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Quali alternative aveva Putin?

Supponendo che la Russia abbia ragione quando sostiene che se non fosse intervenuta militarmente, prima o poi l’avrebbe fatto la NATO, una volta insediatasi in Ucraina. Che alternative c’erano a una soluzione del genere?

È chiaro infatti che l’esercito di Kiev stava per attaccare il Donbass e riprendersi la Crimea. È altresì evidente che se la Russia l’avesse lasciato fare, ci sarebbe stato un bagno di sangue, oltre che una vittoria degli ucraini e un sicuro ingresso nella NATO. A quel punto la situazione per la Russia sarebbe stata drammatica. Mosca è troppo vicina al confine ucraino per restare indifferente.

Dunque perché Putin sostiene che non avevano altra scelta? Il motivo sta nel fatto che l’Europa occidentale (prima ancora che diventasse UE) non si è mai opposta, neanche una volta, all’espansione della NATO verso est. Putin sapeva che se anche avesse lanciato l’allarme, nessuno l’avrebbe ascoltato. Ha temuto una riedizione di quella situazione anteriore alla II guerra mondiale, quando la Russia di Stalin, non trovando alcun Paese europeo disposto a stipulare un’alleanza per fermare l’espansione del nazismo, fu indotta a firmare il trattato di non belligeranza Ribbentrop-Molotov, che ancora oggi, ipocritamente, viene considerato dalla storiografia occidentale come il lasciapassare per l’occupazione tedesca della Polonia.

La Russia non si sentiva pronta da sola a fronteggiare la Germania. Poi Stalin, facendo uno dei suoi soliti calcoli sbagliati, si convinse che Hitler, avendo firmato quel trattato, non avrebbe mai attaccato la Russia.

Ecco, probabilmente, vedendo che la NATO, nonostante tutte le promesse di non farlo, era col tempo arrivata a insediarsi in ben 30 Paesi europei (invece di sciogliersi come il Patto di Varsavia), Putin ha avuto paura che la parte occidentale dell’Europa, tradizionalmente bellicosa, e ancor più pericolosa proprio in forza della NATO, avrebbe potuto sferrare un nuovo attacco, e questa volta letale.

La Russia è un impero: di fronte ai grandi pericoli che han messo in forse la sua esistenza ha sempre reagito con lentezza. E ne è sempre uscita a testa alta. Ora per la prima volta con Putin ha giocato d’anticipo, prendendo in contropiede i suoi storici avversari: USA e UE. I quali hanno avuto una reazione scomposta, compiendo un atto illegale dietro l’altro, sul piano economico e finanziario, e minacciandola continuamente di voler portare l’umanità alle soglie d’un conflitto nucleare mondiale.

Gran parte del mondo s’è lasciato convincere dalla narrativa occidentale, maestra nello stravolgere la realtà dei fatti, secondo cui l’attacco russo all’Ucraina non aveva alcuna giustificazione. Questo dimostra che dal 1991 (anno dell’implosione dell’URSS) ad oggi, le preoccupazioni della Russia nei confronti della NATO non sono mai state prese in considerazione. Addirittura all’Europa occidentale non è mai interessato né che col golpe del 2014 si sia insediato a Kiev un governo filonazista, né che questo governo abbia scatenato contro il Donbass una guerra civile durata 8 anni che ha comportato 14.000 morti. Né all’ONU sono mai interessati i report allarmanti dell’OSCE sulla situazione del Donbass. Né Francia e Germania si sono mai preoccupate di verificare i motivi per cui gli accordi di Minsk non venivano rispettati da Kiev.

A questo punto appare del tutto comprensibile che Putin abbia deciso d’intervenire militarmente. Non gli era stata data alcuna alternativa. La Russia peraltro sapeva benissimo dell’esistenza di infrastrutture militari clandestine in Ucraina, gestite dalla NATO, con cui venivano addestrati i neonazisti, e che gli USA stavano aiutando quel Paese nella ricerca di armi biologiche e nucleari. E soprattutto sapeva bene che gli USA, non avendo mai accettato l’idea di non utilizzare per prima l’arma nucleare (esattamente come è disposta a fare la Russia), sono in grado d’impedire un colpo di ritorsione.

Ora è evidente che se non si accettano queste premesse per capire il conflitto ucraino, non si esce dal mero ambito della propaganda. In un certo senso si potrebbe dire che è stato proprio questo intervento preventivo a porre un freno all’espansione del neonazismo in Europa e all’escalation della NATO verso una guerra mondiale. Certo è che se l’intero occidente continua a inviare armi ai neonazisti, mirando altresì a far entrare nella NATO anche Svezia e Finlandia, il rischio di una catastrofe nucleare resta elevatissimo.

Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari

Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari firmato il 24 ottobre 2020 da 50 nazioni dell’ONU impedisce espressamente qualunque tipo di giustificazione per l’uso di armi nucleari nel diritto internazionale. Vieta lo sviluppo, i test, la produzione, l’immagazzinamento, il trasferimento, l’uso e la minaccia delle armi nucleari. Più chiaro di così non poteva essere.

È anche l’unico Trattato che proibisce esplicitamente ai suoi membri di ospitare armi nucleari appartenenti ad altri Stati (un classico esempio è quello della NATO nel nostro Paese). Gli Stati dotati di armi nucleari e non nucleari devono lavorare in cooperazione per ottenere l’eliminazione di tutti gli arsenali nucleari.

Purtroppo nessuna potenza nucleare l’ha firmato, e solo 6 dei 49 Stati europei hanno approvato e ratificato il Trattato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino, Liechtenstein e lo Stato del Vaticano. L’Italia non ha firmato né ratificato il Trattato. Non ha partecipato alla negoziazione del Trattato alle Nazioni Unite a New York nel 2017 e quindi non ha votato sulla sua adozione. L’Italia è attualmente uno dei cinque Stati europei che ospitano testate nucleari statunitensi nell’ambito di accordi NATO. Si tratta di circa 40 bombe nucleari B61 presso la basi aeree di Aviano e di Ghedi. Nel 2019 l’Italia ha votato contro una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che invitava ad aderire al Trattato.

Siamo un Paese ridicolo. Vorrei sapere quali politici irresponsabili non hanno capito che non solo deve finire la corsa agli armamenti nucleari ma bisogna anche procedere allo smantellamento degli arsenali nucleari già esistenti. Quindi bisogna imporre alla NATO di eliminare l’arsenale nucleare dalle sue basi sul nostro territorio.

Il Vaticano è l’unico Stato che chiede una pronuncia ufficiale dell’ONU per verificare se le gestione del debito internazionale viola i diritti umani e quelli dei popoli e se limita la sovranità e l’indipendenza degli Stati indebitati

Iniziativa internazionale sul debito pubblico

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dal 2007 a oggi il debito pubblico mondiale è più che raddoppiato, passando da 28,7 a oltre 61 trilioni di dollari. Nello stesso periodo quello americano è triplicato, attualmente è circa un terzo del totale. Ogni cittadino americano ha più di 60.000 dollari di debito pubblico federale sulle sue spalle. Il record mondiale. Si ricordi che in Italia esso è di circa 38.000 euro pro capite.

Il crescente debito globale è una delle più pericolose minacce di crisi sistemiche.

Per il momento, però, sono i Paesi più poveri, e quelli impoveriti o a rischio default, ad esserne schiacciati. Finora i potenti della Terra, anche se di fatto sono i più indebitati, hanno avuto la spregiudicatezza e gli strumenti per far pagare il conto agli altri.

E’ perciò significativo che sia la Santa Sede, e non i governi, a portare all’esame delle Nazioni Unite il tema della legittimità del debito pubblico. Certamente si intravede la mano di papa Francesco.

L’obiettivo, come ci ricorda il professor Raffaele Coppola, direttore del Centro di Ricerca ”Renato Beccari” dell’Università di Bari e tra i principali coordinatori dell’iniziativa, è far pronunciare l’Assemblea Generale dell’Onu al fine di legittimare la richiesta di parere alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sulla gestione del debito internazionale per verificarne le eventuali violazioni dei diritti umani e dei popoli.

Si pone, quindi, l’esigenza di un’analisi approfondita dei fondamenti sia giuridici che etici della questione del debito. Non può diventare un macigno insostenibile per le popolazioni, né frenare lo sviluppo e limitare l’indipendenza e la sovranità di uno Stato.

Molti giuristi di varie ispirazioni stanno riflettendo sul problema del pagamento del debito da parte dei Paesi poveri e sullo stato di forza maggiore e di necessità a cui vengono sottoposti. Per lo stato di forza maggiore il non pagamento dipende da un evento incontrollabile da parte dello Stato. Lo stato di necessità, invece, giustificherebbe l’inadempienza quando il pagamento sarebbe troppo gravoso per i cittadini. Chi può pensare di affamare il popolo per pagare a tutti i costi gli interessi sul debito?

L’iniziativa presso l’Onu costituirebbe un precedente giuridico su una materia nevralgica per lo sviluppo della globalizzazione e in particolare per il rapporto fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Di conseguenza non potranno essere ignorati gli effetti deleteri della finanziarizzazione e della deregulation dell’economia.

La proposta della Santa Sede non è campata in aria ma poggia anche su un precedente importante: la risoluzione 69/319 dell’Onu del 2015 relativa ai cosiddetti “fondi avvoltoio”,  cioè quei fondi speculativi che operano in modo aggressivo sul debito dei Paesi in crisi. E’ appena il caso di ricordare che essa fu approvata nonostante il parere contrario degli Stati Uniti.

I valori esplicitati nella proposta si ispirano alla Carta di Sant’Agata de’ Goti del 1997 nella quale giuristi, uomini di Chiesa, intellettuali e laici misero a punto una serie di principi giuridici per regolare secondo giustizia la questione del debito. In particolare «il divieto di accordi usurari», il rispetto «dell’autodeterminazione dei popoli» e il divieto di «una eccessiva onerosità del debito».

Intorno all’iniziativa vaticana si sta tessendo un’ampia rete di alleanze. E’ importante in quanto  la Santa Sede ha lo status di osservatore alle Nazioni Unite e c’è bisogno che uno Stato presenti, in sua vece, la richiesta di discussione all’Assemblea Generale. E’ un ruolo che l’Italia naturalmente potrebbe e dovrebbe assumere. Sull’argomento pare esista già un’intesa di massima con il governo italiano.

Ricordiamo che l’Italia ha già avuto un ruolo meritorio nel 2000 quando il Parlamento approvò la legge 209 relativa alle «Misure per la riduzione del debito estero dei Paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati». Il significativo provvedimento nacque sull’onda del Giubileo promosso da Giovanni Paolo II durante il quale fu lanciata la campagna per l’abbattimento del debito dei Paesi poveri. 

Al riguardo si ricordi l’articolo 7 della citata legge che recita: «Il Governo, nell’ambito delle istituzioni internazionali, competenti, propone l’avvio delle procedure necessarie per la richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia sulla coerenza tra le regole internazionali che disciplinano il debito estero dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli». E’ esattamente l’obiettivo della Santa Sede. 

In merito l’Italia, non solo per il rispetto della sua legge ma anche per la sua indiscussa sensibilità per le problematiche dei Paesi in via di sviluppo, può davvero svolgere un ruolo incisivo a partire dal prossimo G7 di Taormina.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

UN ALTRO RELATORE DELL’ONU SULLA CONDIZIONE DEI PALESTINESI COSTRETTO A GETTARE LA SPUGNA PER L’OSTRUZIONISMO ISRAELIANO

Le dimissioni di Wibisono da Relatore Speciale dell’ONU sulla Palestina Occupata

di Richard Falk (ebreo inviato dell’Onu a suo tempo rifiutato da Israele perché aveva dichiarato che alcuni trattamenti di Israele contro i palestinesi sono di stampo nazista. Ne ho scritto qui: http://www.pinonicotri.it/2008/12/israele-caccia-un-ebreo-inviato-dellonu-la-colpa-avere-detto-chiaro-e-tondo-che-i-metodi-israeliani-contro-i-palestinesi-somigliano-a-queli-dei-nazisti-contro-gli-ebrei-non-e-un-caso-che-gli-obi/ )

 

Makarim Wibisono ha annunciato le sue dimissioni da Relatore Speciale dell’ONU sulla Palestina Occupata, dimissioni che avranno effetto dal 31 marzo 2016. Questo è l’incarico che io ho ricoperto per sei anni, terminando il mio secondo mandato nel giugno 2014.

L’illustre diplomatico indonesiano dice di non aver potuto svolgere le sue funzioni perché Israele è stata irremovibile nel negargli ogni contatto con il popolo palestinese che vive sotto la sua occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

“Purtroppo i miei sforzi per cercare di migliorare la vita dei Palestinesi vittime di violazioni sotto l’occupazione israeliana sono stati frustrati ad ogni passo”, ha spiegato Wibisono.

Le sue dimissioni mi ricordano curiosamente di quando Richard Goldstone ritrattò alcuni anni fa i risultati principali del Rapporto Goldstone, che era stato commissionato dall’ONU e da cui risultava che Israele aveva deliberatamente colpito dei civili nel corso dell’operazione Piombo Fuso, l’attacco massiccio contro Gaza della fine del 2008. In quell’occasione la mia risposta alle domande dei giornalisti fu che ero scandalizzato, ma non sorpreso. Scandalizzato perché le prove erano schiaccianti e gli altri tre autorevoli membri della Commissione d’Indagine dell’ONU avevano mantenuto la posizione originaria. Però non ero sorpreso, perché conoscevo Goldstone, un ex-giudice della corte costituzionale del Sud Africa, come un uomo di grande ambizione e debole carattere, una pessima miscela per un personaggio pubblico che si avventura in territori controversi.

Nel caso di Wibisono, sono sorpreso ma non scandalizzato. Sorpreso perché avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio che doveva affrontare il dilemma se fare correttamente il suo mestiere nel denunciare i crimini e le violazioni dei diritti umani di Israele, oppure guadagnarsi la cooperazione di Israele per raccogliere le sue prove. Non sono scandalizzato, anzi gli sono grato, perché mette in evidenza le difficoltà che deve affrontare chiunque abbia il compito di riferire onestamente sulla tragedia dei Palestinesi sotto occupazione. Anzi, con le sue dimissioni per motivi di principio, non permette a Israele di farla franca con il suo tentativo di neutralizzare il ruolo del Relatore Speciale.

Val la pena ricordare che quando Wibisono fu scelto come mio successore, diversi candidati più qualificati furono eliminati. Sebbene le linee guida per la selezione pongano l’accento sulla conoscenza che il candidato deve avere sull’oggetto dell’incarico, Wibisono ebbe evidentemente la meglio, con l’approvazione di Israele e degli Stati Uniti, proprio perché non aveva nessuna competenza specifica.

Posso solo sperare che il Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani (HRC) voglia ora rimediare al suo errore rivalutando le candidature della Prof. Christine Chinkin e di Phyllis Bennis, che possiedono entrambe le credenziali, le motivazioni e la forza di carattere per divenire validi Relatori Speciali.

Questo è il minimo che dobbiamo ai Palestinesi.

Quando incontrai Makarim Wibisono a Ginevra poco dopo l’annuncio della sua nomina a Relatore Speciale, mi disse pieno di fiducia che, se accettava l’incarico, gli era stato assicurato che il governo israeliano gli avrebbe permesso l’accesso, un’assicurazione che ha riferito anche nel suo annuncio di dimissioni. Da parte sua, si impegnava ad essere obiettivo ed equilibrato e a non aver idee preconcette.

Lo avvertii allora che anche uno che fosse stato politicamente vicino a Israele non avrebbe potuto evitare di arrivare alla conclusione che Israele era colpevole di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e delle norme sui diritti umani, e questo tipo di franchezza avrebbe sicuramente fatto arrabbiare gli Israeliani.

Gli dissi anche che stava facendo un grande errore se credeva di poter accontentare tutte e due le parti, visto che i diritti fondamentali dei Palestinesi sono negati da molto tempo. A quel punto sorrise, confidando evidentemente che la sua abilità diplomatica gli avrebbe permesso di esser gradito agli Israeliani anche quando avesse stilato rapporti che illustravano i loro crimini. Mi disse che voleva fare quello che avevo fatto io, ma farlo più efficacemente assicurandosi la cooperazione di Israele e aggirando così le loro critiche. Allora fui io a sorridere.

È vero che il mandato è di per sé esposto a critiche perché non comprende una valutazione delle responsabilità delle autorità amministrative palestinesi riguardo a violazioni dei diritti umani, ma si rivolge solo alle violazioni israeliane. Ho cercato invano di convincere lo HRC ad ampliare il mandato sino a comprendere le violazioni dell’Autorità Palestinese e di Hamas. I motivi per non farlo erano che sarebbe stato difficile trovare un accordo per definire il mandato, e aprire l’argomento della sua sfera di azione era rischioso, mentre in fondo la prova schiacciante dell’oppressione esercitata sui Palestinesi dall’occupazione si poteva ricavare dalle stesse politiche e pratiche di Israele. Per cui varie delegazioni presso lo HRC sostennero che le violazioni palestinesi sarebbero state un diversivo e avrebbero dato a Israele un modo per sviare le critiche all’occupazione.

Una cosa che ho scoperto nei miei sei anni da Relatore Speciale è che la persona in carica può fare la differenza, ma solo se è disposta a prendersi tutte le critiche.

Può fare la differenza in vari modi. Innanzitutto fornendo ai ministri degli esteri del mondo la relazione più autorevole possibile sulla realtà quotidiana del popolo palestinese. È anche importante saper portare il discorso su argomenti più illuminanti della semplice discussione su “l’occupazione”, affrontare temi come l’annessione de facto, la pulizia etnica e l’apartheid, e dare anche qualche appoggio dall’interno dell’ONU a iniziative della società civile come il BDS e la Freedom Flotilla. Facendo questo c’è da aspettarsi aspre reazioni da parte delle organizzazioni ultra-sioniste e da quelle che gestiscono la “relazione speciale” tra USA e Israele, mettendo anche in conto l’avvio di una campagna continua di diffamazione che cerca di screditare in ogni modo la voce di chi tratta questi argomenti e il lancio di accuse infuocate di anti-semitismo e, nel mio caso, di essere “un Ebreo che odia se stesso.”

Quello che mi ha scandalizzato e sorpreso allo stesso tempo è stata la disponibilità sia del Segretario Generale dell’ONU che dei rappresentanti diplomatici americani (Susan Rice e Samantha Power) a piegarsi verso Israele e unirsi al coro che faceva queste irresponsabili accuse finalizzate a chiedere le mie dimissioni.

Anche se qualche volta ho avuto la tentazione di dimettermi, sono contento di non averlo fatto. Vista la parzialità in favore di Israele dei grandi mezzi di comunicazione in USA e in Europa, è particolarmente importante conservare, anche se sotto attacco, questa fonte di verità senza arrendersi alle pressioni scatenate da varie parti.

La mia speranza è che il Consiglio per i Diritti Umani impari dall’esperienza fatta con Wibisono e nomini qualcuno che possa sopportare le critiche e al tempo stesso riferire i fatti per quello che sono. Il rifiuto di Israele a cooperare con attività ufficiali dell’ONU è un ostacolo alle funzioni del Relatore Speciale e costituisce di per sé una violazione degli obblighi di Israele in quanto membro dell’ONU. Al tempo stesso, il comportamento di Israele che sfida la legge internazionale è così evidente ed è così facile procurarsi informazioni attendibili, che io ho avuto la possibilità di stilare rapporti che trattavano tutti i principali aspetti della tragedia palestinese. Naturalmente il contatto diretto con le persone che vivono sotto occupazione avrebbe aggiunto una dimensione di conferma e di testimonianza, oltre a fornire un’espressione concreta delle preoccupazioni dell’ONU per gli abusi commessi sotto un’occupazione insostenibilmente prolungata e senza una fine in vista.

Finché non arriva il giorno dell’autodeterminazione palestinese, il minimo che l’ONU può fare è mantenere aperta questa finestra di osservazione e di valutazione. Dopo tutto, è stato l’ONU a impegnarsi nel 1947 a trovare una soluzione alla controversia israelo-palestinese e a riconoscere gli uguali diritti dei due popoli. Anche se questo approccio era colonialista e interventista nel 1947, è diventato plausibile nel 2016 visti gli sviluppi degli ultimi anni. L’ONU può non avere colpa di quello è andato male, ma certamente ha mancato di assolvere i propri doveri riguardo ai diritti fondamentali dei Palestinesi. Fino a che questi diritti non saranno realizzati, l’ONU deve dare quanta più attenzione possibile a questo residuo dell’epoca coloniale.

https://richardfalk.wordpress.com/2016/01/06/wibisonos-resignation-as-un-special-rapporteur-on-occupied-palestine/

“In Israele il terrorismo ha vinto già 20 anni fa” (in realtà da 65)

L’israeliano Etgar Keret autore per il Corriere della Sera del seguente  articolo riconosce che con l’uccisione venti anni fa del primo ministro Yitzahk Rabin, colpevole agli occhi di settori del rabbinato, delle forze armate e dei servizi segreti di volere la pace con i palestinesi, in Israele ha vinto il terrorismo. Che infattti è riuscito a bloccare la via della pace facendo imboccare la Israele la via disastrosa e sanguinosa della guerra permanente e della dittatura militare sui territori palestinesi, che, non dimentichiamolo, sono governati dall’arbitrio di ufficili militari.

In realtà però in Israele il terrorismo ha vinto sin dalla sua nascita, anzi fin dalla sua gestazione. Nel ’48 infatti è proseguita la “pulizia etnica” iniziata già l’anno prima contro i palestinesi, cacciati in massa con le armi – almeno 700 mila esseri umani – dalle loro case e dalle loro terre (cosa di cui non si parla mai, sono stati derubati in massa anche dei loro risparmi depositati in banca e dei gioielli delle loro donne) perché colpevoli di trovarsi nella parte della Palestina assegnata dall’Onu in maggior parte alla minoranza ebraica. Tale violenta pulizia etnica è stata condotta con l’esecuzione dell’ormai famoso Piano D, studiato fin nei minimi particolari già da anni e tradotto in realtà da bande militari e paramilitari con la bandiera della stella di Davide.

L’esistenza del Piano D è stata rivelata decenni dopo dai “nuovi storici” israeliani come Ben Morris e Ilan Pappè, che servendosi degli stessi archivi militari finalmente resi almeno in parte accessibili hanno scoperto e reso pubblico che la nascita di Israele, alla pari di quella di molti Stati specie nelle Americhe, è stata realizzata “con la violenza, la menzogna e il sangue”. Ovviamente a spese dei più deboli.

E sempre nel ’48, per l’esattezza il 17 settembre, venne ucciso a Gerusalemme dai terroristi israeliani della banda Stern l’inviato dell’Onu conte Volke Bernadotte, colpevole di voler rendere operante la soluzione dell’Onu che prevedeva la nascita anche dello Stato palestinese. E non dimentichiamo che i successivi uomini di governo  israeliano provenivano, compreso lo stesso Rabin, dalle fila della banda Stern e delle altre organizzazioni che nel ’47 avevano cacciato brutalmente i palestinesi tramite l’esecuzione del Piano D.

Tutto ciò premesso, ecco l’articolo di Etgar Keret:

“Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza con il sospetto e con una guerra senza fine.

Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta fine. Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele.
Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica.

La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire.

Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi, cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto: «Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un coltello, merita la morte.

L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra. «Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la situazione.

E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che non venga ucciso pure lui”.

Il colpevole e suicida silenzio su cosa fanno i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica)

UFA: I BRICS SI ISTITUZIONALIZZANO

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  

L’Europa, concentrata sui propri problemi e sul suo difficile quanto insostituibile processo di unificazione, purtroppo sta sottovalutando le recenti importanti decisioni assunte dai paesi BRICS, acronimo composto dalle iniziali dei cinque Stati che ne fanno parte: BrasileRussiaIndia,  CinaSudafrica

  Eppure esse sono destinate ad incidere profondamente sugli assetti mondiali.

Dall’8 al 10 luglio si è svolta a Ufa, in Russia, la settima conferenza dei BRICS. Nella stessa sede si sono tenute anche la riunione dell’Unione Economica Euroasiatica e quella della Shanghai Cooperation Organization, che coinvolge tutti i Paesi dell’Asia. I tre incontri hanno oggettivamente assunto una valenza politica di grande rilevanza perché, oltre agli aspetti economici, sono stati trattati anche quelli relativi alla sicurezza.

Oggi il peso geo-economico dell’alleanza tra Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è accresciuto. Insieme occupano il 30% della terra, hanno il 43% della popolazione mondiale e il 21% del Pil del pianeta. La loro produzione agricola è il 45% del totale, mentre la produzione delle merci e dei servizi rappresenta rispettivamente il 17,3% e il 12,7% del totale.

Il loro Pil aggregato supera i 32 trilioni di dollari e fa registrare un aumento del 60% rispetto al momento della loro costituzione 6 anni fa. Sono dati in continua crescita, nonostante gli inevitabili riverberi della crisi occidentale, delle bolle speculative e delle “politiche monetarie non convenzionali” delle banche centrali.

Nella dichiarazione finale si sottolinea che il summit di Ufa segna l’entrata in vigore della Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS (con 100 miliardi di capitale) e del Contingent Reserve Arrangement (Cra), che è un fondo di riserva di 100 miliardi di dollari contro eventuali destabilizzazioni monetarie e delle bilance dei pagamenti negli stati membri.

E’ significativo il fatto che la suddetta Nuova Banca di Sviluppo si impegni a collaborare con le altre istituzioni finanziarie aventi la stessa mission, in particolare con l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) recentemente promossa dalla Cina, che registra una grande positiva partecipazione anche europea.

”The strategy for BRICS economic partnership” di Ufa prevede l’avanzamento nella cooperazione in tutti i settori fondamentali dell’economia e della società, soprattutto nelle relazioni sud-sud. Comunque la suddetta Banca si impegnerà nella promozione di grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile anche in altri Paesi emergenti e in via di sviluppo, di cui una cinquantina già avviati.

Sul fronte monetario e finanziario le banche di sviluppo dei singoli Paesi del BRICS daranno luogo ad un “Financial Forum”, per definire nuovi accordi relativi al sistema dei pagamenti, e ad un “meccanismo di cooperazione interbancaria” che preveda tra l’altro l’utilizzo di linee swaps, cioè trasferimenti di liquidità per far fronte anche “all’impatto negativo di politiche monetarie realizzate da Paesi che emettono monete detenute anche nelle riserve”: Cioè gli Usa e l’Ue, quindi il dollaro e l’euro. L’intento è l’utilizzo delle monete nazionali nelle transazioni commerciali, fino al 50% del totale. Evidentemente tale svolta vuole essere una spinta per la costruzione di un paniere di monete rispetto all’attuale dominio del dollaro.

Al centro della crescente cooperazione vi sono non solo i tradizionali settori portanti dell’economia ma anche quelli relativi alla scienza, alla tecnologia e all’innovazione nei campi delle nanotecnologie, della biomedicina e della ricerca spaziale. Da ciò si evince l’errore che spesso nei cosiddetti Paesi avanzati si commette banalizzando i Paesi BRICS e ignorando quanto di nuovo in essi si muove.

E’ indubbio che l’”istituzionalizzazione dei BRICS”, così come è emersa a Ufa, rappresenta una notevole pressione verso le grandi istituzione politiche ed economiche internazionali.

Anzitutto l’ONU che, a settant’anni dalla sua creazione, è chiamato ad assolvere un ruolo decisivo nelle sfide globali garantendo un ordine internazionale più giusto.

Perciò i BRICS sostengono con forza l’iniziativa dell’ONU in merito alla ristrutturazione del debito pubblico dei Paesi più poveri e più esposti, non solo della Grecia, e complessivamente di quello mondiale.

In quest’ottica i BRICS intendono rilanciare il ruolo del G20 come “primo forum internazionale di cooperazione finanziaria ed economica”, soprattutto nella definizione di una nuova architettura finanziaria internazionale che tenga conto dell’economia reale. La presidenza della Cina del G20 l’anno prossimo dovrebbe essere il primo banco di prova. La prima vera occasione per vincere le resistenze, soprattutto americane, verso la riforma della governance del Fondo Monetario Internazionale

Riteniamo che anche per l’Unione europea, anche se fragile e divisa, non sia più tollerabile sottovalutare quanto si muove in quella parte del mondo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

Anche l’Italia colpita dai giochi di potere internazionali sul petrolio

La geopolitica del petrolio colpisce anche in Italia

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

La questione petrolio è di indubbia portata globale anche se i riverberi locali incidono non poco sui territori,  nelle economie e sulla stessa salute dei cittadini residenti nelle regioni interessate alle estrazioni. Di conseguenza anche le ricerche e le estrazioni in Basilicata dipenderanno dal mercato globale, le cui oscillazioni tendono al ribasso.

Mentre la domanda ristagna a causa della perdurante crisi industriale ed economica in Europa e del rallentamento delle economie del Far East, in primis quella cinese, l’offerta è cresciuta molto. A ciò si aggiunga che gli USA, con la produzione di shale gas, hanno notevolmente aumentato l’estrazione di greggio (+80%). Anche i significativi risultati dovuti alla cresciuta efficienza energetica, all’aumento delle energie rinnovabili, ai risparmi nei consumi e alla migliore produttività dei settori incidono notevolmente.

Bisogna ricordare che il petrolio è sempre stata un’arma formidabile per mutare e condizionare le vicende e gli assetti geopolitici globali. Perciò la storia mondiale del petrolio è tristemente segnata, oltre che dai danni all’ambiente e alla salute, da guerre, colpi di stato, corruzione e assassinii.

Anche oggi non pochi esperti ed analisti del settore sottolineano che dietro la decisione di far scendere il prezzo del petrolio ci sarebbe anche l’intenzione dell’Arabia Saudita, condivisa con gli alleati americani, di colpire le economie della Russia e dell’Iran. Si tenga in considerazione infatti che le entrate petrolifere rappresentano il 60% delle entrate del governo dell’Iran e il 50% di quelle della Russia.

Una simile mossa venne fatta nel 1985 sempre dall’Arabia Saudita che per un certo periodo di tempo abbassò il prezzo del petrolio di 3,5 volte aumentando nel contempo la produzione di ben 5 volte. Gli sceicchi non dovettero rinunciare ai loro fasti, ma di conseguenza, nei grandi giochi della geopolitica mondiale, l’URSS venne messa in ginocchio. Continua a leggere

Ogni morte, palestinese o israeliana che sia, pesa sulle nostre coscienze come un macigno. La Comunità Internazionale ne porta le responsabilità

Ogni morte, palestinese o israeliana che sia, pesa sulle nostre coscienze come un macigno

La Comunità Internazionale ne porta le responsabilità

Ogni morte ci diminuisce!

AssoPacePalestina ritiene che l’assassinio dei tre giovani coloni israeliani sia un crimine che non può essere giustificato e che coloro che  lo hanno commesso non siano certamente “eroi”.

Hanno  tolto la vita a tre persone disarmate e minato  fortemente la causa palestinese, oltretutto nel momento in cui si era formato un governo di  unità nazionale.

Tutto ciò però non giustifica minimamente le rappresaglie messe in atto dal governo israeliano, che per ricercare i tre giovani e trovare i responsabili ha messo a ferro e fuoco un’intera popolazione punendola collettivamente per un crimine commesso da precisi responsabili.

Ogni morte, palestinese o israeliana che sia, pesa sulle nostre coscienze come un macigno.

Pesa sulle responsabilità della Comunità Internazionale che, pur essendo consapevole delle persistenti violazioni delle risoluzione delle Nazioni Unite e dei diritti umani da parte del governo Israeliano, non ne fa pagare il prezzo a Israele, limitandosi a semplici rimbrotti.

Nel leggere le dichiarazioni di Ministri israeliani e dello stesso primo ministro si resta annichiliti per la volontà distruttiva che esprimono.

Demolire le case delle famiglie dei  due presunti colpevoli fa parte di una cultura della vendetta che dovrebbe appartenere al passato tribale, ma di cui Israele è talmente intrisa da applicarla continuamente nella totale impunità.

Fa parte della lucida operazione di distruzione della società e della cultura palestinese l’aver attaccato e distrutto in queste settimane di rappresaglia centri culturali, luoghi di comunicazione, case editrici, archivi.

Quattordicimila soldati sono stati mandati nelle case, nei villaggi e nelle città, distruggendo vite, beni, risorse:  ben dieci persone sono morte, tra cui bambini uccisi durante le incursioni. Erano tutti disarmati. Più di 500 persone sono state sequestrate ed incarcerate.

Nessuno dei nostri uomini o donne di Stato ha rivolto loro un pensiero o ha chiesto ad Israele di fermare la punizione collettiva di un intero popolo.

AssoPacePalestina chiede all’Unione Europea, al nostro governo e a tutte le Istituzioni Internazionali, di non considerare più Israele al di sopra della legge; di  ascoltare e dare forza alle voci che arrivano anche da Israele, come quella dell’ex Presidente del suo Parlamento, Avraham Burg, o quella dei parenti delle vittime israeliane, che si mischia alla voce dei parenti delle vittime palestinesi e chiede di porre fine alla violenza e all’ingiustizia.

E’ l’appello lanciato da palestinesi e israeliani che ritengono che la pace sia possibile e necessaria ai due popoli, ma che la pace non potrà esserci  se la Comunità Internazionale non opererà per la fine dell’occupazione e della colonizzazione della terra di Palestina.

Ed è l’ appello che AssoPacePalestina fa proprio.

AssopacePalestina

www.assopacepalestina.org

info Luisa Morgantini – lmorgantiniassopace@gmail.com

Popoli maledetti dalla storia

Può esistere un popolo maledetto dalla storia, odiato da tutti gli altri popoli? Se gli ebrei pensano di esserlo, fanno del vittimismo. Non può esistere alcun popolo odiato in quanto “popolo”. O almeno questa cosa non può durare per secoli e secoli. Prima o poi si arriva a un compromesso, a un’intesa, anche perché chi viene odiato, si difende, rivendica dei diritti, cerca di dimostrare d’essere migliore di come viene dipinto, e spesso i popoli conquistatori diventano culturalmente conquistati, come gli antichi romani da parte dei greci. Persino tra i popoli dominatori, c’è sempre qualcuno che cerca d’essere o di sembrare migliore degli altri, inducendo questi, in qualche modo, ad adeguarvisi.

I bianchi nord-americani hanno odiato i neri sin dal momento in cui hanno iniziato a sfruttarli come schiavi, ma ad un certo punto sono emersi i diritti civili: diritti rivendicati dagli stessi neri, ma anche diritti rivendicati dalle categorie sociali inferiori dei bianchi. Non importa chi rivendica i diritti, ma che vengano estesi a quanta più gente possibile.

I bianchi nord-americani hanno odiato a morte anche gli indiani, sterminandoli quasi tutti e relegando gli ultimi sopravvissuti nelle riserve, ma poi c’è stato il ripensamento degli anni ’70, il rimorso d’aver compiuto un genocidio insensato, benché ancora oggi si attendano riparazioni e scuse ufficiali.

Finita la seconda guerra mondiale, dopo che gli statunitensi avevano rinchiuso tutti i giapponesi di cittadinanza americana in campi di concentramento, ci si chiese se quella fosse stata davvero una scelta indovinata. Cosa sarebbe successo a quei prigionieri se gli Stati Uniti avessero perso la guerra?

Anche gli aristocratici spagnoli hanno odiato a morte agli amerindi del Sudamerica, ma poi, quando quelli sono divenuti cattolici, han dovuto integrarli, pur non avendo ancora oggi il coraggio di dire che “cinquecento anni bastano”.

I greci odiavano a morte i barbari, ma, in nome del cristianesimo, dovettero ripensarci: saranno i rozzi slavi di Mosca a ereditare la caduta di Costantinopoli. E i romani odiavano a morte i germanici, ma alla fine dell’impero, pur di farlo sopravvivere, furono tolleranti e li assoldavano persino nelle legioni.

I turchi hanno odiato a morte gli armeni e ancora oggi detestano i kurdi, ma se lo scordano di poter compiere impunemente altri genocidi: anzi siamo ancora tutti in attesa che ammettano le loro responsabilità.

E i bianchi sudafricani per quanto tempo hanno odiato i neri del loro stesso paese, che pur costituivano la stragrande maggioranza della popolazione? L’hanno fatto finché hanno capito che, se avessero continuato, sarebbe stata la loro fine. Il mondo va avanti: si cerca anche di migliorarsi, di far progredire la coscienza dei valori umani e non ci si fa venire la puzza sotto il naso sapendo che molti di questi mutamenti possono essere determinati da ragionamenti basati sul calcolo o l’interesse. Non si può essere ciechi e ottusi in eterno, votati pervicacemente al male.

Potremmo anche parlare della rigida divisione in caste esistente ancora oggi in India, pur vietata dalla Costituzione? Per quella cosa nacque il buddismo e l’India non poté impedire la massiccia diffusione dell’islam. E perché tacere dell’odio terribile che i cristiani hanno provato per i pagani e i cattolici per gli ortodossi e i cattolici e protestanti reciprocamente? Per queste cose molta gente ha smesso di credere.

Esempi come questi potremmo farne a decine, forse a centinaia, se prendiamo come lasso di tempo gli ultimi seimila anni. Ci sono popolazioni che vengono odiate come tali, salvo eccezioni particolari, come quando qualcuno rivela un particolare talento e lo mette a disposizione del popolo dominatore. Gli afro-americani, andando a morire nelle guerre di secessione e mondiali, hanno potuto riscattarsi agli occhi dei bianchi razzisti. Questo perché ad un certo punto le cose evolvono, si modificano, anche se viene sempre spontaneo chiedersi da dove venga fuori questo odio atavico tra le popolazioni del pianeta.

La risposta però è abbastanza semplice: l’odio nei confronti di un’intera popolazione è sempre un fenomeno culturale creato consapevolmente dagli organi istituzionali per esigenze di dominio o di salvaguardia dei poteri costituiti.

I motivi per cui ci si comporta così sono molteplici. L’odio di tipo etnico-religioso può p. es. servire per espropriare un’intera popolazione di tutti i suoi beni. Questa cosa viene fatta nello stesso luogo e nello stesso momento, in tutta tranquillità e con grande celerità. L’impunibilità è assicurata. Il potere abitua la società a comportarsi, nello stesso tempo, in maniera immorale e legale. Proprio mentre si fanno vessazioni nei confronti dei propri concittadini di religione o etnia diversa, si sa con certezza di restare impuniti.

Il potere abitua così la popolazione a credere nella relatività del diritto e nell’ideologia della forza, e la popolazione che perseguita preferisce non pensare che questo arbitrio potrebbe un giorno il potere usarlo contro essa stessa.

Quando si perseguita impunemente una popolazione si crea uno stato di tensione, che deve portare a credere che nessuno può essere sicuro di nulla. Le dittature amano quest’ansia quotidiana, questo terrore psicologico che penetra nella coscienza dei cittadini. E pur di evitarlo si è disposti a qualunque compromesso, anche i più vergognosi.

Lo stalinismo e il maoismo, ma in parte anche il maccartismo, usavano questo metodo per eliminare gli avversari politici o intere classi sociali. Il bisogno di creare dei nemici, prima interni, poi esterni, è strutturale a tutte le dittature, proprio perché esse sanno di non avere il diritto dalla loro parte. Pol Pot si concentrò soprattutto a sterminare gli intellettuali.

Quando si odiano intere popolazioni o classi sociali, si fa di tutto per metterle in cattiva luce, per screditarle, e quando l’odio diventa un fenomeno collettivo, ci si sente migliori per definizione, cioè solo per il fatto d’essere dall’altra parte della barricata. La dignità umana non esiste più.

Se si guardano gli ebrei di oggi, quelli residenti in Israele, dobbiamo dire che l’odio nei confronti dei palestinesi è così grande che sono stati disposti a edificare un muro per sentirsi anche fisicamente separati da loro. Hanno dovuto sopportare i ghetti per tanti secoli e ora li fanno subire agli altri. Ma la storia insegna qualcosa o non serve a nulla? Gli ebrei spesso si lamentano d’essere discriminati e odiati da millenni. Ma che cosa fanno loro per non esserlo?

Ogni popolo che odia si sente titolato a farlo in quanto “eletto”, amato da dio o scelto dal destino, e trova sempre le giustificazioni o i pretesti per compiere qualunque tipo di delitto, il primo dei quali è sempre quello, anche se non viene detto pubblicamente: “L’han già fatto altri e nessuno ha detto niente”.

Ecco, forse dovremmo chiederci se e in che misura gli organismi internazionali sono davvero utili a risolvere le controversie tra popolazioni prima che queste si trasformino in conflitti armati. Quale Stato è disposto a rinunciare a parte della propria sovranità per permettere a questi organismi di funzionare secondo il diritto internazionale? Ma con quale pretesa tali organi internazionali possono rappresentare la volontà di tutti gli Stati del pianeta, quando il loro controllo è affidato soltanto alle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale?

La Siria deve cambiare per far largo al gas del Qatar e agli interessi del suo padrone, il fanatico wahabita sceicco Al-Thani già decisivo nella “rivoluzione” libica

Che succede in Siria? Perché la Turchia ha reagito a un non chiaro incidente di frontiera prima con bombardamenti rappresaglia e di recente anche proibendo il sorvolo del proprio territorio a tutti gli aerei siriani, compresi quelli dei voli di linea? E perché l’emiro del Qatar, Al Thani, dal pulpito della 66esima sessione plenaria dell’Onu ha invocato un intervento armato almeno panarabo contro la Siria di Assad? Domande che a quanto pare  hanno una ben precisa risposta: il Qatar vuole esportare il suo gas servendosi dei gasdotti turchi e il governo di Ankara è d’accordo e mira a che l’accordo diventi realtà. Ma andiamo per ordine.

Nei giorni scorsi il quotidiano tedesco Die Welt ha citato un rapporto dettagliato del Bundesnachrichtendienst (BDN), cioè dei servizi segreti tedeschi, il quale rivela che il  95% dei “ribelli” siriani, stimati in poco meno di  15.000 uomini,  è in realtà di origine straniera. Quelli siriani sono appena il 5%.  Ma la percentuale è destinata a calare ancora perché sarebbero in arrivo altri 5.000 mercenari stranieri, compresi uomini di Al Qaeda,  sulla base di accordi tra Paesi occidentali e Arabia Saudita.

Guarda caso, si sta verificando quanto previsto e consigliato al presidente Obama dal think tankSaban Center for Middle East Policy, emanazione della Brookings Institution, che ha sede a Washington. Come abbiamo già fatto rilevare il 27 agosto, il Saban Center è composto da personaggi molto bene inseriti nelle istituzioni politico militari Usa,  compresa la Casa Bianca e la Cia, e per la Siria suggerisce a Obama .  la propria “Valutazione delle opzioni di un cambio di regime”. Opzioni che raccomandano la creazione di zone franche e di corridoi “umanitari”. Lo studio del Saban Center afferma: “E’ possibile che una vasta coalizione con un mandato internazionale possa aggiungere ulteriori azioni coercitive ai suoi sforzi”.  Ecco spiegato perché lo sceicco Al Thani all’Onu ha invocato l’intervento armato multinazionale. Continua a leggere

I trucchi e le manovre degli “esportatori di democrazia” Netanyahu e Al Thani per avere ai piedi l’intero Medio Oriente. Intanto però comincia ad attecchire anche tra israeliani e filo israeliani l’idea di Israele Stato anche dei palestinesi

La 66esima sessione dell’Onu ha visto Netanyahu fare una figura ridicola, da piazzista imbonitore. Dopo 20 anni che si suona l’allarme sulle “bombe atomiche iraniane”, instillando spesso il sospetto che ne abbiano già o le stiano producendo, il piazzista imbonitore Netanyahu, che oltretutto veste come un impiegato del catasto al dì di festa e indossa cravatte di banale mancanza di gusto, il suo allarme lo ha lanciato dicendo che “l’Iran ha terminato la prima fase, entro l’estate 2013 concluderà la seconda e da quel momento in poche settimane consentirà di arrivare all’uranio ad alto potenziale necessario a realizzare un ordigno”. E’ la ripetizione caricaturale della menzogna che Bush figlio ordinò al generale Colin Powell, suo Segretario di Stato,  di raccontare all’Onu per ingannare il mondo intero brandendo una bustina che disse piena dei terribili batteri antrace e cianciando di armi di distruzione di massa accumulate dall’Iraq. Powell però il suo show lo mise in piedi su ordine del suo superiore piazzato alla Casa Bianca, Netanyahu invece lo ha messo in scena di propria volontà, convinto forse che a ordinarglielo sia il suo superiore piazzato nell’alto dei cieli…
Come si vede, nonostante l’ormai ventennale starnazzare “Al lupo! Al lupo!” siamo sempre solo nell’anticamera dell’anticamera del pericolo…. Il piazzista imbonitore di Tel Aviv ha in pratica rimandato all’anno prossimo il molto strombazzato attacco all’Iran, puntando – o sperando – che a scendere in campo affianco all’esercito di Tel Aviv siano soprattutto l’esercito Usa con il contorno della Nato. Come una caricatura del Grande Dittatore di Charlie Chaplin, Netanyahu&C sognano un mondo al loro guinzaglio. Megalomania sorprendente. Oltre che molto pericolosa.
Stessa speranza, o pretesa, pare ce l’abbia l’emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani, monarca assoluto del suo piccolo regno ma straricco di petrolio. Dopo avere avuto il ruolo principale nell'”esportazione della democrazia” in Libia, l’emiro ha tentato il bis in Siria fomentando da mesi, assieme agli Usa, l’Inghilterra e Israele, la rivolta in Siria. Rivolta che vede impegnati non tanto cittadini siriani quanto contingenti di militari e istruttori militari, soprattutto del Qatar, fatti affluire dall’estero, riforniti di armi Usa e affiancati da mercenari strapagati. Dopo mesi di massacri da ambo le parti e di notizie fasulle per spingere l’Occidente a indignarsi e intervenire quindi in armi, l’emiro ha dichiarato a un giornale del Kuwait che “è ora di prendere atto dell’impossibilità di rovesciare il regime siriano”. Motivo per cui Al Thani ritira le sue truppe  e i suoi mercenari dalla Siria e punta sull’intervento degli eserciti dei Paesi del Golfo in blocco più l’Arabia Saudita, sperando inoltre che si muova anche la Nato. E per “spingere” meglio usa la sua formidabile emittente televisiva Al Jazeera per veicolare versioni di comodo e verità pilotate. Continua a leggere

Israele colto con le mani nel sacco delle frottole “atomiche” all’AIEA per spingere alla guerra (anche) contro l’Iran?

Questa volta Israele pare proprio sia stato colto col sorcio in bocca, come si usa dire a Roma di qualcuno beccato con le mani nella marmellata, cioè in flagrante. Un sorcio in bocca per spingere alla guerra contro l’Iran con la solita scusa delle bombe atomiche a gogò, così come il precedente sorcio “atomico” in bocca agli Usa aveva “fruttato” l’invasione dell’Iraq. Anche in quel caso, con i buoni uffici dei servizi segreti israeliani sempre pronti a sfornare dossier debitamente taroccati. Come è noto, l’Aiea è l’agenzia Onu che vigila contro la proliferazione di bombe atomiche, ma solo ed esclusivamente nei Paesi che hanno firmato il Trattato di Non Proliferazione. Israele NON l’ha firmato, perciò le sue centinaia di atomiche se l’è prodotte senza rotture di scatole né denunce o allarmi di un qualche tipo. Peraltro, secondo il libro “L’Iran e la Bomba” di Giorgio Frankel, Israele possiede anche le ben più terribili bombe H e forse anche le bombe N, cioè a neutroni, ordigni che ammazzano gli esseri viventi ma non danneggiano le costruzioni: vale a dire, una forma perfetta di “pulizia” se non etnica quanto meno “nazionale”. Più o meno un anno fa qualcuno ha recapitato all’Aiea un dossier che “dimostrava” come l’Iran fosse ormai a un passo dal produrre ordigni nucleari. Peccato che all’Aiea qualcun altro s’è accorto che nel documento, redatto in lingua farsi, quella più parlata in Iran, ricorrevano termini che nessun iraniano usa più: guarda caso, li usano solo i membri della comunità ebraica locale…. E taciamo sulla “inspiegabile” uccisione di scienziati nucleari iraniani e sul virus informatico che ha paralizzato per qualche mese i computer addetti al controllo e al funzionamento dei reattori nuvleari iranianu tilizzati per produrre corrente elettrica. Guarda caso, qualcuno s’è accorto che nella sequela di termini che componevano il virus ce n’era uno che figura nella bibbia…. Continua a leggere

Ballando sull’orlo della fine dell’Europa: “Venghino, siòri, venghino: dopo le panzane sulle atomiche di Saddam ora vi rifiliamo le panzane sulle atomiche di Gheddafi e di Ahmadinejad”. Così Israele, forse in interessata compagnia di Londra, può realizzare il vecchio sogno di bombardare l’Iran, uno dei due motivi per il quale è stato eletto Netanyahu (l’altro è impedire a tutti i costi che nasca lo Stato palestinese)

E’ difficile da credere, ma ormai viene dato per certo che con la classica scusa della “produzione di bombe atomiche”, sperimentata con successo dagli USA per invadere l’Iraq, Israele attaccherà quanto prima l’Iran, con l’appoggio degli inglesi, per mettere anche la Casa Bianca di fronte al fatto compiuto. Il presidente Obama infatti, per timore di perdere voti, è contrario a una tale azione militare prima della sua rielezione, ma alcuni collaboratori lo esortano invece ad autorizzarla e appoggiarla perché ricompatterebbe l’elettorato riportandolo di sicuro alla Casa Bianca e scongiurando la temuta candidatura di Hilary Clinton, sempre più popolare nell’elettorato non solo del Partito Democratico. E’ dal 2006 che l’attacco militare all’Iran da parte degli Usa e di Israele viene dato per imminente e certo, senza però che sia poi stato sferrato. Ecco per esempio cosa dichiarava nel 2006, poco dopo la terza invasione israeliana del Libano, Seymour Hersh, il famoso giornalista americano che ebbe il coraggio di denunciare il massacro di tutti gli abitanti di My Lai compiuta dai marine in Vietnam e che per primo ha denunciato le torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib:

L’amministrazione Bush era molto direttamente impegnata nel pianificare la guerra libanese-israeliana. Il presidente Bush ed il vice presidente Cheney erano convinti che il successo della campagna militare israeliana in Libano avrebbe non soltanto raggiunto gli obiettivi desiderati da Tel Aviv, ma sarebbe anche servito come preludio ad un possibile attacco contro le strutture nucleari iraniane”.

La scusa è anche oggi quella del “pericolo atomico” iraniano. Nella vulgata corrente infatti l’Iran sarebbe così idiota e suicida da produrre atomiche per affrettarsi a lanciarne già la prima su Israele, nonostante Israele di atomiche ne possieda circa 400 e possa quindi cancellare non solo l’Iran dalla faccia della terra. Senza contare che la signora Clinton ha dichiarato senza arrossire di vergogna che “prima di finire di schierare per il lancio il suo primo missile nucleare l’Iran sarebbe riportato all’epoca delle caverne”, con un olocausto fulmineo di oltre  80 milioni di esseri umani, più o meno quanti ne ha  l’Italia intera. Embé c’è olocausto e olocausto. Quello sulla pelle di 70-80 milioni di iraniani evidentemente per la signora Hilary&C è buono, nonostante sia ben 12-14 volte quello che purtroppo c’è stato davvero per mano dei nazisti. Continua a leggere

Obama e Netanyahu: i palestinesi devono fare solo ciò che conviene a Israele, altrimenti scattano altre rappresaglie

La rappresaglia è arrivata più puntuale di un treno svizzero. “Non resteremo con le braccia conserte verso queste mosse che danneggiano Israele”, aveva avvertito minacciosamente lunedì il premier Netanyahu, molto contrariato per l’ammissione all’Unesco della Palestina, rappresentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Teniamo presente che l’Unesco è l’agenzia creata dall’Onu nel 1946 per occuparsi di educazione, scienza e cultura. Tra i suoi compiti e poteri, anche quello di dichiarare “patrimonio dell’umanità” monumenti, siti archeologici, parchi e anche intere città e metterle così sotto la sua protezione. Meno di 48 ore dopo la minaccia di Netanyahu   il gabinetto ristretto israeliano (i sette ministri più importanti) ha preso una serie di decisioni che è francamente difficile definire eque:
- accelerare la costruzione di 2.000 case per coloni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Di queste nuove abitazioni per israeliani, 1650 saranno costruite nella zona palestinese di Gerusalemme e le altre a sud di Betlemme;
- congelare il trasferimento di fondi palestinesi (dazi doganali e tasse) che Israele è tenuto a raccogliere per conto dell’ANP in base agli accordi di Oslo del ’93;
- minacciare per bocca del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman addirittura la morte definitiva del cosiddetto “processo di pace”, peraltro da sempre frenato proprio dagli israeliani per poter avere tutto il tempo di occupare tramite altri insediamenti di coloni quanta più terra possibile palestinese;
- minacciare il divieto di ingresso in Israele di delegazioni dell’Unesco nonostante sia un organismo dell’Onu. Continua a leggere

“Un pezzo di Palestina è in Libano”

“Un pezzo di Palestina è in Libano”, ci scrive la mia amica Stefania Limiti in questo breve reportage da lei intitolato “Voci dai campi profughi dove si vive in condizioni estreme. Con la grande illusione che Israele, paese che occupa militarmente terre di altri, voglia costruire la pace”. Avrei dovuto partire con Stefania e un gruppetto di volenterosi, ma occuparmi del libro per don Andrea Gallo “Non uccidete il futuro dei giovani!”, che arriva in libreria sabato prossimo, mi ha assorbito talmente da avermi impedito, oltre ad anche un solo giorno di ferie, di tornare in Libano. Leggiamo cosa ci scrive Stefania:

Scrivo questo post di ritorno da Beirut, dove il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila ha portato la solidarietà ai rifugiati della Palestina.
Un pezzo di Palestina è in Libano. Oltre cinquecentomila persone, cacciate dalle loro case nel 1948 e poi nel 1967, vivono in circa dodici campi profughi sparsi nel paese dei Cedri, oggi alle prese con una difficile sfida per difendere la propria indipendenza e per superare l’eredità coloniale.
Nel 2003 l’ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs) calcolava che nel mondo ci sono 9.6 milioni di palestinesi: quasi cinque milioni (4.8 per l’esattezza) quelli della diaspora – una delle grandi tragedie del ‘900 completamente rimossa – che vivono in Giordania, Libano, Siria ma anche in altri stati arabi, Europa e Stati uniti: un milione e centomila vivono in Israele, i cosiddetti «arabo-israeliani», 3.7 quelli che risiedono nei Territori occupati – 380 sono le scuole gestite dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, un dato che segnala la gran quantità di bambini palestinesi costretti ad affrontare lo studio in condizioni di grande difficoltà. Continua a leggere