La storiografia americana contemporanea (II)

A partire dalla metà degli anni ’70 una terza corrente è venuta prepotentemente emergendo: quella conservatrice. Gli scrittori collegati a questo nuovo trend hanno esordito attaccando frontalmente non solo le concezioni radical democratiche ma anche quelle liberali. Essi ad es. condannano le politiche governative dei presidenti Kennedy e Johnson, rifiutano tutti i programmi di assistenza sociale degli anni ’60, ritengono che la povertà e l’ineguaglianza siano inevitabili, parteggiano per il darwinismo sociale e le idee malthusiane.

In particolare, sul concetto di povertà le loro opinioni sono davvero singolari: chi sostiene che i poveri degli Usa sono molto più ricchi dei poveri del Terzo mondo, chi pensa che la povertà non sia un fenomeno oggettivo ma una “percezione soggettiva” degli strati sociali più bassi, chi addirittura ritiene che l’assistenza sociale sia un incentivo alla povertà: basta leggersi le opere di I. Kristol, D. Bell, T. J. Lowi, B. Y. Pines… Insomma, l’aspirazione massima di questi storici conservatori è quella di tornare all’americanismo anni ’50, quando tutto appariva “facile”.

Proprio alla fine degli anni ’50 si verificò una sorta di “rivoluzione metodologica” negli studi storici: essa determinò la nascita della cosiddetta new scientific history. L’uso interdisciplinare dei metodi di molte scienze: sociologia, politologia, psicologia, antropologia, etnografia, demografia… unitamente all’adozione di metodi di ricerca quantitativi, portò alla convinzione che la storiografia poteva essere paragonata a una “scienza esatta”.

Il tentativo non era solo quello di superare i limiti della teoria del consenso, ma anche quello di fornire un metodo scientifico, oggettivo, libero da ogni pregiudizio, da ogni orientamento ideologizzato, tanto che secondo ì fautori di questo nuovo indirizzo tutte le precedenti distinzioni storiografiche avrebbero perso il loro senso.

All’inizio, in effetti, si ebbe un’impressione alquanto favorevole. Gli orizzonti e le capacità della storiografia si erano allargati. Tantissime cose interessanti si erano scoperte, specie nello studio delle esperienze collettive e della consapevolezza dei popoli di epoche diverse.

Questa nuova metodologia divenne parte del bagaglio teorico di storici marxisti e non marxisti di tutte le tendenze. Ma sarebbe far loro un torto sostenere che la “nuova storia scientifica” abbia eliminato le differenze che li dividevano, o che i metodi quantitativi e interdisciplinari costituissero la quintessenza metodologica degli studi storici.

Basta vedere cosa è successo in questi ultimi 40 anni: la new scientific history si è suddivisa in diverse branche, all’interno delle quali prevalgono nettamente le correnti conservatrici e liberali, nonché i metodi della più pura sociologia e politologia borghese.

Ecco alcuni esempi per convincersene: gli storici che hanno studiato le cause della guerra civile americana, sostengono che la schiavitù e di conseguenza gli antagonismi di classe fra il nord capitalista e il sud schiavista non ebbero alcuna parte di rilievo nello scatenamento della guerra, e lo dimostrerebbe secondo loro il fatto che gli elettori votarono per i democratici o i repubblicani a seconda delle diverse tradizioni etnico-religiose. In pratica la new political history considera molto più importanti dei conflitti di classe le contraddizioni di tipo etnico-religioso.

I leaders riconosciuti della new economic history, R. W. Fogel e S. L. Engerman, cercarono persino di dimostrare che il sud schiavista aveva conosciuto, nei decenni anteriori alla guerra, uno sviluppo progressivo. Il loro Time ori the Cross (Boston 1974), due volumi dedicati all’esame della schiavitù, si basa su quattro tesi fondamentali:

  1. la schiavitù negli Usa fu un sistema economico altamente produttivo e redditizio, che alla vigilia della guerra civile stava prosperando sia negli Stati costieri dell’Atlantico che nei nuovi Stati occidentali;
  2. il lavoro schiavistico nelle piantagioni fu più produttivo del lavoro libero dei farmers bianchi e dei salariati agricoli;
  3. le piantagioni garantivano agli schiavi un più alto standard di vita rispetto a quello offerto dal capitalismo al proletariato industriale e a quello raggiunto dai neri americani dopo l’emancipazione;
  4. le piantagioni non reprimevano le capacità fisiche, intellettuali e morali degli schiavi, i quali anzi appresero gli elementi del cristianesimo, della famiglia monogamica, ecc.

Queste tesi vennero sottoposte a dura critica da molti storici marxisti e non. In modo particolare non sfuggì loro che Engerman e Fogel (inclusi altri esponenti della new economic history) avevano comparato lo schiavismo delle piantagioni a un solo breve periodo del capitalismo industriale, quello dal 1825 al 1850.

Effettivamente risultava una minore produttività del capitalismo, ma solo perché questo era agli inizi del suo cammino e non, come lo schiavismo, nel pieno delle forze. D. C. North, T. C. Cochran, G. R. Taylor e P. Temin ribatterono sostenendo che la guerra civile non stimolò affatto lo sviluppo capitalistico, ma anzi lo impedì, portando l’America degli anni ’70 più indietro rispetto al 1860.

Tuttavia questo regresso economico fu momentaneo e in un certo senso fisiologico: i frutti delle rivoluzioni sociopolitiche non si fanno sentire subito.

In sostanza la new scientific history non fa che spezzare la storia sociale di tutte le tappe del capitalismo americano in molti tipi di “storie” fra loro giustapposte o parallele, comunque isolate dalla base economica e dalla struttura politica della società: di qui la storia della famiglia, delle donne, dei figli, degli adolescenti, delle comunità etniche, delle sette religiose ecc. Ogni singola storia viene trattata senza tener conto né dei principali orientamenti dello sviluppo storico, né delle fondamentali distinzioni di classe.

L’antistoricismo di questi metodi liberalconservatori è alla base del rifiuto di tutti i metodi di ricerca della storiografia classica e, nonostante gli approcci interdisciplinari e le tecniche quantitative, esso resta sostanzialmente apologetico del sistema borghese.

Viceversa, la storiografia radicaldemocratica, benché numericamente più debole dell’altra, rappresenta un’importante tendenza nell’evoluzione della new scientific history americana. M. B. Katz, M. J. Doucet e M. J. Stern, studiando la struttura sociale americana del 1850-75, hanno criticato l’interpretazione behaviouristica e sociopsicologica delle classi fornita dalla storiografia borghese, e hanno mostrato che gli interessi di classe possono trovare nel proletariato una consapevolezza e un comportamento inadeguati, ma non per questo essi risultano meno reali.

Il fenomeno caratteristico del Nord America in quel periodo di espansioni, la mobilità sociale, può aver fatto credere che non esistessero antagonismi fra le classi, ma si è trattato di una pura e semplice apparenza. Il capitalismo non fa sparire i conflitti tra le classi ma anzi li aggrava (cfr. The Social Organisation of Early Industrial Capitalism, Cambridge¬Mass., 1982).

Oggi la new scientific history, così come tutta la storiografia non marxista nordamericana, è suddivisa in tre fondamentali correnti, come già si è detto: conservatrice, liberale e radicaldemocratica. Nonostante alcuni punti in comune, a livello di metodo e di contenuto storiografici, le loro principali differenze si possono riassumere, per concludere, alle seguenti quattro:

  1. gli esponenti del trend liberale e conservatore aderiscono all’idea di una esclusività storica nazionale. Essi vedono la storia del mondo come una somma meccanica di storie nazionali, ognuna delle quali si è sviluppata secondo proprie leggi. Negli ultimi 30 anni s’è imposta una variante dell’esclusività americana. R. Palmer e i suoi seguaci hanno lanciato l’idea che la regione atlantica “avanzata” include anche i paesi euroccidentali, i quali però restano inferiori alla insuperata civiltà americana. Gli esponenti della tendenza radicale ritengono invece che il processo storico-universale sia unitario, nel senso che esistono alcune fondamentali leggi storiche che possono essere applicate allo studio della storia di ogni singola nazione.
  2. La maggioranza degli storici liberalconservatori sostiene un approccio multi-facIor alla casualità storica e crede nell’equivalenza dei fattori. Chi invece attribuisce l’importanza maggiore a un singolo fattore, il più delle volte sceglie fra i seguenti: mutamenti tecnologici, influenze ambientali, lo Stato e i partiti politici, aspetti biopsicologici. Viceversa, gli storici radicali puntano l’attenzione sugli elementi materiali ed economici dello sviluppo storico, e fra questi considerano che i conflitti sociali e di classe giocano un ruolo decisivo.
  3. Va detto tuttavia che solo gli storici più conservatori oggi negano completamente l’esistenza dei conflitti nella storia del loro paese. Per quelli liberali o moderati l’interpretazione dei conflitti storici viene usata come contrappeso a quella marxista. Si può anzi dire, sotto questo aspetto, che tra le principali interpretazioni liberalborghesi dei conflitti sociali vi sono: quella che nega il conflitto di classe ai livelli delle relazioni produttive, situandolo solo in quelle distributive; quella che, dopo aver diviso la società in molti piccoli gruppi, vede i conflitti sociali nelle diverse esigenze professionali o comunque vitali di questi gruppi, che pur possono avere un medesimo rapporto nei confronti della proprietà dei mezzi produttivi; quella infine che enfatizza i contrasti generazionali e della convivenza interetnica e religiosa.
  4. Sul piano della concezione politica del mondo, sia i conservatori che i liberali vogliono preservare, come noto, le posizioni storiche del capitalismo monopolistico, benché i liberali, a differenza dei conservatori, vogliono questo in virtù di riforme e di una regolazione monopolistico-statale dell’economia. Fra gli storici liberali si possono riscontrare anche sentimenti pacifisti e vagamente antimperialistici. I rappresentanti dell’ala radicale sono invece molto più netti nell’opposizione al dominio dei monopoli.