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Conflitti di classe o di razza negli Stati Uniti?

Diventati, dopo la seconda guerra mondiale, leader del mondo capitalista, gli Stati Uniti dichiararono di voler assumere la responsabilità globale per i destini del capitalismo.

La nuova interpretazione dell’esclusività americana acquistò così un chiaro orientamento anticomunista, che si proponeva anche lo scopo di contrastare la crescita dell’influenza ideologica del movimento rivoluzionario mondiale e di quello di liberazione nazionale. “A ogni concetto del socialismo corrisponde un concetto opposto dell’americanismo”, scriveva già negli anni Trenta il giornalista americano di sinistra L. Sarnson.

Fra le teorie economiche e sociologiche degli anni cinquanta e sessanta meritano d’essere ricordate quelle del “capitalismo popolare” e della “società industriale”. In campo storico è la teoria del “consenso” che, a partire dagli anni Cinquanta, divenne il fulcro dell’esclusivismo americano.

Essa affermava che la società americana si distingueva, nella sua evoluzione storica, per l’unità dimostrata nelle questioni fondamentali dell’organizzazione sociopolitica e per la stretta continuità delle istituzioni sociali.

R. Hofstadter sostenne che i conflitti nella storia americana non avevano mai riguardato i problemi della proprietà e dell’iniziativa privata. Assai tipiche sono pure la negazione delle tradizioni rivoluzionarie e socialiste, nonché l’affermazione che non vi sono mai state in Usa delle lotte di classe simili a quelle europee.

Non c’è dunque da stupirsi se i fautori della teoria del “consenso” abbiano rivalutato, dopo decenni di oblio, il libro di A. de Tocqueville Sulla democrazia in America (1835), in cui gli Usa vengono presentati come il paese delle classi medie senza gravi antagonismi sociali.

Avendo intrapreso la revisione di tutta la storia americana, i sostenitori di tale teoria hanno consacrato la più grande attenzione al periodo coloniale e alla guerra d’indipendenza, in cui, a loro giudizio, furono poste le basi della specificità americana.

Sintomatiche, in questo senso, sono le opere di L. Hartz, D. J. Boorstin, R. E. Brown, caratterizzate da un’impostazione ideologica e metodologica fortemente tendenziosa.

Secondo Hartz la violenta lotta di classe in Europa fu accompagnata dalla formazione di diversi sistemi ideologici che si “infettavano” reciprocamente e che servirono da fondamenta all’edificazione d’ideologie sempre più radicali.

Nulla di tutto questo accadde nel Nuovo Mondo. Durante la formazione delle colonie americane soltanto un frammento ideologico liberale si separò dalla società inglese. Trapiantato nel suolo nordamericano, esso costituì il sostrato che, per la creazione d’un sistema di valori, conteneva in germe gli ideali dell’individualismo, della libertà e della democrazia.

Stando sempre ad Hartz, la tradizione liberale affermatasi in America si rese, in un certo senso, “unidimensionale”, mettendosi al riparo dall’influenza di qualunque dottrina estremistica.

Boorstin la pensava come Hartz, ad eccezione che per un aspetto: secondo lui la democrazia americana non s’era sviluppata a partire dal “frammento liberale” del Vecchio Mondo, ma era nata nelle condizioni dello specifico ambiente americano.

Brown infatti affermerà che l’eguaglianza sociale esisteva già nelle colonie americane, che la maggioranza assoluta della popolazione era composta di farmers indipendenti e che una democrazia della classe media s’era costituita sulla base della democrazia economica.

Di fatto questi storici non s’interessavano che alle particolarità dell’evoluzione della società americana coloniale, ovvero l’assenza del feudalesimo in quanto sistema dominante, una disuguaglianza materiale minore che nei paesi europei, un grado più elevato di libertà politiche, ecc. Esagerando la portata di questi fattori, essi svilupparono piuttosto agevolmente la teoria dell’esclusivismo americano.

Brown arrivò addirittura a dire che, a differenza di quelle europee, la rivoluzione americana dei XVIII secolo non mirava a conquistare bensì a difendere delle libertà democratiche già esistenti.

Un altro gruppo di storici, solitamente definiti “neoliberali”, che si rifanno alla teoria del “consenso”, si sono soffermati sulla storia degli Stati Uniti del XX secolo. Essi non negano l’esigenza della lotta fra le ideologie liberale e conservatrice negli Usa, ovvero la presenza delle contraddizioni sociali (nel quadro del consenso generale sulle questioni fondamentali); ma pensano che le tradizioni del riformismo borghese, nelle quali un ruolo essenziale è stato giocato dallo Stato, possano attenuare e anche guarire completamente i mali economici e sociali.

R. Hofstadter, l’esponente più in vista della scuola del “consenso”, espose in maniera assai realista le acute collisioni sociali avvenute negli Usa all’inizio del XX secolo, ma poi dipinse un quadro idilliaco della loro “felice ricomposizione” nell’alveo della tradizione liberale: i leader giunti al potere, utilizzando l’autorità dello Stato, avrebbero fatto votare una legge antitrust e introdotto delle correzioni nei princìpi politici fondamentali, al fine di democratizzare la struttura politica.

Nelle opere di A. M. Schlesinger jr. e di altri autori, il new deal di Roosevelt e le new frontiers di Kennedy altro non erano che gradi successivi del riformismo liberale, le cui fonti risalivano all’epoca progressista dell’inizio del secolo scorso.

Tuttavia, l’era americana fu di breve durata. Analizzando il clima d’incertezza formatosi negli Usa all’inizio degli anni Sessanta, il giornalista americano G. Green scriveva: “Nell’insieme, la psicologia nazionale e il modo di vedere le cose si basavano sulla fede che il “nostro” capitalismo era in qualche modo diverso e migliore […] Vedere il sogno frantumarsi ed essere indotti dalla vita ad accettare un’altra prospettiva è stato senz’altro traumatizzante per la psicologia nazionale”.

La concezione dell’esclusivismo americano, in effetti, ha cominciato a entrare in crisi non solo per le contestazioni mossegli dagli ambienti di sinistra, ma anche per quelle di numerosi economisti, sociologi e politologi che non simpatizzavano con le idee di Marx.

D. Bell, il profeta dell’era postindustriale, costatò che l’influenza della teoria esclusivistica s’era indebolita con il venir meno delle possibilità imperialistiche e della fede ottimistica nel futuro del paese.

Numerosi storici, resisi conto dei limiti della teoria del “consenso”, hanno cominciato a indirizzarsi verso quella diversa visione della storia che prometteva la new scientific history, apparsa alla fine degli anni Cinquanta sotto l’influenza sia dei fattori sociopolitici che dello sviluppo interno della storiografia.

Un approccio interdisciplinare, che utilizzava i metodi della sociologia, politologia, linguistica, ecc., e i metodi quantitativi nell’esame delle fonti, cominciò a essere introdotto nelle ricerche storiche. E così nacquero una “nuova scuola economica”, “sociale” e “politica”. Ne risultò un notevole riorientamento delle scienze sociali americane, che allargarono il ventaglio dei problemi trattati, servendosi di molte più fonti.

La “nuova storia sociale” scelse come oggetto di studio i rapporti etnici, la mobilità sociale e geografica della popolazione, l’immigrazione, i mutamenti demografici, ecc. Le opere storiche di questa tendenza si soffermavano sulla vita degli immigrati e dei neri americani, sul ruolo della donna. Nuovi strati della vita sociale vennero messi in luce dalle ricerche di D. Montgomery, H. Gutman e altri, dedicate alla cultura della classe operaia americana nei suoi aspetti domestici, etnici, professionali e politici.

La “nuova storia politica” s’è invece soffermata sui problemi relativi al comportamento dei cittadini durante le elezioni, alle votazioni in Congresso e nelle assemblee legislative degli Stati, al funzionamento dei partiti politici. Tutto ciò ha permesso di passare da una descrizione dei singoli avvenimenti all’analisi delle strutture e dei processi politici.

Senonché l’angolo visuale di questi storici era tale che il ricco e nuovo materiale ch’essi avevano immesso nel circuito scientifico non contribuiva molto a comprendere i problemi più cruciali della storia degli Usa. Lo dimostrano alcuni esempi. Le ricerche sul ruolo delle minoranze etniche, religiose e politiche si collocano nel contesto di un’analisi funzionale, caratteristica della sociologia empirica contemporanea, che considera ì conflitti come un processo non antagonistico nello sviluppo delle diverse strutture sociali.

Il ruolo sociale della classe operaia, nel sistema dei rapporti di produzione capitalistici, sfugge all’attenzione di questi ricercatori. La nozione stessa di “classe” è da loro definita in modo estremamente generico, come l’autocoscienza che l’individuo acquisisce dei propri interessi. Il proletariato non è visto come oggetto dello sfruttamento capitalistico e le istanze dell’azione sociopolitica degli operai restano nascoste.

Questi storici non provano alcun interesse per la lotta di classe, gli scioperi, i sindacati e le organizzazioni politiche degli operai. La “nuova storia politica” studia il comportamento politico degli elettori nello spirito dei modelli behaviouristi, senza legarlo alla loro appartenenza di classe, e analizza il funzionamento del meccanismo politico separandolo dai fondamentali problemi socioeconomici.

Ciò spiega i motivi della crisi della “nuova storia scientifica”. Mancando completamente una sintesi generale, i successi ottenuti nell’applicazione dei processi interdisciplinari avevano portato – come vuole lo storico americano G. Nash – a un “brillante disordine”. Dopo una decina d’anni gli aspetti negativi di tale scuola divennero molto evidenti, tanto che alcuni storici ritornarono sulle posizioni dell’esclusività americana.

A differenza degli anni Sessanta, negli anni Settanta lo studio dei conflitti sociali e dei movimenti popolari è stato scavalcato da quello sui problemi della stabilità sociale. D’altra parte – sottolinea il redattore capo del “Journal of Social History”, P. N. Stearns – “l’etnicità è diventata una questione nodale della storia sociale americana e un’alternativa a quel tipo di analisi di classe che insiste sullo scontro sociale”.

Un approccio che metta in rilievo l’adattamento e la stabilità come aspetti peculiari della storia americana è senza dubbio un passo avanti verso una nuova versione della concezione del “consenso” e della teoria dell’esclusività.

C. N. Degler ha fatto il punto di queste tendenze nel suo messaggio presidenziale all’organizzazione degli storici americani. Egli ha presentato la “nuova storia scientifica” come un naturale prolungamento della vecchia storiografia, compresa la concezione del “consenso”. Rimproverando a questa nuova storia la sua infatuazione per ì metodi comparativi, Degler ribadisce la specificità dello sviluppo americano, e afferma che “i principali conflitti sono stati legati, nella società americana, più a una coscienza razziale ed etnica che a una coscienza di classe”.

La storiografia radicale americana

Una posizione critica verso la teoria dell’esclusivismo americano l’ebbe la tendenza radicale degli anni sessanta emersa sull’onda del movimento della “nuova sinistra”.

Le idee dei radicali si sono formate sotto l’influenza di taluni principi marxisti, ma la loro metodologia, nel complesso, è rimasta piuttosto eclettica, poiché subiva il fascino delle correnti critiche della filosofia e sociologia occidentali.

In ogni caso, l’apparizione dei radicali nella scienza storica è stata segnata da un rafforzamento della critica tanto dell’approccio apologetico della storia del capitalismo americano quanto della storia “senza conflitti”.

Questi storici hanno affrontato molti importanti argomenti del passato americano dal punto di vista delle contraddizioni sociali antagonistiche e della violenta lotta di classe.

Contrariamente alla storiografia conservatrice essi sottolineano le divisioni sociali e i conflitti interni alla guerra d’Indipendenza. S. Lynd, J. Lemish e A. F. Young hanno concentrato la loro attenzione sui movimenti degli strati poveri della popolazione urbana e sulle divisioni politiche in campo patriottico fra alcuni Stati del paese, contestando in modo convincente la concezione di R. E. Brown relativa alla democrazia della classe media nell’America coloniale.

Un altro punto chiave nella posizione dei radicali contro la teoria del “consenso” fu la critica di tutte quelle asserzioni relative al carattere non classista della regolazione economico-statale (incluso il riformismo sociale) del XX secolo. G. Kolko, J. Weinstein e altri hanno mostrato che l’intervento del governo nell’economia, all’inizio del nostro secolo, fu condizionato sia dai bisogni produttivi del big business, sia dalla necessità di attenuare le contraddizioni di classe che s’erano aggravate. Le forze anticorporative vennero sconfitte dall’alleanza fra lo Stato e i monopoli.

Da allora il riformismo borghese (il liberalismo corporativo, nella terminologia dei radicali) tiene il popolo americano stretto in una morsa. I radicali inoltre ritengono che il new deal rooseveltiano abbia costituito una nuova tappa nello sviluppo politico dei capitalismo.

Analizzando il periodo post-bellico, essi hanno riservato una particolare attenzione al ruolo del complesso militare-industriale e del big business nella condotta aggressiva della politica estera americana.

Gli storici radicali hanno pure condotto una battaglia contro la storiografia tradizionale sui problemi della storia del movimento operaio. Essi rifiutano il dogma della scuola del Wisconsin, inerente al carattere esclusivo dell’esperienza storica del proletariato americano, e danno una grande importanza allo studio dell’attività della burocrazia sindacale e della politica riformista dell’American Federation of Labour (AFL).

Diversi storici, fra cui J. R. Conlin, J. M. Laslett e M. Dubofsky, si sono soffermati sulla storia di organizzazioni come “I cavalieri del lavoro” (Knights of Labour) e “Operai industriali del mondo” che si opponevano all’AFL. E però significativo che gli storici radicali non considerino il movimento di sinistra come un risultato dell’influenza della idee europee e dell’immigrazione straniera, ma come un prodotto naturale delle interne condizioni socioeconomiche americane.

Nella loro critica della teoria esclusivistica, i radicali sono andati senz’altro molto più in là degli storici di tendenza economista. Tuttavia non hanno saputo staccarsene completamente. Così, ad esempio, molti radicali descrivono l’imperialismo americano come un fenomeno nazionale, non accettando l’idea ch’esso sia solo una variante dello stadio supremo dello sviluppo del sistema capitalistico globale.

S. Thernstrom, che è vicino al trend radicale, enfatizza l’alta mobilità sociale degli operai esistita alla fine del XIX secolo, considerandola come un tratto distintivo dello sviluppo storico americano. G. Kolko afferma che l’inesistenza, a tutt’oggi, di un movimento anticapitalistico di massa negli Stati Uniti è stata determinata dall’alto livello democratico del paese e quindi da un’oppressione insignificante dell’individuo.

A cavallo degli anni Settanta e Ottanta il clima politico negli Usa s’è profondamente modificato. Si è vista crescere, e in modo brutale, l’influenza delle tendenze conservatrici: il che ha riflesso lo spostamento verso destra degli ambienti più autorevoli della classe dirigente nell’affrontare i problemi di politica interna ed estera. Si tratta, in sostanza, della reazione dei circoli imperialisti più aggressivi all’approfondimento delle contraddizioni socioeconomiche del capitalismo americano e mondiale, al rafforzamento del socialismo e all’estensione dei processi rivoluzionari e di liberazione nel mondo.

Il conservatorismo, divenuto agli inizi degli anni Ottanta un fattore importante della vita politica americana, rappresenta oggi una corrente ideologica in grado di influenzare diversi campi di pensiero. Esso esige la limitazione dell’intervento statale nella sfera socioeconomica del paese e si appella a taluni ideali e valori atemporali dell’americanisino, mettendo l’accento sulla tradizionale ideologia individualista dell’impresa privata e sulla morale della borghesia emergente. Questi neoconservatori levano gli scudi contro le tradizioni non solo rivoluzionarie ma anche liberali.

A partire dalla fine degli anni Settanta è iniziato il rapido consolidamento della corrente conservatrice nella storiografia, che ora si basa integralmente sulla piattaforma dell’esclusività americana. Al forum degli storici conservatori, istituito nel 1977, P. Gottfried, tratteggiando i loro obiettivi, avrebbe dichiarato che il compito principale consiste nel porre un efficace contrappeso all’influsso liberale e marxista che, a suo giudizio, sarebbe predominante nelle organizzazioni sindacali e nell’orientamento delle maggiori riviste storiche.

Alla conferenza degli storici conservatori del 1980 si sono espresse le medesime preoccupazioni e ribaditi gli stessi impegni. L’articolo di B. W. Folson, I pregiudizi liberali nei manuali di storia americana, mostra molto bene fin dove arrivano le pretese dei conservatori nella revisione della storia.

L’autore contesta duramente gli storici che danno un giudizio favorevole alle iniziative prese da Kennedy, Stevenson, Humphrey a McGovern. R. R. Berthoff è lo storico ideale per la storiografia conservatrice. A suo modo di vedere la stabilità resta la tendenza cardinale della storia americana e il principio essenziale dell’americanismo.

Al pari di Hartz, Boorstin e Brown, Berthoff dipinge la società dell’America coloniale come socialmente omogenea al massimo grado, in cui l’accesso alla classe media (freeholders, proprietari di fattorie, negozi, atelier artigianali) non è mai stato vietato a nessuno.

Dopo la guerra d’Indipendenza -egli afferma- le istituzioni politiche, le norme morali e le dottrine ideologiche si formarono sulla base della stabilità sociale. Il lasso di tempo compreso fra il 1815 e il 1900 è da lui visto come l’unico periodo d’instabilità sociale nella storia degli Usa, in cui ondate incessanti d’immigrati d’origine europea crearono un’inedita mobilità orizzontale e verticale della popolazione.

L’equilibrio si sarebbe ristabilito appunto verso gli inizi del secolo. La società americana contemporanea sarebbe dunque rimasta, a suo giudizio, assai mobile e nel contempo assai unita, preservando così i principi dell’americanismo.

Gli storici che preconizzano il “ritorno alle fonti” hanno già riscritto un largo ventaglio di avvenimenti della storia americana. Sviluppando, ad esempio, l’idea della stabilità e della impermeabilità della società americana ai mutamenti sociali profondi, R. Kirk ha definito le prime due rivoluzioni borghesi degli Usa come moderate e anche conservatrici.

A suo parere, la guerra d’Indipendenza fu ispirata dal fervore religioso più che dalle idee illuministiche, mentre la guerra civile del 1861-65 venne condotta non contro lo schiavismo, ma unicamente per la salvezza dell’Union. Nel 1982 Kirk ha pubblicato un’antologia dei teorici conservatori più in vista: E. Burke, J. S. Adams, A. Hamilton, J. C. Calhoun e altri.

Il libro della storica A. Kraditor, diretto contro le tesi fondamentali della storiografia radicale contemporanea sul movimento operaio americano a cavallo dei secoli XIX e XX, ha ottenuto vasti consensi. La Kraditor ha proclamato il marxismo “estraneo” agli Usa, in cui, a suo parere, il capitalismo si sviluppa secondo leggi particolari ed è in grado di curare con successo i propri mali.

Altri esempi ancora. Le idee della school of business sono state sviluppate da B. W. Folsom, che offre un’immagine delle imprese dei capitani d’industria della Pennsylvania come di un motore trainante del progresso industriale.

Le opere del ricercatore Th. Sowell sostengono l’idea che l’assistenza pubblica non può affatto risolvere la situazione materiale delle minoranze nazionali americane, le quali pertanto possono soltanto sperare in una lunga autoeducazione morale e pratica. Egli si è quindi rallegrato per l’abbandono delle iniziative riformatrici voluto dall’amministrazione Reagan.

Le idee degli storici neoconservatori, come si può ben vedere, non sono originali. Forse ciò che è nuovo è il tentativo di raggruppare insieme diverse varianti dell’esclusività americana, al fine di ottenere un’unica concezione che si ponga come asse della tradizione conservatrice, oggi quanto mai anticomunista.

Storia del mito americano (II)

La teoria dell’esclusività americana prese un nuovo impulso verso gli inizi del XX secolo col rafforzamento dell’economism borghese nella storiografia di questo paese.

Gli studi economico-sociali s’imposero nell’epoca in cui, di fronte ai seri rivolgimenti sociali e alla crescita del movimento operaio e antimonopolistico, le concezioni che riconducevano il processo storico essenzialmente alla storia politica perdevano il loro significato sociale e non convincevano più nessuno.

L’orientamento sociale della nuova corrente storiografica era conforme, grosso modo, ai compiti del riformismo borghese. Col mutare della situazione, parte degli ideologi e dei ricercatori si proposero d’esaminare più da vicino le cause materiali del malessere sociale e di trovare altresì i mezzi per risolvere o almeno attenuare i conflitti di classe.

Lo stesso sviluppo interno della scienza storica favorì questa ricerca. Le indagini degli storici “economisti”, per quanto non prendessero in esame la genesi e lo sviluppo della formazione capitalistica e per quanto sostituissero alla divisione in classi una semplice classificazione per gruppi economici, contribuirono a una migliore comprensione dei soggetti socioeconomici e del ruolo dei conflitti sociali nella storia degli Stati Uniti.

Tuttavia l’influenza degli storici economisti sulla teoria dell’esclusività americana non fu univoca. Alcuni di loro assolutizzarono le particolarità dello sviluppo economico della regione, cercando di completare la teoria con argomentazioni appunto di tipo economico.

L’esponente più significativo di questo indirizzo fu F. J. Turner, con la sua Theory of the Frontier (in America s’intendeva per “frontiera” la linea più avanzata dell’insediamento dei coloni bianchi durante la colonizzazione dell’ovest).

Turner, in gioventù, condivideva le idee della scuola anglosassone, ma poi se ne distaccò proprio per l’importanza decisiva che diede alla colonizzazione nella storia degli Usa.

Dando un’interpretazione sociale al ruolo della frontiera, così scrisse nella sua famosa relazione tenuta nel 1893 all’Associazione storica americana: “Le terre libere favorirono l’eguaglianza fra i coloni dell’ovest e neutralizzarono le influenze aristocratiche dell’est. Laddove ognuno poteva avere una fattoria… l’eguaglianza economica si stabiliva facilmente, e questo determinava l’eguaglianza politica”.

Deducendo la democrazia politica dalla fragile ed effimera eguaglianza sociale creatasi all’ovest (peraltro a spese delle popolazioni native), Turner affermava che “la democrazia americana contrastava nettamente… con gli sforzi dell’Europa di creare un ordine democratico artificiale attraverso la legislazione”.

A suo giudizio il regime democratico dell’ovest americano riuscì a diffondersi in tutte le maglie della società avanzata, rinnovando la democrazia dell’est. La frontiera agiva dunque su due piani: da un lato, le vecchie idee politiche importate dall’est subivano forti mutamenti sotto l’influenza delle condizioni ambientali, sociali e geografiche dell’ovest; dall’altro, le terre libere agivano sui rapporti sociali dell’est come una valvola di sfogo, in quanto le popolazioni superflue lasciavano le coste orientali dell’America per andare a vivere in occidente.

Senonché, prosegue Turner, i rapporti sociali dell’ovest si complicarono progressivamente con l’offensiva della civilizzazione che veniva da est. Lo sviluppo del capitalismo indebolì l’eguaglianza sociale della frontiera erodendo così il sostrato democratico.

La frontiera però non morì – afferma ancora Turner -, essa si spostò soltanto verso ovest, verso una nuova area da colonizzare. Su terre libere e non popolate si ristabilirono così l’equilibrio sociale e i principali ideali dei pionieri: individualismo, democrazia, nazionalismo, espansionismo.

Turner elaborò le sue idee in un periodo in cui gli echi della tricentenaria colonizzazione dell’ovest si sentivano ancora nel clima sociale, nella vita quotidiana e nella letteratura. Egli rappresentò il culmine di una lunga tradizione che mirava a considerare le terre libere come un rimedio salutare ai mali del capitalismo. La tradizione durò appunto fino a quando le terre rimasero disponibili.

Nel 1862 si mise in atto l’esigenza di una riforma agraria unanimemente sostenuta dai farmers dell’ovest: l’Homestead Act, che permise a ciascuno, per un prezzo nominale, di entrare in possesso di un lotto di 160 acri.

Nonostante questo però non si riuscì a perpetuare nell’ovest la piccola azienda a conduzione familiare, né a permetterne l’accesso agli operai industrializzati. Dopo la guerra civile del 1861-65, il capitalismo progredì enormemente negli Usa, sia nell’industria che nell’agricoltura.

Dal 1860 al 1880 il numero degli operai agricoli quadruplicò, mentre i mezzadri divennero più del 30% di tutte le aziende contadine. Il capitalismo incatenò saldamente la gran massa degli operai alle macchine utensili. Per ogni operaio che diventava proprietario d’una fattoria ce n’erano altri 20 spinti nei ranghi del proletariato. Questa volta era lo sviluppo in profondità del capitalismo che prevaleva su quello in estensione.

L’utopia agraria inesorabilmente fallì, anche se le idee utopiche da essa generate sopravvissero, divenendo conservatrici. L’apologia si manifestò soprattutto nella teoria della “scala agricola”, secondo cui un operaio agricolo poteva, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo nella fattoria padronale, diventare mezzadro e in seguito proprietario fondiario.

L’illusione coltivata dalla propaganda degli agrari non era più in buona fede. E comunque l’influenza della teoria della frontiera sul pensiero storico americano fu vasta e contraddittoria, non foss’altro che per l’artificiale separazione prodotta da Turner circa le due tendenze dello sviluppo capitalistico, in larghezza e in profondità, a tutto vantaggio della prima.

Egli credeva di scorgere nel suo paese un modello per il mondo intero. Eppure già negli anni Novanta il Census Bureau dichiarò chiusa la frontiera. In quell’occasione Turner constatò amaramente che le terre vacanti erano finite, che le forze materiali che avevano dato vita alla democrazia dell’ovest non esistevano più e che il paese era diventato come una “caldaia bollente”.

Egli si mise alla ricerca di nuove valvole di sfogo, apprezzando le ricette del riformismo borghese moderato e appoggiando con fiducia le iniziative di Th. Roosevelt e di W. Wilson. Non smise di credere nel valore dell’espansionismo americano: ecco perché condivise la politica imperialistica degli Usa condotta nei confronti del Sudamerica e dell’Estremo Oriente a cavallo dei secoli XIX e XX.

Ma il rappresentante più eminente del pensiero storico americano del XX secolo fu Ch. A. Beard, che denunciò i limiti dello schema storico della teoria di Turner. Egli basò la sua spiegazione della storia degli Stati Uniti sull’urbanizzazione, scoprendo nello sviluppo del capitalismo industriale il principale motore del processo storico dei tempi moderni.

Contrario a Turner, che faceva dipendere il benessere dal rapporto elementare dell’uomo con la natura, Beard pensava invece ch’esso dipendesse dalla rottura di tale rapporto. Non quindi la frontiera ma solo lo sviluppo industriale avrebbe potuto attenuare le contraddizioni sociali.

Egli comprendeva perfettamente che in seguito alla rivoluzione industriale erano emersi nuovi problemi, il primo dei quali era l’antagonismo tra capitale e lavoro. Pur tuttavia era convinto che l’industrialismo avrebbe ammortizzato col tempo i costi del progresso.

Beard mostrò in maniera assai realista che la concentrazione del capitale, alla fine del XIX secolo, aveva portato alla formazione di trust giganteschi, diretti da un’élite finanziaria, che p.es. i Gould e i Rockefeller, che sfruttavano qualunque tipo di risorsa umana e materiale. Le sue simpatie andavano per i nullatenenti, e spesso affermava che il popolo sapeva opporsi a questo modo non americano di governare.

Il fatto che alle elezioni del 1896 e del 1912 gli americani avessero riportato significativi successi nella democratizzazione del paese era sufficiente, a suo giudizio, per concludere che l’ulteriore sviluppo industriale avrebbe appianato i contrasti sociali e politici più acuti, approdando verso una sorta di “collettivismo democratico”.

Partecipando al movimento riformista borghese degli inizi del Novecento, Beard favorì la tendenza sintetizzata nella formula rooseveltiana del “nuovo nazionalismo”, secondo cui bisogna non tanto impedire l’attività ai monopoli quanto piuttosto regolamentarla attraverso lo Stato.

Egli prese posizione contro W. Wilson che esigeva, senza dubbio demagogicamente, la soppressione dei trust, e il revival della tradizione agraria jeffersoniana.

Beard era altresì convinto che i principali avvenimenti della storia americana avessero per contenuto fondamentale lo scontro fra gli interessi industriali e quelli agrari. In virtù di questa grande competizione si sarebbero determinati, a suo parere, un’attenuazione delle differenze di classe e il sorgere di una democrazia universale.

Beard cercò anche di ridimensionare la teoria dell’esclusivismo americano, affermando che le categorie del progresso industriale e dell’urbanizzazione si applicavano anche ai paesi europei. Insieme a A. M. Schlesinger e J. Jameson egli dimostrò che fra le rivoluzioni borghesi americana e francese del XVIII secolo c’erano molti punti in comune.

Ciò tuttavia non gli impediva di credere nella specificità dello sviluppo americano, cioè nelle condizioni particolarmente propizie all’industrialismo (che avevano generato, secondo lui, una sorta di “capitalismo puro”) e soprattutto nel carattere fortemente democratico delle loro istituzioni politiche. E’ significativo che questo elemento nazionalistico abbia trovato la sua più piena valorizzazione durante lo scatenamento sciovinistico della I guerra mondiale, la quale – ai suoi occhi – altro non rappresentò che lo scontro di due sistemi politici opposti: autocrazia e democrazia.

Ma le posizioni politiche di Beard subirono delle modificazioni. Col tempo, p.es., egli ammise che le sue conclusioni circa il trionfo della nuova democrazia all’inizio del XX secolo erano state premature, che la sua analisi della I guerra mondiale era sbagliata, in quanto si era trattato dello scontro fra grandi potenze rivali.

Negli anni Trenta adottò il relativismo e dopo la II guerra mondiale abbandonò il determinismo economico, il quale, nonostante i suoi difetti, aveva senza dubbio permesso di porre in maniera intelligente molti importanti problemi storici.

Il tema dell’unicità dell’evoluzione agraria degli Usa e della mobilità sociale degli americani occupò un posto sempre più grande nei suoi scritti; e arrivò persino a conciliare la tesi di Turner sulle frontiere territoriali con la concezione dell’industrialismo e ad apprezzare positivamente le idee di Jefferson.

Storia del mito americano (I)

La storia degli Stati Uniti, come quella di numerosi altri paesi dell’epoca moderna, ha per contenuto essenziale lo sviluppo dei capitalismo e della società borghese. Solo che in questo caso le condizioni storiche in cui lo sviluppo è avvenuto sono state particolarmente favorevoli: assenza del sistema feudale e di un pesante apparato burocratico, vittoria nella guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra (1775-83), vantaggiosa situazione geografica e immense ricchezze, ancora vergini, di un intero continente.

Il territorio americano aumentò di dieci volte da 1776 al 1900. L’esistenza delle libere terre, da sottrarre prevalentemente ai nativi, facilitò il percorso della via democratica nell’evoluzione capitalistica dell’agricoltura e creò le condizioni necessarie per uno sviluppo impetuoso dell’industria capitalistica alla fine del XIX secolo.

L’Europa diede al nuovo mondo milioni e milioni di uomini e donne già in grado di lavorare. Due guerre mondiali consolidarono le posizioni degli Usa nel mondo capitalista. Queste e altre peculiarità conferiscono alla storia del paese una grande originalità e ci aiutano a comprendere fenomeni come la forza di lunga durata del capitalismo americano, la relativa debolezza del movimento operaio e taluni tratti del carattere nazionale degli americani.

Proprio le particolarità dello sviluppo economico, sociale e politico – male interpretate da una certa apologetica borghese e sciovinistica – diedero corpo alla cosiddetta “teoria dell’esclusività”, destinata a mostrare sia la tipicità dell’esperienza storica americana che il modello ideale da seguire in tutto il mondo relativamente alle istituzioni sociopolitiche di tale paese.

La teoria dell’esclusività si modificò nel corso delle generazioni, riflettendo gli interessi dei diversi gruppi sociali, ma nel complesso essa continuò a restare un elemento essenziale della coscienza borghese americana.

Gli inizi storici della formulazione di questa idea risalgono alla stessa scoperta dell’America. come elemento dell’utopia sociale, della leggenda dell’età dell’oro. Nel 1516 Tommaso Moro situò il suo Stato ideale in questo nuovo continente, ispirando una sequela di imitatori (fra i più noti Rousseau.

L’idea dell’esclusività divenne parte integrante della filosofia dei coloni europei in America. Costoro infatti non lasciavano l’Europa solo per cercare una vita migliore, ma anche perché si sentivano mossi dalla volontà di creare una nuova società, diversa da quella europea e libera dalla schiavitù feudale.

Lo stesso nome di “Nuovo Mondo” costituiva un vero e proprio simbolo, in cui si riconoscevano il contadino ex-europeo desideroso di terra, l’artigiano che voleva realizzare guadagni più decenti dal suo lavoro e il puritano perseguitato che sognava di realizzare i suoi progetti di una celestial city.

Nell’epoca coloniale l’America fu considerata come un rifugio per la nuova fede religiosa emergente in Europa: il protestantesimo. Le cronache e le memorie di W. Bradford, governatore del New Plymouth, e di J. Winthrop, il primo governatore della colonia della Massachusetts Bay, e di altri ancora, mostrano chiaramente che i coloni, nelle loro azioni, si sentivano ispirati dalla divina provvidenza. L’idea di una particolare “elezione” risaliva alla dottrina calvinista della predestinazione, che occupava un posto di rilievo nell’ideologia puritana.

Allo stesso tempo i cronachisti puritani cercavano d’interpretare il ruolo dei coloni nella storia alla luce del Vecchio Testamento; essi stabilirono infatti una diretta analogia fra la partenza dall’Inghilterra corrotta per l’America e la fuga leggendaria degli ebrei dall’Egitto. L’America appariva loro come un luogo designato da Dio per creare la “Nuova Sion”.

La concezione del mondo degli illuministi americani, essendosi formata durante la lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, modificò sostanzialmente l’atteggiamento spirituale verso l’idea dell’esclusività. B. Franklin, Th. Jefferson e Th. Paine si staccarono decisamente dalle concezioni teologiche degli autori delle cronache e memorie.

Partendo dall’idea di un uomo naturale astratto, essi vedevano il motore dello sviluppo storico di tutti i popoli del mondo nell’istruzione, nel progresso delle conoscenze e della morale. Allo stesso tempo però l’esistenza delle terre libere, che sembravano inesauribili, generava in loro l’illusione che ogni americano avrebbe potuto beneficiare del suo diritto naturale alla terra e che quindi la proprietà sarebbe stata equamente ripartita, garantendo la prosperità universale per i secoli a venire.

In particolare, J. de Crèvecoeur vedeva nel Nordamerica la materializzazione dell’utopia roussoiana. Il giovane Jefferson s’immaginava addirittura che l’America sarebbe diventata una repubblica di farmers, in cui si sarebbero imposte le virtù civili. Nel suo primo messaggio presidenziale del 1801 Jefferson, per quanto più moderato che all’epoca delle sue convinzioni illuministiche, parlava ancora degli americani come di un “popolo eletto”.

Con la conquista dell’indipendenza la fede nel destino particolare dell’America conobbe una diffusione ancora più vasta. Lo sviluppo socioeconomico di questa regione, nel corso della prima metà del XIX secolo, non diede molto spazio alle teorie utopiche sulla via non-capitalistica.

Il consolidarsi dei capitalismo a est, nella parte “antica” dell’America, venne accompagnato dalla colonizzazione dell’ovest. Il primo processo significò lo sviluppo del capitalismo in profondità, il secondo in estensione. “Lo sviluppo del capitalismo in profondità, nei territori più antichi, da lungo tempo abitati, venne ritardato dalla colonizzazione delle province periferiche. La soluzione delle contraddizioni generate dallo stesso capitalismo venne temporaneamente rinviata dal fatto che il capitalismo ha potuto facilmente progredire in larghezza”, cosi scriveva Lenin, esaminando dialetticamente l’interazione delle due tendenze.

In condizioni di rapporti capitalistici non sufficientemente sviluppati, le terre disponibili frenavano la progressiva espropriazione delle terre dei contadini, permettendo a una parte dei farmers e a certi gruppi di operai insediatisi all’ovest di conservare e anzi di migliorare il loro status sociale precedente.

Lo sviluppo estensivo del capitalismo ritardò per qualche tempo lo scoppio delle contraddizioni fra capitale e lavoro. La colonizzazione dell’ovest fece nascere illusioni e aspirazioni piccolo-borghesi non solo tra i farmers, ma anche in seno alla classe operaia (una fattoria per ogni lavoratore, si diceva) e favoriva la diffusione di diverse utopie agrarie. Di quest’ultime i migliori interpreti furono i nazional-riformatori degli anni quaranta, D. Evans e H. Krige, che chiedevano la distribuzione gratuita ai nullatenenti delle terre ancora libere.

Evans era altresì convinto che la riforma agraria avrebbe emancipato i lavoratori dall’oppressione del capitale. In che modo? Insediandone alcuni sulla terra, mentre altri avrebbero ottenuto significativi aumenti salariali, minacciando i padroni di partire verso l’ovest.

L’apologetica religiosa dell’esclusività sopravvisse nell’epoca coloniale, ma a partire dalla guerra d’indipendenza fu posta in secondo piano dall’idea dell’esclusività politica degli Usa. La fondazione stessa d’una repubblica nordamericana fu considerata come una rivoluzione più antieuropea che antifeudale, per quanto gli elementi messianici non mancassero mai.

Washinghton, Adams e molti altri presidenti americani associavano i destini degli Stati Uniti ai disegni della volontà divina. Questa tendenza dell’esclusivisimo americano fu seguita dalla canonizzazione dei padri fondatori. A. de Tocqueville, storico e politico francese, che visitò gli Usa negli anni trenta del secolo scorso, osservò che il patriottismo degli americani e la fierezza delle loro istituzioni sociopolitiche si tramutavano facilmente nella convinzione della loro superiorità.

In un’atmosfera di euforia nazionale il terna dell’esclusività conobbe un nuovo impulso nelle opere degli storici di tendenza romantica. Il rappresentante più illustre di questa corrente, dominante nel corso della prima metà del XIX secolo, fu G. Brancroft, fondatore della “scuola precoce” (early school), che tratteggiò non più storie separate delle diverse colonie americane, ma, per la prima volta, il quadro generale dello sviluppo della nazione americana.

Nella sua visione liberal-romantica, il processo storico appariva come un costante cammino verso la libertà. La rivoluzione americana era da lui vista come l’epilogo di tutta la storia a essa precedente e come l’inizio di una nuova e ancora più gloriosa epoca. La lotta dei primi coloni per la sopravvivenza veniva presentata come il trionfo degli ideali più nobili, come una crociata per le libertà democratiche.

Bancroft non si preoccupava affatto della permanenza dello schiavismo, che considerava come un piccolo difetto nell’orizzonte della repubblica. D’altra parte egli era convinto che proprio tale repubblica avesse molto cose da insegnare agli europei. La stessa rivoluzione del 1848 in Europa fu da lui considerata come un’eco della democrazia americana.

Il nazionalismo borghese americano degenerò ben presto nel dogma espansionista dei “doveri particolari” degli Usa e, come tale, trovo la sua più chiara espressione nella dottrina del manifest destiny (destino predeterminato) promosso negli anni quaranta del secolo scorso, secondo cui gli Usa erano destinati a svolgere il ruolo di riformatori del mondo. Dottrina che poi divenne il simbolo dell’espansionismo politico americano.

A cavallo dei secoli XIX e XX esistevano ancora molti fattori favorevoli allo sviluppo del capitalismo in questa regione del mondo. La guerra civile dei 1861-65 aveva abolito la schiavitù e assicurato una rapida crescita dell’industria. Gli immigrati che affluivano in America erano decine di milioni.

Tuttavia, con il sorgere dell’epoca imperialista e con l’affermarsi dei consorzi monopolistici, la teoria dell’unicità dello sviluppo storico americano e della sua superiorità nei confronti del modello europeo cominciava a sgretolarsi. Il nuovo mondo presentava vistose somiglianze cori il vecchio.

Ma negli Stati Uniti le illusioni continuavano a persistere. Le masse, che pur protestavano contro le più evidenti manifestazioni d’ingiustizia sociale, conservavano la fede ingenua nell’esclusività del destino nazionale. Un’ideologia, questa, che di conseguenza veniva sempre più a trasformarsi da relativamente democratica in chiaramente apologetica.

Le idee esclusivistiche ricevettero una nuova colorazione e furono puntellate dai nuovi argomenti della storiografia americana alla fine del secolo XIX.

Dopo la guerra civile la Scuola di Bancroft declinò e, per la soluzione dei nuovi problemi, acuti e complessi, che emergevano, la teosofia era certamente uno strumento poco efficace. Nel contempo i successi delle scienze naturali e dei loro metodi d’indagine esercitavano una certa influenza sul pensiero sociale.

I principali orientamenti della storiografia americana subirono, secondo gradi diversi, il fascino del pensiero storico europeo e della filosofia positivista in particolare.

Il nucleo della scuola anglosassone fu costituito negli Usa nell’ultimo quarto del XIX secolo, da parte di quegli storici americani che avevano frequentato le università inglesi e tedesche. Questa scuola riconduceva l’evoluzione sociale allo sviluppo delle istituzioni politiche. Essi acquisirono metodi più perfezionati di lavoro con le fonti, ma mostrarono anche idee e concezioni storiche scioviniste.

Infatti gli storici di questa scuola affermavano che i popoli di origine anglosassone avevano creato delle istituzioni costituzionali perfette, che praticamente univano ai principi dell’individualismo quelli di un potere statale forte, l’autonomia locale al federalismo.

Inoltre gli anglosassoni – essi dicevano – avevano trasferito nel V secolo l’eredità politico-teutonica in Inghilterra, da dove i coloni puritani la portarono nel Nordamerica nel XVII secolo.

Puntando l’attenzione sulla genealogia delle istituzioni politiche americane, essi cercarono di trovare nell’America coloniale le possibili somiglianze fra queste istituzioni e l’antica organizzazione tribale germanica. La John Hopkins University di Baltimora divenne il centro di questo nuovo trend, e H. B. Adams il suo propagandista più attivo. Idee analoghe vennero sviluppate anche da altri esponenti della scuola anglosassone: ad esempio le opere di J. Fiske ebbero grande notorietà.

In definitiva, l’attenzione prestata da questi storici alla teoria germanista e alla politica comparata era mossa dall’esigenza di trovare delle prove concrete riguardo all’esclusività delle istituzioni costituzionali americane, delle prove che fossero più convincenti degli argomenti della scuoia di Bancroft.

Numerosi storici della scuola anglosassone arrivarono persino a dire che la diffusione di queste perfette istituzioni oltre le frontiere nazionali era un diritto-dovere degli Usa. Un’idea questa che, collegata colle tradizioni espansioniste americane, divenne parte integrante dell’ideologia imperialista che negli Usa s’impose a cavallo dei secoli XIX e XX.

La storiografia americana sulla politica estera (II)

Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di “interesse nazionale” e di “equilibrio delle forze”. Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.

Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l’occasione di alludere ai valori dell’altra corrente. D’altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.

La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d’impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l’onore nazionale.

Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l’accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.

Il mutamento di clima si fece sentire anche sull’interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 c’erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.

Tutto ciò però subì un’improvvisa sterzata alla fine degli anni ’60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta “nuova sinistra”. Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all’università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.

All’inizio degli anni ’70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell’Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state “aggressive” (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).

Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna “minaccia sovietica”, in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell’aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.

I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell’espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.

Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell’imperialismo. Egli sostenne anche che l’ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni ’90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in “veste industriale” di quelle concezioni espansioniste in “veste agricola” che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.

Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l’interesse dell’America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all’inizio della loro indipendenza in occasione dell’esproprio delle terre.

Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l’opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull’Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell’espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.

Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni ’70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla “sporca guerra” in Vietnam, sulla guerra fredda, sull’uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l’organizzazione dell’Associazione storica americana subirono una battuta d’arresto assai preoccupante.

La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni ’50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della “Truman Administration”.

Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull’Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l’idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l’Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l’uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).

Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d’influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l’appoggio degli Usa.

Per la nuova sintesi post-revisionista l’esistenza dell’impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch’essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.

Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l’influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.

Il loro scopo in pratico si riduce – come ha detto Lafeber – a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati – come vuole C. S. Maier – un “figlio bastardo” degli studi storici americani.

LA STORIOGRAFIA AMERICANA SULLA POLITICA ESTERA (I)

La situazione negli studi storici americani durante la transizione all’imperialismo e alla “Progressive Era” (fine Ottocento e prima decade del XX sec.) vedeva gli storici di professione cominciare a prendere il posto dei dilettanti e le tecniche di ricerca diventare sempre più perfezionate.

Nel 1884 si fondò l’American Historical Association e nel 1885 uscì il primo numero dell’American Historicol Review. L’approccio critico nei confronti del passato divenne un’esigenza comune: ne furono coinvolte discipline e scienze come il positivismo, diverse branche delle scienze naturali e, per certi versi, il marxismo.

Il trend economico-progressista di studiosi cone F. J. Turner, C. Beard, C. Becker e V. Parrington dominava la scena.

Che rapporti c’erano fra questi processi e l’evoluzione della storiografia della politica estera? Esisteva allora la cosiddetta “storia diplomatica”, un settore degli studi storici completamente a se stante.

Mentre nel XIX sec. le opinioni sulla diplomazia americana dipendevano da argomenti di carattere generale, relativi alla storici degli Usa (si pensi alle opere di G. Bancroft, R. Hildreth e J. B. McMaster), con l’inizio del XX sec. invece, uscirono diversi studi specializzati sulla storia della politica estera, da parte di J. W. Foster, A. B. Hart, J. B. Moore, C. R. Fish e altri.

L’ingresso degli Stati Uniti sulla scena internazionale aveva stimolato l’interesse collettivo per le relazioni mondiali. Le maggiori università introdussero corsi monografici di politica estera, tenuti do famosi storici come il suddetto Hart e E. Channing ad Harvard, Turner e Fish nel Wisconsin.

Più tardi, negli anni ’20, la prima opera a più tomi sui Segretariati di stato e la loro diplomazia apparve nelle edizioni del giovane S. F. Bemis.

Il carattere apologetico a favore dell’espansionismo americano cominciò a caratterizzare i lavori degli storici diplomatici professionisti dall’inizio del XX sec. in avanti. Unanimemente essi giustificavano la Monroe Doctrine, la politica-diplomatica del dollaro nei confronti del Sudamerica (si pensi alla guerra con la Spagna nel 1898), la politica delle “porte aperte” nel Far East, l’occupazione di Cuba, la “rivoluzione” di Panama e altri non meno evidenti atti aggressivi americani.

Ai seguaci di Turner sembrava completamente naturale che il processo di espansione coloniale del loro paese fosse culminato coll’avanzamento della frontiera americana verso l’oceano Pacifico, il Far East e le Filippine, senza parlare dei paesi dei Caraibi.

Si era insomma convinti, in buona o cattiva fede qui non importa, che fossero appunto i paesi conquistati a beneficiare dell’influenza commerciale americana (vedi soprattutto le opere di J. M. Callahan e J. H. Latanè).

Possono essere considerati “progressisti” storici di tal genere? Il fatto è che a quell’epoca le esigenze dell’espansione e della riforma erano essenzialmente due facce della stesso medaglia. T. Roosevelt e W. Wilson furono per il loro paese dei riformatori borghesi (perché criticavano il passato), ma erano anche apertamente sostenitori della politica estera espansionista.

Non è quindi strano, ad es., che la teoria della frontiera di Turner influenzasse sia le idee espansioniste a lui contemporanee che il riformismo di Roosevelt. Bisogna infatti considerare che ci furono molti studenti di Turner fra i maggiori storici diplomatici d’America (ad es. Bemis, F. Merk e A. F. Whitaker).

Il credo espansionista della Progressive School fu definitivamente confermato da A. Darling. Stando all’opinione di questo studente e seguace di Turner, l’espansione americana fu dura e spietato, ma essa “diffuse la libertà” e, in ultima istanza, fu un evento “positivo”.

L’apologia dell’espansionismo fu Ia principale ma non unica caratteristica della storia diplomatica del periodo progressista. Lo spirito critico di quel tempo non poteva non promuovere più alti livelli della ricerco scientifica e portare alla comparsa di un certo numero di opere che rivedevano le idee convenzionali sulla storia degli Stati Uniti e su taluni aspetti della politica estera.

Significativamente, la vecchia concezione della guerra del 1812 fra lnghilterra e Usa come di una lotta per difendere i diritti marittimi di quest’ultimi e l’onore nazionale, fu riconsiderata da H. Lewis, D. R. Anderson, L. M. Hacker e soprattutto da J. W. Pratt. Fu proprio Pratt che con più coerenza mostrò come venne giocato un ruolo decisivo dai piani espansionistici che gli ambienti governativi d’America avevano nei confronti della Florido e del Canada.

Col passare del tempo apparvero altre serie ricerche, in cui le idee espansioniste e nazionaliste venivano biasimate (si pensi alla monografia di A. K. Weinberg sulle relazioni fra Usa e tribù indiane). E. Tatum fu il primo che ritenne Io Monroe Doctrine diretta essenzialmente contro l’England. Whitaker analizzò la lotta dei popoli sudamericani per l’indipendenza. L’elenco potrebbe continuare, poiché negli anni ’20 e ’30 gli studi furono assai numerosi e molti di rilievo.

la fine della II guerra mondiale segnò invece una svolta negativa nello studio della storia degli Usa. Per almeno 15 anni ogni sorta di idee liberali, per non parlare di quelle radicali, furono guardate con sospetto e perseguitate (si pensi al maccartismo e alla guerra fredda).

Naturalmente la pesante atmosfera neoconservatrice si rifletteva sul modo d’intendere i problemi della politica estera. Una delle ragioni di questo stava nel fatto che i principali artefici del “consenso” negli studi storici, D. Boorstin, L. Hartz e R. Hofstadter, non erano competenti in materia di affari esteri. E, d’altro conto, i maggiori storici diplomatici come Bemis e Pratt, T. A. Bailey e D. Perkins, rimasero attivi anche dopo la II guerra mondiale.

Tuttavia, se fino alla guerra le loro opere continuarono a riflettere le idee progressiste degli anni ’20 e ’30 (chi più come Pratt, chi meno come Perkins), durante la seconda metà del Novecento tali autori assunsero posizioni più conservatrici. Gli accenti antibritannici di Bemis, per quanto riguarda gli affari esteri, si affievolirono notevolmente, e Perkins cominciò a enfatizzare le divergenze ideologiche fra Usa e Urss. Come i loro colleghi più giovani (vedi ad es. R. W. Leopold e A. De Conde, essi erano unanimi nella valutazione della “minaccia sovietica”: Bemis arrivò addirittura a paragonare Yalta con Monaco!

Unanime era anche il giudizio sulla politica estera americana post-bellica. Furono molti gli storici della diplomazia che a partire dagli anni ’50 fino alla prima metà degli anni ’60 difesero a spada tratta la guerra fredda, la dottrina Truman, il piano Marshall e l’antisovietismo: si pensi a J. Spanier, J. Lukacs, D. Donnelly, W. H. McNeil, H. Feis, A. Schlesinger jr. ecc.

Curiosa è stata la metamorfosi accaduta dopo il 1945 fra i membri dell’estrema destra. Fino ollo scoppio della guerra essi erano su posizioni rigidamente isolazioniste. Negli anni ’50 invece divennero accesi interventisti e sostenitori di una crociata globale contro il comunismo. Dopo la guerra, W. H. Chamberlin, che aveva approvato il patto di Monaco dei 1938, affermò che se l’Inghilterra e la Francia avessero mostrato la necessaria fermezza, la Germania e l’Urss si sarebbero distrutte a vicenda. E’ sintomatico che Chamberlin dedicasse il suo nuovo libro a J. F. Dulles, guerrafondaio patentato.

Tesi ultraconservatrici le troviamo anche nelle opere di J. Burnham, R. H. Hupè e S. Possony, per i quali persino le posizioni di Truman e D. Acheson risultavano moderate.

La storiografia americana contemporanea (II)

A partire dalla metà degli anni ’70 una terza corrente è venuta prepotentemente emergendo: quella conservatrice. Gli scrittori collegati a questo nuovo trend hanno esordito attaccando frontalmente non solo le concezioni radical democratiche ma anche quelle liberali. Essi ad es. condannano le politiche governative dei presidenti Kennedy e Johnson, rifiutano tutti i programmi di assistenza sociale degli anni ’60, ritengono che la povertà e l’ineguaglianza siano inevitabili, parteggiano per il darwinismo sociale e le idee malthusiane.

In particolare, sul concetto di povertà le loro opinioni sono davvero singolari: chi sostiene che i poveri degli Usa sono molto più ricchi dei poveri del Terzo mondo, chi pensa che la povertà non sia un fenomeno oggettivo ma una “percezione soggettiva” degli strati sociali più bassi, chi addirittura ritiene che l’assistenza sociale sia un incentivo alla povertà: basta leggersi le opere di I. Kristol, D. Bell, T. J. Lowi, B. Y. Pines… Insomma, l’aspirazione massima di questi storici conservatori è quella di tornare all’americanismo anni ’50, quando tutto appariva “facile”.

Proprio alla fine degli anni ’50 si verificò una sorta di “rivoluzione metodologica” negli studi storici: essa determinò la nascita della cosiddetta new scientific history. L’uso interdisciplinare dei metodi di molte scienze: sociologia, politologia, psicologia, antropologia, etnografia, demografia… unitamente all’adozione di metodi di ricerca quantitativi, portò alla convinzione che la storiografia poteva essere paragonata a una “scienza esatta”.

Il tentativo non era solo quello di superare i limiti della teoria del consenso, ma anche quello di fornire un metodo scientifico, oggettivo, libero da ogni pregiudizio, da ogni orientamento ideologizzato, tanto che secondo ì fautori di questo nuovo indirizzo tutte le precedenti distinzioni storiografiche avrebbero perso il loro senso.

All’inizio, in effetti, si ebbe un’impressione alquanto favorevole. Gli orizzonti e le capacità della storiografia si erano allargati. Tantissime cose interessanti si erano scoperte, specie nello studio delle esperienze collettive e della consapevolezza dei popoli di epoche diverse.

Questa nuova metodologia divenne parte del bagaglio teorico di storici marxisti e non marxisti di tutte le tendenze. Ma sarebbe far loro un torto sostenere che la “nuova storia scientifica” abbia eliminato le differenze che li dividevano, o che i metodi quantitativi e interdisciplinari costituissero la quintessenza metodologica degli studi storici.

Basta vedere cosa è successo in questi ultimi 40 anni: la new scientific history si è suddivisa in diverse branche, all’interno delle quali prevalgono nettamente le correnti conservatrici e liberali, nonché i metodi della più pura sociologia e politologia borghese.

Ecco alcuni esempi per convincersene: gli storici che hanno studiato le cause della guerra civile americana, sostengono che la schiavitù e di conseguenza gli antagonismi di classe fra il nord capitalista e il sud schiavista non ebbero alcuna parte di rilievo nello scatenamento della guerra, e lo dimostrerebbe secondo loro il fatto che gli elettori votarono per i democratici o i repubblicani a seconda delle diverse tradizioni etnico-religiose. In pratica la new political history considera molto più importanti dei conflitti di classe le contraddizioni di tipo etnico-religioso.

I leaders riconosciuti della new economic history, R. W. Fogel e S. L. Engerman, cercarono persino di dimostrare che il sud schiavista aveva conosciuto, nei decenni anteriori alla guerra, uno sviluppo progressivo. Il loro Time ori the Cross (Boston 1974), due volumi dedicati all’esame della schiavitù, si basa su quattro tesi fondamentali:

  1. la schiavitù negli Usa fu un sistema economico altamente produttivo e redditizio, che alla vigilia della guerra civile stava prosperando sia negli Stati costieri dell’Atlantico che nei nuovi Stati occidentali;
  2. il lavoro schiavistico nelle piantagioni fu più produttivo del lavoro libero dei farmers bianchi e dei salariati agricoli;
  3. le piantagioni garantivano agli schiavi un più alto standard di vita rispetto a quello offerto dal capitalismo al proletariato industriale e a quello raggiunto dai neri americani dopo l’emancipazione;
  4. le piantagioni non reprimevano le capacità fisiche, intellettuali e morali degli schiavi, i quali anzi appresero gli elementi del cristianesimo, della famiglia monogamica, ecc.

Queste tesi vennero sottoposte a dura critica da molti storici marxisti e non. In modo particolare non sfuggì loro che Engerman e Fogel (inclusi altri esponenti della new economic history) avevano comparato lo schiavismo delle piantagioni a un solo breve periodo del capitalismo industriale, quello dal 1825 al 1850.

Effettivamente risultava una minore produttività del capitalismo, ma solo perché questo era agli inizi del suo cammino e non, come lo schiavismo, nel pieno delle forze. D. C. North, T. C. Cochran, G. R. Taylor e P. Temin ribatterono sostenendo che la guerra civile non stimolò affatto lo sviluppo capitalistico, ma anzi lo impedì, portando l’America degli anni ’70 più indietro rispetto al 1860.

Tuttavia questo regresso economico fu momentaneo e in un certo senso fisiologico: i frutti delle rivoluzioni sociopolitiche non si fanno sentire subito.

In sostanza la new scientific history non fa che spezzare la storia sociale di tutte le tappe del capitalismo americano in molti tipi di “storie” fra loro giustapposte o parallele, comunque isolate dalla base economica e dalla struttura politica della società: di qui la storia della famiglia, delle donne, dei figli, degli adolescenti, delle comunità etniche, delle sette religiose ecc. Ogni singola storia viene trattata senza tener conto né dei principali orientamenti dello sviluppo storico, né delle fondamentali distinzioni di classe.

L’antistoricismo di questi metodi liberalconservatori è alla base del rifiuto di tutti i metodi di ricerca della storiografia classica e, nonostante gli approcci interdisciplinari e le tecniche quantitative, esso resta sostanzialmente apologetico del sistema borghese.

Viceversa, la storiografia radicaldemocratica, benché numericamente più debole dell’altra, rappresenta un’importante tendenza nell’evoluzione della new scientific history americana. M. B. Katz, M. J. Doucet e M. J. Stern, studiando la struttura sociale americana del 1850-75, hanno criticato l’interpretazione behaviouristica e sociopsicologica delle classi fornita dalla storiografia borghese, e hanno mostrato che gli interessi di classe possono trovare nel proletariato una consapevolezza e un comportamento inadeguati, ma non per questo essi risultano meno reali.

Il fenomeno caratteristico del Nord America in quel periodo di espansioni, la mobilità sociale, può aver fatto credere che non esistessero antagonismi fra le classi, ma si è trattato di una pura e semplice apparenza. Il capitalismo non fa sparire i conflitti tra le classi ma anzi li aggrava (cfr. The Social Organisation of Early Industrial Capitalism, Cambridge¬Mass., 1982).

Oggi la new scientific history, così come tutta la storiografia non marxista nordamericana, è suddivisa in tre fondamentali correnti, come già si è detto: conservatrice, liberale e radicaldemocratica. Nonostante alcuni punti in comune, a livello di metodo e di contenuto storiografici, le loro principali differenze si possono riassumere, per concludere, alle seguenti quattro:

  1. gli esponenti del trend liberale e conservatore aderiscono all’idea di una esclusività storica nazionale. Essi vedono la storia del mondo come una somma meccanica di storie nazionali, ognuna delle quali si è sviluppata secondo proprie leggi. Negli ultimi 30 anni s’è imposta una variante dell’esclusività americana. R. Palmer e i suoi seguaci hanno lanciato l’idea che la regione atlantica “avanzata” include anche i paesi euroccidentali, i quali però restano inferiori alla insuperata civiltà americana. Gli esponenti della tendenza radicale ritengono invece che il processo storico-universale sia unitario, nel senso che esistono alcune fondamentali leggi storiche che possono essere applicate allo studio della storia di ogni singola nazione.
  2. La maggioranza degli storici liberalconservatori sostiene un approccio multi-facIor alla casualità storica e crede nell’equivalenza dei fattori. Chi invece attribuisce l’importanza maggiore a un singolo fattore, il più delle volte sceglie fra i seguenti: mutamenti tecnologici, influenze ambientali, lo Stato e i partiti politici, aspetti biopsicologici. Viceversa, gli storici radicali puntano l’attenzione sugli elementi materiali ed economici dello sviluppo storico, e fra questi considerano che i conflitti sociali e di classe giocano un ruolo decisivo.
  3. Va detto tuttavia che solo gli storici più conservatori oggi negano completamente l’esistenza dei conflitti nella storia del loro paese. Per quelli liberali o moderati l’interpretazione dei conflitti storici viene usata come contrappeso a quella marxista. Si può anzi dire, sotto questo aspetto, che tra le principali interpretazioni liberalborghesi dei conflitti sociali vi sono: quella che nega il conflitto di classe ai livelli delle relazioni produttive, situandolo solo in quelle distributive; quella che, dopo aver diviso la società in molti piccoli gruppi, vede i conflitti sociali nelle diverse esigenze professionali o comunque vitali di questi gruppi, che pur possono avere un medesimo rapporto nei confronti della proprietà dei mezzi produttivi; quella infine che enfatizza i contrasti generazionali e della convivenza interetnica e religiosa.
  4. Sul piano della concezione politica del mondo, sia i conservatori che i liberali vogliono preservare, come noto, le posizioni storiche del capitalismo monopolistico, benché i liberali, a differenza dei conservatori, vogliono questo in virtù di riforme e di una regolazione monopolistico-statale dell’economia. Fra gli storici liberali si possono riscontrare anche sentimenti pacifisti e vagamente antimperialistici. I rappresentanti dell’ala radicale sono invece molto più netti nell’opposizione al dominio dei monopoli.