A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (I)

Bisogna ammettere che né il Marx delle Formen né l’Engels dell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato riuscirono a capire che la transizione dal comunismo primitivo allo schiavismo non ebbe alcun carattere naturale o necessario, ma, al contrario, un carattere particolarmente violento. E questo nonostante che proprio loro avessero chiarito una volta per tutte che i processi dell’economia borghese andavano considerati come “storici” e quindi destinati a un’evoluzione che li avrebbe portati alla fine.

Il motivo di questa incomprensione è dipeso da un preciso limite epistemologico interno alla loro concezione materialistica della storia, quello secondo cui i processi economici hanno un primato assoluto su ogni altro fenomeno sociale e non esiste sovrastruttura in grado di modificarli. Tutto il processo storico viene spiegato sulla base del livello delle forze produttive e del loro nesso coi rapporti produttivi, che quando diventa insostenibile, determina la necessità di un radicale mutamento di struttura.

La sovrastruttura può giocare un ruolo di legittimazione del processo o di contrasto, ma non può impedire un determinato corso storico, che ha proprie leggi oggettive, indipendenti dalla volontà umana. I processi storici sono in fondo dei processi naturali basati sulle leggi della dialettica, che Hegel aveva scoperto (la negazione della negazione, dalla quantità alla qualità, la compenetrazione degli opposti). La transizione da una formazione sociale a un’altra diventa, ad un certo punto, quando tutte le potenzialità produttive si sono esaurite, un fatto inevitabile. Anche la borghesia ha la pretesa di far passare il capitalismo come un fenomeno naturale, ma la differenza dal marxismo sta appunto nel fatto ch’essa non vede la necessità del suo superamento.

Come noto, questa visione deterministica della transizione fu rovesciata da Lenin, il quale sosteneva che attraverso la politica rivoluzionaria si poteva impedire che in Russia si formasse il capitalismo, passando direttamente dal feudalesimo al socialismo, senza rinunciare alle acquisizioni tecnico-scientifiche della borghesia. I bolscevichi avrebbero dovuto realizzare non solo il socialismo ma anche l’elettrificazione di tutto il paese.

Lenin diceva che gli operai, abituati a difendere i loro salari, non potevano avere una coscienza della fattibilità di questa transizione, però se venivano aiutati dagli intellettuali, avrebbero potuto dare facilmente il loro consenso. Quanto ai contadini, sarebbe stato sufficiente assicurare loro la proprietà della terra.

Erano semmai gli intellettuali di sinistra, quelli che si richiamavano al marxismo, e i populisti, quelli che consideravano la comune agricola il baluardo più forte contro la penetrazione del capitalismo, i più difficili da convincere.

Infatti la lezione marxista ufficiale era tutta favorevole allo sviluppo capitalistico della Russia, onde permettere la nascita di un significativo proletariato industriale e lo sviluppo di un livello culturale tale da permettere il superamento delle influenze conservative delle tradizioni religiose. La lezione dei “marxisti legali” e degli “economicisti” era tutta deterministica, in linea con le tesi del Capitale e delle altre opere marxiane di economia politica.

In un certo senso Lenin fece una “rivoluzione contro il Capitale“, come disse Gramsci, ma non fino al punto da negare la necessità di attribuire all’industria un primato sull’agricoltura. Per tutta la sua vita egli considerò gli operai superiori ai contadini (in un paese che al 90% era rurale) e non mise mai in discussione né che fosse indispensabile avviare un’imponente e immediata rivoluzione industriale, né che la produzione economica dovesse essere controllata dallo Stato. Tuttavia, finché rimase in vita cercò di non inimicarsi le simpatie dei contadini, i quali, grazie al suo Decreto sulla terra, erano finalmente riusciti a diventare padroni dei lotti che coltivavano.

A onor del vero va detto che se non ci fosse stata la guerra mondiale e se questa non fosse stata catastrofica per la Russia, nessuno avrebbe preso in considerazione le sue tesi. Chiunque si dichiarasse marxista, considerava indiscutibile credere nel fatto che se una formazione sociale non ha esaurito tutte le proprie potenzialità, è impossibile che venga superata dalla successiva. Tutti erano convinti che il socialismo non avrebbe mai potuto svilupparsi in Russia senza prima passare per le forche caudine del capitale. Marx ebbe un ripensamento soltanto nell’ultimissimo periodo della sua vita, venendo a contatto coi populisti, e ponendo come condizione per un salto epocale dal feudalesimo al socialismo che quest’ultimo si realizzasse preventivamente nella parte occidentale dell’Europa.

Infatti gli unici a credere che il capitalismo non si sarebbe sviluppato in Russia, in quanto la comune agricola non gliel’avrebbe permesso, erano i populisti, con cui il giovane Lenin aveva profondamente polemizzato, dimostrando che il capitalismo in Russia sarebbe stato inevitabile e che anzi era già in atto nelle grandi città. Resta tuttavia singolare che proprio nel momento decisivo della rivoluzione del 1917, Lenin facesse suo il programma dei populisti (o meglio, dei menscevichi) relativo alla gestione collettiva della terra.

Purtroppo lo stalinismo non ebbe questa flessibilità nei confronti dei contadini (né l’avrebbe avuta il trotskismo, beninteso), per cui non si fece alcuno scrupolo nel far pagare a loro tutti i costi di una rivoluzione industriale e urbana che si volle imponente e accelerata, dietro il pretesto che, in caso contrario, non si sarebbe potuto reggere il confronto coi progressi dei paesi euroccidentali e nordamericani, e soprattutto con l’ansia di non riuscire a fronteggiare un nuovo, eventuale, intervento armato straniero, come quello degli anni 1918-20.

Se la Russia non avesse avuto risorse enormi, umane e materiali, un progetto del genere sarebbe presto abortito o lo stalinismo l’avrebbe fatto pagare alle nazioni limitrofe, come fecero i paesi europei al momento del colonialismo. Non furono comunque solo i contadini a rimetterci, ma anche quei comunisti che non avevano mai pensato di fare una rivoluzione per ottenere una dittatura peggiore di quella zarista. E ci rimise anche l’ambiente naturale, la cui incredibile vastità sembrava autorizzare lo sfruttamento più indiscriminato (esattamente come avviene oggi, a dimostrazione che nei confronti della natura non esistono differenze di rilievo tra capitalismo privato e socialismo di stato).

Dalla Libia con terrore: il documentario di Andrea Segre va in onda su Rai3

Nell’intervista al regista Andrea Segre per questa rubrica parlavamo del documentario “Come un uomo sulla terra”. Vi segnalo che andrà in onda la sera di giovedì 9 giugno alle 23.40 su Rai3. Il documentario, che si è già fatto notare in molti festival e concorsi, è stato girato con Dagmawi Ymer , un immigrato etiope incontrato da Segre a Roma, nel centro gestito dall’associazione Asinitas. Insieme raccontano l’Odissea di chi vuole raggiungere l’Italia passando o partendo dalla Libia. Lo stesso Dag ha subìto ogni genere di violenza sia dai contrabbandieri che gestiscono la traversata sia dalla polizia. Non dimentichiamoci che nell’agosto 2008 Berlusconi ha firmato un accordo con l’amico Gheddafi “contro il traffico dei clandestini” verso Lampedusa. A raccontare il tragico viaggio sono alcuni migranti, prima che la Marina italiana cominciasse a respingere i loro connazionali dal maggio scorso. La sorte di migliaia di uomini e donne africane è anche al centro della campagna nazionale “Io non respingo”, promossa da Fortress Europe, da Asinitas e dallo stesso Segre. Finora sono state raccolte più di 11 mila firme, tra cui quelle di Marco Paolini, Dario Fo, Erri De Luca, Marco Baliani: è possibile aderire online sul sito http://comeunuomosullaterra.blogspot.com