Questa volta Calderoli ha ragione: la democrazia non si esporta, specie con le armi. Berlusconi e Gheddafi riedizione di Mattei e Mossadeq?

Per una volta l’improponibile Roberto Calderoli ha detto una cosa giusta, anzi sacrosanta: “La democrazia non si esporta!”. Seguito a ruota da Umberto Bossi, grande ammiratore di Luisa Corna, anche lui dell’idea che in Afganistan e in Iraq non c’è proprio nessun motivo per il quale ci debbano stare i soldati italiani. E poiché in Afganistan i soldati occidentali, compresi quelli italiani, ci stanno per (tentare di) tenere sotto tiro delle armi da fuoco e cioè a bada i talebani, che sono afgani a casa loro e non italiani o americani in trasferta, ecco che i titoli dei giornali italiani a me pare siano sballati, l’esatto contrario della realtà: “Soldati italiani sotto tiro in Afganistan”.

Berlusconi nonostante i rischi fatti correre ai “nostri ragazzi” – che se non vestono la divisa e non rischiano la pelle sono sì ragazzi, ma dei quali non frega nulla a nessuno, e meno che mai a Berluscin&C – ha subito ribattuto al duo Calderoli/Bossi dichiarando che “la nostra presenza in Afganistan è irrinunciabile”, seguito dal blablà del ministro degli Esteri, il molto docile Franco Frattini, al quale sarebbe francamente preferibile per vari motivi la Carfagna, che s’è sentito subito in dovere di assicurare che “ai nostri soldati daremo la copertura dei Tornado”. Bravo! Così faremo anche noi, come gli americani, centinaia di vittime civli che non c’entrano niente, in modo da farci odiare pure noi. Un bel risultato, non c’è che dire.
Però Berlusconi ha ragione, la nostra presenza militare in Afganistan è davvero irrinunciabile. Per lui. Se infatti si azzarda a dire all’inquilino della casa Bianca, quale esso sia, che non solo non gli dà gli altri mille soldati chiesti per l’Afganistan, ma ritira pure quelli che già ci sono, ecco che dai capaci archivi della Cia e affini potrebbero (uso diplomaticamente il condizionale…) saltar fuori altro che i nastri della D’Addario o gli scatti del fotografo sardo o le ricevute di Mills.
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Luca sarà gay. Un Laurenti omo firmato Pieraccioni

La “coppia di fatto” esiste da tempo, tutta televisiva. Una coppia così affiatata, spiritosa e celebrata che all’ultimo Festival di Sanremo, a dispetto di una precedente edizione giocata tutta su Paolo Bonolis, si sono ritrovati a duettare proprio come due fringuellini amorosi. La coppia di cui parliamo, neppure a menzionarla è quella formata da Paolo Bonolis e Luca Laurenti. Per evitarvi eventuali rompicapi da “outing”, da quel che sappiamo i due, al momento, restano fermi assertori e frequentatori dell’amore per l’altro sesso. Però Luca, essendo un istrione televisivo molto bravo, pare stia tentando la strada del “solista” e lo fa varcando per la prima volta le porte del cinema. Non certo un divorzio con Bonolis, cui resta legato saldamente da una ferrea amicizia e da un ottimo legame professionale. Laurenti, in questa nuova sperimentazione cinematografica vestirà i panni di un omosessuale nel nuovo film firmato da Leonardo Pieraccioni “Io e Marilyn” che uscirà a Natale.

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Umanesimo integrale (II)

Una cultura è tanto più profonda quanto più riflette dei valori umani universali. Un qualunque altro approfondimento specialistico è rischioso, poiché può diventare artificioso e quindi inutile alla sopravvivenza della specie umana, anzi pericoloso quando viene associato a modelli di comportamenti basati sul primato dell’individuo. Esiste sempre un limite al di là del quale è bene non andare.

Per avere la sicurezza di un rispecchiamento del genere, occorre che il soggetto viva questi valori. La sicurezza può essere solo il frutto di un convincimento interiore prodotto dalla constatazione dei fatti. La scienza può essere solo questa. Si constatano fatti trasmessi di generazione in generazione e ci si convince del loro valore.

Un socialista non può parlare di queste cose senza viverle nello stesso tempo. Anche la scrittura va rivoluzionata. Si deve scrivere solo ciò che può essere usato creativamente. Lenin, in questo senso, è stato un grande maestro. Il suo realismo, il suo senso della concretezza erano assolutamente eccezionali. Ciò che gli difettava era soltanto la capacità di tradurre i valori umani in valori politici, fino al punto da considerare questi subordinati a quelli. Lenin cioè aveva una visione prevalentemente politica della realtà; invece bisogna averla prevalentemente umana.

Lenin ha indubbiamente superato Marx sul piano politico e, con l’analisi dell’imperialismo, anche su quello economico (e l’ultimo Lenin ha aperto la strada al gramscismo, riconoscendo che la rivoluzione poteva essere fatta anche partendo non dalla politica ma dalla cultura: l’importante era realizzare un medesimo obiettivo). Ora però bisogna superare anche Lenin, edificando sulle fondamenta del socialismo democratico (inaugurato dalla perestrojka gorbacioviana) l’esperienza dell’umanesimo integrale (che ovviamente non ha nulla a che vedere con quello delineato da J. Maritain).

Non è dunque più possibile soffermarsi troppo sull’analisi: se la politica è una sintesi dell’economia, l’uomo è una sintesi di tutto. Non ci può più essere analisi senza una proposta risolutiva del problema. La sintesi dev’essere “chiusa” quanto ai presupposti scelti, la cui importanza non può essere relativizzata (p.es. non si può prescindere dalla socializzazione dei mezzi produttivi), ma deve essere “aperta” in rapporto alle soluzioni operative da ricercare. Non esiste mai un unico modo di affrontare al meglio determinati problemi.

Una sintesi “chiusa” deve impedire che uno stesso fenomeno possa essere letto in modi assolutamente opposti (può esistere p.es. una proprietà personale degli strumenti del lavoro, ma non può esistere quella privata, che escluda la proprietà altrui, altrimenti non è neanche il caso di parlare di “socialismo”).

Se e quando si verificano interpretazioni opposte di un medesimo fenomeno, che risulta fondamentale ai fini della sopravvivenza di un collettivo, inevitabilmente le proposte risolutive di determinati problemi non verranno mai prese con la dovuta serietà. Se c’è il relativismo nelle premesse, ci sarà anche nelle conclusioni. E questo tornerà soltanto comodo a chi ha un interesse di parte da far valere contro quelli collettivi.

Ci possono essere proposte diverse sul modo di affrontare uno stesso problema, ma non devono esserci due modi totalmente opposti. I modi possono essere equivalenti, convergenti, paralleli ma non opposti. Quando sono opposti è perché in realtà esistono dei conflitti di classe, degli antagonismi irriducibili, degli interessi antitetici. Magari in forma latente, ma pronti a esplodere.

Naturalmente nessuno potrà impedire che si formi un’opposizione insanabile, ma non si potrà neppure impedire che, nei limiti della democrazia, le si dia aperta battaglia. E’ giusto permettere agli uomini una scelta di campo, ma sarebbe profondamente ingiusto illuderli che la loro libertà consista solo in tale scelta. La libertà va costruita sulla scelta fatta. E chi non la condivide o accetta di stare in minoranza o se ne deve andare altrove.

In questo senso è bene chiarire che un problema non va mai affrontato né prima che si ponga né dopo che si è posto, ma nel mentre si pone. Prima è troppo presto, dopo è troppo tardi. L’uomo deve vivere nel presente. Deve svegliare il passato, che tende ad assopirsi, e deve frenare il futuro, che tende a correre.

Ma allora qual è il senso umano della storia? Ricondurre tutto a unità, perché dall’unità frantumata è nata la divisione e dalla divisione la specializzazione, la quale dell’unità non ha più alcun ricordo.
Dalla divisione sono nate le religioni. Ora, si possono ricondurre a unità le religioni? Dal punto di vista religioso no, ma da quello umanistico sì. Una religione non può essere superata (definitivamente) da un’altra religione, così come un’alienazione non può risolvere un’altra alienazione.

Una religione può essere superata solo se il credente ritrova in essa le origini umanistiche ch’erano state negate agli albori delle civiltà, ma un credente che riesce a trovare nella propria religione le tracce umanistiche da cui essa, stravolgendone il contenuto, è nata, non può che smettere d’essere credente. Può passare da una religione all’altra, ma, alla fine del suo processo evolutivo, dovrà inevitabilmente diventare ateo, poiché l’ateismo è un’espressione naturale dell’umanesimo integrale.

Si badi, qui non si vuole sostenere che la conoscenza sia inutile ai fini del benessere vitale. Per non essere “felici” come gli animali o come i pazzi, occorre sviluppare anche il lato della conoscenza. Il problema semplicemente è: fino a che punto occorre svilupparlo? Quali sono i limiti epistemologici oltre i quali è bene non andare? Esistono delle priorità da salvaguardare per la riproduzione della specie umana?

Da un lato ha torto Qoelet quando dice che la conoscenza non fa che aumentare il dolore; dall’altro però ho torto Ulisse quando vuole oltrepassare le colonne d’Ercole. La conoscenza non può essere fine a se stessa, altrimenti Qoelet ha ragione. E non si può neppure impedire con la forza ch’essa resti legata a un’esperienza in cui non si crede più, altrimenti ha ragione Ulisse. Il fatto che l’unità sia migliore della divisione non implica ch’essa debba essere imposta, altrimenti la divisione sarà sempre legittima. Il primo valore fondamentale da tutelare è la libertà di coscienza.

Umanesimo integrale (I)

Se si vuole conservare la percezione dell’unitarietà dell’esistenza umana, che è poi la risultante della capacità di saper fare, in autonomia, quanto basta per sopravvivere; se si vuole avere uno sguardo d’insieme sulla gestione della vita, mettendo in relazione causale i fenomeni tra loro, cercando soprattutto di avvertire la propria esistenza in sintonia con le esigenze riproduttive della natura e cose simili, non ci può essere un’eccessiva specializzazione della cultura.

La vera cultura sta nel conservare la globalità, l’insieme dei processi vitali del proprio essere, che è sempre un’esperienza collettiva, la quale, a sua volta, non è la somma di esperienze individuali, ma la portante di ognuna di esse. Senza collettivo il singolo è un’astrazione.

E il collettivo non può certo essere lo Stato, come voleva Hegel, che ne aveva fatto una sorta di dio in terra. Il collettivo è tale soltanto in un contesto locale, tale per cui al singolo venga assicurata la percezione della globalità della vita.

La cultura più profonda non è necessariamente legata alla scienza, alla tecnica, alla specializzazione intellettuale, ma, senza escludere aprioristicamente queste cose, anzitutto ai sentimenti umani positivi.

La miglior cultura è quella che educa al miglior comportamento, individuale e sociale. Non ha senso avere una grande cultura intellettuale senza avere una grande pratica esistenziale.

Quando l’approfondimento della conoscenza riflette una condizione di vita alienata, divisa in se stessa, e non riesce a risolvere tale alienazione, significa ch’esso è inutile, anzi nocivo, poiché distrae dal vero bisogno, illude che si possa fare a meno di risolverlo.

Certo, non ha meno senso tentare di abolire ope legis la cultura astratta, però bisognerebbe cercare di non favorirla, promuovendo soltanto quella cultura che serve per soddisfare dei bisogni esistenziali. E quando tali bisogni vengono soddisfatti all’interno di un collettivo, fare una buona cultura potrebbe voler dire aiutare altri collettivi a comportarsi in maniera analoga. A livello mondiale avremmo così tante cose da fare che non ci sarebbe neanche un minuto di tempo per interessarsi di viaggi interplanetari.

Per il bene dell’intera umanità oggi dovremmo chiederci: è forse servito ad aumentare il benessere vitale del genere umano l’aver diviso la conoscenza in tante discipline specialistiche? Se si può ammettere un certo benessere per l’occidente industrializzato, lo si può ammettere anche per il Terzo mondo sfruttato da questo stesso occidente? Si può accettare che una certa cultura rechi beneficio solo a una piccola parte dell’umanità e non serva assolutamente a nulla alla parte restante? Con la cultura specialistica il divario tra Nord e Sud invece di diminuire si è ampliato, facendo aumentare la dipendenza neocoloniale. In questo momento la malnutrizione riguarda oltre due miliardi di persone. Un miliardo di persone non ha neppure da bere acqua potabile. A cosa è servita la nostra cultura specialistica in quest’ultimo secolo?

Ma c’è di peggio. Il benessere che l’occidente ha maturato non s’è realizzato senza effetti collaterali sullo stesso occidente e, di conseguenza, sul mondo intero. Si pensi solo ai sempre più gravi fenomeni d’inquinamento ambientale, all’esaurimento di quelle risorse non rinnovabili su cui s’è voluto concentrare l’utilizzo principale dell’energia, all’alienazione conseguente all’eccessiva urbanizzazione, alle crisi periodiche di sovrapproduzione tipiche del capitalismo, alle speculazioni finanziarie dovute agli eccessi di liquidità sui mercati, alle impennate improvvise della disoccupazione causate dalle crisi economiche e finanziarie, all’esigenza periodica di far scoppiare delle guerre locali per smaltire la produzione di armi e per accaparrarsi, se possibile, le ultime risorse energetiche del pianeta, e così via.

Abbiamo preteso un benessere meramente economico, frutto di ampie conoscenze tecno-scientifiche, senza badare alle sue conseguenze sociali, ambientali e soprattutto umane. Il vero benessere non può essere determinato in alcun modo dal prodotto interno lordo, che è un indicatore quantitativo che in realtà non dice nulla su come gli effetti di questo prodotto vengono redistribuiti alla collettività, per non parlare delle conseguenze non economiche ch’esso ha generato sulle persone e sugli ambienti in cui vivono. Che senso ha essere ricchi di beni materiali (mal distribuiti, per giunta) e poveri di tutto il resto?

La nostra cultura occidentale ha questo fondamentale limite: è umanamente astratta, cioè non è in grado di risolvere i problemi concreti di un’intera popolazione locale senza far leva su risorse che non le appartengono. Noi occidentali ci muoviamo a livello nazionale sfruttando le risorse di popolazioni locali che vivono nel Terzo mondo.

Questa cosa non passa nei mass-media perché non ci torna comodo.
Eppure di esempi se ne potrebbero fare tanti. Prendiamo quello della cioccolata. I nostri paesi l’amano moltissimo. Essa viene prodotta, come materia prima, da singole comunità di villaggio africane e sudamericane, costrette, dai passati rapporti coloniali, a produrre solo questa merce, che viene venduta sui nostri mercati, ai prezzi decisi da noi, e se vogliono anche loro mangiare il cioccolato che producono devono acquistare da noi il manufatto industriale, che ovviamente ha un valore aggiunto di molto superiore. Conclusione? Più loro producono per noi e più s’indebitano. Al danno poi si aggiunge anche la beffa, poiché quando noi decidiamo di usare surrogati chimici per esigenze speculative, quelle comunità, che già avevano perduto la loro autonomia al tempo del colonialismo, si trovano letteralmente alla fame.

In Europa occidentale, al tempo della prima rivoluzione industriale, chi si arricchiva di più: il paese esportatore di lana greggia o quello importatore che la trasformava in tessuto? E quando i coloni americani volevano produrre le stesse cose degli inglesi, essendo della loro stessa nazionalità, con le loro stesse capacità e conoscenze, gli inglesi glielo permisero? Piuttosto che permettergli una cosa del genere furono disposti a perdere tutte le colonie americane. In una situazione del genere un qualunque aumento di “aiuti” alle popolazioni terzomondiali non farebbe che peggiorare la loro situazione.

La nostra cultura risolve problemi fittizi a una ristretta categoria di persone, che non ha problemi urgenti da risolvere. Per il resto essa non fa che illudere che per suo mezzo si possano risolvere i problemi concreti di tutti o che si possa comunque vivere dignitosamente nonostante questi problemi. E’ una cultura “drogata”, che propina miraggi quotidiani.

Non si può superare il limite di questa cultura semplicemente proponendone un’altra. Non ci si può limitare a fare della critica intellettuale. Perché si sviluppi una cultura effettivamente alternativa occorre un’altra esperienza di vita, in cui siano vissuti valori alternativi.

In questo il socialismo utopistico ha fallito e il leninismo ha ritenuto impossibile vivere socialmente e culturalmente dei valori alternativi se prima non si faceva la rivoluzione politico-istituzionale. In mezzo a queste due soluzioni vi è quella di Marx ed Engels, che si sono limitati a compiere un’analisi critica della struttura del sistema e quella di Gramsci, che ha compiuto un’analisi critica della sovrastruttura.

La vera cultura è solo quella che riflette valori autentici, perché realmente vissuti. E’ rischioso fare una rivoluzione politica se essa non nasce da un’esperienza che almeno in nuce già si presenti come prototipo della futura società. E’ più facile dimostrare politicamente la giustezza di determinati valori che non farlo sul piano sociale. Solo alla fine della sua vita Lenin aveva capito che non poteva trattare i contadini come una classe sottosviluppata. Il socialismo, in occidente, è nato come ideologia di intellettuali radicali borghesi, il cui elemento popolare era la classe operaia e si è sviluppato come politica riformistica (di aggiustamento delle contraddizioni del capitalismo) il cui elemento popolare sono diventati i ceti medi. Là dove il socialismo è andato al potere non ha rappresentato fino ad oggi un’autentica alternativa al capitalismo.

Non è possibile infatti creare alcuna alternativa vera al capitalismo se si prescinde dalla terra, cioè da un’esperienza in cui la terra permetta l’autoconsumo, che è la forma opposta dell’economia basata sul mercato e quindi sul valore di scambio.

Ma perché un’esperienza di socialismo agrario sia davvero politicamente “produttiva”, occorre che venga creata con l’intenzione di svilupparla come modello, di estenderla geograficamente, realizzando una rete che si ponga l’obiettivo di modificare radicalmente il sistema.

Una cultura alternativa deve essere anche politicamente rivoluzionaria, basata su un’esperienza sociale concreta, praticabile. La domanda in sostanza è: si può recuperare l’esperienza del socialismo utopistico in una direzione analoga a quella dell’autoconsumo pre-borghese (ovviamente senza alcuna forma di servaggio) all’interno di una società come quella capitalistica? In che misura questa esperienza può porsi in maniera alternativa al sistema borghese? Quali possono essere le sue condizioni di sopravvivenza?

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (X)

Chiusa la parentesi sul cristianesimo in epoca romana, qui si può concludere il discorso sullo schiavismo dicendo che le popolazioni cosiddette “barbariche”, quando entrarono nell’impero, non fecero altro che mettere in pratica un disegno di umanizzazione risalente alle loro origini clanico-tribali. Un disegno che per realizzarsi, senza l’apporto del cristianesimo, avrebbe sicuramente richiesto tempi molto più lunghi.

“In nome di Cristo morto e risorto – diceva Paolo – non c’è più né schiavo né libero”. Tutti i cristiani sono moralmente liberi di fronte a dio, anche se nella vita reale permangono le differenze di classe. Un discorso del genere, una volta che il cristianesimo avesse dimostrato socialmente la propria superiorità sulle religioni pagane, non avrebbe potuto non influenzare i rapporti produttivi.

L’incontro coi barbari fu, da questo punto di vista, una vera fortuna per il cristianesimo, poiché gli avrebbe permesso di trovare più facilmente un appoggio non solo di tipo politico-istituzionale (che già aveva ottenuto con Teodosio), ma anche sociale, in quanto i barbari non avevano mai usato lo schiavismo come organizzazione produttiva dell’intera società. Il cristianesimo poteva continuare a esistere ancora per molti secoli, pur avendo ingannato gli schiavi con la dottrina della liberazione ultraterrena.

Dal canto loro i barbari, pur essendo di religione pagana, non ebbero alcuna difficoltà ad accettare una religione che assicurava loro la pace sociale. All’inizio fecero solo differenza tra arianesimo (in cui lo Stato sottomette a sé la chiesa) e ortodossia (in cui vige la diarchia dei poteri); successivamente, nella parte occidentale dell’impero, si trovarono costretti a scegliere tra Stato confessionale e teocrazia pontificia.

Insomma, una cosa è sfruttare qualcuno in nome della forza militare (schiavismo); un’altra è sfruttarlo col placet della fede religiosa (servaggio); un’altra ancora è farlo sotto il pretesto del diritto borghese (lavoro salariato); l’ultima che conosciamo, infine, è quella di chi usa un ideale socialista gestito in maniera esclusiva dallo Stato (cosa che trasforma la sudditanza in una questione anche di coscienza).

Quale marxista arriverebbe mai ad ammettere che in Russia il socialismo statale è crollato proprio a motivo delle tradizioni cristiane, le quali hanno potuto dimostrare che il loro ideale religioso era superiore a quello laico dello stalinismo? E chi arriverebbe ad ammettere che la stessa cosa non è potuta accadere in Cina proprio perché qui le suddette tradizioni non hanno mai messo solide radici? Quando tradizioni più che millenarie considerano l’essere umano un mero prodotto di natura, per quale motivo dovrebbero perorare con forza la causa della democrazia per rimediare ai guasti del socialismo di stato? Non è forse sufficiente che la dittatura politica aumenti gli spazi di manovra della libertà meramente economica?

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (IX)

Che un cambiamento di mentalità, che mezzo millennio fa voleva dire compiere una riforma protestante, fosse necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo, lo dimostra non solo il fallimento dell’operazione colonialista di Spagna e Portogallo, ma anche il collasso del proto-capitalismo nell’Italia comunale e signorile.

L’Italia era partita per prima proprio perché il livello istituzionale della chiesa romana era così corrotto da non poter legittimamente impedire l’affermarsi del profitto sulla rendita feudale. Ma quando questo profitto pretese una contropartita politica, la chiesa, appoggiata dall’impero reazionario di Carlo V, fece presto a fare dietrofront. Anche Marx s’era accorto di un ritorno italiano all’orticoltura (cioè all’autoconsumo), dopo la parentesi comunale e rinascimentale, ma invece di metterla in rapporto alla controriforma, si limitò a parlare di mancata unificazione nazionale e di spostamento dei traffici commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, senza rendersi conto che la Spagna già unita trafficava tranquillamente sull’Atlantico e non per questo divenne capitalistica.

Anche quando esaminava l’economia imperiale romana, Marx si chiedeva il motivo per cui non nacque in questo periodo uno sviluppo di tipo capitalistico, visto che quello commerciale era molto fiorente, e citava l’episodio di quell’imperatore che puniva chi proponeva migliorie a livello tecnico-produttivo, sulla base del fatto che ciò, diminuendo la necessità di avere degli schiavi, avrebbe portato ad aumentare le file dei vagabondi da mantenere con la pubblica assistenza.

Marx s’era reso conto che non era solo questione di basso livello produttivo, ma anche di mentalità. Nel mondo romano dominavano i mercati, i commerci, ma questo non fu sufficiente a far scattare dei processi di tipo capitalistico. Capì che il paganesimo non era in grado, culturalmente, di opporsi allo schiavismo e intuì persino che, col proprio culto astratto dell’uomo, il cristianesimo avrebbe potuto in qualche modo favorire la nascita di un modo di produzione i cui contraenti, sul mercato, fossero formalmente liberi. Ma non arrivò mai ad approfondire questa cosa.

Cioè non arrivò a capire che il passaggio dallo schiavismo al servaggio sarebbe avvenuto anche senza l’apporto delle tribù germaniche e slave, che pur non avevano mai conosciuto lo schiavismo come sistema sociale di vita. Era la stessa ideologia cristiana che, facendo diventare cristiani sia lo schiavo che il suo schiavista, portava inevitabilmente a una trasformazione dei rapporti produttivi, a una attenuazione dei precedenti rapporti di forza.

Ma prima di parlare del ruolo del cristianesimo nella società romana, bisogna precisare alcune cose sullo schiavismo.

Il fatto che ad un certo punto cominciassero a venir meno gli schiavi a causa delle limitate guerre di conquista (già agli inizi dell’impero si pensava soprattutto a difendere i confini acquisiti), non può essere considerato un motivo sufficiente per indurre i romani a trasformare la schiavitù in colonato. In teoria l’effetto avrebbe anche potuto essere opposto (quando vi sono delle dittature, la ferocia aumenta all’aumentare della percezione del crollo): sarebbe stato del tutto naturale, visto che gli schiavi a disposizione erano gli ultimi acquistabili sui mercati, peggiorare le loro condizioni di lavoro (già molto tempo prima che i barbari penetrassero nell’impero erano gli stessi cittadini romani liberi, residenti nelle zone di confine, a chiedere la loro protezione).

Lo Stato romano incrementò le persecuzioni anticristiane (le più dure furono sotto Diocleziano) anche per continuare ad avere una manodopera schiavile a bassissimo costo. Anche la legislazione contro i debitori insolventi era drasticamente peggiorata.

Basta questo dunque per capire che non sono sufficienti dei semplici fatti, nudi e crudi, a modificare dei comportamenti consolidatisi nel tempo (qui in relazione ai rapporti produttivi). Occorre qualcos’altro, di tipo immateriale, non facilmente reperibile nelle fonti scritte, che di regola venivano prodotte dagli stessi schiavisti di quel tempo, e dai loro lacché.

Uno schiavista non avrebbe mai potuto parlar bene del cristianesimo e, nel contempo, chiedere che l’istituto della schiavitù subisse ulteriori restrizioni, a causa della penuria di schiavi sui mercati delle conquiste militari.

Il rapporto struttura/sovrastruttura consiste in due pesi che sui piatti della bilancia hanno uno strano rapporto: quello che dovrebbe essere più pesante, la struttura, che si vede a occhio nudo, in ultima istanza pesa meno di quello che nell’altro piatto neanche si vede e che può essere soltanto immaginato.
La necessità, di per sé, non determina atteggiamenti univoci, proprio perché gli esseri umani sono caratterizzati anche dalla libertà, la quale, entro certi limiti di circostanza, trasforma la necessità in possibilità. L’uomo si trova, ad un certo punto, a dover scegliere tra possibilità opposte e finisce col propendere per l’una o per l’altra, a seconda del credito che dà a questa o quella cultura o ideologia. Naturalmente per “cultura” si devono intendere quelle idee che cominciano ad affacciarsi alla pubblica considerazione, che cioè cominciano a interessare vasti strati sociali.

Detto questo, bisogna dire che non ha senso affermare che il cristianesimo non ha influito minimamente sulla trasformazione dello schiavismo in servaggio, in quanto non aveva nulla di politicamente rivoluzionario (a favore degli schiavi). Il fatto che un’ideologia religiosa fosse politicamente conservatrice non significa che socialmente e culturalmente fosse indifferente alla condizione schiavile.

Basti pensare a due cose:
1. Gesù Cristo veniva sì considerato di origine divina, ma veniva anche considerato simile a uno “schiavo” che si auto-immola per redimere gli uomini dai loro peccati, il primo dei quali era stato quelle edenico, che aveva per sempre impedito la riconciliazione degli uomini col loro dio (un dio che, con linguaggio più laico, va inteso il comunismo primitivo);
2. il lavoro veniva considerato in maniera altamente significativa, al punto che Paolo arriverà a scrivere, nelle sue lettere, che chi non lavora non ha diritto a mangiare. Lui stesso aveva sempre cercato di non essere di peso a nessuno.

E’ evidente che fino a quando il cristianesimo non divenne la religione più importante dell’impero, le fonti ufficiali non potevano ammettere che questa religione, dopo tre secoli di permanenza nei grandi centri urbani, era riuscita a influenzare, in qualche modo, i rapporti tra padroni e schiavi. Quando un’ideologia è politicamente minoritaria ma socialmente rilevante, è naturale ch’essa possa esercitare una certa influenza sulla mentalità dominante. Si tratta di un’influenza che non può essere ammessa in maniera pubblica, ma che non per questo risulta insignificante.

Per poter interpretare adeguatamente i fatti storici, sarebbe sciocco basarsi esclusivamente sulle fonti che ce li hanno tramandati. E’ dunque inevitabile ipotizzare delle linee di tendenza che nelle fonti non possono risultare chiare e distinte. Prendiamo p.es. il passaggio epocale dal principato di Costantino a quello di Teodosio. Com’è stato possibile che in meno di 70 anni si sia passati ad una trasformazione del cristianesimo da religione “tollerata” a religione “privilegiata”?

E’ evidente che il passaggio è potuto avvenire solo perché il cristianesimo aveva già acquisito a livello sociale e culturale un’enorme credibilità. Ma se andiamo a esaminare le fonti pagane coeve, dove risulta questa credibilità? Le persecuzioni erano durate apertamente fino a Diocleziano (305).

Se il cristianesimo fosse stato semplicemente una “religione” e non anche una “cultura” e un'”esperienza sociale”, non solo non ci sarebbe stato l’Editto di Teodosio (380), ma neppure quello di Costantino (313). L’Editto di Milano infatti era stato fatto proprio perché il cristianesimo non era una religione come le altre, ma qualcosa che lo Stato romano guardava con sospetto e diffidenza. Qualunque religione pagana era già tollerata: perché emanare un editto specifico per dire che anche il cristianesimo lo era? Evidentemente perché non si poneva come una semplice religione.

E il fatto che Teodosio, nel 380, arrivasse a considerarla come l’unica religione lecita, rovesciando completamente la situazione precedente, sta appunto a dimostrare che gli imperatori non avevano mai considerato il cristianesimo come una semplice “religione”. Nessuna religione era mai stata perseguitata per tre secoli. In ogni caso nessuna avrebbe mai potuto resistere a una persecuzione così prolungata.
Le persecuzioni avvenivano per motivi squisitamente politici, pur sapendo che il cristianesimo non voleva affatto porsi come movimento rivoluzionario anti-schiavista. Dunque gli aspetti pre-politici (il sociale e il culturale) davano non meno fastidio di quelli politici.

Soltanto quando si resero conto che le persecuzioni non solo non servivano a nulla ma anzi facevano incrementare le fila degli adepti a questa confessione, gli imperatori intrapresero la strada opposta: prima, con Costantino, cercando di dimostrare che lo Stato pagano non temeva alcuna religione, neppure quella cristiana; poi, con Teodosio, facendo vedere che lo Stato era persino disposto a fare del cristianesimo l’unica religione lecita. Cosa che sarebbe stata letteralmente impossibile se il cristianesimo non fosse già stato un’ideologia dominante nel tessuto sociale.

Il grandissimo torto del cristianesimo non fu ovviamente quello di aver accettato l’Editto di Milano, ma quello di aver accettato l’Editto di Tessalonica. E’ appunto a partire dal 380 che inizia la corruzione politica di questa confessione.

Oggi col socialismo ci troviamo in una situazione per certi versi analoga e per altri opposta. Esso non è ancora entrato nella cultura dominante borghese (anche se l’esperienza che più gli si avvicina è quella dello “Stato sociale”), proprio perché nei suoi confronti persiste la diffidenza.

D’altro canto bisogna indurre gli Stati borghesi ad accettare nelle loro Costituzioni la fine della religione di stato, la fine della religione maggioritaria, un vero pluralismo confessionale, in cui nessuna religione possa fruire di particolari privilegi, e soprattutto l’inserimento del diritto a non avere alcuna religione, ovvero il diritto all’ateismo.

Gli episcopali Usa vogliono gay e lesbiche a celebrare

C’è aria di bufera e pericolo di scisma per gli anglicani dopo che una parte della chiesa episcopale ha stilato un documento dove si incoraggia a ordinare nuovi sacerdoti e vescovi, gay e lesbiche. La questione non è nuova e le diatribe più incandescenti avvennero col clero africano, più tradizionalista di quello europeo e americano, tanto che in molti lasciarono e qualcuno tornò alla chiesa di Roma.

Durante un’assemblea generale svoltasi a sud di Los Angeles, i due organi decisionali della chiesa episcopale statunitense hanno approvato a larga maggioranza la risoluzione, dichiarando tra l’altro:

«<em>Dio ha chiamato e può chiamare gay e lesbiche ad ogni ministero ordinato nella chiesa episcopale. L’appartenenza alla chiesa episcopale include le coppie dello stesso sesso che vivano relazioni stabili, caratterizzate da fedeltà, monogamia, mutuo affetto e rispetto, cura reciproca</em>».

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Schiavismo e religione

Mi è stato chiesto di delineare i rapporti organici tra schiavismo e religione. Ma su questo argomento esiste già molta pubblicistica in giro, anche in rete: p.es. quest’ottimo intervento di Odifreddi

www.materialismo.it

In sintesi si potrebbe dire che la religione nasce con lo schiavismo come forma di compensazione astratta a una concreta libertà perduta. Ci si inventa un padre generoso e comprensivo nei cieli quando sulla terra si è dominati da un padrone avido e crudele. E il dio-padre diventa tanto più duro nel far rispettare la propria volontà, quanto più l’interpretazione della stessa viene sottratta al popolo e delegata a un personale specializzato (i sacerdoti), che pretende di stabilire in proprio il confine tra bene e male.

Nel Genesi appare chiarissimo che in assenza di schiavismo il dio non è altro che un compagno dell’uomo e della donna, uno che passeggia tranquillamente nel giardino insieme a loro.

Ma la cosa più interessante su cui riflettere è in realtà un’altra: l’ateismo del Cristo.

Su questo tema rimando a un commento scritto non molto tempo fa e dove dimostro non solo che Cristo era ateo ma anche che ebraismo e cristianesimo sono, seppure in parte e nei limiti epistemologici della religione, due forme di ateismo.

CRISTO ATEO O FOLLE?

Commento al capitolo V del vangelo di Giovanni

www.homolaicus.com/nt/vangeli/cristo_ateo.htm

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (VIII)

Bisogna fare attenzione a distinguere non solo l’economico dall’ecologico, non solo il sociale dall’economico, ma anche il sociale dallo statale. Quando il “socialismo reale” parlava di “Stato di tutto il popolo” non si rendeva conto di affermare una contraddizione in termini: un popolo padrone dei propri mezzi produttivi non ha bisogno di alcuno Stato, essendo in grado di autogestirsi.

Bisogna fare attenzione a questa differenza, proprio perché mentre si parla di “socialismo statale” si può negare completamente la democrazia. Anzi, bisogna addirittura stare attenti che la democrazia che si vive al proprio interno sia effettivamente un prodotto autoctono e non il frutto di un rapporto di sfruttamento con l’esterno.

Sarebbe davvero curioso vedere una comunità dividere equamente i redditi al proprio interno, mentre al proprio esterno compie un’opera di saccheggio o di sfruttamento di comunità più deboli. Sotto il capitalismo vi sono p.es. alcuni paesi in cui il pil pro-capite è molto elevato e la disoccupazione praticamente nulla, soltanto perché essi costituiscono dei “paradisi fiscali” per altri paesi molto più forti sotto vari indici.

Insomma, basta poco per capire che non è possibile testare il livello di democraticità di una comunità senza considerare i suoi rapporti con realtà ad essa esterne. Eppure uno dei limiti del Capitale di Marx è stato proprio quello di non aver messo subito in relazione la nascita del capitalismo in Europa occidentale con la nascita del colonialismo nei continenti extra-europei.

E’ vero il capitalismo non nacque nei primi due moderni paesi colonialisti: Spagna e Portogallo, in quanto senza riforma protestante esso avrebbe fatto fatica a svilupparsi, checché ne pensasse Marx, che tutta la vita si chiese il motivo per cui a parità di condizioni materiali favorevoli al valore di scambio, il capitalismo finì coll’imporsi solo in Europa occidentale. Egli in realtà aveva intuito che doveva esserci un legame con la riforma protestante, ma si astenne dall’approfondirlo.

Tuttavia il limite di fondo del Capitale non sta solo in questo mancato approfondimento culturale, ma anche nel fatto che non si mise sufficientemente in luce che senza il colonialismo, il capitalismo non avrebbe potuto avere l’impeto che ebbe. Nel suo Imperialismo Lenin si guardò bene dal tenere separati capitalismo e colonialismo.

Con la riforma protestantica il capitalismo poté affermarsi a livello nazionale, ma senza colonialismo sarebbe presto collassato a causa delle proprie interne contraddizioni. Sono state infatti le colonie ad assorbire le maggiori contraddizioni europee, con la differenza che mentre le cattolicissime Spagna e Portogallo, col loro background feudale, non seppero approfittarne per compiere una rivoluzione borghese, viceversa Olanda, Francia e Inghilterra poterono iniziare da qui, grazie anche alla riforma protestante, il loro dominio mondiale, e l’avrebbe fatto anche la Germania, se invece di reprimere le rivolte contadine le avesse favorite contro i feudatari.

Quando lo sviluppo capitalistico degli ultimi paesi europei che avevano raggiunto l’unificazione nazionale: Italia e Germania soprattutto, rese indispensabile rivedere la ripartizione delle colonie, operata da Francia e Inghilterra (seguita da Stati Uniti e Giappone), inevitabilmente scoppiarono ben due guerre mondiali.

Questo per dire che un qualunque sviluppo capitalistico interno a una nazione ha necessariamente un riflesso nei rapporti che questa nazione ha con l’esterno, ed è un riflesso particolarmente negativo per le esigenze della pace. Un paese capitalistico è necessariamente un paese sfruttatore di risorse che non gli appartengono o comunque di risorse che, se anche gli appartengono per motivi storici, non dovrebbe sfruttare senza alcun rispetto per l’ambiente.

Non a caso quando un paese s’accorge che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse interne non è più sufficiente per garantire un certo sviluppo del capitale, scatta necessariamente l’esigenza di conquistare territori altrui. Russia Cina India Brasile… si stanno in questo momento candidando per far scoppiare una nuova guerra mondiale: l’intenso sfruttamento delle loro risorse interne, per quanto grande sia l’estensione dei loro territori, non potrà certo essere illimitato.

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (VII)

Se c’è stato un progresso dal feudalesimo al capitalismo, lo si può notare a livello di concezione della vita, che da religiosa è divenuta laica. Il che però non dice nulla sul carattere “democratico” di una società, in quanto, in astratto, può essere più democratica una società religiosa che non una laica.

E’ difficile sostenere che lo stalinismo sia stato più democratico dello zarismo solo perché era ateo, o che il capitalismo è socialmente più democratico del feudalesimo solo perché possiede un parlamento, un sistema di votazione ecc. o solo perché è culturalmente più “laico” (che poi, a livello istituzionale, è soltanto “meno religioso”). Senza la democrazia, la laicità è soltanto una concezione di vita, al pari di altre. Oggi non abbiamo neppure un concetto di vera “democrazia”, figuriamoci se possiamo averne uno di vera “laicità”. Continuiamo a parlare di “Stato laico” senza renderci conto che la laicità può essere soltanto un prodotto della “società civile”, di cui lo Stato deve semplicemente limitarsi a prendere atto.

E’ fuor di dubbio, tuttavia, che senza uno sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica e ovviamente dell’industrializzazione (che ha comportato una netta subordinazione delle risorse naturali agli interessi umani), difficilmente si sarebbe sviluppato il laicismo. L’altra possibilità sarebbe stata quella di vedere i contadini emanciparsi dal servaggio per affermare la proprietà comune dei mezzi produttivi, conservando ovviamente l’autoconsumo. Ma le rivolte contadine non sono mai arrivate a ripristinare la situazione del comunismo primitivo, né vi sono riusciti i movimenti ereticali pauperistici.

E’ anche vero che siccome il moderno laicismo è di natura borghese (e quindi non popolare ma di classe), la sua coerenza è molto relativa, avendo la borghesia ancora bisogno dell’appoggio delle chiese contro la resistenza dei lavoratori allo sfruttamento.

Il vero laicismo è soltanto quello connesso all’abolizione della proprietà privata e all’uso sociale dei mezzi produttivi, senza artificiosi intermediari, il primo dei quali è appunto lo Stato. Quando l’uomo è padrone dei mezzi produttivi non ha bisogno di cercare in una realtà a lui esterna il surrogato alle proprie frustrazioni. Ecco perché il comunismo primitivo era naturalmente ateo; ecco perché la religione nasce col sorgere dello schiavismo.

Lettera aperta al capo del nostro governo. Più una breve considerazione sulla espulsione di Israele dalla Federazione mondiale dei sindacati dei giornalisti

Egregio signor Primo Ministro Silvio Berlusconi,

Lei ha dichiarato che “il nostro intervento in Afganistan è necessario”, così come a suo tempo ritenne necessario anche quello in Irak, che s’è visto essere invece niente affatto necessario. Non all’Italia, almeno. Desidero chiederle anche a nomi dei miei lettori perché mai, se è davvero così convinto della necessità di mandare nostri soldati a combattere nel lontano e non domabile Afganistan non ci manda Suo figlio Piersilvio. So bene che la patria potestà non è più quella di una volta, e che Lei quindi non può disporre di Suo figlio come le pare e piace, però potrebbe invitarlo pubblicamente a dare l’esempio. Per una volta tanto, anziché il solito “Armiamoci e partite!” noi italiani saremmo felici di ascoltare finalmente un inedito “Armiamoci e partiamo!”. So che lei non è uomo cinico, e che mai approfitterebbe di situazioni drammatiche per farsi pubblicità, per giunta sulla pelle di un suo familiare, però provi a pensare quale meraviglioso “effetto collaterale” avrebbe per Lei la partenza di Suo figlio soldato per l’Afganistan. Mi consenta: mica pizza e fichi!
In caso Piersilvio fosse contrario, Lei potrebbe far varare subito un’altra legge ad personam per risolvere il problema. E per rendergli più confortevole il soggiorno da bravo nostro “ragazzo in divisa” nel lontano Afganistan Lei potrebbe dotarlo anche di una bella scorta di escort. Non trova? Se fa un’altra telefonata al Suo devoto amico Giampy Tarantini vedrà che sarà felice di procuraLe anche questa “torta” e altre ancora alla bisogna.
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A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (VI)

Tornare al comunismo primitivo per noi oggi vuol dire tornare a una proprietà comune dei mezzi produttivi, in nome del primato del valore d’uso, favorendo la sinergia tra agricoltura e allevamento. L’industrializzazione deve essere ridotta al minimo indispensabile (a una forma d’artigianato), in quanto i suoi prodotti, in genere, ledono il diritto della natura alla riproduzione. Noi dovremmo ammettere soltanto l’industria di quei prodotti naturali visibili a occhio nudo. Scavare in una miniera o nelle profondità della terra è già indizio di civiltà, e noi dalla civiltà dobbiamo uscire.

E’ curioso notare come quanto più forti sono le contraddizioni sociali, tanto più si vanno a cercare risorse nelle profondità della terra. Gli indiani d’America, prevalentemente nomadi, si rifiutavano di praticare persino l’agricoltura, poiché temevano di “ferire la terra”. In effetti, quanto più siamo andati in profondità, tanto più abbiamo devastato la natura, e questa è stata tanto più devastata quanto più s’è cercato di trovare risorse energetiche equivalenti a quella solare, minacciando seriamente (l’abbiamo visto col nucleare) la stessa sopravvivenza umana.

Il criterio di alto o basso livello delle forze produttive non dà alcun vero indicatore circa il “benessere sociale” di una comunità umana. Non può essere un criterio economico di quantità a determinare il criterio sociale di qualità di un collettivo umano. Il socialismo scientifico ha ereditato dall’economia politica borghese un concetto di “benessere” che coincide troppo con “produttività” e molto poco con “socializzazione”. Più importante dell’economico non vi è solo l’ecologico ma anche il sociale.

Se un uomo primitivo potesse leggere quel che di lui oggi gli storici dicono, e cioè che essendo molto basso il livello produttivo del suo lavoro, era di conseguenza molto precario tutto il resto, ci obietterebbe facilmente che tutto è relativo. Un livello molto alto di produttività non solo non garantisce maggiore democrazia e maggiore ambientalismo, ma, stando ai risultati storici, si dovrebbe sostenere proprio il contrario: qualcuno (i più deboli) e qualcosa (la natura) hanno pagato caro il “benessere” esagerato che altri hanno voluto vivere.

Infatti un alto livello produttivo non può basarsi sul necessario (come nell’autoconsumo) ma sul superfluo, non può capire la fatica ma solo la comodità, non è interessato a risparmiare ma a sperperare, antepone sempre l’interesse individuale a quello collettivo, nonché l’artificioso macchinismo alla riproduzione naturale delle cose. Ecco perché diciamo che tutto quanto esula dall’autoconsumo va considerato come frutto di un’alienazione sociale, di uno sradicamento dalla terra.

Bisogna inoltre fare molta attenzione alle origini materiali del “benessere sociale”, che non può dipendere in alcun modo da fattori esterni (esogeni) alla comunità locale. Se una comunità è “benestante” semplicemente perché commercia con altre comunità, possiamo stare sicuri che prima o poi tra queste comunità scoppierà una guerra. Venezia, p.es., fruiva di rapporti commerciali privilegiati con Bisanzio, ma questo non le impedì di saccheggiarla orrendamente nel corso della quarta crociata.

Se il livello del benessere non dipende prevalentemente da fattori interni (endogeni) alla sopravvivenza della comunità locale, è inevitabile il ricorso alla guerra. Chi imposta il benessere sul commercio, aspira ad aumentarlo di continuo e non tollera in alcun modo variazioni che ne limitino la portata.

Si dirà che le crociate sono scoppiate quando ancora in Europa occidentale dominava l’autoconsumo. Sbagliato. Le crociate sono avvenute quando l’inizio dello sviluppo borghese era avvenuto in modo tale da togliere all’autoconsumo le sicurezze che aveva avuto un tempo. Alle crociate parteciparono sia i contadini affamati che i borghesi e i latifondisti loro affamatori.

La pace tra una comunità e l’altra può essere garantita solo se è nettamente prevalente l’autoconsumo, mentre il commercio va limitato alle eccedenze o al superfluo. Non può riguardare neppure quelle cose ritenute essenziali che non si riescono a produrre in quantità sufficiente: anche se queste cose fossero pochissime, sarebbero comunque sufficienti a minare l’indipendenza di una comunità.

La mancanza di elementi essenziali alla propria sopravvivenza ci rende facilmente ricattabili, esposti alle mire espansionistiche altrui. La proprietà collettiva dei principali e fondamentali mezzi produttivi deve esser tale da garantirci la riproduzione senza l’aiuto di forze esterne. A meno che la dipendenza non sia assolutamente reciproca: p.es. gli allevatori possono aver bisogno degli agricoltori e viceversa. E’ però difficile, anche se non impossibile, che una comunità possa fare affidamento, per assicurarsi la sopravvivenza, alla volontà di membri che non le appartengono, pur sapendo che questi sono costretti a comportarsi nella stessa maniera.

Quando prima si diceva che occorre tornare al comunismo primitivo, passando eventualmente per l’autoconsumo feudale, s’intendeva appunto escludere che il feudalesimo sia fallito a causa dell’autoconsumo, come spesso sostengono gli storici: il feudalesimo è fallito per il servaggio e per il clericalismo che gli era connesso in maniera ideologica.

Il servaggio ha portato a cercare un’alternativa non solo a se stesso, ma anche all’autoconsumo: il libero mercato (libero perché formalmente o giuridicamente i contraenti, che comprano e vendono, sono liberi, si sentono equivalenti). Un’alternativa che in realtà non ha fatto che produrre nuove contraddizioni antagonistiche, ancora più gravi delle precedenti.

Lo sviluppo del capitalismo non ha costituito alcuna vera alternativa all’autoconsumo medievale, anche perché ha fatto pagare le proprie conseguenze al mondo intero. L’illusione di una libertà individuale, connessa all’uso della scienza e della tecnica, nonché all’accumulo di capitali facili attraverso l’industria o il commercio, è stata la tentazione n. 1 che ha provocato la morte dell’innocenza originaria dell’autoconsumo.

E’ la Rai, bellezza! Nella più grande azienda pubblica italiana giornalismo fa troppo spesso rima con servilismo, si tengono al loro posto i Minzolini e le Sciarelli ma si silurano di colpo i Balducci del Tg3. E’ la Rai della vergogna e della “pro stitùtio”, descritta bene da Denise Pardo nel suo bel libro “La piovra Rai”

Ma dove siamo arrivati! Augusto Minzolini, il mister Bavaglio del Tguno resta al suo posto perfino dopo le risibili spiegazioni fornite pubblicamente per giustificare la sua ingiustificabile censura sulle faccende delle escort, chiamiamole piamente così, al servizio della fregola  capo del governo, vicenda che ha fatto il giro delle principali testate dell’intero Occidente. Invece Roberto Balducci, vaticanista del Tg3, è stato di colpo sollevato dall’incarico per una battuta neppure sul papa, ma su chi ha ancora la pazienza di starlo ad ascoltare. Battuta che per giunta non ha nulla a che vedere con l’espressione minimizzatrice comunemente usata quando si parla di “quattro gatti”, bensì legata a quanto detto dallo stesso papa sui gatti che gli fanno compagnia in vacanza, particolare che peraltro non vedo chi possa interessare. Fedeli va bene, ma che anche il papa si dia alle battute in stile tra il berluscone e il
criptico è un po’, come dire, dissacrante. O no?
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A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (V)

I comunisti oggi difendono lo status quo dell’industrializzazione borghese, senza rendersi conto che non può assolutamente bastare la socializzazione dei mezzi produttivi per assicurare la realizzazione di un socialismo davvero democratico. Non ci può essere alcuna vera democrazia contro le esigenze riproduttive della natura.

Con lo stalinismo abbiamo capito che una statalizzazione della proprietà poteva tranquillamente convivere con la più totale assenza di democrazia civile e politica. Oggi dobbiamo arrivare a capire che anche con la socializzazione della proprietà si rischia di non garantire affatto alcuna vera democrazia, in quanto se non si ripensano i criteri della produttività del lavoro, che non possono più essere quelli basati sull’industria, l’uomo finirà, devastando irresponsabilmente la natura, con l’autodistruggersi.

La desertificazione, causata dai disboscamenti, dalla cementificazione, dalla antropizzazione incontrollata dell’ambiente, dai mutamenti climatici dovuti a stili di vita insensati, dall’uso del nucleare (civile e militare) e anche da uno sfruttamento intensivo dei suoli agricoli, tutto questo già oggi rende impossibile, in molti luoghi del pianeta, la riproduzione umana. Non è vero che la natura è comunque in grado di superare i guasti provocati dagli esseri umani: non lo è certamente almeno finché gli uomini sopravvivono sul pianeta.

Per questo motivo dobbiamo pensare seriamente a come recuperare il tipo di esistenza vissuta sotto il comunismo primitivo. Il primo lavoro culturale che dobbiamo fare è questo, passando eventualmente attraverso la valorizzazione dell’autoconsumo del periodo feudale.

Quando Engels scriveva, nel testo citato sopra, che il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo si verificò in maniera spontanea, attraverso l’accumulo di eccedenze alimentari, l’aumento della popolazione, la divisione del lavoro ecc., stava delineando una transizione con le medesime caratteristiche di naturalezza di quella che secondo lui si dovrà verificare tra capitalismo e socialismo.

Sia per lui che per Marx la violenza è tale solo da parte di chi si oppone a delle leggi oggettive, inevitabili. Gli uomini dovrebbero semplicemente prendere atto di queste leggi e accettare le necessarie trasformazioni. Dissero questo non solo per la transizione dal feudalesimo al capitalismo e da questo al socialismo, ma, purtroppo, anche per quella dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Questo fu un grave errore, parzialmente giustificato dal fatto che gli studi etno-antropologici o etnostorici sul comunismo primitivo avevano appena raggiunto una rilevanza scientifica proprio nella seconda metà dell’Ottocento. Marx infatti evitò di dare alle stampe qualunque cosa su questo argomento: non si sentiva sufficientemente sicuro, anche perché attraverso i populisti russi era riuscito a comprendere l’importanza della comune agricola.

L’idea che una successione di determinazioni quantitative, ad un certo punto porti a una nuova qualità, era di derivazione hegeliana. Applicarla anche alla prima transizione della storia, senza chiamare in causa alcun fenomeno di violenza, è stato uno sbaglio. Lo sarebbe stato anche nel caso in cui si fosse attribuita un’opposizione violenta ai difensori del comunismo primitivo, facendoli passare per dei “reazionari conservatori”.

Si può anche pensare che per un contadino medievale passare dal servaggio al lavoro salariato in fabbrica sia stata una semplice questione di forma e che una vera resistenza allo sviluppo capitalistico sia stata compiuta solo dai feudatari (ancorché su questo potremmo trovare esempi del tutto opposti, e cioè resistenza contadina e condiscendenza nobiliare), ma è difficile pensare che da una condizione di piena libertà gli uomini siano passati tranquillamente a una condizione di piena schiavitù.

Abbiamo già detto che ci volle Lenin prima che il marxismo arrivasse a capire che la sovrastruttura può influenzare notevolmente il corso storico. Ora bisogna aggiungere che, oltre alla politica, anche la cultura può farlo, cioè anche la formazione di idee che divergono da quelle dominanti, come quella che il serpente propose ad Eva nel mito della caduta.

Se non si comprende questo, non si è poi in grado di spiegare il motivo per cui, in presenza di medesime condizioni economiche di vita, in un luogo si verificano determinati fenomeni, in un altro no. P.es. le cosiddette riserve produttive eccedenti il semplice bisogno di riproduzione immediata, non creano necessariamente l’esigenza di darsi un’organizzazione statuale, per il cui funzionamento occorrono addetti specifici. Un’organizzazione di questo tipo presume già una stratificazione sociale.

Persino il bisogno di andare oltre un certo livello di eccedenza è già sintomatico di una incipiente divisione in classi. Una riserva che va ben oltre il semplice autoconsumo, implica una gestione centralizzata del bisogno, che rende prima o poi inevitabile il privilegio e quindi l’abuso. La necessità di avere un’eccedenza che superi abbondantemente il livello dei bisogni primari indica una sfiducia nella gestione collettiva di questi bisogni, nonché un rapporto artificioso con la natura, che sono cose spesso destinate a marciare in parallelo.

Ecco perché bisogna sostenere che dal comunismo primitivo allo schiavismo vi fu una traumatica rottura, rinvenibile in qualche maniera nei miti che già conosciamo e che vanno interpretati tenendo conto che chi li ha elaborati aveva tutto l’interesse a mettere in cattiva luce gli elementi del passato che voleva superare.

Il mito ebraico, p.es., sintetizza la transizione da una formazione sociale all’altra nell’omicidio dell’allevatore Abele da parte del fratello Caino, agricoltore. All’origine della nascita dello schiavismo vi sono stati duri conflitti tra nomadi e sedentari, tra allevatori e agricoltori, che sicuramente precedono i conflitti tra mercato e autoconsumo, tra valore d’uso e di scambio. La delimitazione di determinate aree geografiche, per lo sviluppo dell’agricoltura, confliggeva con gli interessi degli allevatori e delle popolazioni nomadi, che furono le più antiche della storia e per le quali tutto il mondo era la propria casa.

Molte di queste aree disboscate per le esigenze rurali, ma anche per quelle abitative e persino commerciali, finirono col desertificarsi, riducendo drasticamente il numero dei lavori inerenti all’allevamento, ovvero il numero di persone dedite al nomadismo. L’allevamento si riduce al minimo e diventa esso stesso stanziale, parte organica della stessa attività agricola, almeno sino a quando non subirà nuove, pesanti, trasformazioni con l’ingresso del capitalismo nelle campagne.

Non è certo un caso che, per quanto riguarda le popolazioni indigene del continente americano, noi attribuiamo il temine di “civiltà” agli imperi inca, maya e azteco, che non erano nomadi (come invece le popolazioni nord-americane, le cui abitazioni in tenda permettevano facili spostamenti) e che sicuramente praticavano lo schiavismo, tant’è che le popolazioni locali, rimaste all’autoconsumo, le fuggivano spaventate.

Il fatto che di questa traumatica rottura non sia esistita una documentazione esplicita, non vuole affatto dire che il passaggio sia avvenuto in forma indolore. La violenza è all’origine della nascita delle civiltà: si tratta soltanto di individuarla in quei racconti mitologici che, essendo stati scritti dai vincitori, la presentano come una scelta necessaria.

Senza ideologia, la trasformazione della realtà arriva sino a un certo punto. Sono le idee che inducono a compiere delle scelte decisive, tali per cui risulta molto difficile il ripensamento, e ci vogliono idee particolarmente mistificanti per opporre con successo l’individualismo al collettivismo originario.

Sono soltanto i miti e le leggende che documentano questi traumi, mascherandoli in varie forme e modi. L’eroe del mito deve sempre apparire come una figura positiva, assolutamente innocente, che ha subìto un grave torto e che, per questo, si è dovuto difendere con la necessaria durezza. L’eroe può anche avere dei difetti personali, ma essi non inficiano mai la versione ufficiale che la cultura dominante ha dato di lui. E’ sempre l’eroe di una civiltà classista, che ha tolto di mezzo un nemico volutamente dipinto come rozzo, crudele, spietato, arrogante, ateo o, a seconda dei casi, superstizioso in quanto ignorante, primitivo.

L’agricoltore Caino è miscredente, invidioso e violento, attaccato alla proprietà: per questo uccide il pio, ingenuo e generoso Abele, di professione allevatore. Così Ulisse nei confronti di Polifemo, Teseo nei confronti del Minotauro ecc. E’ facile immaginarsi che nella realtà devono essersi verificati dei processi capovolti, in cui tradizioni secolari (si pensi solo al matriarcato) sono state messe in crisi e alla fine distrutte dalla nascita inaspettata degli antagonismi sociali.

Sarebbe interessante mettere a confronto i miti pagani con quelli cristiani: gli uni tradirono il comunismo primitivo, gli altri il tentativo, fallito, di ripristinarlo, cercando di superare in maniera rivoluzionaria lo schiavismo. Ogni forma antagonistica ha bisogno di miti per illudere le masse oppresse che l’esistenza, nonostante lo schiavismo, è sopportabile e che il medesimo antagonismo è un fenomeno imprescindibile.

Se a Roma non si parcheggia è colpa dei gay. Parola di un rutelliano

Se hanno gridato allo scandalo quelli di GayLib, la tenace associazione omosessuale liberale di centrodestra  guidata da Enrico Oliari, significa che l’omofobia, come abbiamo sempre asserito, è parecchio bipartisan in questo paese; se ne ciba la destra e ne sproloquia la sinistra. Recentemente anche un signore, animatore di un blog, noto esponente vicino all’area che gravita intorno a Rutelli, ha sollevato un polverone sul degrado urbano di Roma, sulla difficoltà e il disordine che la sera si crea intorno all’area dell’Esquilino, zona molto turistica per via del Colosseo, ma anche luogo di ritrovo della comunità omosessuale romana visto che parliamo anche della celeberrima “Gay Street”. L’animatore del blog “Degrado Esquilino”, Massimiliano Tonelli si batte da tempo contro tutto quello che è abusivo o crea degrado in quella zona.

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