A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (IX)

Che un cambiamento di mentalità, che mezzo millennio fa voleva dire compiere una riforma protestante, fosse necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo, lo dimostra non solo il fallimento dell’operazione colonialista di Spagna e Portogallo, ma anche il collasso del proto-capitalismo nell’Italia comunale e signorile.

L’Italia era partita per prima proprio perché il livello istituzionale della chiesa romana era così corrotto da non poter legittimamente impedire l’affermarsi del profitto sulla rendita feudale. Ma quando questo profitto pretese una contropartita politica, la chiesa, appoggiata dall’impero reazionario di Carlo V, fece presto a fare dietrofront. Anche Marx s’era accorto di un ritorno italiano all’orticoltura (cioè all’autoconsumo), dopo la parentesi comunale e rinascimentale, ma invece di metterla in rapporto alla controriforma, si limitò a parlare di mancata unificazione nazionale e di spostamento dei traffici commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, senza rendersi conto che la Spagna già unita trafficava tranquillamente sull’Atlantico e non per questo divenne capitalistica.

Anche quando esaminava l’economia imperiale romana, Marx si chiedeva il motivo per cui non nacque in questo periodo uno sviluppo di tipo capitalistico, visto che quello commerciale era molto fiorente, e citava l’episodio di quell’imperatore che puniva chi proponeva migliorie a livello tecnico-produttivo, sulla base del fatto che ciò, diminuendo la necessità di avere degli schiavi, avrebbe portato ad aumentare le file dei vagabondi da mantenere con la pubblica assistenza.

Marx s’era reso conto che non era solo questione di basso livello produttivo, ma anche di mentalità. Nel mondo romano dominavano i mercati, i commerci, ma questo non fu sufficiente a far scattare dei processi di tipo capitalistico. Capì che il paganesimo non era in grado, culturalmente, di opporsi allo schiavismo e intuì persino che, col proprio culto astratto dell’uomo, il cristianesimo avrebbe potuto in qualche modo favorire la nascita di un modo di produzione i cui contraenti, sul mercato, fossero formalmente liberi. Ma non arrivò mai ad approfondire questa cosa.

Cioè non arrivò a capire che il passaggio dallo schiavismo al servaggio sarebbe avvenuto anche senza l’apporto delle tribù germaniche e slave, che pur non avevano mai conosciuto lo schiavismo come sistema sociale di vita. Era la stessa ideologia cristiana che, facendo diventare cristiani sia lo schiavo che il suo schiavista, portava inevitabilmente a una trasformazione dei rapporti produttivi, a una attenuazione dei precedenti rapporti di forza.

Ma prima di parlare del ruolo del cristianesimo nella società romana, bisogna precisare alcune cose sullo schiavismo.

Il fatto che ad un certo punto cominciassero a venir meno gli schiavi a causa delle limitate guerre di conquista (già agli inizi dell’impero si pensava soprattutto a difendere i confini acquisiti), non può essere considerato un motivo sufficiente per indurre i romani a trasformare la schiavitù in colonato. In teoria l’effetto avrebbe anche potuto essere opposto (quando vi sono delle dittature, la ferocia aumenta all’aumentare della percezione del crollo): sarebbe stato del tutto naturale, visto che gli schiavi a disposizione erano gli ultimi acquistabili sui mercati, peggiorare le loro condizioni di lavoro (già molto tempo prima che i barbari penetrassero nell’impero erano gli stessi cittadini romani liberi, residenti nelle zone di confine, a chiedere la loro protezione).

Lo Stato romano incrementò le persecuzioni anticristiane (le più dure furono sotto Diocleziano) anche per continuare ad avere una manodopera schiavile a bassissimo costo. Anche la legislazione contro i debitori insolventi era drasticamente peggiorata.

Basta questo dunque per capire che non sono sufficienti dei semplici fatti, nudi e crudi, a modificare dei comportamenti consolidatisi nel tempo (qui in relazione ai rapporti produttivi). Occorre qualcos’altro, di tipo immateriale, non facilmente reperibile nelle fonti scritte, che di regola venivano prodotte dagli stessi schiavisti di quel tempo, e dai loro lacché.

Uno schiavista non avrebbe mai potuto parlar bene del cristianesimo e, nel contempo, chiedere che l’istituto della schiavitù subisse ulteriori restrizioni, a causa della penuria di schiavi sui mercati delle conquiste militari.

Il rapporto struttura/sovrastruttura consiste in due pesi che sui piatti della bilancia hanno uno strano rapporto: quello che dovrebbe essere più pesante, la struttura, che si vede a occhio nudo, in ultima istanza pesa meno di quello che nell’altro piatto neanche si vede e che può essere soltanto immaginato.
La necessità, di per sé, non determina atteggiamenti univoci, proprio perché gli esseri umani sono caratterizzati anche dalla libertà, la quale, entro certi limiti di circostanza, trasforma la necessità in possibilità. L’uomo si trova, ad un certo punto, a dover scegliere tra possibilità opposte e finisce col propendere per l’una o per l’altra, a seconda del credito che dà a questa o quella cultura o ideologia. Naturalmente per “cultura” si devono intendere quelle idee che cominciano ad affacciarsi alla pubblica considerazione, che cioè cominciano a interessare vasti strati sociali.

Detto questo, bisogna dire che non ha senso affermare che il cristianesimo non ha influito minimamente sulla trasformazione dello schiavismo in servaggio, in quanto non aveva nulla di politicamente rivoluzionario (a favore degli schiavi). Il fatto che un’ideologia religiosa fosse politicamente conservatrice non significa che socialmente e culturalmente fosse indifferente alla condizione schiavile.

Basti pensare a due cose:
1. Gesù Cristo veniva sì considerato di origine divina, ma veniva anche considerato simile a uno “schiavo” che si auto-immola per redimere gli uomini dai loro peccati, il primo dei quali era stato quelle edenico, che aveva per sempre impedito la riconciliazione degli uomini col loro dio (un dio che, con linguaggio più laico, va inteso il comunismo primitivo);
2. il lavoro veniva considerato in maniera altamente significativa, al punto che Paolo arriverà a scrivere, nelle sue lettere, che chi non lavora non ha diritto a mangiare. Lui stesso aveva sempre cercato di non essere di peso a nessuno.

E’ evidente che fino a quando il cristianesimo non divenne la religione più importante dell’impero, le fonti ufficiali non potevano ammettere che questa religione, dopo tre secoli di permanenza nei grandi centri urbani, era riuscita a influenzare, in qualche modo, i rapporti tra padroni e schiavi. Quando un’ideologia è politicamente minoritaria ma socialmente rilevante, è naturale ch’essa possa esercitare una certa influenza sulla mentalità dominante. Si tratta di un’influenza che non può essere ammessa in maniera pubblica, ma che non per questo risulta insignificante.

Per poter interpretare adeguatamente i fatti storici, sarebbe sciocco basarsi esclusivamente sulle fonti che ce li hanno tramandati. E’ dunque inevitabile ipotizzare delle linee di tendenza che nelle fonti non possono risultare chiare e distinte. Prendiamo p.es. il passaggio epocale dal principato di Costantino a quello di Teodosio. Com’è stato possibile che in meno di 70 anni si sia passati ad una trasformazione del cristianesimo da religione “tollerata” a religione “privilegiata”?

E’ evidente che il passaggio è potuto avvenire solo perché il cristianesimo aveva già acquisito a livello sociale e culturale un’enorme credibilità. Ma se andiamo a esaminare le fonti pagane coeve, dove risulta questa credibilità? Le persecuzioni erano durate apertamente fino a Diocleziano (305).

Se il cristianesimo fosse stato semplicemente una “religione” e non anche una “cultura” e un'”esperienza sociale”, non solo non ci sarebbe stato l’Editto di Teodosio (380), ma neppure quello di Costantino (313). L’Editto di Milano infatti era stato fatto proprio perché il cristianesimo non era una religione come le altre, ma qualcosa che lo Stato romano guardava con sospetto e diffidenza. Qualunque religione pagana era già tollerata: perché emanare un editto specifico per dire che anche il cristianesimo lo era? Evidentemente perché non si poneva come una semplice religione.

E il fatto che Teodosio, nel 380, arrivasse a considerarla come l’unica religione lecita, rovesciando completamente la situazione precedente, sta appunto a dimostrare che gli imperatori non avevano mai considerato il cristianesimo come una semplice “religione”. Nessuna religione era mai stata perseguitata per tre secoli. In ogni caso nessuna avrebbe mai potuto resistere a una persecuzione così prolungata.
Le persecuzioni avvenivano per motivi squisitamente politici, pur sapendo che il cristianesimo non voleva affatto porsi come movimento rivoluzionario anti-schiavista. Dunque gli aspetti pre-politici (il sociale e il culturale) davano non meno fastidio di quelli politici.

Soltanto quando si resero conto che le persecuzioni non solo non servivano a nulla ma anzi facevano incrementare le fila degli adepti a questa confessione, gli imperatori intrapresero la strada opposta: prima, con Costantino, cercando di dimostrare che lo Stato pagano non temeva alcuna religione, neppure quella cristiana; poi, con Teodosio, facendo vedere che lo Stato era persino disposto a fare del cristianesimo l’unica religione lecita. Cosa che sarebbe stata letteralmente impossibile se il cristianesimo non fosse già stato un’ideologia dominante nel tessuto sociale.

Il grandissimo torto del cristianesimo non fu ovviamente quello di aver accettato l’Editto di Milano, ma quello di aver accettato l’Editto di Tessalonica. E’ appunto a partire dal 380 che inizia la corruzione politica di questa confessione.

Oggi col socialismo ci troviamo in una situazione per certi versi analoga e per altri opposta. Esso non è ancora entrato nella cultura dominante borghese (anche se l’esperienza che più gli si avvicina è quella dello “Stato sociale”), proprio perché nei suoi confronti persiste la diffidenza.

D’altro canto bisogna indurre gli Stati borghesi ad accettare nelle loro Costituzioni la fine della religione di stato, la fine della religione maggioritaria, un vero pluralismo confessionale, in cui nessuna religione possa fruire di particolari privilegi, e soprattutto l’inserimento del diritto a non avere alcuna religione, ovvero il diritto all’ateismo.