U2 novità: ma davvero? Non è che i rockers dovrebbero avere una data di scadenza?

E’ uscito il primo singolo degli U2, “Get on your boots”, che preannuncia il nuovo album, “No line on the horizon”, previsto per il 2 marzo (lo potete ascoltare sul sito della band, http://goyb.u2.com). Ascoltato un paio di volte mi ha stufato. Francamente mi aspettavo qualcosa di più “nuovo”, ha troppe reminescenze vecchio stampo tra flower power e Beatles. D’altra parte non sono di primo pelo né loro né i tre megaproduttori assoldati per l’occasione. A questo proposito vi faccio leggere il parere di un mio caro amico, Sergio Cossu, che non si è fatto pregare per mettere nero su bianco quanto già detto in una nostra lunga chiacchierata sul rock, pop e dintorni (lui il pop l’ha fatto in prima persona, ma da anni si occupa d’altro…). Poche e assai poco lusinghiere le parole spese da entrambi per un’altra novità discografica, l’ultimo di Bruce. Cossu non l’ha mai particolarmente amato, io invece sì. Da ragazza ha segnato per sempre la mia concezione dell’amore (Thunder road), e la sua voce, quand’è usata nei toni bassi, è tra le mie preferite. Ma è da mo’ che non mi dice più niente. Io intanto confido nell’intero cd degli U2, sono più ottimista: vorrei almeno meno rock e più… qualcos’altro (dalla dance all’elettronica, Eno datti una mossa)

“Perché ad un certo punto della sua storia la musica pop è diventata un genere creativo dal quale nessuno decide mai di ritirarsi?

La musica pop è un genere effimero per definizione, ed anche i più dotati di talento hanno espresso il loro meglio in un numero limitato di anni.

Il periodo geniale dei Beatles è durato dal 1965 al 1969; Elvis diciamo dal 1956 al servizio militare, pochi anni dopo; gli Who dal 1965 a Who’s next (1971), Frank Zappa fino a Joe’s garage (12 anni circa) etc.

I cantanti di successo degli anni 50 e 60 spesso ad un certo punto della loro carriera hanno smesso di fare dischi (o sono morti, più elegantemente).

Perché oggi ritroviamo tutti in pista, da nilla pizzi ai kings of leon, da brian auger ai killers? Sì, è vero, molti di questi non hanno ricevuto dalla musica l’equivalente del 6 al superenalotto e diciamo che “tengono famiglia”; ok.

Ma chi glielo fa fare ancora agli u2 , al boss, a neil young, a vasco, a paul mccartney di fare ancora dischi non avendo più niente da dire, e avendo finito da tempo di pagare il mutuo?

Il nuvo cd di brooce non merita neanche commenti (direi che bertoncelli ha espresso il giudizio più acuto in merito); gli u2 escono con un singolo che non ha ne’ la dignità né la grandezza né la fierezza né la forza creativa né l’energia né l’amore di with or without you, o di pride (lo so, sono canzoni di 20 e più anni fa, ma non è colpa mia se la musica popo rock viene bene da giovani) ma neanche di the fly; è un simpatico pastiche semibeatlesiano, con un’incomprensibile inserto semidisco verso la fine, realizzato molto bene (regia di eno, lanois e steve lilliwhite) ma che non scuote neanche il più sensibile dei nostri precordi, singoli o collettivi.

Non paghi, qualche anno fa, di avere sponsorizzato pubblicamente l’ipod (o meglio, di essere stati ben foraggiati da apple per legare la loro immagine all’i-pod, il vero killer della musica dal 2000 in poi), il loro nuovo cd esce in più versioni: con libretto a più o meno pagine, in confezione di plastica o cartone, in vinile, etc etc.

Ma hanno davvero bisogno di fare i pupazzi da marketing strategies? Hanno davvero voglia di fare i take that, i giusy ferreri, i boys boys boys? Non hanno un hobby, una famiglia, dei libri da leggere, un parco in cui passeggiare?

Non è giunto il momento di fare una moratoria generale sulla produzione di dischi?

Un anno senza produrre musica registrata non potrebbe essere produttivo?

Magari molti “artisti”, giovani o vecchi, scoprirebbero che si può vivere anche senza fare dischi, e magari anche senza fare musica.

Ve li immaginate mazzola, rivera e cruyff che, per quanto grandissimi siano stati un tempo, che domenicalmente (un inebriante neologismo © by trapattoni) indossano parastinchi e calzoncini e scendono in campo in serie A?

Mozart è morto a 37 anni, charlie parker a 36. Vorrà pur dire qualcosa…”

Contestualizzare sempre

E’ impossibile capire la teoria di un qualunque pensatore se prima non si stabiliscono le coordinate di spazio e tempo che lo caratterizzano. Questa è anche una forma di rispetto, non solo di oggettività interpretativa.

Le coordinate non si riferiscono solo alle vicende storico-politiche (e quindi ai mutamenti socioeconomici), ma anche all’evoluzione della cultura (che può essere favorevole al laicismo o alla religione). A livello culturale, se si esclude la parentesi feudale, tende a prevalere, in occidente, il tentativo di liberarsi della religione usando gli strumenti della filosofia, prima, e della scienza, dopo.

La religione nasce col sorgere degli imperi schiavistici, come strumento per giustificare l’oppressione. La filosofia (non solo quella greca ma anche quella borghese) tende indubbiamente a emanciparsi dalla religione sul piano gnoseologico, ma assai raramente arriva a metterla in discussione su quello politico (forse il primo vero tentativo è stato quello della rivoluzione francese).

Nelle civiltà antagonistiche la religione costituisce una forma di potere politico, di cui le istituzioni si servono per dominare le masse, le quali, nell’ignoranza e superstizione in cui vengono tenute, raramente mettono in discussione il fatto che la religione debba avere una valenza politica. Le masse si difendono dall’oscurantismo e dal clericalismo con l’indifferenza o con l’opportunismo di un’adesione meramente formale; nel migliore dei casi sostituendo delle convinzioni religione con altre, com’è avvenuto, p.es., con la riforma protestante.

Per capire ciò che un pensatore ha voluto dire, bisogna chiarire il contesto in cui egli è vissuto e il tipo di esperienza che ha vissuto. In tal senso anche la sua biografia acquista una certa importanza.

In ogni società esistono contraddizioni che attendono d’essere risolte. Nei confronti di tali contraddizioni si possono formulare delle ipotesi risolutive sulla base di proprie istanze emancipative o di liberazione. I soggetti possono avere desideri o interessi a che le cose mutino nella sostanza e non solo nella forma.

Sotto questo aspetto è molto importante non soffermarsi sulle opere principali di un teorico, ma, se lo si vuole veramente capire, è necessario analizzare tutto quello che ha prodotto. Infatti, non è raro il caso che istanze nutrite nel periodo giovanile, siano poi state abbandonate nel periodo della maturità, a causa delle difficoltà insorte nel tentativo di trovare delle soluzioni. Alle sconfitte ci si adatta, trovando dei compromessi che permettono di continuare a vivere. Basta leggersi la vita di Kant o di Hegel.

Bisogna quindi verificare se nei confronti di quelle istanze originarie esiste un tradimento vero e proprio, un’involuzione nel pensiero, o semplicemente un provvisorio ridimensionamento, in attesa di tempi migliori. I soggetti si confrontano sempre con una realtà che li precede, indipendente dalla loro volontà, e ad un certo punto si pongono il problema se hanno forze sufficienti per modificare in toto o in parte quella realtà. Di qui la trasformazione, p.es., di una concezione religiosa o filosofica in concezione “politica”, rivolta concretamente all’organizzazione delle masse.

Chi esamina questi soggetti non può essere così schematico da focalizzare la sua attenzione solo sui tradimenti delle istanze originarie. Un intellettuale può porsi dieci come obiettivo finale e poi ottenere solo tre: ebbene, per il critico che ne esamina le opere, questo tre deve diventare più importante del fallimento del restante sette. Un intellettuale cioè può aver fallito sul piano politico, ma può aver dato un contributo molto importante in altri settori della conoscenza: filosofia, economia politica ecc., come p.es. nel caso di Marx.

Generalmente sono due i processi che un critico deve esaminare: l’emancipazione della filosofia dalla religione, ovvero i progressi dell’umanesimo laico, e la trasformazione della filosofia in politica rivoluzionaria, cioè tutti quei tentativi pratici di liberarsi degli antagonismi sociali, per riportare l’umanità a quel periodo storico in cui non esistevano conflitti di classe o appropriazioni private di mezzi produttivi e che storicamente è durato un tempo infinitamente più lungo di quello che fino ad oggi ha caratterizzato le cosiddette “civiltà”.

I due processi non marciano in parallelo, essendo relativamente autonomi, anche se quello pratico-politico, volto a realizzare il socialismo, si avvale delle conquiste culturali del laicismo. Semmai non è vero il contrario, nel senso che queste conquiste culturali non necessariamente sono finalizzate ad affermare il socialismo democratico.

La ragione di ciò è molto semplice: i poteri dominanti sono più disposti a tollerare degli sviluppi culturali contrari alle loro tradizioni ideali che non dei rivolgimenti politici, che rischierebbero di far perdere loro i poteri acquisiti. Da tempo l’ateismo è diventato culpa levis, diceva Marx. Ecco perché la lotta contro le istituzioni oppressive può essere condotta su due binari paralleli, non necessariamente destinati a incrociarsi: quello della cultura e quello della politica.

Se si compie una rivoluzione politica prima di quella culturale, come p.es. nella rivoluzione russa, poi bisogna avere grandi accortezze a non imporre alle masse l’ideologia che ha trionfato. Se invece si preferisce la soluzione gramsciana dell’egemonia culturale, non ci si può poi illudere che questo sia sufficiente per realizzare una transizione a favore del socialismo.

Per operare un cambiamento effettivo della realtà, bisogna saper trasformare le contraddizioni del sistema e i bisogni delle masse in armi rivoluzionarie. E questo non è mai un processo facile né indolore.

Quanta ipocrisia, falsità e retorica sullo Stato palestinese, che è ormai chiaro non potrà mai nascere

Tra le altre ipotesi che ho letto in questi giorni riguardo il vero motivo dell’invasione di Gaza e il futuro dell’ormai 60ennale dramma Israele/Palestina trovo che la seguente sia la più realistica: «Sconfitto e umiliato, Hamas resta al potere a Gaza. Forse è questo il vero scopo dell’operazione “Piombo fuso”. Le Palestine restano due, entrambe smilitarizzate, ma ancora senza essere uno Stato. Entro qualche mese il processo di pace iniziato l’anno scorso ad Annapolis, si rimetterà in moto. Israeliani e palestinesi dovranno accordarsi su questioni controverse come le frontiere, la spartizione di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e le colonie ebraiche. L’esistenza di due realtà palestinesi, una buona e l’altra che ancora non riconosce l’esistenza di Israele, sarà di grande aiuto ai negoziatori israeliani. Difficile creare uno Stato solo di due Palestine così opposte».
E comunque ormai è chiaro che lo Stato palestinese non nascerà mai.
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EVOLUZIONE DELLA I REPUBBLICA ITALIANA

La Dc di A. De Gasperi e del suo principale erede, A. Fanfani, ebbe la meglio sui social-comunisti non solo per il consistente appoggio politico e finanziario degli americani, ma anche perché adottò nel suo programma molte riforme di tipo sociale, che ebbero un certo successo: da quella sulla casa a quella sulla terra, sino alla nazionalizzazione delle aziende produttrici di energia elettrica, che trovò ampi dissensi persino negli ambienti più conservatori della stessa Dc.

Il partito seppe tener testa ai comunisti praticamente sino al referendum sul divorzio, che segnò l’inizio del definitivo declino politico della Dc. Da partito innovatore sul piano socioeconomico, la Dc si trasformò in partito ultraconservatore, incapace di leggere i mutamenti della società civile in direzione dello stile di vita, dei valori culturali e normativi, dell’atteggiamento nei confronti della religione. Nel decennio che va dal ’68 al ’78 vi fu un’autentica frattura generazionale.

L’altro momento chiave del tracollo del cattolicesimo sociale di Fanfani, Dossetti e La Pira avvenne col delitto Moro, vero spartiacque tra l’ultima Dc formalmente progressista (quella di Moro e Zaccagnini) e una decisamente reazionaria (quella di Andreotti, Forlani, Cossiga, Piccoli ecc.). Quest’ultima non solo non mosse un dito per salvare Moro, ma fu anche ben contenta di concludere la fase del “compromesso storico” col Pc di Berlinguer, in linea con la volontà americana. In alternativa essa pensò di poter continuare a gestire il potere cercando un’intesa programmatica col craxismo, ch’era un socialismo nettamente anticomunista (a differenza di quello di Nenni e De Martino, che lo era stato in maniera più velata).

Gli anni Ottanta furono gli anni del socialismo borghese di Craxi, De Michelis, Martelli…, cioè della peggior forma di socialismo che la nostra nazione abbia mai vissuto. E furono anche gli anni in cui la Dc riuscì ad affossare definitivamente tutte le indagini sul terrorismo nero e sulla criminalità organizzata.

La Dc non vorrà mai fare i conti col fallimento della propria politica economica: la sua contraddizione maggiore è stata che da un lato chiedeva il consenso politico alle forze contadine, con l’esplicito appoggio della chiesa, dall’altro essa finirà col distruggere socialmente proprio questa classe, obbligandola a trasformarsi in pochi imprenditori capitalistici agricoli (nel centro-nord) o in un enorme serbatoio di manovalanza a basso costo per l’industria del nord (nel mezzogiorno).

L’esigenza di stabilire dei rapporti organici con le forze della sinistra (Fanfani coi socialisti, Moro coi comunisti) emergeva ogniqualvolta le concessioni fatte al capitalismo e al consumismo rischiavano di portare a gravi conflitti sociali (che con Tambroni si era cercato invece di risolvere in maniera autoritaria). E la sinistra, ivi inclusa quella comunista di Berlinguer, purtroppo s’è prestata a questa strumentalizzazione.

Mentre con la Dc fanfaniana si cercava di realizzare l’ideale (rivelatosi poi illusorio a motivo delle proprie insanabili contraddizioni) di un cattolicesimo sociale nell’ambito di uno sviluppo capitalistico avanzato, prevalentemente monopolistico, con ampia partecipazione statale, viceversa col craxismo si rinuncia a qualunque valore cristiano (si farà persino una parziale revisione del Concordato), nella consapevolezza che il cristianesimo politico avesse fatto il suo tempo e che una rappresentanza univoca dei cattolici non avesse più senso sul piano politico.

Tuttavia, invece di diffondere valori laici umanistici, la rinuncia netta all’anticapitalismo, ovvero a cercare una “terza via laico-democratica” tra capitalismo monopolistico-statale e socialismo burocratico e autoritario, porterà il partito di Craxi a favorire la corruzione a tutti i livelli, al punto che la magistratura si sentirà indotta a intervenire.

La vicenda di “Mani pulite”, che parte nel 1992, mettendo allo scoperto i nessi truffaldini tra economia e politica, segna l’inizio dello scontro tra politica corrotta e magistratura democratica. L’esito è la dissoluzione di tutti i maggiori partiti borghesi della I Repubblica.

Il peggio di questi partiti confluisce a destra, dando vita nel 1994 a Forza Italia del piduista Berlusconi e di Dell’Utri, colluso con la mafia, all’Udc dei ciellini integralisti Casini e Buttiglione, all’Udeur di Mastella (che non confluisce nell’Udc solo perché le tradizioni originarie erano più vicine all’Azione cattolica meridionalista); mentre al centro-sinistra si orienta una minoranza di cattolici democratici, sempre proveniente da Azione cattolica, ma senza legami espressamente clientelari come quelli dell’Udeur: questi ex-democristiani formeranno la Margherita e in parte daranno vita all’esperienza dell’Ulivo. Avranno il coraggio di por fine una volta per tutte all’unità politica dei cattolici.

Il grande partito della corruzione che eredita il peggio dei socialisti, dei socialdemocratici, dei liberali, dei repubblicani e della Dc è Forza Italia, che con Alleanza Nazionale (che intanto con Fini supera i beceri riferimenti al fascismo), la Lega Nord (che vuole un capitalismo modello svizzero) e l’Udc creerà la nuova destra nazionale. Tutti partiti che, in questo patto di ferro con Forza Italia, subiranno, per vari motivi, importanti defezioni, ma non senza avere la possibilità di governare per un intero quinquennio.

Turandosi il naso, An, Udc e Lega Nord, pur di andare al governo, hanno accettato l’idea che Forza Italia si ponesse come il partito degli evasori fiscali, degli speculatori edilizi e finanziari, dei bancarottieri, dei collusi con la criminalità organizzata e in genere di quanti vogliono smantellare lo Stato sociale e tenere la magistratura e l’informazione sotto tutela politica.

Si assiste insomma a questo processo involutivo della politica italiana: quanto più ci si rende conto dei limiti strutturali di un’economia sempre più illiberale e sempre meno sociale, ovvero dei limiti strutturali di una politica che non sa impedire che le esigenze del mercato la facciano da padrone, tanto più i partiti si staccano dalla realtà dei bisogni, diventano autoreferenziali e unicamente preoccupati a difendere i loro privilegi di casta.

Purtroppo questa impotenza riguarda anche la sinistra, che pur essendosi liberata del peso di un socialismo autoritario come quello sovietico, ha del tutto abdicato all’idea di poterne costruire uno nella nostra nazione. Tutti i maggiori partiti sanno di non avere alcuna progettualità in grado di imprimere una svolta in direzione del socialismo democratico a questa società sempre più individualista e corrotta.

Lo stesso Partito Democratico, nato di recente, in cui praticamente sono confluiti la Margherita e l’Ulivo e che ha determinato lo scioglimento dei Ds, non pone neanche all’ordine del giorno la necessità di una svolta politica in direzione del socialismo: si limita semplicemente a fare un discorso etico, di partecipazione popolare, finalizzato a razionalizzare l’esistente, salvaguardando le conquiste dello Stato sociale. E’ difficile pensare che un partito del genere avrà la forza sufficiente per imporre agli evasori fiscali il pagamento delle tasse con le quali mantenere i costi sempre più ingenti di questo Stato sociale. Anche perché tra chi dovrebbe votarlo vi sono moltissimi che non sono più in grado di pagare alcuna tassa: oltre il 13% dell’intera popolazione vive sulla soglia della povertà.

E’ più facile che di fronte a una montante protesta popolare s’imponga la necessità di una svolta autoritaria.

L’unica speranza “socialista” dell’Italia è rimasta in quella sinistra rosso-verde, ancora dilaniata dal trotskismo, dall’ambientalismo unilaterale, dalla prevalenza dell’ideologia sulla politica e in genere da quell’infantilismo estremistico che spesso caratterizza chi non si pone il compito né di governare l’esistente né di rovesciarlo con una rivoluzione autenticamente popolare.

I registi israeliani armati di coraggio e ironia. I loro colleghi palestinesi armati di pazienza e dolore. E una sorpresa anche tra noi

Mentre i cari armati israeliani infuriano a Gaza l’ironia della sorte vuole che il film del regista israeliano Uri Folman  “Valzer con Bashir”, dolente narrazione tramite cartoon della mattanza di Sabra e Chatila del 1982 e fresco vincitore in Israele di ben sei Oscar, vinca anche il Golden Globe battendo sul filo di lana il nostro “Gomorra”. In più, arriva in Italia anche “Il giardino dei limoni”, film nel quale il regista Riklis è riuscito a fare un ritratto quasi perfetto della società israeliana quando ha a che fare con i palestinesi.   Due coincidenze che sembrano una allucinazione collettiva. E due film che vanno ad aggiungersi ai molto belli, impegnativi e sempre molto dolorosi “Iron wall”, “Occupation 101”, “La Porta del sole”, “Paradise now” e “Private”, che in Italia abbiamo snobbato perché mandano in frantumi le verità di comodo, con il rischio di rovinarci la digestioni o di metterci qualche fastidiosa pulce nell’orecchio.
Questo è il trailer di Valzer con Bashir: http://www.comingsoon.it/video.asp?key=1738|1878 , che però a causa delle brevità non rende del tutto l’idea. La rende meglio questo articolo (  http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/01/05/valzer-con-bashir-il-conflitto-sullo-schermo.html ) di Natalia Aspesi.
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Onore ai giornalisti come l’israeliano Gideon Levy! Anziché il volgare provincialismo degli scontri Santoro-Annunziata, a quando anche in Italia un dibattito in tv come quello andato in onda negli Usa e che posto oggi interamente tradotto nel blog?

Mentre da noi infuria il provincialismo dello scontro Santoro/Annunziata a causa dell’ultima puntata di Anno Zero ritenuta da molti troppo a favore dei palestinesi, come se essere contro le mattanze ” a prescindere” sia vietato, su Facebook un gruppetto di miei colleghi ha lanciato l’idea del Premio Nobel per la Pace al giornalista israeliano Gideon Levy, che ha scelto da tempo di vivere a Gaza. Proposta chiaramente impossibile, che mi è stato addirittura chiesto di patrocinare (!), ma che vale la pena rendere nota anche per tacitare i troppi imbecilli e disonesti di casa nostra. Queste le motivazioni:

“Gideon Levy è’ il giornalista israeliano di Haaretz che da anni incarna l’anima più illuminata del suo popolo. Una vera colomba della pace che con le sue lucide analisi e i suoi coraggiosi commenti ha finito per diventare una spina nel fianco dei falchi che si sono succeduti al governo. La sua voce rappresenta la vera coscienza – non solo quella critica – di una nazione che ha subito inique persecuzioni ed atroci sofferenze, ma che oggi rischia di trasformarsi nel carnefice di un popolo con il quale è destinato invece ineluttabilmente a convivere.
Anche stavolta, in occasione della guerra ad Hamas, di fronte al terribile massacro degli inermi abitanti della Striscia di Gaza, la voce di Gideon Levy sembra essere l’ultimo baluardo della ragione contro il cieco furore dei suoi governanti. In poco più di 15 giorni sono rimasti sul campo mille palestinesi, di cui la maggior parte civili: donne, anziani e bambini (più di 300). Uno spargimento di sangue caratterizzato da veri e propri episodi criminali (come quello di Zeitun, con i 110 civili ammassati in un edificio poi bombardato; o la scuola con le insegne Onu presa a cannonate, provocando 40 morti, tutti civili) che rischia solo di alimentare vendette: altro odio, altra violenza, altri morti. Rafforzando, invece di indebolire, il terrorismo.
Gideon Levy non ha esitato a puntare il dito contro i responsabili – Ehud Olmert, Tzipi Livni ed Ehud Barak (“due di loro candidati a primo ministro; il terzo al un processo per crimini di guerra”) – con parole pesanti come pietre che nessun giornalista occidentale (e tanto meno italiano) avrebbe mai osato pronunciare: “Se continueremo così – ha scritto sulle colonne di Haaretz – prima o poi a L’Aia (sede del Tribunale internazionale per i crimini di guerra, ndr) sarà creata una nuova corte speciale”.
Tutto ciò gli sta ovviamente procurando minacce ed insulti da parte dei più fanatici. Ma lui non sembra curarsene: “Uno spirito malvagio è calato sulla nazione. Questo non è il mio patriottismo. Il mio patriottismo è criticare, fare domande le fondamentali. Questo non è solo il momento dell’uniforme e della fanfare, ma dell’umanità e della compassione”.

Mi chiedo quando in Italia, dove si annega nel bicchier d’acqua versato in modo molto prepotente da Lucia Annunziata, potremo vedere un dibattito televisivo come quello andato in onda negli Usa, che con buona pace delle Lucie Annunziate spazza via una serie di luoghi comuni e di consolidate bugie e che è stato tradotto per noi dal lettore che si firma Vox e che ringrazio per la disponibilità: Continua a leggere

I migliori dischi del 2008: prima (e forse ultima) puntata

Comincia un nuovo anno e non c’è rivista specializzata di musica che non chiami a raccolta redattori e collaboratori per l’immancabile classifica dei dischi più belli dell’anno appena defunto. E io ogni volta mi accorgo che non ho tenuto fede al proposito di segnarmi, da gennaio fino a dicembre, i miei dischi del cuore, così non mi trovo impreparata, non faccio confusione con i cd pubblicati l’anno prima. Già dai tempi del vinile ero una frana: non riuscivo a memorizzare titoli, formazioni, ricordavo bene solo l’immagine in copertina. Con i cd è stato ancora peggio, e poi la catastrofe dell’mp3: ricordare nomi, facce, autori, titoli è quasi impossibile. Da aggiungere che di un album salvo un paio o poco più di brani, il resto va subito nel dimenticatoio. Azzardo comunque qualche titolo per me degno di nota per il 2008: oltre a tutti i cd recensiti in questa mia rubrichetta (Sigur Ros, Beck, Oasis, Giant Sand, Bob Dylan d’annata) ho ascoltato con vero piacere le ultime fatiche di My Brightest Diamond “A thousand shark’s teeth”, Tricky “Knowle wets boy” (basta ascoltare la prima traccia, “Puppy toy” e sei catturato nelle sue avvolgenti, cattive spire), New Puritans e “Beat pyramid” (imprevedibili), la colonna sonora di “Mamma mia” (tanto aborrivo gli Abba, tamarri come pochi, quanto ho rivalutato parecchi testi e accordi versione Duemila), l’ep “Mastroianni” degli italiani Diva (tipo Baustelle, ma più spiritosi), le due giovani e promettenti Duffy con “Rockferry” e Adele con “19”(ad essere più precisi mi piacciono più le loro voci che alcune delle loro canzoni), “Dear science” dei newyorkesi Tv on the radio.

Carini ma nulla di più “To survive” di Joan Wasser (tranne “Eternal flame” che già conoscevo), Lambchop e “Oh – Ohio” (se ne salvano un paio, il resto scorre e non lascia traccia), Parenthetical Girls e “Entanglements” (la musica è ok, la voce è insopportabile), il ritorno dei B-52’s con “Funplex” (ma il tempo per loro non passa mai?).

Decisamente sopravvalutati dai giornalisti (che non chiamo volutamente colleghi) quel debosciato e inconcludente di Nicola Conte (c’è addirittura chi l’ha messo nella stessa pagina con Paolo Conte, approfittando della parziale omonimia), Golden Frapp versione intimista (meglio quando ci faceva allegramente sgambettare), The killers (tutto già sentito, e meglio), Afterhours (eppure Manuel Agnelli quando suonava travestito da ragazza era un figo…), Kings of leon e “Only by the night” (scherziamo?), Terrence Howard e “Shine through it” (niente voce e niente idee, meglio faccia l’attore). Deludenti gli ultimi Thievery Corporation. Interessanti ma non stravolgenti gli Acoustic Ladyland di “Skinny grin” (mi ricordano vagamente i Primus, ma quel sax in più è troppo onnipresente).

Non ho messo ancora le mani (cose tante cose da fare e così poco tempo…) su “Surfing” dei Megapuss (ovvero Devendra Barnhart e Fabrizio Moretti degli Strokes, complimenti se non altro per il nome irriverente della band), “4:13” dei Cure (ma ne varrà ancora la pena?), Bonnie “Prince” Billy e il suo “Lie down in the light”, “22 dreams” di Paul Weller (da non lasciar invece perdere in concerto, una garanzia), “Harps and angels” di Randy Newman (ho letto meraviglie, lui mi piaceva molto ai tempi di “Short people” ma poi… perso per strada), “Hurricane” di Grace Jones e la compilation “Catwalk breakdown” selezionata da Vivienne Westwood, la mia stilista preferita, per le sue sfilate (sono irrimediabilmente curiosa), Matthew Herbert e “There’s me and there’s you” con una big band di venti elementi.

Mi sono sicuramente dimenticata qualcuno, per cui vi lascio con un bel 1)continua… non si sa mai.

A volte ritornano: e per fortuna! Welcome Giant Sand

Tempo fa trovo al bar Michele Borsa, grande cultore di musica e cinema, conosciuto ai tempi d’oro del “Mucchio selvaggio”. Mi fa: “Hai sentito l’ultimo dei Giant Sand? Mitico…”. “Quei Giant Sand dall’Arizona?” ribatto io, incredula. Sì, quelli lì, in formazione ovviamente riveduta (dal 2002 è targata Danimarca): ma se ho ancora un loro disco registrato in cassetta (conservo in libreria un contenitore-reliquiario con una trentina di cassette) più di vent’anni fa! Ma di Michele mi fido e mi faccio curiosa trasferire nell’ipod il loro ultimo “proVISIONS”. Non l’ascolto subito: me lo tengo buono per l’occasione giusta. E’ un viaggio in treno verso Roma, qualche giorno fa. Il ritmo ovattato del pendolino è quanto mai adatto. Parto con “Stranded pearl” e la pianura emiliana fuori dal finestrino non è più quella padana: siamo nel far west, il country si lega miracolosamente alla chanson francese, come se Johnny Cash cantasse in coppia con François Hardy , alla chitarra slide si affianca il pianoforte. Mi piace! Howe Gelb non sorprende perché ha cambiato pelle, ma perché riesce a regalare ancora qualche brivido con la sua solita “sol-fa”, complice la fugace apparizione di Isobel Campbell. Non è da tutti. “Without a word” potrebbe essere suonata dai Calexico (non a caso nati da una costola dei G.S.), con rimandi agli indimenticati e indimenticabili Violent Femmes. “Can do” è puro rock and roll alla Elvis, segue “Out there” più lenta e scura, il ritmo svogliato sa di Messico. E poi arriva una chicca: la cover di “The desperate Kingdom of love” dell’adorata P.J. Harvey: partenza sussurrata, voce + piano + cb, e poi si affiancano i fiati e un assolo di piano, poche note ma buone. “Increment of love” ruba un accenno di reggae, “Spiral” è la classica ballad che non delude, grazie anche alla seconda voce femminile notturna più che mai (Henriette Sennenvaldt). “Pitch & sway” riprende il ritmo, lenta ma inesorabile come un treno regionale. “Muck machine” si fa più veloce, siamo su un intercity. “Belly full of fire” si apre verso suoni psichedelici, ancora più caotici, alla Jon Spencer, in “Saturated beyond repair”: Gelb si fa prendere, come spesso gli accade, dalla voglia di mettere troppa carne al fuoco, come volesse dire guardate che so fare altro, di tutto e di più. E il disco così si chiude con “World’s end state park” piena di distorsioni, ma poi arriva “Well enough alone” a ci salutiamo pensando a Dylan e alla sua Band.

A promuovere “proVISIONS” arriva un tour italiano. I Giant Sand saranno in concerto il 29 gennaio a Torino, il 30 a Roma, il 31 a Ravenna e poi l’1 febbraio a Padova e il 2 a Milano.

In attesa di sapere se davvero Olmert attaccherà anche l’Iran ecco i racconti di una brava inviata in Israele

Non so se l’Israele bombarderà davvero l’Iran il giorno 20, schiaffeggiando così pubblicamente e clamorosamente anche Obama nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca. Il governo israeliano è ormai fuori controllo, condotto da omuncoli come Olmert capaci di lucrare perfino sugli orfani gonfiando le note spese dei viaggi sta spingendo il suo Paese in un tunnel sempre più buio, ma sa che può contare su gran parte dell’opinione pubblica occidentale grazie all’ignoranza in cui è tenuta dalla propaganda dei mass media, che quando si tratta di Israele di informazione ne fanno meno che mai. Tant’è che tutti si bevono la balla dei civili usati come scudi umani dagli stessi palestinesi, balla inventata per tentare di giustificare l’ignobile mattanza e pulizia etnica in corso nella Striscia di Gaza. Continua a leggere

Gaza, catastofe anche del giornalismo. Che è sotto tiro un po’ ovunque nel mondo

Dibattito pubblico sulla crisi in Medio Oriente per la sera di mercoledì 14 gennaio al Circolo della Stampa di Milano. Modera Lorenzo Cremonesi, giornalista del Corriere della Sera e partecipano: Rula Jebreal, giornalista palestinese; Eyal Mizrahi, presidente dell’Associazione Amici di Israele; Moni Ovadia, musicista e autore di teatro, nonché bestia nera dei sionisti che lo accusano di essere un “ebreo di sinistra”.

Facciamo un po’ di conti Il 14 saranno esattamente 16 giorni dall’inizio della mattanza di Gaza, dove il bilancio di ormai quasi 1.000 e oltre 4.000 feriti palestinesi – molti dei quali destinati a morire per impossibilità di essere curati – a fronte di nemmeno un militare israeliano ucciso dai palestinesi indica senza nessuna possibilità di dubbio alcune cose: Continua a leggere

C’è solo un piccolo particolare, anzi due. Più qualche inevitabile considerazione aggiuntiva. E fastidiosa

1)    – E’ vero che da Gaza sparano razzi sulla cittadina israeliana di Sderot, peraltro di scarsa precisione ed efficacia, anzi – come si è visto – veri e propri disastrosi boomerang contro gli stessi abitanti di Gaza. Però è anche vero che Sderot è stata costruita – assieme alla colonia israeliana di Or fondata nel 1957 – sui resti di ciò che fu il villaggio palestinese di Najd, parola che in arabo significa “altopiano”, oggi distante 14 chilometri da Gaza. Ed è anche vero che il villaggio fu sottoposto a “pulizia etnica” dai sionisti arabofobi prima ancora che nascesse lo Stato di Israele. Secondo la risoluzione Onu 194 e anche secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 13, sezione due, gli abitanti di Najd hanno il diritto di ritornare ad abitare nelle loro personali proprietà e al loro villaggio nativo. Perché questo diritto viene loro negato, e ben da prima che tirassero anche solo pietre?
2)    –  E’ vero che da Gaza a volte sparano razzi anche sulla cittadina israeliana di Ashkelon, peraltro di scarsa precisione ed efficacia, anzi – giova ripetere – veri e propri disastrosi boomerang contro gli stessi abitanti di Gaza. Però è anche vero che Ashkelon
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Stanno facendo un deserto e si illudono di poterlo chiamare pace

“Israele della Striscia di Gaza conosce ogni pietra”. Non lo sostiene solo il nostro amato forumista signor Rodolfo-Rachamim, ma anche le stesse autorità israeliane fiere della loro capacità di poter colpire duro dove, quando e come vogliono, naturalmente in modo “chirurgico”. Si vede che la chirurgia non funziona bene neppure in Israele, a giudicare dal macello in corso nel “sala chirurgica” Gaza. Battute a parte, è assodato dunque che Israele, cioè il suo governo e i suoi militari, in specie i vari loro servizi segreti, della Striscia di Gaza conoscono ogni punto. Sanno tutto e conoscono tutto. Bene. Resta solo da spiegare come mai, sapendo così bene tutto, non sapevano che Hamas a parte le chiacchiere non era neppure in grado di difendersi efficacemente, vista la carneficina che i suoi miliziani stanno subendo, e facendola patire così anche ai civili. Per essere dei terribili terroristi, che sottopongono ogni giorno Israele a “una pioggia di razzi”, espressione che comunque fa balenare una realtà ben diversa dal reale visto che i Qassam per fortuna non sono ne le V2 né i missili sparati dagli americani su Bagdad (uno liquefò in un sol colpo oltre 400 civili ammassati in un rifugio), per essere dei terribili terroristi e guerrieri di Dio quelli di Hamas sono riusciti ad accoppare uno o al massimo due soldati avversari. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere perché di soldati israeliani ne hanno uccisi di più gli stessi loro commilitoni con il “fuoco amico”, una delle tante espressioni demenziali dei militari del mondo intero, che i burbanzosi guerrieri di Allah. Leggo che le autorità israeliane hanno ammesso l’uccisione di un loro soldato da parte di Hamas mentre ne sono stati uccisi almeno quattro da proiettili “amici”. Continua a leggere

La sempre più vergognosa mattanza contro Gaza e la nostra sempre più vergognosa ipocrisia (per giunta natalizia….)

“Nessun Paese può accettare di vedere dei missili piovere sulla testa dei suoi cittadini. Se accadesse a me, farei di tutto per impedirlo e mi aspetto che Israele agisca allo stesso modo”. Questo ha dichiarato a luglio in una intervista al New York Times Obama Barak, il presidente degli Stati Uniti in procinto ormai di insediarsi. E questa sua frase viene sbandierata oggi da chi vuole giustificare a tutti i costi la mattanza israeliana contro i palestinesi ammassati da decenni a Gaza come bestie, e trattati da sempre come bestie. Anzi, “come cani”, cioè esattamente come il generale Moshe Dayan, eroe nazionale israeliano, aveva promesso che sarebbero vissuti i palestinesi che non se ne fossero andati via dalla cosiddetta Terra Promessa, quella che i cristiani chiamano Terra Santa e che in realtà è solo Terra Maledetta, se non ormai Stramaledetta. Continua a leggere