Conflitti di classe o di razza negli Stati Uniti?

Diventati, dopo la seconda guerra mondiale, leader del mondo capitalista, gli Stati Uniti dichiararono di voler assumere la responsabilità globale per i destini del capitalismo.

La nuova interpretazione dell’esclusività americana acquistò così un chiaro orientamento anticomunista, che si proponeva anche lo scopo di contrastare la crescita dell’influenza ideologica del movimento rivoluzionario mondiale e di quello di liberazione nazionale. “A ogni concetto del socialismo corrisponde un concetto opposto dell’americanismo”, scriveva già negli anni Trenta il giornalista americano di sinistra L. Sarnson.

Fra le teorie economiche e sociologiche degli anni cinquanta e sessanta meritano d’essere ricordate quelle del “capitalismo popolare” e della “società industriale”. In campo storico è la teoria del “consenso” che, a partire dagli anni Cinquanta, divenne il fulcro dell’esclusivismo americano.

Essa affermava che la società americana si distingueva, nella sua evoluzione storica, per l’unità dimostrata nelle questioni fondamentali dell’organizzazione sociopolitica e per la stretta continuità delle istituzioni sociali.

R. Hofstadter sostenne che i conflitti nella storia americana non avevano mai riguardato i problemi della proprietà e dell’iniziativa privata. Assai tipiche sono pure la negazione delle tradizioni rivoluzionarie e socialiste, nonché l’affermazione che non vi sono mai state in Usa delle lotte di classe simili a quelle europee.

Non c’è dunque da stupirsi se i fautori della teoria del “consenso” abbiano rivalutato, dopo decenni di oblio, il libro di A. de Tocqueville Sulla democrazia in America (1835), in cui gli Usa vengono presentati come il paese delle classi medie senza gravi antagonismi sociali.

Avendo intrapreso la revisione di tutta la storia americana, i sostenitori di tale teoria hanno consacrato la più grande attenzione al periodo coloniale e alla guerra d’indipendenza, in cui, a loro giudizio, furono poste le basi della specificità americana.

Sintomatiche, in questo senso, sono le opere di L. Hartz, D. J. Boorstin, R. E. Brown, caratterizzate da un’impostazione ideologica e metodologica fortemente tendenziosa.

Secondo Hartz la violenta lotta di classe in Europa fu accompagnata dalla formazione di diversi sistemi ideologici che si “infettavano” reciprocamente e che servirono da fondamenta all’edificazione d’ideologie sempre più radicali.

Nulla di tutto questo accadde nel Nuovo Mondo. Durante la formazione delle colonie americane soltanto un frammento ideologico liberale si separò dalla società inglese. Trapiantato nel suolo nordamericano, esso costituì il sostrato che, per la creazione d’un sistema di valori, conteneva in germe gli ideali dell’individualismo, della libertà e della democrazia.

Stando sempre ad Hartz, la tradizione liberale affermatasi in America si rese, in un certo senso, “unidimensionale”, mettendosi al riparo dall’influenza di qualunque dottrina estremistica.

Boorstin la pensava come Hartz, ad eccezione che per un aspetto: secondo lui la democrazia americana non s’era sviluppata a partire dal “frammento liberale” del Vecchio Mondo, ma era nata nelle condizioni dello specifico ambiente americano.

Brown infatti affermerà che l’eguaglianza sociale esisteva già nelle colonie americane, che la maggioranza assoluta della popolazione era composta di farmers indipendenti e che una democrazia della classe media s’era costituita sulla base della democrazia economica.

Di fatto questi storici non s’interessavano che alle particolarità dell’evoluzione della società americana coloniale, ovvero l’assenza del feudalesimo in quanto sistema dominante, una disuguaglianza materiale minore che nei paesi europei, un grado più elevato di libertà politiche, ecc. Esagerando la portata di questi fattori, essi svilupparono piuttosto agevolmente la teoria dell’esclusivismo americano.

Brown arrivò addirittura a dire che, a differenza di quelle europee, la rivoluzione americana dei XVIII secolo non mirava a conquistare bensì a difendere delle libertà democratiche già esistenti.

Un altro gruppo di storici, solitamente definiti “neoliberali”, che si rifanno alla teoria del “consenso”, si sono soffermati sulla storia degli Stati Uniti del XX secolo. Essi non negano l’esigenza della lotta fra le ideologie liberale e conservatrice negli Usa, ovvero la presenza delle contraddizioni sociali (nel quadro del consenso generale sulle questioni fondamentali); ma pensano che le tradizioni del riformismo borghese, nelle quali un ruolo essenziale è stato giocato dallo Stato, possano attenuare e anche guarire completamente i mali economici e sociali.

R. Hofstadter, l’esponente più in vista della scuola del “consenso”, espose in maniera assai realista le acute collisioni sociali avvenute negli Usa all’inizio del XX secolo, ma poi dipinse un quadro idilliaco della loro “felice ricomposizione” nell’alveo della tradizione liberale: i leader giunti al potere, utilizzando l’autorità dello Stato, avrebbero fatto votare una legge antitrust e introdotto delle correzioni nei princìpi politici fondamentali, al fine di democratizzare la struttura politica.

Nelle opere di A. M. Schlesinger jr. e di altri autori, il new deal di Roosevelt e le new frontiers di Kennedy altro non erano che gradi successivi del riformismo liberale, le cui fonti risalivano all’epoca progressista dell’inizio del secolo scorso.

Tuttavia, l’era americana fu di breve durata. Analizzando il clima d’incertezza formatosi negli Usa all’inizio degli anni Sessanta, il giornalista americano G. Green scriveva: “Nell’insieme, la psicologia nazionale e il modo di vedere le cose si basavano sulla fede che il “nostro” capitalismo era in qualche modo diverso e migliore […] Vedere il sogno frantumarsi ed essere indotti dalla vita ad accettare un’altra prospettiva è stato senz’altro traumatizzante per la psicologia nazionale”.

La concezione dell’esclusivismo americano, in effetti, ha cominciato a entrare in crisi non solo per le contestazioni mossegli dagli ambienti di sinistra, ma anche per quelle di numerosi economisti, sociologi e politologi che non simpatizzavano con le idee di Marx.

D. Bell, il profeta dell’era postindustriale, costatò che l’influenza della teoria esclusivistica s’era indebolita con il venir meno delle possibilità imperialistiche e della fede ottimistica nel futuro del paese.

Numerosi storici, resisi conto dei limiti della teoria del “consenso”, hanno cominciato a indirizzarsi verso quella diversa visione della storia che prometteva la new scientific history, apparsa alla fine degli anni Cinquanta sotto l’influenza sia dei fattori sociopolitici che dello sviluppo interno della storiografia.

Un approccio interdisciplinare, che utilizzava i metodi della sociologia, politologia, linguistica, ecc., e i metodi quantitativi nell’esame delle fonti, cominciò a essere introdotto nelle ricerche storiche. E così nacquero una “nuova scuola economica”, “sociale” e “politica”. Ne risultò un notevole riorientamento delle scienze sociali americane, che allargarono il ventaglio dei problemi trattati, servendosi di molte più fonti.

La “nuova storia sociale” scelse come oggetto di studio i rapporti etnici, la mobilità sociale e geografica della popolazione, l’immigrazione, i mutamenti demografici, ecc. Le opere storiche di questa tendenza si soffermavano sulla vita degli immigrati e dei neri americani, sul ruolo della donna. Nuovi strati della vita sociale vennero messi in luce dalle ricerche di D. Montgomery, H. Gutman e altri, dedicate alla cultura della classe operaia americana nei suoi aspetti domestici, etnici, professionali e politici.

La “nuova storia politica” s’è invece soffermata sui problemi relativi al comportamento dei cittadini durante le elezioni, alle votazioni in Congresso e nelle assemblee legislative degli Stati, al funzionamento dei partiti politici. Tutto ciò ha permesso di passare da una descrizione dei singoli avvenimenti all’analisi delle strutture e dei processi politici.

Senonché l’angolo visuale di questi storici era tale che il ricco e nuovo materiale ch’essi avevano immesso nel circuito scientifico non contribuiva molto a comprendere i problemi più cruciali della storia degli Usa. Lo dimostrano alcuni esempi. Le ricerche sul ruolo delle minoranze etniche, religiose e politiche si collocano nel contesto di un’analisi funzionale, caratteristica della sociologia empirica contemporanea, che considera ì conflitti come un processo non antagonistico nello sviluppo delle diverse strutture sociali.

Il ruolo sociale della classe operaia, nel sistema dei rapporti di produzione capitalistici, sfugge all’attenzione di questi ricercatori. La nozione stessa di “classe” è da loro definita in modo estremamente generico, come l’autocoscienza che l’individuo acquisisce dei propri interessi. Il proletariato non è visto come oggetto dello sfruttamento capitalistico e le istanze dell’azione sociopolitica degli operai restano nascoste.

Questi storici non provano alcun interesse per la lotta di classe, gli scioperi, i sindacati e le organizzazioni politiche degli operai. La “nuova storia politica” studia il comportamento politico degli elettori nello spirito dei modelli behaviouristi, senza legarlo alla loro appartenenza di classe, e analizza il funzionamento del meccanismo politico separandolo dai fondamentali problemi socioeconomici.

Ciò spiega i motivi della crisi della “nuova storia scientifica”. Mancando completamente una sintesi generale, i successi ottenuti nell’applicazione dei processi interdisciplinari avevano portato – come vuole lo storico americano G. Nash – a un “brillante disordine”. Dopo una decina d’anni gli aspetti negativi di tale scuola divennero molto evidenti, tanto che alcuni storici ritornarono sulle posizioni dell’esclusività americana.

A differenza degli anni Sessanta, negli anni Settanta lo studio dei conflitti sociali e dei movimenti popolari è stato scavalcato da quello sui problemi della stabilità sociale. D’altra parte – sottolinea il redattore capo del “Journal of Social History”, P. N. Stearns – “l’etnicità è diventata una questione nodale della storia sociale americana e un’alternativa a quel tipo di analisi di classe che insiste sullo scontro sociale”.

Un approccio che metta in rilievo l’adattamento e la stabilità come aspetti peculiari della storia americana è senza dubbio un passo avanti verso una nuova versione della concezione del “consenso” e della teoria dell’esclusività.

C. N. Degler ha fatto il punto di queste tendenze nel suo messaggio presidenziale all’organizzazione degli storici americani. Egli ha presentato la “nuova storia scientifica” come un naturale prolungamento della vecchia storiografia, compresa la concezione del “consenso”. Rimproverando a questa nuova storia la sua infatuazione per ì metodi comparativi, Degler ribadisce la specificità dello sviluppo americano, e afferma che “i principali conflitti sono stati legati, nella società americana, più a una coscienza razziale ed etnica che a una coscienza di classe”.