitalismo, allora dobbiamo rinunciare a compiere qualunque rivoluzione politica.

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“La prima divisione del lavoro che si ha nelle comunità primitive non comporta di per sé il mercato, perché è una divisione interna, basata prevalentemente sul sesso e sull’età. Gli uomini nella società primitiva andavano a caccia e le donne cercavano di tenere in ordine l’abitazione, conservare il fuoco e, nello stesso tempo, iniziare quella rudimentale conservazione dei cibi e quella limitata produzione agricola che permetteva almeno di mangiare, anche quando non era possibile cacciare o la caccia era infruttuosa” (p. 48, tutte le citazioni si riferiscono al primo volume).

Queste osservazioni di Pesenti in sé non sono sbagliate, ma si noti con quale finalità sembrano essere svolte. Siccome non c’è, nella preistoria, una forte divisione del lavoro, che avrebbe potuto favorire la formazione di un mercato, la conservazione dei cibi è ovviamente “rudimentale”, la produzione agricola è inevitabilmente “limitata” e la caccia spesso è “infruttuosa”. In sostanza si stanno usando aggettivi fuori contesto storico, messi in relazione ai nostri parametri di vita.

La comunità primitiva non viene presa in esame in sé e per sé, ma in rapporto a ciò che poi dovrà diventare. Quando si affronta la realtà dal punto di vista dell’economia politica non si può rischiare di essere così superficiali sul piano storico. Che valore può avere un’analisi economica quando sono così approssimativi i suoi riferimenti storici?

Vediamo ora quest’altra affermazione. La divisione del lavoro e il mercato si formano “quando l’accresciuta produttività del lavoro, la scoperta che gli animali possono essere addomesticati, produrre latte, ecc. e l’inizio dell’agricoltura portano storicamente nella società alla divisione delle tribù in tribù di pastori, di cacciatori, di agricoltori, nonché alla produzione permanente di un’eccedenza sui bisogni immediati e alla divisione in classi della società” (pp. 48-49).

Si noti con quanta faciloneria si passa dall’uguaglianza sociale della comunità primitiva, basata sulla raccolta del cibo selvatico e sulla caccia, alla disuguaglianza sociale delle prime civiltà urbanizzate. Viene esaltata una nuova qualità di vita a causa di progressive determinazioni quantitative, in virtù delle quali appare del tutto naturale che si creino conflitti irriducibili quando si afferma una maggiore produttività del lavoro.

Si vuol far passare un tale processo storico, che sicuramente ha comportato degli aspetti drammatici, per qualcosa di necessario o di inevitabile, nel senso che deve apparire naturale che si voglia aumentare la produttività oltre il livello di soddisfacimento dei bisogni, com’è ancora più naturale che con la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento le tribù si siano suddivise in fazioni opposte.

Infatti, se si fosse rimasti a un basso livello di produzione, cioè al livello del semplice autoconsumo, non si sarebbe formata alcuna particolare divisione del lavoro (capace di andare oltre quella per sesso e per età), e quindi non si sarebbe formato alcun mercato. E questo, per l’economia politica, sarebbe stato inconcepibile, proprio perché essa trae la sua ragion d’essere dalla presenza di divisione del lavoro, di eccedenze, mercati, classi in competizione, ecc.: tutte cose che la comunità primitiva, basata sull’autoconsumo e al massimo sul baratto, non poteva avere, e che se avesse potuto vedere in anticipo come si sarebbero sviluppate le civiltà urbane, avrebbe cercato di evitare come la peste.

Un economista rigoroso, che analizza il periodo storico delle comunità primitive, dovrebbe anzitutto chiedersi: “qual è la condizione per cui risulta del tutto normale accumulare delle eccedenze?”. La condizione, in realtà, è molto semplice: le eccedenze devono restare a disposizione dell’intero collettivo e non, in via esclusiva, di chi le ha materialmente prodotte o ottenute o di chi può disporne per motivi politici. Né la loro distribuzione può essere decisa da un personale specializzato, il quale, in virtù di tale mansione, pretende di rivendicare un potere particolare. Qualunque funzione specifica si abbia in un determinato collettivo può essere svolta soltanto temporaneamente. È inammissibile riconoscere una funzione che prescinda dalle capacità personali, le quali vanno dimostrate e controllate costantemente, in quanto non si può mai dare nulla per scontato.

Un altro aspetto che il marxismo non riesce a capire è che il mercato di tipo “borghese”, quello quotidiano, rivolto a chiunque, basato sul denaro, non nasce in virtù di progressive determinazioni quantitative, ma proprio per una diversa concezione della vita.

Pesenti afferma, giustamente, che “lo scambio, all’inizio, è occasionale, e assume la forma più semplice dello scambio di merce con merce” (p. 49), cioè, in sostanza, è un baratto. “Questi scambi poi si generalizzano, diventano più frequenti, sorge la moneta quale intermediario degli scambi” (ib.).

Ecco, già qui si sarebbero dovute spendere delle parole chiarificatrici. Il passaggio dal baratto alla moneta non può essere avvenuto spontaneamente. L’uso della moneta, che è un’astrazione, non può essere stato che imposto o autorizzato da un potere dominante, il quale, ad un certo punto, ha preferito considerare qualcosa di inutile sul piano pratico (p.es. l’oro o l’argento) come metro di misura per tutti i beni di consumo. Nell’antichità pre-schiavistica si usavano questi metalli pregiati prevalentemente per motivi estetico-ornamentali.

Quindi delle due l’una: o si ammette che già in presenza del baratto esistevano conflitti di classe o di casta irriducibili: in tal caso si potrebbe accettare l’idea di un passaggio naturale all’uso della moneta, ma allora andrebbe spiegato perché il baratto, di per sé, non presume affatto l’antagonismo sociale; oppure si deve chiarire come il passaggio sia avvenuto in seguito a sconvolgimenti drammatici, che hanno messo definitivamente in crisi le dinamiche sociali delle comunità primitive: infatti l’uso della moneta vera e propria presume sempre dei conflitti sociali irriducibili.

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Afferma Pesenti: nell’antichità romana “gli oggetti veri di scambio, ossia le merci, erano prodotti [dagli schiavi] per l’uso di una ristretta classe dominante e non per la grande massa della popolazione” (p. 49).

È vero, ma perché avveniva questo? Nel mondo romano le città erano infinitamente più sviluppate che nell’alto Medioevo; eppure a partire dal Mille si sono formati dei Comuni borghesi che hanno reso possibile un mercato più sviluppato di quello romano. Com’è stato possibile? Qui le determinazioni quantitative non spiegano nulla. I Romani sarebbero potuti passare tranquillamente a un mercato di tipo capitalistico (grazie a determinazioni progressive di quantità!) se solo avessero fatto una cosa che non vollero mai fare: abolire lo schiavismo e rendere tutti giuridicamente liberi. Quando iniziarono, parzialmente, a farlo, trasformando lo schiavo in colono, era troppo tardi, in quanto le cosiddette popolazioni barbariche premevano irresistibilmente alle porte, ed esse, pur accettando l’idea del colonato, non avevano la cultura sufficiente per passare da un’economia mercantile a una capitalistica.

Nei Comuni medievali tutti erano giuridicamente liberi e tutti avevano interesse a espandere il più possibile i mercati, basati sull’uso del denaro. Anche i mercanti medievali, all’inizio, vendevano merci solo alle classi facoltose, ma non ci volle molto tempo perché la cosa si generalizzasse a livello sociale. Il marxismo non è stato capace di capire l’importanza della cultura cristiana nel passaggio dal mercato schiavile di epoca romana al mercato libero di epoca borghese. Se avesse capito l’importanza della cultura o della mentalità nella gestione dell’economia, avrebbe anche capito il motivo per cui in epoca romana non si sarebbe mai potuto sviluppare alcuna rivoluzione industriale (come non si sviluppò nell’America schiavistica delle piantagioni, pur essendo essa già presente nell’Europa occidentale).

In tutte le civiltà schiavistiche si rimane fermi allo stadio dell’artigianato e, al massimo, della produzione agricola finalizzata al mercato, proprio perché esiste la schiavitù, che impedisce la libera espressione della creatività umana, quella creatività che si può usare sia in senso positivo, per il bene della collettività, che in senso negativo, quando si pensa che il proprio interesse debba prevalere su quello degli altri.

Il mercato borghese non è stato altro che una sintesi tra due elementi opposti: la libertà giuridica (formalmente uguale per tutti) e l’interesse economico privato. Solo una cultura superiore – quale appunto quella cristiana – poteva tenere uniti due elementi così antitetici: una forma universale positiva e una sostanza particolare negativa.

Il marxismo non è stato neppure capace di capire il motivo per cui il capitalismo industriale trova un terreno più favorevole in ambito protestantico che non in uno cattolico. Scrive Pesenti: nel Medioevo “l’artigiano è proprietario e della bottega e del prodotto del suo lavoro, cioè della merce che porta al mercato… La moneta serve come intermediario di questi scambi e solo eccezionalmente come capitale” (p. 50).

È vero, ma perché a partire dalla riforma protestante cambia tutto? Se si fosse esaminata – come fece Max Weber – l’influenza del protestantesimo sull’attività economica, lo si sarebbe capito, anche meglio di questo sociologo borghese. Calvino non fece altro che portare alle estreme conseguenze l’ipocrisia della borghesia cattolica, la quale, a sua volta, non aveva fatto altro che sfruttare l’ipocrisia del papato, che predicava i valori etici del cristianesimo primitivo e, nel contempo, li contraddiceva con una pratica legata a un’affermazione di potere autoritario, politico ed economico: costruire uno specifico Stato della Chiesa in previsione di una teocrazia universale.

La differenza tra la borghesia protestante e quella cattolica stava appunto nella risposta che si dava a tale domanda: se il papato viene considerato irriformabile, ha senso permettergli di avere un potere politico ed economico? La borghesia cattolica, soprattutto quella italiana, era convinta di poter trovare un compromesso reciprocamente vantaggioso con un papato altamente corrotto; quella protestante invece aveva capito che se riusciva a emanciparsi dalla dittatura politica del papato, poteva svilupparsi molto meglio e con maggiore sicurezza sul piano economico, cioè poteva sentirsi molto più libera di far valere i propri interessi privati.

Se il successo personale dipende unicamente da se stessi e non dai compromessi che si devono realizzare con autorità imposte dall’esterno, quale limite vi può essere nell’uso del denaro, della divisione del lavoro, dei mercati ecc.? Gli unici limiti sono quelli che ci si può imporre da sé, esaminando a posteriori se la prassi dell’individualismo economico produce cose più negative che positive. Essendo l’economia borghese completamente sganciata dall’etica, i poteri costituiti intervengono soltanto quando gli effetti generati dall’individualismo economico risultano pericolosi per la stabilità del sistema.

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L’ultimo aspetto da considerare è la differenza tra valore d’uso e valore di scambio. Si faccia attenzione a questa affermazione di Pesenti: “Il valore d’uso, concreta produzione del valore umano, è il presupposto del valore di scambio. Però quando io voglio considerare il valore di scambio di una merce, nella sua origine e lo voglio quantificare, debbo ricercare un legame tra i diversi valori d’uso che abbia un carattere oggettivo e non soggettivo, e questo legame non può essere rappresentato altro che dallo sforzo di lavoro umano contenuto in quantità diverse della merce” (p. 53).

Cosa c’è che non quadra in questa affermazione? L’impressione infatti è che essa voglia considerare il valore di scambio superiore a quello d’uso, quando invece dovrebbe essere il contrario. Non a caso ogni volta che il valore di scambio tende a prevalere su quello d’uso, si è in presenza di un chiaro indizio di società antagonistica.

Sono due le cose che Pesenti non comprende: anzitutto che l’esigenza di “quantificare” il valore di una merce fa già parte di una società ove domina il conflitto tra classi opposte; in secondo luogo non è affatto vero che là dove esiste il baratto non sia possibile dare una valutazione “oggettiva” del valore d’uso di un prodotto. Basterebbe leggersi il Saggio sul dono dell’etnologo francese M. Mauss, per convincersi del contrario.

In generale è possibile dire che là dove esiste il baratto si scambiano cose di cui si ha certamente bisogno, ma che non sono essenziali alla sopravvivenza fisica del collettivo, altrimenti non verrebbero cedute. Il baratto è una conseguenza dell’autoconsumo, non una precondizione per la sua esistenza (semmai è sotto il capitalismo che non si potrebbe vivere senza mercato). Quando si scambia un bene eccedente si sa già qual è il suo valore oggettivo in rapporto agli altri beni che si possiedono, e quindi si sa già quale può essere il suo valore di riferimento quando lo si va a barattare con le eccedenze altrui. Cioè non è il momento dello scambio che decide il valore di un bene. Il suo valore è già stato deciso prima, in rapporto ai beni essenziali che permettono la sopravvivenza, e non si andrà mai ad acquistare un bene essenziale che garantisca la propria sopravvivenza.

Un qualunque bene da barattare, cedendolo o acquistandolo, avrà sempre un valore economico relativo. In questo sta la sua oggettività, e nessuna comunità comprometterebbe la propria esistenza attribuendo a un bene non prodotto da essa stessa un valore assoluto. In sostanza quindi non si baratta qualunque bene, ma solo quelli eccedenti, non essenziali alla riproduzione materiale del collettivo, e non si vanno ad acquistare beni che garantiscono la propria sopravvivenza, altrimenti la si metterebbe a rischio. Ecco perché nella comunità primitiva era l’autoconsumo – esperienza collettiva per eccellenza – a decidere qualunque valore da attribuire ai prodotti eccedenti da scambiare.

Si faccia ora attenzione a quest’altra affermazione: “Soggettivamente si scambia una merce quando essa, per il soggetto venditore, non presenta più un valore d’uso” (p. 55). Questa frase non ha alcun senso in una comunità primitiva: sia perché in tale comunità si scambiano solo eccedenze di prodotti che si usano, cioè non esiste baratto con prodotti che non si usano o che si producono proprio per scambiarli; sia perché il baratto non è mai un fenomeno individuale, essendo soltanto l’intera comunità a poter decidere quale bene considerare eccedente e che valore attribuirgli.

Questo per dire che il baratto dell’autoconsumo e lo scambio di una produzione finalizzata per il mercato sono due cose completamente diverse, assolutamente irriducibili, al punto che non può esservi alcun naturale passaggio dall’una all’altra. Tra le due forme di scambio vi è, nascosta, una tragedia: la fine della comunità primitiva.

Se poi si vuol sostenere che il baratto rappresentava uno sviluppo soltanto “embrionale” delle forze produttive, si abbia almeno l’onestà di precisare che in tale giudizio non vi è tanto una valutazione di fatto, quanto piuttosto una di merito, ritenendo la comunità primitiva una condizione di vita che andava necessariamente superata. Col che il lettore si mette il cuore in pace, avendo capito che l’analisi marxista accetta tutti i presupposti dell’economia politica borghese, salvo uno: la privatizzazione dei mezzi produttivi. Cioè in questa maniera appare chiaro che per cercare un’alternativa all’attuale sistema di vita dobbiamo andare oltre sia all’economia politica borghese che alla critica marxista di tale economia.

Quello che proprio non si riesce ad accettare nell’analisi marxista è l’idea che l’eccedenza in sé presupponga una divisione della società in classi. In realtà essa, in sé, non presuppone nulla. L’eccedenza può essere il frutto di una comunità basata sull’autoconsumo, sullo schiavismo, sul servaggio o sul lavoro salariato. È piuttosto l’idea di produrre eccedenze appositamente per essere scambiate o vendute sul mercato, al fine di ottenere qualcosa che, dall’esterno, modifichi progressivamente il proprio stile di vita, che appartiene a un’esistenza non più naturale bensì artificiale. È la ricerca costante di beni materiali per aumentare il proprio benessere, le proprie comodità, i propri agi, i propri beni o proprietà, in previsione di un futuro che si ritiene incerto o soltanto per mostrare la propria superiorità, che lascia intendere d’essere in presenza di qualcosa di assai poco naturale.

“Affinché l’oggetto possa essere scambiato – afferma Pesenti – deve accadere una cosa paradossale e cioè che l’oggetto non abbia un valore d’uso per la persona che vuole scambiarlo, sia superfluo al suo bisogno. Ciò è indubbiamente vero nella produzione per il mercato” (p. 56), ovvero nella produzione finalizzata principalmente al mercato.

In realtà tale meccanismo economico non andrebbe considerato soltanto “paradossale”, ma anche e soprattutto “traumatico”. Qui infatti è già venuta meno l’identità umana e naturale del collettivo di appartenenza: si è già dipendenti da qualcosa di esterno alla propria volontà. Si è eterodiretti. Chi non è in grado di capire l’assoluta gravità di una cosa del genere e si mette a criticare l’economia politica borghese, non coglierà mai il nocciolo del problema e farà sempre un’analisi superficiale, epifenomenica.

Sostenere poi che “l’atto individuale è l’atto con cui l’operatore produce quello che serve per i suoi bisogni e l’eccedenza che la produttività del suo lavoro gli permette di produrre”, mentre “l’atto sociale è l’incontro di questi atti di natura individuale, che avviene nel mercato attraverso il fenomeno dello scambio” (p. 57), significa prendersi gioco della realtà.

L’atto individuale iniziale non è affatto un atto individuale libero, ma sempre un atto condizionato dai poteri dominanti, che da tempo si sono staccati dall’esperienza della comunità primitiva. Il mercato non è mai stato il luogo in cui s’incontrano dei produttori che vivono isolati, come Robinson Crusoe. Una produzione finalizzata esclusivamente per il mercato presuppone una progressiva destabilizzazione della produzione per l’autoconsumo. Ciò non può essere fatto da individui isolati, e tanto meno può essere fatto senza il consenso, diretto o indiretto, dei poteri dominanti.

Detto questo, è ridicolo pensare che sul mercato si verifichi una socializzazione da parte dei produttori. È del tutto fuori luogo mettere sui due piatti della bilancia la socializzazione del mercato di epoca schiavistica o capitalistica e una sorta di produzione individuale. Storicamente la produzione è sempre stata sociale, sia per l’autoconsumo che per il mercato. La differenza stava piuttosto nella finalità. Una cosa infatti è produrre eccedenze da destinare a un baratto di cui, volendo, si potrebbe anche fare a meno; un’altra, completamente diversa, è la produzione di beni destinati esclusivamente al mercato, per ottenere un certo guadagno. Sono due forme di socializzazione completamente diverse, tant’è che nel basso Medioevo si regolamentava la produzione per il mercato attraverso le corporazioni di arti e mestieri, in cui vigevano princìpi tipicamente borghesi, anche se non così borghesi come quelli che pretenderanno la fine delle stesse corporazioni.

Questo per dire che la socializzazione che si forma nell’ambito del mercato possiede qualcosa di assolutamente formale sul piano etico, mentre offre qualcosa di sostanziale solo per le esigenze quantitative legate al valore di scambio, cioè in sostanza al prezzo delle merci.

E qui si apre un nuovo capitolo dedicato al lavoro quale criterio per stabilire un valore sufficientemente esatto alle merci che si vendono sul mercato. Ora, che il valore di una merce non coincida mai col suo prezzo, è cosa risaputa. E si può anche concedere al marxismo, in questo sicuramente superiore all’economia politica borghese, che il valore di tale merce possa dipendere dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla, sulla base di un lavoro astratto compiuto da un tipo medio di lavoratore.

Ciò che invece bisogna superare è l’idea che il valore di un bene eccedente debba essere calcolato in maniera quantitativa. Il valore di un bene eccedente, oggetto di scambio, può essere calcolato solo in maniera molto approssimativa e non necessariamente in rapporto a una valutazione di tipo economico. Può essergli infatti attribuito un valore extra-economico, che aumenta o diminuisce in rapporto a valutazioni di tipo etico.

Facciamo un esempio. Se due comunità sono ai ferri corti per questioni di competenza territoriale, il baratto (o lo scambio di doni reciproci) può avere un alto significato simbolico; ma se gli stessi oggetti vengono scambiati in occasione di un matrimonio esogamico tra due comunità del tutto pacifiche, il valore simbolico sarà sicuramente inferiore. Questo per dire che stabilire un valore economico sulla base del lavoro, del tempo impiegato, delle energie profuse, delle risorse utilizzate… fa già parte di una mentalità venale, che non può certamente costituire un incentivo a cambiare stile di vita. E con ciò è inutile procedere nella lettura di manuali del genere: sono i limiti di fondo dei loro presupposti metodologici a impedirlo.

Il Marx di Diego Fusaro

Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell’attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.

Vogliamo sottolineare la qualifica di “economista” perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del “filosofo” o in quelli del “filosofo dell’economia”, rischiando così pericolosamente di darne un’interpretazione influenzata dall’hegelismo, come d’altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.

La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell’aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell’economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com’era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l’idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo “naturale” e non “storico”, ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l’ultimo Marx, quello interessato all’antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall’antagonismo tra capitale e lavoro.

A dir il vero il giovane Marx non aveva affatto intenzione di superare la filosofia con l’economia, bensì con la politica. Solo dopo aver conosciuto Engels si mise a studiare questa disciplina. Fu la sua sconfitta come politico della Lega comunista, nel corso delle rivoluzioni europee del 1848, che lo portò, una volta emigrato a Londra, a dare più peso agli studi teorici dell’economia capitalistica, di cui quelli dedicati al pre-capitalismo risultavano, agli occhi esigenti di Marx, non meritevoli d’essere pubblicati.

Tutti i testi di economia – ad eccezione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che maturarono a Parigi a contatto con gli ambienti socialisti – sono stati elaborati sotto il peso di un’amara sconfitta politica: di questo, leggendoli, non bisogna mai dimenticarsi, se si vuole tentare di esaminarli nella maniera più obiettiva possibile, cioè se non si vuole soprassedere al fatto che in tutti quegli scritti risulta alquanto forte l’uso dialettico della categoria hegeliana della necessità e quindi un certo determinismo economico, che tanto peso avrà nella storia della seconda Internazionale e in quasi tutto il marxismo europeo, sempre molto influenzato da correnti borghesi di pensiero, come ad es. il positivismo e lo strutturalismo, mentre, per quanto riguarda la Russia, ci si deve riferire allo sviluppo del cosiddetto “marxismo legale” ed “economicismo”, contro cui il giovane Lenin muoverà le sue forti proteste.

Marx è stato un genio assoluto in campo economico, ma per averne uno in campo politico abbiamo dovuto attendere Lenin, di cui però Fusaro non s’interessa minimamente. Eppure egli, pur scrivendo testi dichiaratamente filosofici, vuole darsi un obiettivo politico generale: quello del superamento del capitalismo. Perché dunque non fare mai alcun riferimento organico, propositivo, a Lenin? Il quale indubbiamente fu non solo il Marx dell’epoca imperialistica sul piano economico (il suo testo sull’Imperialismo è ancora oggi assolutamente fondamentale per capire le premesse dell’epoca in cui viviamo), ma anche il politico marxista più coerente, l’unico che seppe realizzare con successo gli insegnamenti del suo maestro, dimostrando una creatività di pensiero fuori del comune. Se Marx avesse potuto conoscerlo, non l’avrebbe certamente considerato di livello inferiore ai tanti suoi seguaci, più o meno ortodossi (Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lassalle, Lafargue, Guesde…), che in Germania e in Francia si accingevano a costruire un partito socialista rivoluzionario e una seconda Internazionale.

Rivalutare Marx, senza fare alcun riferimento a Lenin, può portare a due inevitabili conseguenze: ripetere cose già dette o fraintendere il suo pensiero. Marx e Lenin sono due soggetti molto particolari: non possono essere semplicemente “studiati” o, peggio ancora, “letti” come due autori qualunque. Entrambi chiedono d’impegnarsi per trasformare le cose, proprio perché avvertono con drammaticità la gravità della crisi e con urgenza il compito di risolverla, senza sfociare in alcuna forma d’irrazionalismo. Tuttavia, se si dà più peso a Marx che non a Lenin, si finisce col fare i “teorici dell’alternativa”, senza lasciarsi coinvolgere in alcun partito o movimento politico e senza neppure essere capaci di fondarne uno nuovo. È appunto questa la posizione che ha l’attuale Diego Fusaro, che quando parla di filosofia fa politica e quando parla di politica fa filosofia.

Se ci si ferma a Marx, tralasciando Lenin, si sarà indotti ad attendere, in virtù delle proprie critiche eversive, che le masse spontaneamente insorgano. Cioè si finirà col compiere il medesimo errore di Marx, di cui lui stesso si rese conto (dicendolo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica), senza però riuscire a porvi rimedio, tant’è, anzi, ch’egli si trovò come costretto ad accentuare il lato deterministico della transizione al socialismo, appellandosi alla necessità, per chiunque voglia compiere la rivoluzione, di vedere preventivamente esaurite le forze propulsive del capitale. Un errore che Lenin evitò accuratamente di ripetere, anche perché precisò subito, in Che fare?, che la coscienza rivoluzionaria di un superamento complessivo del sistema bisogna portarla, al proletariato, dall’esterno, in quanto, se lo si lascia a se stesso, al massimo matura una coscienza sindacale.

Lenin aveva capito queste cose oltre un secolo fa; trascurarle, pensando sia sufficiente riscoprire Marx per fare di nuovo un discorso anti-capitalistico, rischia di portare fuori strada, anche perché il revival di Marx è già avvenuto, soprattutto in Europa occidentale, negli anni della contestazione operaio-studentesca: ripetere oggi quella scoperta, senza fare un passo avanti, in direzione del leninismo, non servirà a nulla. Anzi, su taluni aspetti è lo stesso leninismo che va rivisto: si pensi ad es. ai primati concessi all’industrializzazione, all’urbanizzazione, allo sviluppo tecnico-scientifico, che oggi una qualunque coscienza ambientalista guarderebbe con molto sospetto; ma si pensi anche alla necessità di non trascurare i rapporti tra coscienza umana e coscienza politica, onde evitare di veder assorbita la prima alla seconda.

Fusaro è convinto d’essere titolato pienamente a parlare di “riscoperta di Marx”, in quanto, secondo lui, quella avvenuta nella stagione del Sessantotto (che si protrasse almeno sino al delitto di Aldo Moro) fu tutta all’interno del sistema borghese, cioè fu una riscoperta che servì alla piccola borghesia per modernizzare il sistema. In realtà se questo fu l’esito della contestazione, bisogna dire che fu del tutto involontario o comunque non intenzionale. In gran parte dipese appunto dal fatto che si volle riscoprire solo Marx, senza fare i conti con Lenin, cioè ci si affidò più allo spontaneismo delle masse che non all’organizzazione di un partito di professionisti, capace di creare un consenso popolare e di gestirlo in chiave rivoluzionaria. Quando parlavano di rivoluzione, generalmente i partiti finivano nel terrorismo, ripetendo così gli errori di un certo anarchismo estremo e individualistico. E quando si parlava di Lenin, al massimo lo si faceva – come Althusser – sul piano meramente filosofico.

In Italia si ebbe addirittura l’impressione, negli anni Settanta, che il parlare così tanto di Gramsci, soprattutto di quello dei Quaderni, pubblicati per la prima volta dal 1948 al 1951, servisse proprio per non parlare di Lenin. L’importanza attribuita alla cultura appariva cioè strumentale all’esigenza di non toccare i tasti dell’impegno rivoluzionario vero e proprio, al fine di accettare acriticamente la politica di “larghe intese” (il famoso “compromesso storico”) realizzata tra comunisti e democristiani.

Un movimento come quello del Sessantotto non può essere guardato con gli occhi del filosofo: ci vogliono quelli del politico. E Fusaro ancora non li ha, e se non si emancipa dalla lezione di Preve, ch’egli peraltro ha assorbito quando Preve era già nella sua fase involutiva, rischierà di spegnersi in questa sua forte carica contestativa. Questo per dire che al giorno d’oggi, se davvero si vuol fare i “marxisti”, non è sufficiente fare dei “discorsi eversivi”; non si può evitare d’essere meramente “filosofi” limitandosi a usare quella che Lenin chiamava la “fraseologia rivoluzionaria”. Occorre l’appartenenza a un partito, una militanza personale.

Marx aveva ucciso la filosofia con l’economia, ma Lenin aveva detto che “la politica è una sintesi dell’economia”. Questo perché non c’è bisogno di conoscere il sistema capitalistico in tutte le sue sfumature prima di potersi organizzare praticamente per abbatterlo. Non abbiamo bisogno di riscrivere il Capitale per capire la nostra epoca globalizzata. È già sufficientemente chiaro che l’unica alternativa è quella di fuoriuscire dal sistema, abbattendo i suoi due pilastri fondamentali: lo Stato e il mercato, cioè il principale strumento oppressivo della borghesia e il primato assoluto che il valore di scambio ha su quello d’uso. Le differenze fra una strategia e l’altra possono riguardare soltanto le modalità e i mezzi da impiegare, anche perché il capitalismo si evolve di continuo e l’analisi economica viene sempre dopo, come ai tempi di Hegel la filosofia, civetta di Minerva. Con questa differenza, che la filosofia non riusciva mai a comprendere l’essenza degli antagonismi sociali.

Il primo a farlo, in maniera scientifica, dal punto di vista economico, con le sue teorie sul plusvalore, è stato appunto Marx. Fusaro glielo riconosce, anzi, lo esalta proprio per questo motivo, senza però accorgersi di un limite di fondo di tutta l’analisi del Capitale, e cioè la sottovalutazione dell’importanza dei fattori sovrastrutturali. Se Fusaro avesse studiato Lenin, o se almeno l’avesse fatto senza usare le lenti deformanti del suo maestro Costanzo Preve, che rifiutava il leninismo non solo sul piano politico, ma anche, e ancor più, su quello filosofico, forse avrebbe potuto dare di Marx una valutazione più obiettiva.

Dopo l’interpretazione che Lenin ha dato del “marxismo classico”, mediante cui ha valorizzato enormemente l’aspetto sovrastrutturale della politica, non è più possibile fare una semplice “riscoperta” di Marx. Ci vuole ben altro. Persino il giorno in cui riscopriremo Lenin, ci vorrà ben altro. Non potremo infatti considerare sufficiente una “politica rivoluzionaria”, trascurando, colpevolmente, quelli che oggi vengono chiamati i “diritti (o valori) umani universali”, i quali, per quanto formulati astrattamente, cioè senza riferimenti specifici a condizioni di spazio e tempo, fanno parte comunque del patrimonio dell’umanità, la cui formalizzazione è stata avvertita come inderogabile dopo due devastanti guerre mondiali, e che sono stati sinteticamente riprecisati dopo la fine di quella che Fusaro, sulla scia di Preve, chiama la “terza guerra mondiale” (cioè la “guerra fredda”), in quel documento significativo (la cosiddetta “Carta della nonviolenza” o “Dichiarazione di Delhi”) che Gorbaciov firmò nel 1986 insieme a Rajiv Gandhi.

Il tempo non passa invano, e per non ripetere gli errori del passato, occorre approfondire la riflessione critica, rendendo la prassi ad essa conseguente. I limiti sovrastrutturali nell’analisi economica di Marx non riguardano soltanto la scarsa importanza attribuita ai nessi con la politica. Per tutto il periodo londinese Marx si è sentito un teorico dell’economia e, fatto salvo l’impegno per costituire la prima Internazionale, che però nel 1876 si era già sciolta, egli non arrivo mai a impegnarsi per la costruzione di un partito autenticamente rivoluzionario. Qui la differenza da Lenin è netta.

Ma il limite di fondo riguarda anche la scarsa importanza attribuita ai fenomeni culturali, relativamente alla capacità che hanno di condizionare i processi economici. Per tutta la sua vita Marx ha visto la cultura, l’ideologia, le idee etiche, religiose, filosofiche, giuridiche, artistiche… come semplici riflessi o rispecchiamenti di determinate strutture economiche. Al massimo – aveva detto nella Prefazione alla prima edizione del Capitale – ci si poteva elevare soggettivamente nella comprensione delle contraddizioni sociali.

Lenin non era affatto così schematico, proprio perché attribuiva un’importanza decisiva, ai fini della rivoluzione, agli strumenti e ai metodi della tattica e della strategia. In Italia abbiamo dovuto attendere Gramsci – lettore di Lenin, anche se totalmente a digiuno di economia – prima che, nell’ambito del socialismo, si capisse l’importanza della cultura, per quanto già l’ultimo Engels non avesse mancato di sottolineare, coi suoi testi sullo Stato, la proprietà privata e la famiglia, sulla riforma protestante e la guerra contadina, che qualcosa del “marxismo” del suo geniale collega andava emendato, tant’è che proprio lui fu indotto a sostenere che il primato della struttura sulla sovrastruttura andava considerato tale solo in ultima istanza.

D’altra parte lo stesso Marx, alla fine della sua vita, cominciò a capire l’importanza delle formazioni sociali precapitalistiche (in modo particolare l’esperienza della comune agricola russa) e a rivalutare quel periodo storico che poi fu definito col termine di “comunismo primitivo”. Ma ormai gli mancavano le forze per approfondire questi temi. La stesura del Capitale lo aveva completamente distrutto; più volte Engels l’aveva messo sull’avviso, nelle lettere che gli scriveva, che quell’opera avrebbe minato irreparabilmente la sua salute.

Anche Lenin si rese conto solo alla fine della sua vita di non aver dato sufficiente spazio al lato umano della politica rivoluzionaria. Ma non ebbe il tempo sufficiente per porvi rimedio (anche a causa del grave attentato che subì) e la svolta autoritaria s’impose appena dopo pochi anni dalla sua morte. Per poter leggere il suo Testamento i comunisti russi han dovuto attendere il 1956: sotto lo stalinismo lo si considerava addirittura inesistente.

Che anche Fusaro non abbia capito l’importanza della cultura, come fattore particolarmente condizionante della struttura economica, lo si evince dalla mancata comprensione della motivazione per cui, nel tempo, si è passati dalla schiavitù diretta (quella tipica p.es. del periodo greco-romano) a quella salariata, che si è imposta proprio sotto il capitalismo. Il passaggio fu determinato non solo da fattori storici e contingenti, ma anche dallo sviluppo del cristianesimo. Cosa di cui Fusaro si disinteressa completamente, rischiando di fare un passo indietro persino rispetto a Marx, il quale, pur senza mai approfondirlo, aveva intravisto nel Capitale un nesso significativo tra capitalismo e protestantesimo. Argomento, questo, che verrà particolarmente sviluppato, ma dal punto di vista borghese, da Max Weber. Il quale, se ben comprese che il calvinismo era la confessione religiosa che meglio si confaceva allo sviluppo del capitalismo, non riuscì però a capire che le prime tracce di capitalismo s’erano sviluppate nell’Italia comunale e signorile, dove la religione dominante era quella cattolico-romana.

D’altra parte Fusaro, tralasciando, nei libri dedicati a Marx, di fare un’analisi sulla dittatura politica e ideologica affermatasi nel cosiddetto “socialismo reale”, non arriva neppure a comprendere che una schiavitù salariata non è una prerogativa del solo capitalismo privato, ma anche dello Stato totalitario di marca socialista, in cui il partito-guida, che è un padre e padrone, usa mistificanti motivazioni di tipo ideologico con cui estorcere plusvalore alla massa dei lavoratori.

È importante essere convinti di questo, poiché quando si contesta l’Europa delle banche e della finanza – come fa Fusaro con insistenza – e si vuole tornare alla sovranità degli Stati nazionali (che per lui ovviamente dovrebbero diventare di tipo socialista), si rischia di ripetere errori già compiuti. Tutti i giorni, infatti, vediamo che l’idea di Stato nazionale viene progressivamente erosa dalle esigenze del grande capitale, che sempre più ha bisogno di governi e istituti sovranazionali. Sono le esigenze del mercato che lo impongono, proprio per mantenere alti i profitti dei grandi monopoli, industriali e finanziari. Una battaglia contro questi monopoli, i quali per espandersi hanno continuamente bisogno di provocare tensioni e conflitti d’ogni tipo, non può riportarci alla fase dello “Stato nazionale”, sia questo di tipo capitalista o socialista.

È dal “sistema” che bisogna uscire, coi suoi meccanismi di mercato e di oppressione istituzionale. E, sotto questo aspetto, bisogna stare attenti a non ripetere gli errori della rivoluzione d’Ottobre e di tutte le rivoluzioni comuniste, dove, pur parlando, teoricamente, di progressiva estinzione dello Stato, si è finiti, temendo continui attacchi militari da parte dei nemici storici, col rafforzare all’inverosimile proprio le istituzioni statali, facendole, ad un certo punto, implodere. È stata una grande illusione pensare di eliminare le leggi del mercato usando la forza di uno Stato autoritario. Questo è un compito che va lasciato alla popolazione civile, messa in grado di usare liberamente la propria volontà. Anche se, ovviamente, non può essere considerata sbagliata l’idea di usare le leve dello Stato per affrontare l’eventuale controrivoluzione.

Nota

I due testi di Diego Fusaro cui qui si fa riferimento sono Karl Marx e la schiavitù salariata, ed. Il prato, Saonara 2007 e Bentornato Marx! Rinasci­ta di un pensiero rivoluzionario, ed. Bompiani, Milano 2012. Il presente articolo è già stato pubblicato nel libro curato da I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea VI, ed. Limina Mentis, 2015

I limiti insuperabili della filosofia borghese

Tutto questo parlare di “dio” nella filosofia moderna dell’Europa occidentale era una conseguenza del carattere “borghese” di quella filosofia, cioè del suo carattere “classista”, non democratico, anche se indubbiamente quella filosofia appariva più democratica della teologia medievale, che, per sua natura, era legata all’aristocrazia (laica ed ecclesiastica) e quindi a forme assolutistiche della monarchia.

I filosofi borghesi, non avendo l’appoggio delle masse popolari, poiché volevano assolutamente emanciparsi anche dalla vita contadina, che quella volta era prevalente, erano in un certo senso costretti a parlare di dio per non subire spiacevoli conseguenze da parte dei poteri costituiti. Tuttavia, se avessero potuto parlare liberamente, avrebbero usato soltanto la parola “io”.

L’io borghese vuole indubbiamente liberarsi del peso di una comunità religiosa i cui valori non sente più come propri. In particolare il borghese non sopporta più l’incoerenza, tipica del cattolicesimo-romano, tra alti valori affermati in sede teorica, e grande corruzione vissuta sul piano pratico da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che ambiscono sempre ad avere privilegi economici e poteri politici.

Il filosofo borghese ha però questa caratteristica che lo rende umanamente poco credibile: non lotta per abolire tutti i privilegi, per affermare una piena democrazia sociale, ma vuole affermare un proprio diritto esclusivo, capace di farsi strada nel mare magnum dei privilegi feudali.

Il borghese non è che un ecclesiastico laicizzato, è un “prete dentro”, nella sua coscienza. Ha avuto bisogno di non pochi secoli per affermarsi proprio perché la sua filosofia non era “popolare” ma “classista”. Ha dovuto cercare un’infinità di compromessi, di sotterfugi, di ambiguità semantiche prima d’imporsi in maniera definitiva.

Viceversa in Europa orientale si poté passare dalla religione ortodossa all’ateismo scientifico proprio perché gli intellettuali vollero fare una rivoluzione popolare, che eliminasse non solo il feudalesimo ma che non permettesse neppure al capitalismo di svilupparsi. Che poi le cose siano finite tragicamente, con un ritorno ai valori dell’ortodossia religiosa, non significa che, in quella fase iniziale, le intenzioni non fossero giuste.

In particolare i comunisti affermarono subito, per ottenere il consenso delle masse rurali, che, a rivoluzione avvenuta, avrebbero provveduto a fare la riforma agraria, spezzando il latifondo e concedendo in proprietà gratuita dei lotti di terra sufficienti per vivere.

Questa cosa non è mai stata fatta dalla borghesia. I borghesi non avevano proprietà terriere, ma solo abilità personali per fare affari commerciali. Volevano arricchirsi a titolo individuale, per poter accedere alle leve del potere politico. Nei confronti dei contadini potevano soltanto avere un atteggiamento strumentale, quello di servirsene per fare una rivoluzione anti-feudale. A rivoluzione avvenuta, venivano immancabilmente traditi, in quanto la borghesia, temendo che le idee democratiche diventassero “socialiste”, provvedeva subito a cercare un compromesso con l’aristocrazia. Nel contempo venivano illusi prospettando loro una vita “libera” se si fossero trasferiti nelle città a svolgere il mestiere dell’operaio o dell’artigiano. Li s’illudeva di potersi arricchire partendo anche da precarie condizioni sociali, totalmente prive di proprietà.

Tutte le rivoluzioni borghesi, nessuna esclusa, hanno subìto questa involuzione. Nel momento in cui venivano fatte, si poteva anche aver chiaro fin dove si sarebbe potuti arrivare, ma nel momento in cui venivano concluse, le forze borghesi provvedevano subito a ridimensionare gli obiettivi, a ridurre le pretese “popolari” in direzione della democrazia. Al massimo – si diceva – ci si può emancipare nell’ambito del capitalismo.

Questo spiega il motivo per cui l’esperienza borghese dell’economia è destinata ad essere superata da un’esperienza più democratica. Il momento in cui ciò avverrà dipenderà da due fattori: consapevolezza e determinazione rivoluzionarie. Un qualunque peggioramento dei conflitti sociali non farà che rendere più evidente questa esigenza.

Che fare? Tre indicazioni pratiche

Da tempo è stato detto che la triade hegeliana di Essere, Essenza e Concetto altro non era che una laicizzazione della trinità cristiana di Dio, Spirito e Figlio. Oggi però ci siamo talmente laicizzati da arrivare a dire che non esiste alcun dio. Tuttavia sarebbe assurdo sostenere che è sparito anche l’Essere.

L’Essere continua a esistere, ma insieme al Non-essere, ed entrambi fanno parte di un’Essenza universale, eterna nel tempo e infinita nello spazio, che è insieme umana e naturale. All’origine di tutto vi è questa Essenza, dal carattere duplice, ambivalente, cui tutto l’universo partecipa, e in modo particolare il genere umano, che ne rispecchia l’intelligenza.

Il significato della vita su questa terra e nell’intero universo è tutto qui: siamo dunque destinati a esistere, cioè a essere quel che dobbiamo essere. Se oggi il nostro essere non è umano e quindi non è conforme a natura, allora vuol dire che per noi il problema è diventare quel che dobbiamo diventare. Sia come sia non si scappa dal compito di “dover essere”.

Il significato della vita su questa terra sta appunto nel tentativo che dobbiamo porre di tornare ad essere quel che eravamo. Il tentativo non può essere rimandato, proprio perché chi “non-è” si autodistrugge o distrugge la vita altrui, impedendo agli altri di essere.

Non si può transigere sul compito di realizzare questo obiettivo. Semmai si può discutere sul modo di conseguirlo. E siccome fino ad oggi un modo sicuro, definitivo, non l’abbiamo trovato, in quanto tutti i tentativi compiuti sono falliti, siamo arrivati a un bivio: o smettiamo di cercare e ci rassegniamo al peggio, oppure cambiamo completamente i nostri strumenti e le metodologie.

Cioè invece di cercare di migliorare le cose del nostro presente, sarebbe meglio azzerarle e chiedersi come potremmo essere se non le avessimo. Se accettiamo con fiducia e coraggio questa seconda strada, ci possono venire in aiuto due elementi fondamentali: la natura e la storia.

Quando si parla di “natura”, si deve intendere qualcosa di “naturale”, cioè di non soggetto a sfruttamento intensivo, a sistematico logoramento. La natura ha bisogno di riprodursi agevolmente. Deve fruire di un proprio spazio di autonomia. Gli strumenti con cui la si gestisce non possono ferirla.

Dobbiamo quindi renderci conto che ogni nostro lavoro produttivo dev’essere eco-compatibile coi processi riproduttivi della natura. Tutto ciò che non è eco-sostenibile va progressivamente ma decisamente rimosso. E questo, per noi, abituati a vivere in maniera del tutto artificiale, è cosa altamente complessa, realizzabile solo da un collettivo.

Ci può venire però in aiuto la storia, anzi, la preistoria. Infatti, un’altra cosa che dobbiamo eliminare è la storia di tutte le civiltà sorte a partire da quella schiavistica. Oggi, come noto, viviamo quella denominata “capitalistica”, cui alcuni paesi hanno cercato di opporre, come alternativa, un’esperienza di “socialismo statale”, rivelatasi però largamente fallimentare.

Ora, come si può uscire da un sistema standoci dentro? Pacificamente è impossibile. Il sistema è totalizzante. Persino se si provasse a uscirne fisicamente, trasferendosi altrove, si sarebbe sottoposti ai suoi condizionamenti. È illusorio pensare di potersi sottrarre alle pressioni – espresse in varie forme e modi – di chi esercita un potere altamente conflittuale sul piano sociale, e devastante su quello ambientale. Questo potere va abbattuto con la forza. Costi quel che costi.

La battaglia contro il sistema è anzitutto politica. Il vero problema, semmai, viene dopo, quando si tratta di costruire l’alternativa. Qual è il modello da seguire? Purtroppo i modelli da seguire, in questi millenni di antagonismo sociale, li abbiamo distrutti tutti. Sappiamo solo una cosa, che non possiamo andarli a cercare nelle cosiddette “civiltà storiche”.

Quindi dobbiamo uscire non solo dal sistema, abbattendolo con la forza, ma anche dalla “storia”. Dobbiamo andare a recuperare tutto ciò che, in questo momento, ci appare “preistorico”. E dobbiamo farlo subito, perché bisogna aver chiara l’alternativa nel momento stesso in cui si lotta politicamente contro il sistema.

Storicamente dobbiamo fare un grande passo indietro, e praticamente dobbiamo andare a cercare, nel nostro presente, gli ultimi brandelli, sparsi nel pianeta, che ci riportano alla preistoria. Sul piano culturale dobbiamo fare un lavoro da etnologi e antropologi.

Le cose da fare, in simultanea, sono dunque le seguenti: lotta politica contro il sistema in sé, che prescinda da qualunque esigenza riformatrice; recupero culturale (etno-antropologico) della preistoria; esperienza diretta di tutte le forme possibili di tipo non-antagonistico, dove il bisogno sia condiviso e la proprietà dei mezzi produttivi sia comune.

Uscire dallo Stato e dal mercato

Per uscire dal sistema in cui domina il primato del valore di scambio è sufficiente convincersi di due cose: non è l’individuo che ha bisogno del mercato, ma il contrario; non è l’individuo che ha bisogno dello Stato, ma il contrario.

Stato e mercato sono però due realtà sociali: per poterle eliminare o ridurre al minimo o trasformarle radicalmente occorrono esperienze sociali. L’individuo, al di fuori di un collettivo di riferimento, cui organicamente appartiene, è solo un’astrazione.

Si tratta quindi di costruire una realtà sociale democratica, egualitaria, da opporre a due realtà sociali la cui democraticità è solo apparente. Nell’ambito dello Stato la democrazia è indicata dalle elezioni, con cui si scelgono i parlamentari (poi vi sono i referendum, quando si tratta di scegliere tra due opzioni).

Nell’ambito del mercato la democrazia sta nello scambio di equivalenti, nell’uso del denaro come mezzo astratto di scambio universale. Nessuno è obbligato ad andare a comprare merci, ma se non lo fa, non riesce a vivere. Come nello Stato comandano i poteri forti (politici, burocratici e militari), così nel mercato comandano i monopoli, gli speculatori, gli affaristi, i mercanti.

Non c’è mercato senza Stato, poiché questo garantisce la difesa dei produttori, che vivono sulle spalle dei soggetti deboli (i consumatori). Non c’è Stato senza mercato, poiché il mercato garantisce ricchezza, di cui una parte significativa, attraverso le tasse e il plusvalore estorto ai lavoratori, serve a mantenere le classi parassitarie (politici, burocrati e militari), le quali devono assicurare l’ordine a favore dei ceti possidenti.

Uscire dal sistema significa saper dimostrare a se stessi, organizzati in maniera collettiva, che si può fare a meno sia dello Stato che del mercato. I modi per dimostrarlo sono due: democrazia diretta e autoconsumo. Questi due aspetti vanno considerati preliminari a tutto, cioè a qualunque dibattito, a qualunque lettura e scrittura. Ed essi non possono in alcun modo svilupparsi nell’ambito del capitalismo. Mentre la trasformazione dello schiavo in colono è potuta avvenire nell’ambito dello schiavismo, e quella da colono o servo della gleba a operaio salariato è potuta avvenire nell’ambito del feudalesimo, quella da operaio produttore libero non può avvenire nell’ambito del capitalismo, se non come eccezione che conferma la regola: lo sfruttamento del lavoro altrui.

Questa regola è così tassativa, nel capitalismo, che anche lo stesso lavoratore diventa a sua volta, di necessità, uno sfruttatore del lavoro altrui: è sufficiente infatti che depositi i suoi risparmi in una banca o che riceva uno stipendio statale o che produca una merce per il mercato. Perché tutti i lavoratori siano liberi occorre uscire dal sistema. Nell’ambito del capitalismo non c’è nulla che possa anticipare qualcosa del socialismo democratico. Se lo si pensa è perché ingenuamente si crede di poter fare a meno della responsabilità di una rivoluzione: non sono pochi i soggetti pseudo-rivoluzionari che non vogliono combattere politicamente il sistema, ma limitarsi semplicemente ad attendere ch’esso imploda da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni, com’è successo in Russia.

L’abbattimento del sistema è preliminare a qualunque altra cosa. Si può farlo attraverso la cultura – come voleva l’impostazione gramsciana -, o entrando direttamente in politica, ma l’obiettivo deve restare la conquista del potere per il rovesciamento del sistema. E non si può far questo come se fosse un semplice colpo di stato: occorre un’autentica rivoluzione di popolo. Sono due cose completamente diverse, l’una opposta all’altra. Se si tenta di creare delle “isole di socialismo”, dove vige la democrazia diretta e l’autoconsumo, si ripeteranno gli stessi errori del “socialismo utopistico”, i cui esperimenti alternativi sono stati tutti riassorbiti dal sistema.

Il sistema infatti ha il potere di condizionare in tutti i modi, materiali e culturali, l’intera vita sociale, e dispone inoltre della forza militare per porre fine, come e quando vuole, a ciò che può ostacolarlo democraticamente. Ecco perché bisogna convincersi che, in ultima istanza, il sistema può essere abbattuto solo con la forza, cioè con una rivoluzione politica, capace di usare gli stessi strumenti coercitivi del sistema per fronteggiare l’eventuale reazione violenta delle classi che non vogliono lasciarsi espropriare di nulla.

Solo quando la controrivoluzione ha avuto termine, si possono porre le basi della progressiva estinzione dello Stato, a favore della democrazia diretta, e, in virtù del primato del valore d’uso, si può pensare a una progressiva eliminazione del mercato basato sul primato del valore di scambio. Bisogna porre le comunità locali in condizioni di difendersi da sole da chiunque possa minacciarle di distruzione.

Che ci voglia una dura e lunga transizione dal capitalismo al socialismo democratico e autogestito, è pacifico. Il capitalismo non ha solo sconvolto tutti i rapporti umani, ma anche i rapporti con l’ambiente, e l’ha fatto in un periodo lunghissimo, praticamente millenario. L’importante però è aver chiaro che l’alternativa al capitale deve essere radicale: qualunque concessione venga fatta anche a uno solo degli aspetti del sistema da abbattere, andrà a influire su tutto il resto. Il fallimento del cosiddetto “socialismo reale”, che pretendeva di poggiare su basi “scientifiche”, è un esempio da tenere sempre presente.

Una lettura olistica della storia

Una lettura olistica della storia permette di assegnare a ogni avvenimento delle coordinate specifiche, che gli sono proprie e che non si ripetono mai in maniera identica, proprio perché la storia è soggetta a un movimento perenne, pur avendo a che fare con una medesima tipologia umana: essa ha la forma geometrica della spirale.

In tal senso lo schiavismo allestito dagli europei nelle loro colonie era sostanzialmente diverso da quello antico, e per almeno tre ragioni:

  1. gli schiavi greco-romani non lavoravano per un’esportazione di tipo capitalistico, in cui quello che conta è accumulare capitali. L’obiettivo era quello di far vivere nel lusso lo schiavista e i suoi parenti, che in genere sperperavano i loro capitali o ambivano ad avere cariche prestigiose e assai raramente si preoccupavano di migliorare le tecniche produttive. Viceversa sotto il capitalismo l’obiettivo finale della produzione non dipende neppure dalla volontà del singolo imprenditore;
  2. là dove è presente un rapporto di lavoro di tipo contrattuale, lo schiavismo viene considerato economicamente superato e politicamente viene combattuto (si veda p.es. la guerra civile tra nordisti e sudisti: gli americani poi si presenteranno in tutta l’America latina come “liberatori dallo schiavismo ispano-lusitano”);
  3. là dove è radicato il cristianesimo, il rapporto schiavistico è malvisto se lo stesso schiavo è un cristiano: di qui la sua trasformazione in servaggio, dove il lavoratore ha una parte di diritti. In America latina, dopo l’arrivo degli europei, si passò abbastanza facilmente, grazie agli statunitensi, dallo schiavismo rurale (impiantato da un cristianesimo para-feudale, col pretesto che gli indigeni non erano cristiani e che dall’Europa si faceva fatica a controllare l’operato di questi neo-schiavisti) al capitalismo vero e proprio, saltando la fase del feudalesimo. Infatti lo schiavismo delle colonie era già finalizzato a una produzione capitalistica (l’esportazione di materie prime: cotone, cacao, caffè, spezie, tabacco ecc.) verso i paesi capitalistici europei e verso gli stessi Usa. Quest’ultimi cioè non ebbero bisogno di dimostrare che l’operaio salariato era più libero del servo della gleba, ma che lo era molto di più nei confronti dello schiavo rurale creato dagli europei nelle colonie. E vi riuscirono molto facilmente proprio perché nella cultura urbanizzata si percepiva come intollerante (anche perché poco produttivo), quel tipo di rapporto di lavoro.

D’altro canto senza cristianesimo il capitalismo sarebbe impensabile. Il capitalismo non è altro che cristianesimo laicizzato, prima nella forma cattolica (1000-1500), poi in quella protestantica (1500-2000), e quest’ultima nelle colonie non ha ovviamente dovuto ripercorrere le stesse tappe emancipative dell’Europa occidentale, così come non fece la Russia, quando passò dal feudalesimo al socialismo di stato.

Il capitalismo calvinista è tuttora dominante nel mondo, benché in Cina si stia sviluppando una forma di capitalismo che non proviene direttamente dal calvinismo, ma da tradizioni culturali autoctone, che hanno assemblato lo stalinismo agrario chiamato maoismo, l’antico modo di produzione asiatico e le varie religioni che impongono il rispetto delle autorità. In un qualunque paese asiatico il capitalismo non deve comunque essere tenuto sotto il controllo di un’istanza politica superiore. Qui il concetto di “persona” è molto debole, ma in compenso è molto forte quello di Stato, che in genere è proprietario di tutta la terra. Questo tipo di capitalismo non è esportabile finché i governi dittatoriali non comprenderanno l’importanza della finzione giuridica che garantisce la libertà formale e quindi l’importanza della democrazia borghese come sistema politico. La Cina in futuro potrà davvero superare gli Usa solo quando l’uso della forza dello Stato sarà accompagnato da un uso spregiudicato del diritto e dei valori umani, che non potrà certo essere inferiore a quello delle attuali forze occidentali.

Ecco perché, se vogliamo davvero parlare di schiavismo in epoca moderna e contemporanea, dobbiamo intenderlo in maniera traslata, come “schiavitù salariata”, in cui la libertà formale giuridica è parte strutturale, organica a un rapporto di lavoro iniquo (cosa che nello schiavismo classico era impensabile, proprio perché non si aveva in alcun modo il concetto di “persona”, avente diritti inalienabili di natura).

Qualche lettura e rimembranza per una buona pausa dal blablablà generalizzato, camuffato perfino da politica

UNA BOCCATA D’OSSIGENO CON L’ULTIMA NEWSLETTER

DI HOMOLAICUS DEL MIO AMICO ENRICO GALAVOTTI.

Un destino segnato

Di tutte le crociate medievali in Medio oriente solo due risultarono decisive: la prima del 1096, che colse arabi e turchi del tutto impreparati, e la quarta, del 1204, che colse impreparati i bizantini. Delle due, quella che diede i frutti maggiori fu la seconda, che comportò la prima grave caduta di Costantinopoli e che, senza dubbio, favorì il suo crollo definitivo nel 1453, permettendo il formarsi di un gigantesco impero ottomano, comprendente tutta la costa africana, i Balcani e tutto il Medio oriente fino alla penisola arabica, durato sino alla fine della prima guerra mondiale.

Chi fu il responsabile di questo “gesto di madornale insipienza politica… che sconvolse – come dice Steven Runciman in Storia delle crociate – l’intero sistema di difesa della cristianità”? Fu l’occidente latino nel suo complesso, impersonato dal papa teocratico Innocenzo III, desideroso quanto mai di sottomettere la chiesa ortodossa; dal doge veneziano Enrico Dandolo, unicamente preoccupato di far acquisire alla sua Repubblica i maggiori vantaggi economici; da vari signori feudali, che ambivano ad assumere cariche prestigiose, come p.es. quella di re o addirittura di imperatore, smembrando un impero non meno cristiano del loro in occidente. E in mezzo a queste potenti forze clericali, borghesi e feudali stavano gli intrighi degli ambienti di corte della capitale bizantina, inevitabilmente soggetti ad ampie strumentalizzazioni.

La quarta crociata fu infatti l’esempio più eloquente del vero motivo che spinse decine di migliaia di persone a intraprendere delle avventure in cui rischiavano facilmente la vita: quello economico. In Europa occidentale le contraddizioni sociali avevano raggiunto un livello così acuto che ai ceti dominanti parve essere la politica estera l’unico mezzo per poterle risolvere.

Abituati a vivere rapporti sociali fortemente antagonistici, questi ceti dominanti, che coinvolsero, con la propaganda, anche quelli meno abbienti, ritenevano del tutto normale l’uso della violenza più efferata per la difesa della fede religiosa. Ci volle infatti la predicazione francescana prima di capire che con le armi della parola, della pace, del rispetto della diversità si potevano ottenere risultati più significativi.

Con le crociate il colonialismo europeo ebbe la meglio nel Mediterraneo fino al 1453, poi si spostò sull’Atlantico, andando a occupare tutte le coste africane, creando avamposti commerciali in tutta l’Asia e soprattutto invadendo l’intero continente americano. Sono praticamente mille anni che la cultura occidentale, prima europea, poi statunitense, domina tutti i principali mari del mondo, fonte primaria degli scambi commerciali. Il capitalismo ha le sue radici storiche, le sue premesse culturali, le sue basi economiche nel Mille.

Oggi stiamo addirittura assistendo alla nascita di un nuovo protagonista mondiale dell’economia capitalistica, estraneo alla cultura occidentale, ma che la va assimilando molto velocemente, seppur all’interno di proprie caratteristiche: la Cina. Un assaggio di questa nuova gestione asiatica dell’economia borghese l’avevano già dato il Giappone, la Corea del sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan, ecc., ma con la Cina si ha a che fare con un gigante senza paragoni, con un colosso che, quando inizierà a muoversi militarmente, non avrà difficoltà ad annettersi tutte le suddette “anticipazioni”.

Bisogna solo dargli il tempo di crescere, cioè il tempo di vedere che alle proprie interne contraddizioni, quando diverranno esplosive, non vi sarà altra soluzione che la guerra. E possiamo facilmente prevedere, sin da adesso, che quando il capitalismo viene gestito da uno Stato autoritario, militarizzato, a partito unico, il destino degli europei e degli americani, così individualisti, egocentrici e volubili, è segnato.

Ci serve una crociata

Mille anni fa la situazione sociale, economica, etica e politica era, in Europa occidentale, sull’orlo della catastrofe. La corruzione imperava ovunque. Dopo aver acquisito l’ereditarietà dei feudi maggiori, nell’877, ogni nobile si comportava, nei propri possedimenti, come un autentico despota, sapendo benissimo che nessuno avrebbe potuto impedirglielo, neppure il sovrano.

A Roma la carica di pontefice era appannaggio delle famiglie aristocratiche più influenti. Nepotismo e simonia nella chiesa non erano l’eccezione ma la regola, al punto che tra le fila del clero benedettino – uno dei maggiori proprietari terrieri – parti di una riforma generale che trovò soltanto nel fanatismo dogmatico e teocratico lo strumento migliore per affrontare l’immoralità dominante.

Lo stesso papato, insieme ai Franchi, aveva completamente distrutto il valore dell’istituzione imperiale del basileus bizantino, tanto che nel 1054 decise di separarsi definitivamente dalla chiesa ortodossa, che dell’impero d’oriente costituiva la rappresentazione più significativa.

La formazione delle città italiane stava avvenendo contro la feudalità rurale, e si stava sviluppando contro qualunque prerogativa imperiale. La borghesia era disposta a scendere a patti col papato in funzione anti-imperiale, ma non amava ingerenze di alcun tipo nella propria attività affaristica.

Avversa alla grande nobiltà era pure quella piccola, che pretese l’ereditarietà dei feudi minori nel 1037 e che appoggiò lo sviluppo dell’urbanizzazione.

La progressiva abolizione del servaggio nelle campagne comportava la formazione del primo proletariato cittadino, che però era già così numeroso da non poter essere assorbito in toto dalle nascenti manifatture.

Le tensioni erano molto forti: i Comuni più grandi tendevano a fagocitare quelli più piccoli e a ridurre i contadi rurali in aree coloniali prive di autonomia economica.

Bande di pirati normanni (a nord), ungari (a est) e saraceni (a sud) infestavano buona parte dell’Europa, e, di questi, sicuramente i primi erano i più organizzati e i più feroci, tant’è che in pochissimo tempo riuscirono a conquistare la Normandia, l’Inghilterra e l’Italia meridionale, e poco mancò, a est, che arrivassero ad annettersi la Russia e Bisanzio.

Intanto dalla Persia erano giunti i Turchi Selgiuchidi, i quali, dopo aver occupato il Medio oriente, stavano minacciando, in Asia minore, quel che era rimasto dell’impero bizantino.

Quando venne in occidente la richiesta, da parte del basileus, di un aiuto militare, nessuno vi prestò ascolto, sia perché i bizantini e gli ortodossi erano avvertiti come rivali nella fede religiosa (sin dai tempi del Filioque introdotto nel Credo) e nel potere politico (sin dai tempi dell’incoronazione illegale di Carlo Magno), sia perché l’occidente latino non aveva possedimenti da difendere in Palestina o nell’Africa settentrionale, anche se cominciava a preoccuparsi della presenza dei Mori in Spagna, in Sicilia e in altre località ove erano approdati come pirati.

Lo spirito di crociata nacque così, come tentativo di risolvere militarmente una crisi molto grave, che si trascinava da almeno due secoli. Bisognava darsi un’ottima motivazione – è questa la offrirono i Turchi intolleranti e fiscalmente esosi -, cui se ne sarebbe subito aggiunta un’altra: la possibilità di conquistare nuove terre in Medio oriente, che anche per colpa degli ebrei deicidi – si diceva – erano da sempre tormentate (l’antisemitismo nacque proprio in occasione della prima crociata).

La soluzione dei problemi interni venne affidata alla politica estera. Che è, in fondo, quello che stanno facendo oggi gli americani, che dopo il crollo delle torri di Manhattan, si sono inventati un nemico internazionale, chiamato “terrorista islamico”, che ha autorizzato loro a spiare il mondo intero per motivi di sicurezza e a dichiarare guerra a qualunque paese (o a minacciare di farlo) che, anche solo intenzionalmente, voglia munirsi di armi di sterminio di massa.

Gli Usa pensano di risolvere così il disastro della loro economia interna, indebitata fino al collo e corrotta quanto mai: stanno pressando tutti i paesi avanzati a muover guerra contro questo fantomatico “nemico mondiale” (che fino a ieri pareva essere il “socialismo reale”), e a farlo, beninteso, non in autonomia, ma seguendo le loro direttive strategiche.

Per convincersi a mettersi in fila dietro questi nuovi feudatari diretti in “oriente”, occorre soltanto che la situazione peggiori, che si acuiscano le contraddizioni e che emergano pseudo motivazioni ideali molto sentite. I più forti militarmente son loro: su questo non si può avere dubbi. E loro ci dicono d’essere anche i più democratici di tutti: per questo sono così odiati.

Parmenide, Eraclito e l’occupazione delle fabbriche

Che la filosofia sia cosa astratta e quindi inutile ai fini pratici, è dimostrato anche dal fatto che un’affermazione del genere: “L’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere” (che, come noto, è di Parmenide), pur essendo altamente dogmatica e quindi povera di contenuto, può anche pescare nel vero se si fa coincidere l’essere con la realtà e il non essere col desiderio. Le parole della filosofia son come la sabbia che, quando scende da un pugno chiuso, va dove tira il vento.

Parmenide era un fanatico (oggi diremmo “talebano”) che credeva nell’autoevidenza della verità e che quindi rifiutava l’unità degli opposti che si attraggono e si respingono. La verità, per lui, non può essere data da un libero e democratico confronto tra opinioni diverse, ma può essere solo imposta da chi pensa di avere più ragione degli altri. È una verità aristocratica. Solo i credenti si mettono dalla parte di Parmenide, ovviamente non prima d’aver equiparato la sua concezione di “essere” con quella di “dio”.

Nondimeno se Parmenide avesse fatto coincidere l’essere con la realtà (sociale, umana) e quindi con l’esistenza, inevitabilmente carica di problemi da risolvere, gli si sarebbe anche potuto dar ragione quando diceva che il non essere non esiste. In tal caso infatti il non essere sarebbero i sogni, i desideri astratti, la confusione che uno fa tra la realtà e i propri desideri.

Dunque, in tal caso, sarebbe stato vero: solo l’essere è, con tutte le sue contraddizioni, mentre il non essere, con tutte le sue fantasie, non è, non ha sostanza e chi lo predica s’illude di poter cambiare le cose. Il non essere rappresenterebbe la visione onirica, utopistica, quella di chi vorrebbe cambiare tutto e subito, senza rendersi conto delle vere contraddizioni sociali, per il cui affronto occorre un consenso di massa. Cosa di cui i filosofi non si preoccupano affatto, poiché in genere sono degli individualisti, tant’è che quando si mettono a fare politica in senso vero e proprio, tutta la loro filosofia non vale assolutamente nulla. I filosofi sono degli idealisti che non amano sporcarsi le mani.

Resta comunque difficile spezzare una lancia a favore di Parmenide, proprio perché egli vedeva la realtà come qualcosa da superare grazie appunto alla sua concezione astratta dell’essere, con cui rifiutava l’idea dell’opposizione, cioè appunto l’idea del non essere, che quell’idea meravigliosa per cui, davanti agli orrori dell’essere, bisogna sempre essere capaci di offrire all’uomo una nuova possibilità. Dobbiamo infatti esser grati al non essere se riusciamo ancora oggi a credere nella possibilità di cambiare l’esistente.

Questa cosa era già stata capita dall’avversario n. 1 di Parmenide: Eraclito, per il quale l’opposizione di contrari costituiva il senso della vita. Tuttavia, siccome anche lui era un filosofo astratto, quel che di buono aveva detto rischia sempre di trasformarsi nel suo contrario. Nel senso che se da un lato è vero che essere e non essere devono perennemente coesistere, è anche vero che non tutte le opposizioni meritano di sopravvivere.

Tutti noi ricordiamo, dai banchi di scuola, il famoso apologo di Menenio Agrippa, quando, per convincere i plebei a tornare alle loro case, rinunciando alla lotta di classe, disse che un giorno tutte le membra del corpo s’erano rifiutate di lavorare per non ingrassare lo stomaco, che, a parere loro, non faceva nulla. Ma, dopo qualche tempo, le membra s’erano accorte che anche loro illanguidivano, proprio come lo stomaco; ed allora compresero che, se non avessero nutrito lo stomaco, si sarebbero indebolite sempre di più, fino a morire.

Ecco a cosa può portare un’interpretazione sbagliata della filosofia dialettica di Eraclito: a credere che il capitale sia necessario al lavoro. Imprenditori privati, che dispongono di capitali e non lavorano, e operai salariati, che lavorano senza avere mai dei profitti, non sono due poli opposti che devono cercare di coesistere pacificamente. Essi rappresentano la contraddizione irriducibile di questo sistema, che all’interno di esso non può in alcun modo essere risolta.

Gli operai devono prendere coscienza che quando le aziende chiudono, per un motivo o per un altro, esse vanno occupate ed eventualmente riconvertite. I lavoratori devono iniziare a chiedersi non come fare per sopportare la crisi del sistema, ma come cercare un’alternativa radicale, che anzitutto vuol dire riprendersi il proprio territorio, recuperandone le risorse naturali e le radici culturali. Vuol dire sondare ciò di cui i suoi abitanti possono aver bisogno e iniziare quindi a produrre per soddisfare finalmente le necessità concrete e non le mere esigenze di profitto.

Se la proprietà dei mezzi produttivi non passa dalle mani di chi gestisce i capitali a quelle di chi gestisce il lavoro, si continuerà a parlare di crisi del sistema in eterno. Il non essere non è tenuto a convivere con un essere che di umano e di naturale non ha proprio nulla.