Una cultura davvero transazionale e multiforme, totalmente priva delle miserie e dei fanatismi “patriottici”

La cultura romaní, intesa in senso antropologico, è costituita da un insieme complesso che include la conoscenza, la credenza, l’arte, la morale, le leggi, i racconti, le fiabe, i proverbi, i detti, i motti di spirito e ogni altra capacità e abitudine acquisita dall’individuo come membro della comunità.
L’uomo apprende e accetta la propria cultura, come apprende e accetta la propria lingua materna. Egli impara la lingua materna e si esprime con essa, così come vive e si esprime secondo i dettami della propria cultura. Chiaramente la cultura ha la sua origine storica, le sue regole e la sua struttura direttamente collegate con la vita del gruppo etnico che con essa di esprime. La cultura romaní è transnazionale, multiforme e paradigmatica con infinite sfaccettature e sfumature essendo distribuita in ogni continente e in tantissimi Paesi. Continua a leggere

Per una filosofia della storia (II)

Differenze tra ortodossia, cattolicesimo e protestantesimo

Si potrebbe, in un certo senso, collegare, sul piano socio-economico, l’ortodossia (che è la prima manifestazione della religione cristiana) allo schiavismo e al colonato, che segue immediatamente la dissoluzione della schiavitù dell’epoca imperiale, durante la quale tra cattolicesimo e ortodossia non vi erano ancora sostanziali differenze. La religione cattolica andrebbe invece collegata alla servitù della gleba del periodo feudale, mentre il protestantesimo all’operaio salariato della manifattura. Tutte le religioni euroccidentali sono cominciate ad entrare in una crisi irreversibile a partire dalla rivoluzione industriale vera e propria, iniziata in Inghilterra verso la metà del XVIII secolo.

L’ortodossia rappresenta non solo la prima manifestazione della religione cristiana, ma anche il primo tradimento degli ideali originari del Cristo (i fondatori del cristianesimo ortodosso vanno ricercati negli autori dei documenti neotestamentari: in particolare Paolo, Giovanni, Marco ecc.).

In che cosa è consistito il tradimento della chiesa ortodossa? Nel predicare l’ideologia dell’amore universale rinunciando a lottare per la giustizia sociale, terrena, degli uomini. L’amore – secondo questa religione – doveva servire per sopportare stoicamente le ingiustizie. Durante tutto il corso dell’impero romano, l’ortodossia, per poter giustificare lo schiavismo, fece dell’amore un concetto di altissimo significato spirituale, riuscendo a coinvolgere decine di migliaia di persone.

Non dimentichiamo che le più grandi persecuzioni i cristiani le hanno subìte in questo periodo. Essi erano convinti di rappresentare un’alternativa alla mentalità dominante, anche se sostenevano che i migliori frutti del loro amore li avrebbero colti nel “regno dei cieli”. Da questo suo principio basilare, l’ortodossia non si è mai distaccata, almeno sul piano teorico, anche a costo di apparire come una religione conservatrice, legata unicamente al proprio passato.

Il cattolicesimo-romano emerge dalla constatazione che il principio ortodosso dell’amore universale non è in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti schiavistici o di colonato. Questa chiesa rinuncia al principio dell’amore universale – che giudica astratto – per affermare una nuova modalità esistenziale, quella del potere politico, che è sempre, a ben guardare, una forma di “idealismo”, anche se viene espressa, generalmente, in una maniera più rozza e incivile (si pensi alle crociate, all’inquisizione, alla lotta feroce contro le eresie, alle guerre di religione, ecc.).

In effetti, la chiesa cattolica appare, con la svolta costantiniana, molto più disposta al compromesso sui princìpi di quanto non lo sia la chiesa ortodossa o greco-bizantina. Tale predisposizione essa l’aveva ereditata dalla cultura latina dell’impero romano, che era prevalentemente giuridica, sul piano formale, e basata sul concetto di “forza” sul piano sostanziale. La cultura greca invece era di tipo filosofico, cioè metafisico, idealistico, estetico, artistico…

Le differenze maggiori tra le due chiese sono emerse quando l’imperatore Costantino, dopo aver fatto del cristianesimo la religione di stato, trasferì la capitale dell’impero a Bisanzio (intorno a questo fatto la chiesa latina deciderà poi di elaborare il famoso falso della Donazione di Costantino, a titolo per così dire di “risarcimento”: falso in cui si credette sino all’Umanesimo).

Ma forse il momento in cui le differenze si sono maggiormente accentuate è stato quando l’imperatore Teodosio decise di fare del cristianesimo l’unica legittima religione di stato. Questa decisione, nella parte occidentale dell’impero, priva com’era della presenza “fisica” dell’imperatore, ebbe un’importanza decisiva ai fini dell’organizzazione del potere politico da parte della chiesa romana, che si servì immediatamente di varie tribù barbariche per affermare il proprio dominio universale.

E’ stato proprio l’uso del potere politico, finalizzato a un obiettivo egemonico, che ha indotto la chiesa latina ad allontanarsi progressivamente da quella greca (la rottura definitiva, mai più sanata sul piano teologico, è avvenuta nel 1054). Viceversa, la chiesa bizantina non è quasi mai stata caratterizzata dalla volontà di usare un potere politico contro l’autorità imperiale: spesso, anzi, nella storia dell’impero bizantino, la si è vista contestare le pretese imperiali di dominio o d’ingerenza negli affari ecclesiastici, non tanto per rivendicare un proprio potere politico (concorrenziale a quello dell’impero), quanto per affermare determinate posizioni di principio (come ad es. nella questione iconoclastica o durante le dispute teologiche sulla natura del Cristo).

Naturalmente, con questo non si vuol dire che la rivendicazione del potere politico, da parte della chiesa latina, sia stata di per sé un fattore negativo (poiché la politica può anche essere usata per un fine di liberazione, come dimostra la recente teologia sudamericana); ma, senza dubbio, tale rivendicazione è diventata un fattore negativo nel momento stesso in cui si voleva imporre una determinata ideologia ed affermare un potere egemonico di classe o di casta.

Ponendo in essere l’esigenza della politica, il cattolicesimo, se vogliamo, ebbe anche la possibilità di riavvicinarsi maggiormente al modello originario del Cristo, che sicuramente non disprezzava la politica quale mezzo di trasformazione sociale; solo che l’intellighenzia cattolica medievale si è servita della politica per giustificare non l’esigenza di rapporti sociali umani, ma la realtà di quelli servili (cui la chiesa era particolarmente interessata perché essa stessa forza produttiva ed economica), al punto che ha fatto del servaggio feudale (questo nell’Aquinate è assai evidente) la “ragion d’essere” dell’esistenza del contadino-credente, e non soltanto -come per lo schiavismo- una condizione “infelice” da sopportare stoicamente in attesa della “retribuzione ultraterrena”.

Quale istituzione eminentemente politica, la chiesa romana ha valorizzato maggiormente i princìpi dell’obbedienza, dell’autorità, della gerarchia… rispetto a quelli ortodossi della comunione e della collegialità: alla “forza dell’esempio” ha preferito l’”esempio della forza”. I princìpi cattolici, che minarono l’idea della fratellanza e dell’uguaglianza, elaborata dal cristianesimo primitivo, hanno aperto la strada all’individualismo, che è il terreno propizio all’affermazione della mentalità borghese. In questo senso, la differenza che si pone tra l’individualismo cattolico e quello protestante sta unicamente nel fatto che il primo riguarda solo gli individui di potere (ovvero la gerarchia, che per garantirlo, si serve di un forte apparato burocratico-amministrativo e di controllo), mentre il secondo riguarda tutti i credenti, i quali possono così sperimentare – nell’ambito dell’individualismo – una maggiore uguaglianza (non a caso il protestantesimo ha affermato i princìpi del “sacerdozio universale” e del “libero esame”, mentre i cattolici hanno preferito quelli dell’infallibilità pontificia o dell’immacolata concezione).

E’ dunque nei limiti del cattolicesimo medievale che va ricercata la causa sovrastrutturale che ha generato (indirettamente) lo sviluppo della mentalità borghese dell’epoca moderna. Nonostante che in Europa orientale (area bizantina) la politica imperiale fosse più autonoma dall’influenza della religione ortodossa (si pensi ai concetti di “diarchia” o di “sinfonia”, che la storiografia occidentale ha sempre voluto qualificare col termine di “cesaropapismo”), la rivoluzione borghese è invece avvenuta in Occidente.

Questo significa che il cittadino ortodosso si sentiva, in coscienza, più legato alla propria religione di quanto non lo fosse il cittadino cattolico nei confronti della propria. Come spiegare altrimenti il fatto che l’Europa orientale, pur avendo anch’essa avuto un sistema feudale, non è mai stata caratterizzata (almeno sino alla fine del secolo scorso) dalle profonde contraddizioni che tale sistema ha comportato in Europa occidentale? Come spiegare il fatto che nell’Europa orientale si sono conservate molte più esperienze agricolo-comunitarie che nell’area occidentale, al punto che agli inizi del secolo vi erano ancora correnti politiche convinte di poterle riformare per opporsi efficacemente alla penetrazione di elementi capitalistici?

La mentalità borghese è appunto nata perché una religione imposta colla forza ha meno presa di una che per affermarsi si serve (anche) di esempi di santità personale, di coerenza etico-religiosa, di valori fondamentali… E’ forse un caso strano che gli ortodossi abbiano sempre preferito sopportare l’occupazione turca piuttosto che l’invasione latina? O che non abbiano mai sperimentato, all’interno della loro confessione, le terribili guerre di religione che sconvolsero l’Occidente per interi secoli?

Certo, qui non si vuole idealizzare la confessione ortodossa, si vuol soltanto mettere in evidenza che il “tradimento” ortodosso dei princìpi del Cristo ha determinato conseguenze meno drammatiche di quello del cattolicesimo. Per gli ortodossi -già lo si è detto- gli ideali del Cristo non potevano realizzarsi in sede politica, ma solo nel rapporto comunitario, cioè nell’ambito della chiesa locale, a livello rituale, sacramentale, interpersonale… Il cattolicesimo seppe sì riscoprire l’importanza dello strumento della politica, ma finì col servirsene per scopi tutt’altro che umanitari.

Barak Hussein Obama. Un Presidente di nuove libertà?

L’uomo di questi giorni è il neo eletto presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama. Eletto a furor di voti, è riuscito a fare il pieno dei Democratici anche nel Parlamento americano.
Esce di scena, seppur tra due mesi e mezzo, George W. Bush, reo di aver trascinato un Paese e un popolo in guerre preventive, diritti civili negati, e come ultima stilla un disastro finanziario che ha travolto i mercati internazionali. La sua popolarità si era assestata al 24 per cento: una débâcle! Continua a leggere

Per una filosofia della storia (I)

Perché la rivoluzione borghese in Europa occidentale?

Uno dei grandi problemi che la scienza storica deve ancora spiegare, in maniera esauriente, è il motivo per cui i rapporti borghesi e il modo di produzione capitalistico si sono sviluppati non nella ricca e avanzata civiltà bizantina (rimasta tale almeno sino alle crociate e all’invasione turca), ma nell’Europa occidentale, che dalla caduta dell’impero romano fino al mille conobbe una notevole arretratezza economica e tecnologica. Questione che, sul piano più generale, non contestuale, si potrebbe anche porre nei termini seguenti: come mai, a parità di condizioni economiche, in una società si forma la produzione borghese-capitalistica e in un’altra no? Cos’è che impedisce agli uomini di compiere questa transizione sociale? Cos’è invece che la promuove?

Una risposta – ancora tutta da verificare – potrebbe essere questa: in Occidente esistevano, a livello sovrastrutturale, condizioni più favorevoli all’affermarsi della società e della mentalità borghese. Il che sta a significare che la questione andrebbe affrontata in maniera da considerare le determinazioni ideologiche della coscienza sociale come relativamente prioritarie rispetto a quelle strutturali dell’economia. D’altra parte è noto che l’economia non può determinare, tout-court, la coscienza sociale, altrimenti non vi sarebbe alcun progresso storico, né si potrebbe mai realizzare il socialismo. Il marxismo parla di “influenza reciproca”, di “condizionamento interdipendente” e considera determinante la struttura solo “in ultima istanza”. Qui dobbiamo considerare il fatto che quando la coscienza sociale delle contraddizioni di un sistema, è ben radicata nel contesto della società, essa tende a trasformarsi in una forza strutturale non meno tenace della forza dell’economia.

Gli antecedenti culturali della borghesia

La rivoluzione borghese – questa potrebbe essere la tesi – è avvenuta nell’Occidente europeo perché qui la chiesa cattolica aveva spezzato i vincoli che la legavano alla chiesa ortodossa, dando il via alla concezione laicista e individualista dell’esistenza (in forma embrionale e inconscia). Detto altrimenti: la religione cattolico-romana, pur essendo fondamentalmente una confessione “medievale”, ha (quasi) sempre avuto in sé (prima ancora della svolta costantiniana) degli elementi (tuttora da ricercare) che potevano essere svolti in direzione della mentalità borghese. In questo senso bisognerebbe ripercorrere almeno l’itinerario che va da Agostino d’Ippona a Tommaso d’Aquino.

Tale religione, in sostanza, avrebbe contribuito – naturalmente senza volerlo – alla formazione dello spirito borghese, che poi è quello che permette a una determinata economia di assumere una direzione ben specifica. In seguito, cioè a conclusione dell’epoca medievale, il protestantesimo si assunse il compito di laicizzare ulteriormente il cattolicesimo, preparando il terreno culturale per lo sviluppo coerente e conseguente della prassi borghese.

Fino ad oggi la storiografia, sul piano sovrastrutturale, ha studiato, fra l’altro, gli elementi borghesi del protestantesimo, sia secondo la teoria marxista del “riflesso”, per cui il protestantesimo non ha fatto altro che legittimare i rapporti economici capitalistici; sia secondo la teoria sociologica di Weber, per il quale il capitalismo è piuttosto un prodotto del protestantesimo (o per lo meno quest’ultimo sarebbe stato la forza propulsiva che avrebbe contribuito in maniera decisiva, sul piano ideologico, alla formazione del capitalismo). Ancora però la storiografia non ha studiato in che modo il cattolicesimo (dei primi 1500 anni della nostra era) poteva condurre (indirettamente) alla mentalità borghese e quindi al protestantesimo. Il quale, se vogliamo, non è stato soltanto una reazione al cattolicesimo, ma anche uno svolgimento necessario della stessa mentalità borghese, che da tempo lo precedeva (come minimo dal Mille).

Ma Barack, bello, sincero e democratico, avrà il coraggio di Nixon, bruttino, repubblicano, ariano e bugiardo? E in Italia davvero è in arrivo un “nuovo ’68” o è un sogno della sinistra dei “barackati”?

Obama for president! Lo gridano anche i nostri della sinistra, gli stessi che – a scoppio ovviamente ritardato – sono riusciti a dirsi “filo americani da sempre e mai stati comunisti”. Vale a dire, gli stessi che erano e sono filo Kennedyani, erano e sono tuttora amanti del suo mito della Nuova Frontiera (dozzine di popoli “indiani spazzati via per farla, ma tralasciamo: “semo de sinistra” “se po’ fà”…), “ma anche” (=leit motiv di Uòlter) erano contro la guerra del Vietnam sorvolando che l’aveva voluta alla grande proprio Kennedy! Filocubani, castristi, chevariani, ma facendo finta di non sapere che a tentare di ri-colonizzare Cuba, invadendola armi alla mano, fu proprio la buonanima di Kennedy. Eh, quando si tratta di memoria… facciamo tutti cilecca e ci ammantiamo con l’ipocrisia della Memoria. Continua a leggere

Cultura Mentalità e Metodo storico (II)

L’antropologia storica deve sviluppare le acquisizioni di quella storiografia scientifica che ha voluto dare concretezza alla storiografia politica, aggiungendovi gli aspetti socioeconomici. Deve svilupparle in direzione dei processi culturali, psicologici, psico-sociali, insomma umani.

La fusione della storia con la sociologia e l’economia politica ha comportato una sorta di spersonalizzazione dei processi storici. Il primato concesso all’oggettività delle forze produttive ha racchiuso i rapporti produttivi entro una cornice prevalentemente economica, trascurando gli aspetti sovrastrutturali.

La tesi secondo cui l’essere materiale determina sic et simpliciter la coscienza umana ha avuto per effetto che la coscienza degli uomini è quasi totalmente scomparsa dalle indagini degli storici.

Anzitutto sarebbe meglio sostenere che è l’essere sociale a determinare la coscienza individuale, intendendo per “sociale” qualcosa che include anche l’economico ma non solo questo aspetto produttivo.

In secondo luogo sarebbe meglio precisare che il condizionamento è sempre relativo, in quanto la coscienza umana può anche prendere decisioni difformi dall’essere sociale che la condiziona, altrimenti non vi sarebbe dialettica nella storia, ma solo ripetizione obbligatoria di regole precostituite.

Michel Vovelle ha sempre rifiutato di considerare gli aspetti socioeconomici come esclusivi dello storico marxista e si dichiarava molto interessato anche ai processi relativi alla formazione e allo sviluppo della “mentalità”.

In effetti è divenuto ormai un dato acquisito della storiografia più avanzata l’idea che per comprendere il comportamento umano è necessario conoscere non soltanto le condizioni materiali ad esso esterne, ma anche le forme immateriali della coscienza, della mentalità, della cultura.

In particolare è molto utile stabilire una differenza tra i prerequisiti o premesse “potenziali” del comportamento sociale degli uomini (intendendo con ciò anche gli stimoli provenienti dal mondo esterno) e le cause “fattive” degli eventi, cioè le condizioni oggettive che ad un certo punto determinano gli stili di vita, le scelte esistenziali, in quanto gli stimoli, le opportunità sono divenute fatti concreti della coscienza umana, avendo attraversato i filtri e i meccanismi psichici di trasformazione.

Tuttavia, è anche vero che spesso per motivi di forza maggiore, indipendentemente dalla propria volontà, ci si trova a vivere in una determinata maniera piuttosto che in un’altra. Spesso addirittura gli scopi che gli uomini si prefiggono possono essere falsi oppure i risultati che si ottengono, perseguendoli, possono essere opposti a quelli preventivati. Il concetto di “ironia della storia” è ben noto a tutti gli storiografi.

E’ bene comunque che lo storico faccia di tutto per individuare il carattere alternativo delle vie dello sviluppo storico, al fine di ridurre al minimo la legge della necessità storica.

La necessità è la conseguenza di una realtà scelta. La scelta può essere diretta (personale) o indiretta (impersonale, cioè voluta da altri).

Le leggi della storia non possono essere feticizzate; se la realtà storica viene eccessivamente semplificata, la si falsifica. Occorre una tendenza integrazionista, olistica, delle varie discipline specialistiche: anche perché gli storici dell’economia o della letteratura o delle arti studiano in fondo gli stessi soggetti.

La storia deve essere “totale”, dove la pietra angolare per la comprensione di ogni singolo aspetto è data dalla coscienza umana. Il materiale e l’immateriale devono acquisire pari dignità.

Una “scienza dell’uomo e per l’uomo” non può essere “scientifica” come una scienza esatta. Nella storia interagiscono dialetticamente libertà e necessità. I processi non possono essere rappresentati come sub specie necessitatis.

Alla pigrizia mentale del ricercatore può far comodo agire secondo la categoria della necessità (che spesso, erroneamente, viene fatta coincidere con quella fatalistica della “inevitabilità”). La necessità è un condizionamento oggettivo di cui bisogna tener conto, prima di poter prendere una decisione.

L’inevitabilità è una sorta di condanna, un peso superiore alle proprie forze, che schiaccia inesorabilmente la propria libertà di scelta. L’inevitabilità non offre alternative. La necessità invece è solo un condizionamento, anche forte, di cui bisogna tener conto, di cui sarebbe irresponsabile non prendere atto. Essa non esclude di per sé la possibilità di vie alternative allo sviluppo storico.

Anzi è un preciso compito dello storico abituare il lettore a capire che i processi non sono unilaterali, univoci, ma sempre frutto di libertà di scelta, in cui pesano determinati condizionamenti, i quali possono portare a scelte sbagliate o a conseguenze impreviste, pur in presenza di scelte giuste, semplicemente perché si era sottovalutato il peso, l’influenza di quei condizionamenti.

Questo poi senza considerare che in genere i processi storici, quando non si è in presenza di rivoluzioni traumatiche, avvengono in maniera graduale, quasi impercettibile, semplicemente per progressive determinazioni quantitative, informali, anche se ad un certo punto appare la necessità di dover prendere delle decisioni, in quanto quelle successive determinazioni quantitative, di forma, tendono a mutarsi in qualcosa di qualitativamente diverso, di sostanzialmente nuovo, inedito.

A quel punto occorre agire subito, sperando che la scelta sia la meno dolorosa possibile, anche perché più si agisce in ritardo e più la scelta sarà dolorosa. Una decisione deve comunque essere presa. Se il Dictatus papae di Gregorio VII fosse stato respinto dalla maggioranza dei vescovi o da una rimostranza popolare, non sarebbe nata con lui la teocrazia papale.

Nella storia solo alcune possibilità si realizzano, altre vengono negate, ma se quelle che si realizzano non hanno caratteristiche autenticamente umane o conformi a natura, quelle negate si ripresentano, ovviamente in forme nuove, relative al mutare dei tempi.

Tutta la critica al cattolicesimo-romano, a partire dai movimenti ereticali pauperistici, che la chiesa represse duramente, è stata ereditata, mutandone ovviamente forme e contenuti, dalla nascita del pensiero laico, agnostico e ateistico, del mondo moderno.

Occorre che gli storici si concentrino soprattutto sulle fasi di transizione da una civiltà o da una formazione sociale a un’altra, e che individuino di queste fasi gli sviluppi culturali della mentalità che, insieme alle condizioni materiali dell’economia, hanno promosso tali fasi.

Le tradizioni infatti possono essere violate sia in senso negativo che in senso positivo. La chiesa romana p.es. violò negativamente la tradizione ortodossa espressa nei primi mille anni di storia del cristianesimo. Ma il socialismo violò positivamente la tradizione millenaria che la chiesa romana espresse dopo il 1054.

Non si possono prendere le cose come un “fatto compiuto”. Dietro questi fatti vi sono tensioni e contrasti che possono trascinarsi anche per secoli. Dal Filioque allo scisma del 1054 passarono tre secoli.

Poi non bisogna dimenticare che in tali fasi di transizione, alcuni personaggi storici incarnano meglio di altri l’essenza dei contrasti fondamentali. Pertanto le loro opere devono essere oggetto di un esame particolare, approfondito. Per comprendere la nascita dell’epoca moderna non basta leggersi il Capitale di Marx, occorrono anche le opere di Lutero e di Calvino.

Se Marx fosse stato supportato da un’équipe di studiosi, queste cose sarebbero venute fuori da sé, cioè non sarebbero rimaste a livello di semplici intuizioni o di affermazioni estemporanee.

Tuttavia il fatto che esistano personaggi storici in grado di rappresentare, da soli, l’essenza dei problemi cruciali di un determinato periodo non deve farci dimenticare che le idee, di per sé, non sono nulla se non entrano nella coscienza delle masse, e se queste non decidono di metterle in pratica o non accettano che vengano praticate.

In ultima istanza infatti sono le masse che fanno la storia, non tanto gli individui singoli. Le idee personali diventano una forza tanto più materiale quanto più sono condivise. E’ sempre necessaria quindi una loro semplificazione, una forma didattica, pedagogica della loro trasmissione al popolo, nell’uso di tutti i mezzi disponibili.

Questo per dire che spesso nella storia hanno più peso le opinioni inespresse delle masse che non quelle espresse dagli intellettuali. Le produzioni culturali destinate a rimanere nel tempo, anche se sul piano stilistico-formale non sono le migliori, sono sempre quelle collettive, cioè quelle verificate dagli stessi fruitori, che con la loro creatività, inventiva, critica, hanno contribuito a precisarne i contenuti. I vangeli ne sono un chiaro esempio. Nonostante le loro falsificazioni, restano un documento di grande valore letterario. Ma anche oggi il software “open source” è considerato migliore di quello coi sorgenti criptati.

Questo peraltro significa anche che lo storico deve necessariamente attribuire una certa “dignità” anche alla produzione culturale che ufficialmente viene considerata “minore”. P. es. la letteratura del Risorgimento italiano è quasi inesistente nei manuali scolastici di storia della letteratura.

Chiediamoci: fra mille anni uno storico riuscirà a interpretare più facilmente il nostro periodo attraverso le news dei telegiornali o attraverso i verbali dei processi civili e penali? Noi sappiamo che quanto più una notizia è ufficiale, di dominio pubblico, espressione dei poteri dominanti, tanto meno è attendibile, veridica, verificabile.

Bisogna che gli storici siano molto più sospettosi nei confronti delle dichiarazioni dirette, esplicite, degli uomini di potere, e si affidino maggiormente alle testimonianze indirette, alle opinioni espresse involontariamente, o anche ai racconti cosiddetti “controcorrente”. Sarebbe p.es. ingenuo cercare di capire l’evoluzione dei dogmi della chiesa romana prendendo in esame i dogmi stessi.

Bisogna sempre fare una precisa distinzione tra istituzioni e masse popolari, tra poteri dominanti e senso comune. Ciò è ancor più necessario quando si esaminano ideologie che favoriscono il dualismo di teoria e pratica, come appunto quelle cattolico-romana e protestante, ma anche quelle stalinista e maoista. E nella affermazione e diffusione del dualismo gli intellettuali sono sicuramente, rispetto alla gente comune, maestri insuperabili.

Cultura Mentalità e Metodo storico (I)

L'”histoire des mentalités” è nata presso la “nouvelle science historique” francese. La “mentalità” era un concetto che Lucien Febvre e Marc Bloch avevano preso da Lévy-Bruhl, il quale aveva supposto l’esistenza d’un pensiero “prelogico” particolare negli uomini primitivi.

Tuttavia i due medievisti francesi applicarono il concetto agli umori, ai modi di pensare, alla psicologia collettiva delle popolazioni delle cosiddette “società calde”, che avevano raggiunto lo stadio della civiltà.

Il concetto di “mentalità” suppone infatti la presenza, presso un collettivo avente una medesima cultura, di certi mezzi intellettuali o psicologici coi quali percepire e comprendere tutta la realtà sociale e naturale, e questo in maniera sufficientemente ordinata.

Uno dei compiti principali dell’antropologia storica è quello di individuare, nei processi oggettivi, materiali, di una formazione sociale, quegli aspetti soggettivi che costituiscono il contenuto della coscienza di un collettivo, che porta quest’ultimo ad assumere un certo stile di vita e a fare determinati ragionamenti.

Nell’analisi storica gli aspetti psicologici e culturali rivestono molta più importanza che nel passato, anche perché un affronto meramente sociologico dei fenomeni storici finisce col dare una descrizione sommaria dei macroprocessi, sulla base di modelli euristici molto generali e quindi inevitabilmente astratti.

Il pensiero storico infatti resta spesso prigioniero dei principi espressi dalla storiografia positivista del XIX secolo e degli inizi del XX.

Nella sua Introduzione alla storia scriveva Louis Halphen: “quando i documenti sono muti, la storia tace; quando semplificano le cose, anche la storia le semplifica; quando invece le distorcono, anche la storia lo fa”. Ecco perché Charles Seignobos diceva che lo storico deve accumulare quanti più fatti possibile, metterli a confronto tra loro, come fosse un rigattiere, dopodiché gli sarà relativamente facile scoprire quelle leggi storiche che, pur essendo nascoste, li tengono uniti.

Era il trionfo della “storia quantitativa”. La verità è nascosta nei testi, quindi – diceva Fustel de Coulange – “solo testi, sempre testi, nient’altro che testi”. Empirismo e accumulazione dei fatti: l’ermeneutica, per scoprire il loro senso implicito, veniva dopo.

Tuttavia questa metodologia non arrivò mai a scoprire un senso profondo dei fatti. L’approccio era troppo sociologico-quantitativo per poter arrivare a capire che la concezione della storia di una determinata civiltà costituiva la consapevolezza ch’essa aveva di se stessa.

I positivisti vedevano il passato come passato. Huizinga invece cominciò a chiedersi come costruire un dialogo fecondo tra passato e presente, in modo che il passato abbia da dire qualcosa di utile al presente.

E si tratta spesso, in effetti, di un dialogo tra due culture diverse, se non opposte. Non è possibile comprendere una cultura spogliandosi completamente della propria. Bisogna anzi avere consapevolezza della propria diversità.

M. M. Bachtin diceva chiaramente che nel dialogo con una cultura diversa una determinata cultura comprende meglio se stessa. Le due culture non hanno bisogno di fondersi o di annullarsi reciprocamente: ciascuna può conservare la propria integrità, uscendone dal confronto molto più arricchita. L’importante è riconoscersi nel proprio rispettivo valore. Una posizione, questa, del tutto opposta a quella di Spengler, che rappresentava le culture come monadi chiuse, reciprocamente impenetrabili.

Tuttavia, il dialogo tra passato e presente non si svolge solo nel senso che il presente pone domande al passato. Bachtin si era per così dire limitato a sostenere che il presente può porre al passato delle domande che neppure il passato era stato in grado di porsi, sicché il passato può essere interpretato meglio di quanto esso stesso potesse fare.

In realtà oggi dovremmo dire che il presente non ha alcun diritto di negare al passato la facoltà di porre delle domande al presente stesso, domande proprie, che il nostro presente non ama porsi o addirittura non sa più porsi.

Il dialogo non serve soltanto per capire meglio il passato. Il dialogo dovrebbe servire per comprendere che il passato può contenere aspetti decisivi per vivere meglio il presente, che il presente stesso non è in grado di darsi, perché strutturalmente o comunque tendenzialmente orientato a distruggerli, a censurarli o, se si preferisce, a dimenticarli, a trascurarli.

Se vogliamo, anche il futuro ci interroga, giacché noi, irresponsabilmente, pensiamo di poter lasciare il nostro presente, così com’è, alle generazioni future.

Il passato scuote la testa di fronte al nostro stile di vita: sa di non poterlo cambiare, ma il futuro ci attende al varco, perché non ci permetterà di continuare ad esistere così come siamo.

Ecco perché il dialogo tra culture diverse è sempre molto difficile e complesso, soprattutto se una nega i fondamenti dell’altra, il primo dei quali è il rispetto integrale della natura.

Quando una cultura (p.es. quella anglosassone) distrugge quasi completamente una cultura ad essa precedente (p.es. quella indiana nordamericana), la successiva comprensione della cultura semidistrutta non sarà in grado, inevitabilmente, di cogliere tutti gli aspetti sostanziali che la tenevano in piedi: qualcosa andrà perduto per sempre, qualcosa che avrebbe anche potuto far progredire enormemente la stessa cultura vittoriosa. Si pensi p.es. al terrazzamento agricolo-montano praticato dai Maya, distrutto dagli spagnoli.

Gran parte della conoscenza della natura che avevano le popolazioni americane, prima dell’arrivo degli europei, è andata irrimediabilmente perduta. In tal senso va del tutto esclusa la possibilità che una civiltà antagonistica abbia di conoscere una cultura comunitaria meglio di quanto questa non abbia potuto conoscere se stessa.

La cultura occidentale deve togliersi dalla testa la possibilità di poter interpretare adeguatamente qualunque cultura, solo perché presume di possedere una scienza e una tecnica senza precedenti storici.

La vera scienza e la vera tecnica sono soltanto quelle conformi alle esigenze riproduttive della natura. La cultura occidentale dovrebbe anzi chiedersi se la sua profonda diversità rispetto a tutte le altre culture che l’hanno preceduta non sia il sintomo di una grave malattia mortale.

Tutta la cultura medievale è rimasta estranea agli intellettuali del Rinascimento e dell’Illuminismo, mentre i romantici si sono limitati a riscoprirla in chiave appunto “romantica”, cioè mistico-poetica, estetico-romanzata, senza capire assolutamente nulla del rapporto contadino/feudo, comunità di villaggio/autoconsumo, natura/agricoltura ecc.

Tutta la cultura moderna europea, nei suoi primi secoli, vedeva nella scultura gotica solo delle copie sbiadite della scultura antica; si interpretavano addirittura i calendari scolpiti nelle cattedrali come una rappresentazione delle dodici fatiche di Ercole, mentre i bassorilievi consacrati a Saint Denis apparivano alla stregua di baccanali.

La cultura medievale veniva completamente rifiutata e molti suoi monumenti furono distrutti senza tante remore, esattamente come la stessa cattolicità fece nei confronti dei monumenti pagani.

Sotto questo aspetto ogni ricostruzione totale dell’universo spirituale delle culture che sono andate distrutte incontra difficoltà insormontabili: ogni riedificazione del passato non è che una moderna reinterpretazione.

Noi possiamo soltanto sapere a posteriori quanto sia approssimativa la nostra interpretazione, e lo dimostriamo dalle continue revisioni o almeno rettifiche che operiamo. E avremo continuamente bisogno di rivedere le nostre interpretazioni, almeno finché i fondamenti della nostra cultura non saranno sostanzialmente analoghi a quelli delle culture comunitarie rimosse.

In altre parole, finché non scopriremo il legame che tiene unite tutte le culture espresse dagli uomini e dalle donne di ogni tempo e luogo, le nostre aspirazioni alla verità storica saranno destinate a rimanere frustrate. E certamente non ci sarà “Ministero della verità”, di orwelliana memoria, in grado di soddisfarle.

I compiti della storiografia

Oggi solo una persona molto sprovveduta o politicamente molto conservatrice potrebbe sostenere che la laicità ha avuto origine quando si è cominciato a separare il diritto e la politica dalla morale.

E’ vero che il diritto e la politica han voluto separarsi da una morale religiosa che aveva fatto il suo tempo, ma sostenere che quel diritto e quella politica sono la quintessenza della laicità e della democrazia, senza specificare che si tratta pur sempre di laicità e democrazia “borghesi”, non ha senso.

Una politica o un diritto separati dalla morale e dalla società che nel suo complesso esprime quella morale, non possono che essere frutto di un arbitrio, ovvero l’espressione della volontà di dominio di una particolare ideologia, che vuole imporsi sulla collettività. Nessun uso scriteriato della morale può mai giustificare la sua totale rimozione dagli ambienti del potere istituzionale.

La classe sociale che ha voluto rimuovere la morale, la borghesia, l’ha fatto per avere mano libera nella sua affermazione sociale e per poter dominare indisturbata. Un diritto separato dalla morale, sotto il pretesto che questa è corrotta, è una forma di arbitrio peggiore del male (in questo caso la corruzione) che vuole combattere. Solo a un ceto sociale già separato dalla società poteva venire in mente di operare una separazione del genere. In questo la borghesia non ha fatto che emulare un altro ceto sociale, anch’esso separato dalla società: il clero.

La borghesia si è servita delle masse popolari per liberarsi dei rappresentanti della morale corrotta (nobiltà e clero), ma, una volta vinta la partita, ha fatto anche presto a liberarsi delle stesse masse popolari nella gestione del potere politico. Ecco perché una rivoluzione borghese è sempre una rivoluzione tradita.

Resta tuttavia da chiarire da dove abbiano desunto gli intellettuali borghesi che la morale poteva essere separata da tutto il resto. Se gli studi del marxismo hanno saputo svelare la mistificazione politica della democrazia borghese, mettendone bene in luce le insanabili contraddizioni socio-economiche, ancora però non sono state fatte delle analisi dettagliate sul rapporto di dipendenza culturale che lega l’ideologia borghese a quella cattolico-romana. Qui bisogna riprendere in mano i classici della Scolastica e cercare di capire dove si annidano le premesse teologiche delle aberrazioni filosofiche borghesi.

Il fatto che la borghesia si sia sempre opposta politicamente alla chiesa (seppur in forme favorevoli al compromesso, in quanto la borghesia non ha mai disdegnato di servirsi della religione come oppio per le masse), ha tratto in inganno (per così dire) molti storici, che non si sono mai concentrati sulla dipendenza culturale, ideologica, vissuta dalla borghesia, in forme ovviamente laicizzate, rispetto alla chiesa cattolica.

Gli stessi storici marxisti (ma anche Weber e gli altri storici illuminati della borghesia) han sempre preferito parlare di rapporti tra borghesia e protestantesimo, tralasciando quasi del tutto quelli tra borghesia e cattolicesimo (l’unica significativa eccezione è stata quella di Groethuysen).

E’ certamente vero che il protestantesimo rappresenta la religione della borghesia, ma è anche vero che non ci sarebbe stato protestantesimo senza cattolicesimo e dunque non ci sarebbe stata borghesia senza clero cattolico, né filosofia borghese senza Scolastica.

Feuerbach intuì perfettamente la dipendenza dell’idealismo tedesco dal protestantesimo e anche dal cattolicesimo romano, cioè intuì che la filosofia idealistica altro non era che una laicizzazione del cristianesimo, ma quella sua felice intuizione non ebbe poi un vero e proprio sviluppo storico-critico.

Questa lacuna storiografica è sostanzialmente dovuta al fatto che la concezione dominante della morale in Europa occidentale è sempre stata quella offerta dalla chiesa romana. Anche quando questa morale era profondamente corrotta, nessuno ha mai messo in dubbio che sul piano teorico, di principio, l’ideologia cattolico-romana rappresentasse il vertice della moralità possibile (o comunque si è sempre pensato che dovesse essere la chiesa romana deputata a rappresentare, almeno in sede teorica, i valori contenuti nei vangeli).

Certo, ci sono stati il protestantesimo, la filosofia borghese, il socialismo utopistico e scientifico, che hanno elaborato nuove concezioni morali dell’esistenza, ma gli storici continuano a considerare la morale cattolica come un terminus ad quem per il giudizio su qualunque altro tipo di morale.

Infatti si è sempre sostenuto che la moralità protestante è più individualista, più accomodante col capitalismo, più disposta al compromesso con la società borghese; che la morale filosofica è troppo astratta per competere con quella cattolica, che quella socialista è troppo di parte o troppo legata alla politica di classe per poter essere considerata universale, e così via.

Ci sono delle verità in questo atteggiamento. In effetti la ragione storica del protestantesimo sta in una contestazione contro la corruzione del cattolicesimo romano, ma non avendo il protestantesimo recuperato le vere origini del cristianesimo, esso alla fine ha prodotto una morale ancora più corrotta di quella cattolica.

Il socialismo dal canto suo non ha mai voluto ammettere la propria dipendenza dalla morale cattolica (nell’Europa occidentale) o da quella della chiesa ortodossa (nell’Europa orientale) e continuamente rischia di subordinare gli interessi della morale a quelli della politica.

Dunque, ciò su cui gli storici devono puntare l’attenzione è il rapporto tra chiesa ortodossa e chiesa romana, perché se riescono a capire i motivi profondi di quella rottura, riusciranno anche a capire il motivo per cui il protestantesimo poteva nascere solo in ambito cattolico e la filosofia borghese solo all’interno della Scolastica, e così via.

Il mondo ortodosso non ha mai conosciuto alcuna vera riforma protestante, né alcuna vera filosofia borghese e neppure alcuna vera rivoluzione borghese.

Oggi l’Europa protestante sta dominando quella cattolica, semplicemente perché la prassi borghese ha fatto piazza pulita di ogni forma di religione, cioè il capitalismo sta trionfando anche nei paesi cattolici semplicemente perché lo scontro non è più tra religioni contrapposte. Tuttavia le culture che quelle religioni esprimono in veste laicizzata devono essere studiate in rapporto alla religione per essere capite sino in fondo.

La rivoluzione politica ha bisogno di quella culturale, altrimenti la laicità resterà priva di contenuto.