La storiografia radicale americana

Una posizione critica verso la teoria dell’esclusivismo americano l’ebbe la tendenza radicale degli anni sessanta emersa sull’onda del movimento della “nuova sinistra”.

Le idee dei radicali si sono formate sotto l’influenza di taluni principi marxisti, ma la loro metodologia, nel complesso, è rimasta piuttosto eclettica, poiché subiva il fascino delle correnti critiche della filosofia e sociologia occidentali.

In ogni caso, l’apparizione dei radicali nella scienza storica è stata segnata da un rafforzamento della critica tanto dell’approccio apologetico della storia del capitalismo americano quanto della storia “senza conflitti”.

Questi storici hanno affrontato molti importanti argomenti del passato americano dal punto di vista delle contraddizioni sociali antagonistiche e della violenta lotta di classe.

Contrariamente alla storiografia conservatrice essi sottolineano le divisioni sociali e i conflitti interni alla guerra d’Indipendenza. S. Lynd, J. Lemish e A. F. Young hanno concentrato la loro attenzione sui movimenti degli strati poveri della popolazione urbana e sulle divisioni politiche in campo patriottico fra alcuni Stati del paese, contestando in modo convincente la concezione di R. E. Brown relativa alla democrazia della classe media nell’America coloniale.

Un altro punto chiave nella posizione dei radicali contro la teoria del “consenso” fu la critica di tutte quelle asserzioni relative al carattere non classista della regolazione economico-statale (incluso il riformismo sociale) del XX secolo. G. Kolko, J. Weinstein e altri hanno mostrato che l’intervento del governo nell’economia, all’inizio del nostro secolo, fu condizionato sia dai bisogni produttivi del big business, sia dalla necessità di attenuare le contraddizioni di classe che s’erano aggravate. Le forze anticorporative vennero sconfitte dall’alleanza fra lo Stato e i monopoli.

Da allora il riformismo borghese (il liberalismo corporativo, nella terminologia dei radicali) tiene il popolo americano stretto in una morsa. I radicali inoltre ritengono che il new deal rooseveltiano abbia costituito una nuova tappa nello sviluppo politico dei capitalismo.

Analizzando il periodo post-bellico, essi hanno riservato una particolare attenzione al ruolo del complesso militare-industriale e del big business nella condotta aggressiva della politica estera americana.

Gli storici radicali hanno pure condotto una battaglia contro la storiografia tradizionale sui problemi della storia del movimento operaio. Essi rifiutano il dogma della scuola del Wisconsin, inerente al carattere esclusivo dell’esperienza storica del proletariato americano, e danno una grande importanza allo studio dell’attività della burocrazia sindacale e della politica riformista dell’American Federation of Labour (AFL).

Diversi storici, fra cui J. R. Conlin, J. M. Laslett e M. Dubofsky, si sono soffermati sulla storia di organizzazioni come “I cavalieri del lavoro” (Knights of Labour) e “Operai industriali del mondo” che si opponevano all’AFL. E però significativo che gli storici radicali non considerino il movimento di sinistra come un risultato dell’influenza della idee europee e dell’immigrazione straniera, ma come un prodotto naturale delle interne condizioni socioeconomiche americane.

Nella loro critica della teoria esclusivistica, i radicali sono andati senz’altro molto più in là degli storici di tendenza economista. Tuttavia non hanno saputo staccarsene completamente. Così, ad esempio, molti radicali descrivono l’imperialismo americano come un fenomeno nazionale, non accettando l’idea ch’esso sia solo una variante dello stadio supremo dello sviluppo del sistema capitalistico globale.

S. Thernstrom, che è vicino al trend radicale, enfatizza l’alta mobilità sociale degli operai esistita alla fine del XIX secolo, considerandola come un tratto distintivo dello sviluppo storico americano. G. Kolko afferma che l’inesistenza, a tutt’oggi, di un movimento anticapitalistico di massa negli Stati Uniti è stata determinata dall’alto livello democratico del paese e quindi da un’oppressione insignificante dell’individuo.

A cavallo degli anni Settanta e Ottanta il clima politico negli Usa s’è profondamente modificato. Si è vista crescere, e in modo brutale, l’influenza delle tendenze conservatrici: il che ha riflesso lo spostamento verso destra degli ambienti più autorevoli della classe dirigente nell’affrontare i problemi di politica interna ed estera. Si tratta, in sostanza, della reazione dei circoli imperialisti più aggressivi all’approfondimento delle contraddizioni socioeconomiche del capitalismo americano e mondiale, al rafforzamento del socialismo e all’estensione dei processi rivoluzionari e di liberazione nel mondo.

Il conservatorismo, divenuto agli inizi degli anni Ottanta un fattore importante della vita politica americana, rappresenta oggi una corrente ideologica in grado di influenzare diversi campi di pensiero. Esso esige la limitazione dell’intervento statale nella sfera socioeconomica del paese e si appella a taluni ideali e valori atemporali dell’americanisino, mettendo l’accento sulla tradizionale ideologia individualista dell’impresa privata e sulla morale della borghesia emergente. Questi neoconservatori levano gli scudi contro le tradizioni non solo rivoluzionarie ma anche liberali.

A partire dalla fine degli anni Settanta è iniziato il rapido consolidamento della corrente conservatrice nella storiografia, che ora si basa integralmente sulla piattaforma dell’esclusività americana. Al forum degli storici conservatori, istituito nel 1977, P. Gottfried, tratteggiando i loro obiettivi, avrebbe dichiarato che il compito principale consiste nel porre un efficace contrappeso all’influsso liberale e marxista che, a suo giudizio, sarebbe predominante nelle organizzazioni sindacali e nell’orientamento delle maggiori riviste storiche.

Alla conferenza degli storici conservatori del 1980 si sono espresse le medesime preoccupazioni e ribaditi gli stessi impegni. L’articolo di B. W. Folson, I pregiudizi liberali nei manuali di storia americana, mostra molto bene fin dove arrivano le pretese dei conservatori nella revisione della storia.

L’autore contesta duramente gli storici che danno un giudizio favorevole alle iniziative prese da Kennedy, Stevenson, Humphrey a McGovern. R. R. Berthoff è lo storico ideale per la storiografia conservatrice. A suo modo di vedere la stabilità resta la tendenza cardinale della storia americana e il principio essenziale dell’americanismo.

Al pari di Hartz, Boorstin e Brown, Berthoff dipinge la società dell’America coloniale come socialmente omogenea al massimo grado, in cui l’accesso alla classe media (freeholders, proprietari di fattorie, negozi, atelier artigianali) non è mai stato vietato a nessuno.

Dopo la guerra d’Indipendenza -egli afferma- le istituzioni politiche, le norme morali e le dottrine ideologiche si formarono sulla base della stabilità sociale. Il lasso di tempo compreso fra il 1815 e il 1900 è da lui visto come l’unico periodo d’instabilità sociale nella storia degli Usa, in cui ondate incessanti d’immigrati d’origine europea crearono un’inedita mobilità orizzontale e verticale della popolazione.

L’equilibrio si sarebbe ristabilito appunto verso gli inizi del secolo. La società americana contemporanea sarebbe dunque rimasta, a suo giudizio, assai mobile e nel contempo assai unita, preservando così i principi dell’americanismo.

Gli storici che preconizzano il “ritorno alle fonti” hanno già riscritto un largo ventaglio di avvenimenti della storia americana. Sviluppando, ad esempio, l’idea della stabilità e della impermeabilità della società americana ai mutamenti sociali profondi, R. Kirk ha definito le prime due rivoluzioni borghesi degli Usa come moderate e anche conservatrici.

A suo parere, la guerra d’Indipendenza fu ispirata dal fervore religioso più che dalle idee illuministiche, mentre la guerra civile del 1861-65 venne condotta non contro lo schiavismo, ma unicamente per la salvezza dell’Union. Nel 1982 Kirk ha pubblicato un’antologia dei teorici conservatori più in vista: E. Burke, J. S. Adams, A. Hamilton, J. C. Calhoun e altri.

Il libro della storica A. Kraditor, diretto contro le tesi fondamentali della storiografia radicale contemporanea sul movimento operaio americano a cavallo dei secoli XIX e XX, ha ottenuto vasti consensi. La Kraditor ha proclamato il marxismo “estraneo” agli Usa, in cui, a suo parere, il capitalismo si sviluppa secondo leggi particolari ed è in grado di curare con successo i propri mali.

Altri esempi ancora. Le idee della school of business sono state sviluppate da B. W. Folsom, che offre un’immagine delle imprese dei capitani d’industria della Pennsylvania come di un motore trainante del progresso industriale.

Le opere del ricercatore Th. Sowell sostengono l’idea che l’assistenza pubblica non può affatto risolvere la situazione materiale delle minoranze nazionali americane, le quali pertanto possono soltanto sperare in una lunga autoeducazione morale e pratica. Egli si è quindi rallegrato per l’abbandono delle iniziative riformatrici voluto dall’amministrazione Reagan.

Le idee degli storici neoconservatori, come si può ben vedere, non sono originali. Forse ciò che è nuovo è il tentativo di raggruppare insieme diverse varianti dell’esclusività americana, al fine di ottenere un’unica concezione che si ponga come asse della tradizione conservatrice, oggi quanto mai anticomunista.

Storia del mito americano (II)

La teoria dell’esclusività americana prese un nuovo impulso verso gli inizi del XX secolo col rafforzamento dell’economism borghese nella storiografia di questo paese.

Gli studi economico-sociali s’imposero nell’epoca in cui, di fronte ai seri rivolgimenti sociali e alla crescita del movimento operaio e antimonopolistico, le concezioni che riconducevano il processo storico essenzialmente alla storia politica perdevano il loro significato sociale e non convincevano più nessuno.

L’orientamento sociale della nuova corrente storiografica era conforme, grosso modo, ai compiti del riformismo borghese. Col mutare della situazione, parte degli ideologi e dei ricercatori si proposero d’esaminare più da vicino le cause materiali del malessere sociale e di trovare altresì i mezzi per risolvere o almeno attenuare i conflitti di classe.

Lo stesso sviluppo interno della scienza storica favorì questa ricerca. Le indagini degli storici “economisti”, per quanto non prendessero in esame la genesi e lo sviluppo della formazione capitalistica e per quanto sostituissero alla divisione in classi una semplice classificazione per gruppi economici, contribuirono a una migliore comprensione dei soggetti socioeconomici e del ruolo dei conflitti sociali nella storia degli Stati Uniti.

Tuttavia l’influenza degli storici economisti sulla teoria dell’esclusività americana non fu univoca. Alcuni di loro assolutizzarono le particolarità dello sviluppo economico della regione, cercando di completare la teoria con argomentazioni appunto di tipo economico.

L’esponente più significativo di questo indirizzo fu F. J. Turner, con la sua Theory of the Frontier (in America s’intendeva per “frontiera” la linea più avanzata dell’insediamento dei coloni bianchi durante la colonizzazione dell’ovest).

Turner, in gioventù, condivideva le idee della scuola anglosassone, ma poi se ne distaccò proprio per l’importanza decisiva che diede alla colonizzazione nella storia degli Usa.

Dando un’interpretazione sociale al ruolo della frontiera, così scrisse nella sua famosa relazione tenuta nel 1893 all’Associazione storica americana: “Le terre libere favorirono l’eguaglianza fra i coloni dell’ovest e neutralizzarono le influenze aristocratiche dell’est. Laddove ognuno poteva avere una fattoria… l’eguaglianza economica si stabiliva facilmente, e questo determinava l’eguaglianza politica”.

Deducendo la democrazia politica dalla fragile ed effimera eguaglianza sociale creatasi all’ovest (peraltro a spese delle popolazioni native), Turner affermava che “la democrazia americana contrastava nettamente… con gli sforzi dell’Europa di creare un ordine democratico artificiale attraverso la legislazione”.

A suo giudizio il regime democratico dell’ovest americano riuscì a diffondersi in tutte le maglie della società avanzata, rinnovando la democrazia dell’est. La frontiera agiva dunque su due piani: da un lato, le vecchie idee politiche importate dall’est subivano forti mutamenti sotto l’influenza delle condizioni ambientali, sociali e geografiche dell’ovest; dall’altro, le terre libere agivano sui rapporti sociali dell’est come una valvola di sfogo, in quanto le popolazioni superflue lasciavano le coste orientali dell’America per andare a vivere in occidente.

Senonché, prosegue Turner, i rapporti sociali dell’ovest si complicarono progressivamente con l’offensiva della civilizzazione che veniva da est. Lo sviluppo del capitalismo indebolì l’eguaglianza sociale della frontiera erodendo così il sostrato democratico.

La frontiera però non morì – afferma ancora Turner -, essa si spostò soltanto verso ovest, verso una nuova area da colonizzare. Su terre libere e non popolate si ristabilirono così l’equilibrio sociale e i principali ideali dei pionieri: individualismo, democrazia, nazionalismo, espansionismo.

Turner elaborò le sue idee in un periodo in cui gli echi della tricentenaria colonizzazione dell’ovest si sentivano ancora nel clima sociale, nella vita quotidiana e nella letteratura. Egli rappresentò il culmine di una lunga tradizione che mirava a considerare le terre libere come un rimedio salutare ai mali del capitalismo. La tradizione durò appunto fino a quando le terre rimasero disponibili.

Nel 1862 si mise in atto l’esigenza di una riforma agraria unanimemente sostenuta dai farmers dell’ovest: l’Homestead Act, che permise a ciascuno, per un prezzo nominale, di entrare in possesso di un lotto di 160 acri.

Nonostante questo però non si riuscì a perpetuare nell’ovest la piccola azienda a conduzione familiare, né a permetterne l’accesso agli operai industrializzati. Dopo la guerra civile del 1861-65, il capitalismo progredì enormemente negli Usa, sia nell’industria che nell’agricoltura.

Dal 1860 al 1880 il numero degli operai agricoli quadruplicò, mentre i mezzadri divennero più del 30% di tutte le aziende contadine. Il capitalismo incatenò saldamente la gran massa degli operai alle macchine utensili. Per ogni operaio che diventava proprietario d’una fattoria ce n’erano altri 20 spinti nei ranghi del proletariato. Questa volta era lo sviluppo in profondità del capitalismo che prevaleva su quello in estensione.

L’utopia agraria inesorabilmente fallì, anche se le idee utopiche da essa generate sopravvissero, divenendo conservatrici. L’apologia si manifestò soprattutto nella teoria della “scala agricola”, secondo cui un operaio agricolo poteva, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo nella fattoria padronale, diventare mezzadro e in seguito proprietario fondiario.

L’illusione coltivata dalla propaganda degli agrari non era più in buona fede. E comunque l’influenza della teoria della frontiera sul pensiero storico americano fu vasta e contraddittoria, non foss’altro che per l’artificiale separazione prodotta da Turner circa le due tendenze dello sviluppo capitalistico, in larghezza e in profondità, a tutto vantaggio della prima.

Egli credeva di scorgere nel suo paese un modello per il mondo intero. Eppure già negli anni Novanta il Census Bureau dichiarò chiusa la frontiera. In quell’occasione Turner constatò amaramente che le terre vacanti erano finite, che le forze materiali che avevano dato vita alla democrazia dell’ovest non esistevano più e che il paese era diventato come una “caldaia bollente”.

Egli si mise alla ricerca di nuove valvole di sfogo, apprezzando le ricette del riformismo borghese moderato e appoggiando con fiducia le iniziative di Th. Roosevelt e di W. Wilson. Non smise di credere nel valore dell’espansionismo americano: ecco perché condivise la politica imperialistica degli Usa condotta nei confronti del Sudamerica e dell’Estremo Oriente a cavallo dei secoli XIX e XX.

Ma il rappresentante più eminente del pensiero storico americano del XX secolo fu Ch. A. Beard, che denunciò i limiti dello schema storico della teoria di Turner. Egli basò la sua spiegazione della storia degli Stati Uniti sull’urbanizzazione, scoprendo nello sviluppo del capitalismo industriale il principale motore del processo storico dei tempi moderni.

Contrario a Turner, che faceva dipendere il benessere dal rapporto elementare dell’uomo con la natura, Beard pensava invece ch’esso dipendesse dalla rottura di tale rapporto. Non quindi la frontiera ma solo lo sviluppo industriale avrebbe potuto attenuare le contraddizioni sociali.

Egli comprendeva perfettamente che in seguito alla rivoluzione industriale erano emersi nuovi problemi, il primo dei quali era l’antagonismo tra capitale e lavoro. Pur tuttavia era convinto che l’industrialismo avrebbe ammortizzato col tempo i costi del progresso.

Beard mostrò in maniera assai realista che la concentrazione del capitale, alla fine del XIX secolo, aveva portato alla formazione di trust giganteschi, diretti da un’élite finanziaria, che p.es. i Gould e i Rockefeller, che sfruttavano qualunque tipo di risorsa umana e materiale. Le sue simpatie andavano per i nullatenenti, e spesso affermava che il popolo sapeva opporsi a questo modo non americano di governare.

Il fatto che alle elezioni del 1896 e del 1912 gli americani avessero riportato significativi successi nella democratizzazione del paese era sufficiente, a suo giudizio, per concludere che l’ulteriore sviluppo industriale avrebbe appianato i contrasti sociali e politici più acuti, approdando verso una sorta di “collettivismo democratico”.

Partecipando al movimento riformista borghese degli inizi del Novecento, Beard favorì la tendenza sintetizzata nella formula rooseveltiana del “nuovo nazionalismo”, secondo cui bisogna non tanto impedire l’attività ai monopoli quanto piuttosto regolamentarla attraverso lo Stato.

Egli prese posizione contro W. Wilson che esigeva, senza dubbio demagogicamente, la soppressione dei trust, e il revival della tradizione agraria jeffersoniana.

Beard era altresì convinto che i principali avvenimenti della storia americana avessero per contenuto fondamentale lo scontro fra gli interessi industriali e quelli agrari. In virtù di questa grande competizione si sarebbero determinati, a suo parere, un’attenuazione delle differenze di classe e il sorgere di una democrazia universale.

Beard cercò anche di ridimensionare la teoria dell’esclusivismo americano, affermando che le categorie del progresso industriale e dell’urbanizzazione si applicavano anche ai paesi europei. Insieme a A. M. Schlesinger e J. Jameson egli dimostrò che fra le rivoluzioni borghesi americana e francese del XVIII secolo c’erano molti punti in comune.

Ciò tuttavia non gli impediva di credere nella specificità dello sviluppo americano, cioè nelle condizioni particolarmente propizie all’industrialismo (che avevano generato, secondo lui, una sorta di “capitalismo puro”) e soprattutto nel carattere fortemente democratico delle loro istituzioni politiche. E’ significativo che questo elemento nazionalistico abbia trovato la sua più piena valorizzazione durante lo scatenamento sciovinistico della I guerra mondiale, la quale – ai suoi occhi – altro non rappresentò che lo scontro di due sistemi politici opposti: autocrazia e democrazia.

Ma le posizioni politiche di Beard subirono delle modificazioni. Col tempo, p.es., egli ammise che le sue conclusioni circa il trionfo della nuova democrazia all’inizio del XX secolo erano state premature, che la sua analisi della I guerra mondiale era sbagliata, in quanto si era trattato dello scontro fra grandi potenze rivali.

Negli anni Trenta adottò il relativismo e dopo la II guerra mondiale abbandonò il determinismo economico, il quale, nonostante i suoi difetti, aveva senza dubbio permesso di porre in maniera intelligente molti importanti problemi storici.

Il tema dell’unicità dell’evoluzione agraria degli Usa e della mobilità sociale degli americani occupò un posto sempre più grande nei suoi scritti; e arrivò persino a conciliare la tesi di Turner sulle frontiere territoriali con la concezione dell’industrialismo e ad apprezzare positivamente le idee di Jefferson.

Storia del mito americano (I)

La storia degli Stati Uniti, come quella di numerosi altri paesi dell’epoca moderna, ha per contenuto essenziale lo sviluppo dei capitalismo e della società borghese. Solo che in questo caso le condizioni storiche in cui lo sviluppo è avvenuto sono state particolarmente favorevoli: assenza del sistema feudale e di un pesante apparato burocratico, vittoria nella guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra (1775-83), vantaggiosa situazione geografica e immense ricchezze, ancora vergini, di un intero continente.

Il territorio americano aumentò di dieci volte da 1776 al 1900. L’esistenza delle libere terre, da sottrarre prevalentemente ai nativi, facilitò il percorso della via democratica nell’evoluzione capitalistica dell’agricoltura e creò le condizioni necessarie per uno sviluppo impetuoso dell’industria capitalistica alla fine del XIX secolo.

L’Europa diede al nuovo mondo milioni e milioni di uomini e donne già in grado di lavorare. Due guerre mondiali consolidarono le posizioni degli Usa nel mondo capitalista. Queste e altre peculiarità conferiscono alla storia del paese una grande originalità e ci aiutano a comprendere fenomeni come la forza di lunga durata del capitalismo americano, la relativa debolezza del movimento operaio e taluni tratti del carattere nazionale degli americani.

Proprio le particolarità dello sviluppo economico, sociale e politico – male interpretate da una certa apologetica borghese e sciovinistica – diedero corpo alla cosiddetta “teoria dell’esclusività”, destinata a mostrare sia la tipicità dell’esperienza storica americana che il modello ideale da seguire in tutto il mondo relativamente alle istituzioni sociopolitiche di tale paese.

La teoria dell’esclusività si modificò nel corso delle generazioni, riflettendo gli interessi dei diversi gruppi sociali, ma nel complesso essa continuò a restare un elemento essenziale della coscienza borghese americana.

Gli inizi storici della formulazione di questa idea risalgono alla stessa scoperta dell’America. come elemento dell’utopia sociale, della leggenda dell’età dell’oro. Nel 1516 Tommaso Moro situò il suo Stato ideale in questo nuovo continente, ispirando una sequela di imitatori (fra i più noti Rousseau.

L’idea dell’esclusività divenne parte integrante della filosofia dei coloni europei in America. Costoro infatti non lasciavano l’Europa solo per cercare una vita migliore, ma anche perché si sentivano mossi dalla volontà di creare una nuova società, diversa da quella europea e libera dalla schiavitù feudale.

Lo stesso nome di “Nuovo Mondo” costituiva un vero e proprio simbolo, in cui si riconoscevano il contadino ex-europeo desideroso di terra, l’artigiano che voleva realizzare guadagni più decenti dal suo lavoro e il puritano perseguitato che sognava di realizzare i suoi progetti di una celestial city.

Nell’epoca coloniale l’America fu considerata come un rifugio per la nuova fede religiosa emergente in Europa: il protestantesimo. Le cronache e le memorie di W. Bradford, governatore del New Plymouth, e di J. Winthrop, il primo governatore della colonia della Massachusetts Bay, e di altri ancora, mostrano chiaramente che i coloni, nelle loro azioni, si sentivano ispirati dalla divina provvidenza. L’idea di una particolare “elezione” risaliva alla dottrina calvinista della predestinazione, che occupava un posto di rilievo nell’ideologia puritana.

Allo stesso tempo i cronachisti puritani cercavano d’interpretare il ruolo dei coloni nella storia alla luce del Vecchio Testamento; essi stabilirono infatti una diretta analogia fra la partenza dall’Inghilterra corrotta per l’America e la fuga leggendaria degli ebrei dall’Egitto. L’America appariva loro come un luogo designato da Dio per creare la “Nuova Sion”.

La concezione del mondo degli illuministi americani, essendosi formata durante la lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, modificò sostanzialmente l’atteggiamento spirituale verso l’idea dell’esclusività. B. Franklin, Th. Jefferson e Th. Paine si staccarono decisamente dalle concezioni teologiche degli autori delle cronache e memorie.

Partendo dall’idea di un uomo naturale astratto, essi vedevano il motore dello sviluppo storico di tutti i popoli del mondo nell’istruzione, nel progresso delle conoscenze e della morale. Allo stesso tempo però l’esistenza delle terre libere, che sembravano inesauribili, generava in loro l’illusione che ogni americano avrebbe potuto beneficiare del suo diritto naturale alla terra e che quindi la proprietà sarebbe stata equamente ripartita, garantendo la prosperità universale per i secoli a venire.

In particolare, J. de Crèvecoeur vedeva nel Nordamerica la materializzazione dell’utopia roussoiana. Il giovane Jefferson s’immaginava addirittura che l’America sarebbe diventata una repubblica di farmers, in cui si sarebbero imposte le virtù civili. Nel suo primo messaggio presidenziale del 1801 Jefferson, per quanto più moderato che all’epoca delle sue convinzioni illuministiche, parlava ancora degli americani come di un “popolo eletto”.

Con la conquista dell’indipendenza la fede nel destino particolare dell’America conobbe una diffusione ancora più vasta. Lo sviluppo socioeconomico di questa regione, nel corso della prima metà del XIX secolo, non diede molto spazio alle teorie utopiche sulla via non-capitalistica.

Il consolidarsi dei capitalismo a est, nella parte “antica” dell’America, venne accompagnato dalla colonizzazione dell’ovest. Il primo processo significò lo sviluppo del capitalismo in profondità, il secondo in estensione. “Lo sviluppo del capitalismo in profondità, nei territori più antichi, da lungo tempo abitati, venne ritardato dalla colonizzazione delle province periferiche. La soluzione delle contraddizioni generate dallo stesso capitalismo venne temporaneamente rinviata dal fatto che il capitalismo ha potuto facilmente progredire in larghezza”, cosi scriveva Lenin, esaminando dialetticamente l’interazione delle due tendenze.

In condizioni di rapporti capitalistici non sufficientemente sviluppati, le terre disponibili frenavano la progressiva espropriazione delle terre dei contadini, permettendo a una parte dei farmers e a certi gruppi di operai insediatisi all’ovest di conservare e anzi di migliorare il loro status sociale precedente.

Lo sviluppo estensivo del capitalismo ritardò per qualche tempo lo scoppio delle contraddizioni fra capitale e lavoro. La colonizzazione dell’ovest fece nascere illusioni e aspirazioni piccolo-borghesi non solo tra i farmers, ma anche in seno alla classe operaia (una fattoria per ogni lavoratore, si diceva) e favoriva la diffusione di diverse utopie agrarie. Di quest’ultime i migliori interpreti furono i nazional-riformatori degli anni quaranta, D. Evans e H. Krige, che chiedevano la distribuzione gratuita ai nullatenenti delle terre ancora libere.

Evans era altresì convinto che la riforma agraria avrebbe emancipato i lavoratori dall’oppressione del capitale. In che modo? Insediandone alcuni sulla terra, mentre altri avrebbero ottenuto significativi aumenti salariali, minacciando i padroni di partire verso l’ovest.

L’apologetica religiosa dell’esclusività sopravvisse nell’epoca coloniale, ma a partire dalla guerra d’indipendenza fu posta in secondo piano dall’idea dell’esclusività politica degli Usa. La fondazione stessa d’una repubblica nordamericana fu considerata come una rivoluzione più antieuropea che antifeudale, per quanto gli elementi messianici non mancassero mai.

Washinghton, Adams e molti altri presidenti americani associavano i destini degli Stati Uniti ai disegni della volontà divina. Questa tendenza dell’esclusivisimo americano fu seguita dalla canonizzazione dei padri fondatori. A. de Tocqueville, storico e politico francese, che visitò gli Usa negli anni trenta del secolo scorso, osservò che il patriottismo degli americani e la fierezza delle loro istituzioni sociopolitiche si tramutavano facilmente nella convinzione della loro superiorità.

In un’atmosfera di euforia nazionale il terna dell’esclusività conobbe un nuovo impulso nelle opere degli storici di tendenza romantica. Il rappresentante più illustre di questa corrente, dominante nel corso della prima metà del XIX secolo, fu G. Brancroft, fondatore della “scuola precoce” (early school), che tratteggiò non più storie separate delle diverse colonie americane, ma, per la prima volta, il quadro generale dello sviluppo della nazione americana.

Nella sua visione liberal-romantica, il processo storico appariva come un costante cammino verso la libertà. La rivoluzione americana era da lui vista come l’epilogo di tutta la storia a essa precedente e come l’inizio di una nuova e ancora più gloriosa epoca. La lotta dei primi coloni per la sopravvivenza veniva presentata come il trionfo degli ideali più nobili, come una crociata per le libertà democratiche.

Bancroft non si preoccupava affatto della permanenza dello schiavismo, che considerava come un piccolo difetto nell’orizzonte della repubblica. D’altra parte egli era convinto che proprio tale repubblica avesse molto cose da insegnare agli europei. La stessa rivoluzione del 1848 in Europa fu da lui considerata come un’eco della democrazia americana.

Il nazionalismo borghese americano degenerò ben presto nel dogma espansionista dei “doveri particolari” degli Usa e, come tale, trovo la sua più chiara espressione nella dottrina del manifest destiny (destino predeterminato) promosso negli anni quaranta del secolo scorso, secondo cui gli Usa erano destinati a svolgere il ruolo di riformatori del mondo. Dottrina che poi divenne il simbolo dell’espansionismo politico americano.

A cavallo dei secoli XIX e XX esistevano ancora molti fattori favorevoli allo sviluppo del capitalismo in questa regione del mondo. La guerra civile dei 1861-65 aveva abolito la schiavitù e assicurato una rapida crescita dell’industria. Gli immigrati che affluivano in America erano decine di milioni.

Tuttavia, con il sorgere dell’epoca imperialista e con l’affermarsi dei consorzi monopolistici, la teoria dell’unicità dello sviluppo storico americano e della sua superiorità nei confronti del modello europeo cominciava a sgretolarsi. Il nuovo mondo presentava vistose somiglianze cori il vecchio.

Ma negli Stati Uniti le illusioni continuavano a persistere. Le masse, che pur protestavano contro le più evidenti manifestazioni d’ingiustizia sociale, conservavano la fede ingenua nell’esclusività del destino nazionale. Un’ideologia, questa, che di conseguenza veniva sempre più a trasformarsi da relativamente democratica in chiaramente apologetica.

Le idee esclusivistiche ricevettero una nuova colorazione e furono puntellate dai nuovi argomenti della storiografia americana alla fine del secolo XIX.

Dopo la guerra civile la Scuola di Bancroft declinò e, per la soluzione dei nuovi problemi, acuti e complessi, che emergevano, la teosofia era certamente uno strumento poco efficace. Nel contempo i successi delle scienze naturali e dei loro metodi d’indagine esercitavano una certa influenza sul pensiero sociale.

I principali orientamenti della storiografia americana subirono, secondo gradi diversi, il fascino del pensiero storico europeo e della filosofia positivista in particolare.

Il nucleo della scuola anglosassone fu costituito negli Usa nell’ultimo quarto del XIX secolo, da parte di quegli storici americani che avevano frequentato le università inglesi e tedesche. Questa scuola riconduceva l’evoluzione sociale allo sviluppo delle istituzioni politiche. Essi acquisirono metodi più perfezionati di lavoro con le fonti, ma mostrarono anche idee e concezioni storiche scioviniste.

Infatti gli storici di questa scuola affermavano che i popoli di origine anglosassone avevano creato delle istituzioni costituzionali perfette, che praticamente univano ai principi dell’individualismo quelli di un potere statale forte, l’autonomia locale al federalismo.

Inoltre gli anglosassoni – essi dicevano – avevano trasferito nel V secolo l’eredità politico-teutonica in Inghilterra, da dove i coloni puritani la portarono nel Nordamerica nel XVII secolo.

Puntando l’attenzione sulla genealogia delle istituzioni politiche americane, essi cercarono di trovare nell’America coloniale le possibili somiglianze fra queste istituzioni e l’antica organizzazione tribale germanica. La John Hopkins University di Baltimora divenne il centro di questo nuovo trend, e H. B. Adams il suo propagandista più attivo. Idee analoghe vennero sviluppate anche da altri esponenti della scuola anglosassone: ad esempio le opere di J. Fiske ebbero grande notorietà.

In definitiva, l’attenzione prestata da questi storici alla teoria germanista e alla politica comparata era mossa dall’esigenza di trovare delle prove concrete riguardo all’esclusività delle istituzioni costituzionali americane, delle prove che fossero più convincenti degli argomenti della scuoia di Bancroft.

Numerosi storici della scuola anglosassone arrivarono persino a dire che la diffusione di queste perfette istituzioni oltre le frontiere nazionali era un diritto-dovere degli Usa. Un’idea questa che, collegata colle tradizioni espansioniste americane, divenne parte integrante dell’ideologia imperialista che negli Usa s’impose a cavallo dei secoli XIX e XX.

La storiografia americana sulla politica estera (II)

Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di “interesse nazionale” e di “equilibrio delle forze”. Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.

Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l’occasione di alludere ai valori dell’altra corrente. D’altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.

La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d’impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l’onore nazionale.

Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l’accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.

Il mutamento di clima si fece sentire anche sull’interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 c’erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.

Tutto ciò però subì un’improvvisa sterzata alla fine degli anni ’60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta “nuova sinistra”. Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all’università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.

All’inizio degli anni ’70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell’Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state “aggressive” (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).

Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna “minaccia sovietica”, in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell’aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.

I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell’espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.

Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell’imperialismo. Egli sostenne anche che l’ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni ’90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in “veste industriale” di quelle concezioni espansioniste in “veste agricola” che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.

Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l’interesse dell’America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all’inizio della loro indipendenza in occasione dell’esproprio delle terre.

Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l’opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull’Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell’espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.

Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni ’70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla “sporca guerra” in Vietnam, sulla guerra fredda, sull’uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l’organizzazione dell’Associazione storica americana subirono una battuta d’arresto assai preoccupante.

La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni ’50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della “Truman Administration”.

Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull’Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l’idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l’Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l’uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).

Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d’influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l’appoggio degli Usa.

Per la nuova sintesi post-revisionista l’esistenza dell’impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch’essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.

Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l’influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.

Il loro scopo in pratico si riduce – come ha detto Lafeber – a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati – come vuole C. S. Maier – un “figlio bastardo” degli studi storici americani.

Il Golgota senza fine del Cristo in croce da 16 anni Eluana Englaro

E dunque su Eluana Englaro lo Stato estero chiamato Vaticano e la sua Chiesa si scatenano di nuovo sia contro lo Stato italiano sia contro un suo cittadino, Beppino Englaro, il papà della disgraziata Eluana. L’invereconda accusa lanciata dal partito papalino è la solita, omicidio, di cui sarebbero ora colpevoli anche i magistrati della Cassazione, rei di avere finalmente dipanato la matassa dei veti incrociati e permesso di mettere la parola fine al calvario di Eluana, questa Cristo di sesso femminile costretta ormai da un numero impressionante di anni a portare la sua croce in una infinita salita al Golgota. Continua a leggere

LA STORIOGRAFIA AMERICANA SULLA POLITICA ESTERA (I)

La situazione negli studi storici americani durante la transizione all’imperialismo e alla “Progressive Era” (fine Ottocento e prima decade del XX sec.) vedeva gli storici di professione cominciare a prendere il posto dei dilettanti e le tecniche di ricerca diventare sempre più perfezionate.

Nel 1884 si fondò l’American Historical Association e nel 1885 uscì il primo numero dell’American Historicol Review. L’approccio critico nei confronti del passato divenne un’esigenza comune: ne furono coinvolte discipline e scienze come il positivismo, diverse branche delle scienze naturali e, per certi versi, il marxismo.

Il trend economico-progressista di studiosi cone F. J. Turner, C. Beard, C. Becker e V. Parrington dominava la scena.

Che rapporti c’erano fra questi processi e l’evoluzione della storiografia della politica estera? Esisteva allora la cosiddetta “storia diplomatica”, un settore degli studi storici completamente a se stante.

Mentre nel XIX sec. le opinioni sulla diplomazia americana dipendevano da argomenti di carattere generale, relativi alla storici degli Usa (si pensi alle opere di G. Bancroft, R. Hildreth e J. B. McMaster), con l’inizio del XX sec. invece, uscirono diversi studi specializzati sulla storia della politica estera, da parte di J. W. Foster, A. B. Hart, J. B. Moore, C. R. Fish e altri.

L’ingresso degli Stati Uniti sulla scena internazionale aveva stimolato l’interesse collettivo per le relazioni mondiali. Le maggiori università introdussero corsi monografici di politica estera, tenuti do famosi storici come il suddetto Hart e E. Channing ad Harvard, Turner e Fish nel Wisconsin.

Più tardi, negli anni ’20, la prima opera a più tomi sui Segretariati di stato e la loro diplomazia apparve nelle edizioni del giovane S. F. Bemis.

Il carattere apologetico a favore dell’espansionismo americano cominciò a caratterizzare i lavori degli storici diplomatici professionisti dall’inizio del XX sec. in avanti. Unanimemente essi giustificavano la Monroe Doctrine, la politica-diplomatica del dollaro nei confronti del Sudamerica (si pensi alla guerra con la Spagna nel 1898), la politica delle “porte aperte” nel Far East, l’occupazione di Cuba, la “rivoluzione” di Panama e altri non meno evidenti atti aggressivi americani.

Ai seguaci di Turner sembrava completamente naturale che il processo di espansione coloniale del loro paese fosse culminato coll’avanzamento della frontiera americana verso l’oceano Pacifico, il Far East e le Filippine, senza parlare dei paesi dei Caraibi.

Si era insomma convinti, in buona o cattiva fede qui non importa, che fossero appunto i paesi conquistati a beneficiare dell’influenza commerciale americana (vedi soprattutto le opere di J. M. Callahan e J. H. Latanè).

Possono essere considerati “progressisti” storici di tal genere? Il fatto è che a quell’epoca le esigenze dell’espansione e della riforma erano essenzialmente due facce della stesso medaglia. T. Roosevelt e W. Wilson furono per il loro paese dei riformatori borghesi (perché criticavano il passato), ma erano anche apertamente sostenitori della politica estera espansionista.

Non è quindi strano, ad es., che la teoria della frontiera di Turner influenzasse sia le idee espansioniste a lui contemporanee che il riformismo di Roosevelt. Bisogna infatti considerare che ci furono molti studenti di Turner fra i maggiori storici diplomatici d’America (ad es. Bemis, F. Merk e A. F. Whitaker).

Il credo espansionista della Progressive School fu definitivamente confermato da A. Darling. Stando all’opinione di questo studente e seguace di Turner, l’espansione americana fu dura e spietato, ma essa “diffuse la libertà” e, in ultima istanza, fu un evento “positivo”.

L’apologia dell’espansionismo fu Ia principale ma non unica caratteristica della storia diplomatica del periodo progressista. Lo spirito critico di quel tempo non poteva non promuovere più alti livelli della ricerco scientifica e portare alla comparsa di un certo numero di opere che rivedevano le idee convenzionali sulla storia degli Stati Uniti e su taluni aspetti della politica estera.

Significativamente, la vecchia concezione della guerra del 1812 fra lnghilterra e Usa come di una lotta per difendere i diritti marittimi di quest’ultimi e l’onore nazionale, fu riconsiderata da H. Lewis, D. R. Anderson, L. M. Hacker e soprattutto da J. W. Pratt. Fu proprio Pratt che con più coerenza mostrò come venne giocato un ruolo decisivo dai piani espansionistici che gli ambienti governativi d’America avevano nei confronti della Florido e del Canada.

Col passare del tempo apparvero altre serie ricerche, in cui le idee espansioniste e nazionaliste venivano biasimate (si pensi alla monografia di A. K. Weinberg sulle relazioni fra Usa e tribù indiane). E. Tatum fu il primo che ritenne Io Monroe Doctrine diretta essenzialmente contro l’England. Whitaker analizzò la lotta dei popoli sudamericani per l’indipendenza. L’elenco potrebbe continuare, poiché negli anni ’20 e ’30 gli studi furono assai numerosi e molti di rilievo.

la fine della II guerra mondiale segnò invece una svolta negativa nello studio della storia degli Usa. Per almeno 15 anni ogni sorta di idee liberali, per non parlare di quelle radicali, furono guardate con sospetto e perseguitate (si pensi al maccartismo e alla guerra fredda).

Naturalmente la pesante atmosfera neoconservatrice si rifletteva sul modo d’intendere i problemi della politica estera. Una delle ragioni di questo stava nel fatto che i principali artefici del “consenso” negli studi storici, D. Boorstin, L. Hartz e R. Hofstadter, non erano competenti in materia di affari esteri. E, d’altro conto, i maggiori storici diplomatici come Bemis e Pratt, T. A. Bailey e D. Perkins, rimasero attivi anche dopo la II guerra mondiale.

Tuttavia, se fino alla guerra le loro opere continuarono a riflettere le idee progressiste degli anni ’20 e ’30 (chi più come Pratt, chi meno come Perkins), durante la seconda metà del Novecento tali autori assunsero posizioni più conservatrici. Gli accenti antibritannici di Bemis, per quanto riguarda gli affari esteri, si affievolirono notevolmente, e Perkins cominciò a enfatizzare le divergenze ideologiche fra Usa e Urss. Come i loro colleghi più giovani (vedi ad es. R. W. Leopold e A. De Conde, essi erano unanimi nella valutazione della “minaccia sovietica”: Bemis arrivò addirittura a paragonare Yalta con Monaco!

Unanime era anche il giudizio sulla politica estera americana post-bellica. Furono molti gli storici della diplomazia che a partire dagli anni ’50 fino alla prima metà degli anni ’60 difesero a spada tratta la guerra fredda, la dottrina Truman, il piano Marshall e l’antisovietismo: si pensi a J. Spanier, J. Lukacs, D. Donnelly, W. H. McNeil, H. Feis, A. Schlesinger jr. ecc.

Curiosa è stata la metamorfosi accaduta dopo il 1945 fra i membri dell’estrema destra. Fino ollo scoppio della guerra essi erano su posizioni rigidamente isolazioniste. Negli anni ’50 invece divennero accesi interventisti e sostenitori di una crociata globale contro il comunismo. Dopo la guerra, W. H. Chamberlin, che aveva approvato il patto di Monaco dei 1938, affermò che se l’Inghilterra e la Francia avessero mostrato la necessaria fermezza, la Germania e l’Urss si sarebbero distrutte a vicenda. E’ sintomatico che Chamberlin dedicasse il suo nuovo libro a J. F. Dulles, guerrafondaio patentato.

Tesi ultraconservatrici le troviamo anche nelle opere di J. Burnham, R. H. Hupè e S. Possony, per i quali persino le posizioni di Truman e D. Acheson risultavano moderate.

La storiografia americana contemporanea (II)

A partire dalla metà degli anni ’70 una terza corrente è venuta prepotentemente emergendo: quella conservatrice. Gli scrittori collegati a questo nuovo trend hanno esordito attaccando frontalmente non solo le concezioni radical democratiche ma anche quelle liberali. Essi ad es. condannano le politiche governative dei presidenti Kennedy e Johnson, rifiutano tutti i programmi di assistenza sociale degli anni ’60, ritengono che la povertà e l’ineguaglianza siano inevitabili, parteggiano per il darwinismo sociale e le idee malthusiane.

In particolare, sul concetto di povertà le loro opinioni sono davvero singolari: chi sostiene che i poveri degli Usa sono molto più ricchi dei poveri del Terzo mondo, chi pensa che la povertà non sia un fenomeno oggettivo ma una “percezione soggettiva” degli strati sociali più bassi, chi addirittura ritiene che l’assistenza sociale sia un incentivo alla povertà: basta leggersi le opere di I. Kristol, D. Bell, T. J. Lowi, B. Y. Pines… Insomma, l’aspirazione massima di questi storici conservatori è quella di tornare all’americanismo anni ’50, quando tutto appariva “facile”.

Proprio alla fine degli anni ’50 si verificò una sorta di “rivoluzione metodologica” negli studi storici: essa determinò la nascita della cosiddetta new scientific history. L’uso interdisciplinare dei metodi di molte scienze: sociologia, politologia, psicologia, antropologia, etnografia, demografia… unitamente all’adozione di metodi di ricerca quantitativi, portò alla convinzione che la storiografia poteva essere paragonata a una “scienza esatta”.

Il tentativo non era solo quello di superare i limiti della teoria del consenso, ma anche quello di fornire un metodo scientifico, oggettivo, libero da ogni pregiudizio, da ogni orientamento ideologizzato, tanto che secondo ì fautori di questo nuovo indirizzo tutte le precedenti distinzioni storiografiche avrebbero perso il loro senso.

All’inizio, in effetti, si ebbe un’impressione alquanto favorevole. Gli orizzonti e le capacità della storiografia si erano allargati. Tantissime cose interessanti si erano scoperte, specie nello studio delle esperienze collettive e della consapevolezza dei popoli di epoche diverse.

Questa nuova metodologia divenne parte del bagaglio teorico di storici marxisti e non marxisti di tutte le tendenze. Ma sarebbe far loro un torto sostenere che la “nuova storia scientifica” abbia eliminato le differenze che li dividevano, o che i metodi quantitativi e interdisciplinari costituissero la quintessenza metodologica degli studi storici.

Basta vedere cosa è successo in questi ultimi 40 anni: la new scientific history si è suddivisa in diverse branche, all’interno delle quali prevalgono nettamente le correnti conservatrici e liberali, nonché i metodi della più pura sociologia e politologia borghese.

Ecco alcuni esempi per convincersene: gli storici che hanno studiato le cause della guerra civile americana, sostengono che la schiavitù e di conseguenza gli antagonismi di classe fra il nord capitalista e il sud schiavista non ebbero alcuna parte di rilievo nello scatenamento della guerra, e lo dimostrerebbe secondo loro il fatto che gli elettori votarono per i democratici o i repubblicani a seconda delle diverse tradizioni etnico-religiose. In pratica la new political history considera molto più importanti dei conflitti di classe le contraddizioni di tipo etnico-religioso.

I leaders riconosciuti della new economic history, R. W. Fogel e S. L. Engerman, cercarono persino di dimostrare che il sud schiavista aveva conosciuto, nei decenni anteriori alla guerra, uno sviluppo progressivo. Il loro Time ori the Cross (Boston 1974), due volumi dedicati all’esame della schiavitù, si basa su quattro tesi fondamentali:

  1. la schiavitù negli Usa fu un sistema economico altamente produttivo e redditizio, che alla vigilia della guerra civile stava prosperando sia negli Stati costieri dell’Atlantico che nei nuovi Stati occidentali;
  2. il lavoro schiavistico nelle piantagioni fu più produttivo del lavoro libero dei farmers bianchi e dei salariati agricoli;
  3. le piantagioni garantivano agli schiavi un più alto standard di vita rispetto a quello offerto dal capitalismo al proletariato industriale e a quello raggiunto dai neri americani dopo l’emancipazione;
  4. le piantagioni non reprimevano le capacità fisiche, intellettuali e morali degli schiavi, i quali anzi appresero gli elementi del cristianesimo, della famiglia monogamica, ecc.

Queste tesi vennero sottoposte a dura critica da molti storici marxisti e non. In modo particolare non sfuggì loro che Engerman e Fogel (inclusi altri esponenti della new economic history) avevano comparato lo schiavismo delle piantagioni a un solo breve periodo del capitalismo industriale, quello dal 1825 al 1850.

Effettivamente risultava una minore produttività del capitalismo, ma solo perché questo era agli inizi del suo cammino e non, come lo schiavismo, nel pieno delle forze. D. C. North, T. C. Cochran, G. R. Taylor e P. Temin ribatterono sostenendo che la guerra civile non stimolò affatto lo sviluppo capitalistico, ma anzi lo impedì, portando l’America degli anni ’70 più indietro rispetto al 1860.

Tuttavia questo regresso economico fu momentaneo e in un certo senso fisiologico: i frutti delle rivoluzioni sociopolitiche non si fanno sentire subito.

In sostanza la new scientific history non fa che spezzare la storia sociale di tutte le tappe del capitalismo americano in molti tipi di “storie” fra loro giustapposte o parallele, comunque isolate dalla base economica e dalla struttura politica della società: di qui la storia della famiglia, delle donne, dei figli, degli adolescenti, delle comunità etniche, delle sette religiose ecc. Ogni singola storia viene trattata senza tener conto né dei principali orientamenti dello sviluppo storico, né delle fondamentali distinzioni di classe.

L’antistoricismo di questi metodi liberalconservatori è alla base del rifiuto di tutti i metodi di ricerca della storiografia classica e, nonostante gli approcci interdisciplinari e le tecniche quantitative, esso resta sostanzialmente apologetico del sistema borghese.

Viceversa, la storiografia radicaldemocratica, benché numericamente più debole dell’altra, rappresenta un’importante tendenza nell’evoluzione della new scientific history americana. M. B. Katz, M. J. Doucet e M. J. Stern, studiando la struttura sociale americana del 1850-75, hanno criticato l’interpretazione behaviouristica e sociopsicologica delle classi fornita dalla storiografia borghese, e hanno mostrato che gli interessi di classe possono trovare nel proletariato una consapevolezza e un comportamento inadeguati, ma non per questo essi risultano meno reali.

Il fenomeno caratteristico del Nord America in quel periodo di espansioni, la mobilità sociale, può aver fatto credere che non esistessero antagonismi fra le classi, ma si è trattato di una pura e semplice apparenza. Il capitalismo non fa sparire i conflitti tra le classi ma anzi li aggrava (cfr. The Social Organisation of Early Industrial Capitalism, Cambridge¬Mass., 1982).

Oggi la new scientific history, così come tutta la storiografia non marxista nordamericana, è suddivisa in tre fondamentali correnti, come già si è detto: conservatrice, liberale e radicaldemocratica. Nonostante alcuni punti in comune, a livello di metodo e di contenuto storiografici, le loro principali differenze si possono riassumere, per concludere, alle seguenti quattro:

  1. gli esponenti del trend liberale e conservatore aderiscono all’idea di una esclusività storica nazionale. Essi vedono la storia del mondo come una somma meccanica di storie nazionali, ognuna delle quali si è sviluppata secondo proprie leggi. Negli ultimi 30 anni s’è imposta una variante dell’esclusività americana. R. Palmer e i suoi seguaci hanno lanciato l’idea che la regione atlantica “avanzata” include anche i paesi euroccidentali, i quali però restano inferiori alla insuperata civiltà americana. Gli esponenti della tendenza radicale ritengono invece che il processo storico-universale sia unitario, nel senso che esistono alcune fondamentali leggi storiche che possono essere applicate allo studio della storia di ogni singola nazione.
  2. La maggioranza degli storici liberalconservatori sostiene un approccio multi-facIor alla casualità storica e crede nell’equivalenza dei fattori. Chi invece attribuisce l’importanza maggiore a un singolo fattore, il più delle volte sceglie fra i seguenti: mutamenti tecnologici, influenze ambientali, lo Stato e i partiti politici, aspetti biopsicologici. Viceversa, gli storici radicali puntano l’attenzione sugli elementi materiali ed economici dello sviluppo storico, e fra questi considerano che i conflitti sociali e di classe giocano un ruolo decisivo.
  3. Va detto tuttavia che solo gli storici più conservatori oggi negano completamente l’esistenza dei conflitti nella storia del loro paese. Per quelli liberali o moderati l’interpretazione dei conflitti storici viene usata come contrappeso a quella marxista. Si può anzi dire, sotto questo aspetto, che tra le principali interpretazioni liberalborghesi dei conflitti sociali vi sono: quella che nega il conflitto di classe ai livelli delle relazioni produttive, situandolo solo in quelle distributive; quella che, dopo aver diviso la società in molti piccoli gruppi, vede i conflitti sociali nelle diverse esigenze professionali o comunque vitali di questi gruppi, che pur possono avere un medesimo rapporto nei confronti della proprietà dei mezzi produttivi; quella infine che enfatizza i contrasti generazionali e della convivenza interetnica e religiosa.
  4. Sul piano della concezione politica del mondo, sia i conservatori che i liberali vogliono preservare, come noto, le posizioni storiche del capitalismo monopolistico, benché i liberali, a differenza dei conservatori, vogliono questo in virtù di riforme e di una regolazione monopolistico-statale dell’economia. Fra gli storici liberali si possono riscontrare anche sentimenti pacifisti e vagamente antimperialistici. I rappresentanti dell’ala radicale sono invece molto più netti nell’opposizione al dominio dei monopoli.

La storiografia americana contemporanea (I)

Sin dalla II guerra mondiale l’evoluzione del pensiero storico americano è stata largamente determinata da un forte rinnovamento delle sue basi metodologiche. Si cominciò infatti coll’adottare i metodi cosiddetti quantitativi e interdisciplinari, molto più positivistici del logoro neokantismo.

Naturalmente le esigenze della politica governativa, in tale mutamento, ebbero la loro parte. La maggioranza degli storici americani sposò le idee di un gruppo sociale elitario e costituì l’ala apologetica degli studi storici di questo paese: una piccola minoranza invece rifletteva gli interessi dell’opposizione sociopolitica e per questo la si può definire socialmente critica.

Il legame tra ricerca storica e schieramento politico è sempre stato molto sentito negli Stati Uniti: proprio in virtù di esso gli storici decidono le metodologie da adottare, gli argomenti da trattare, le fonti da consultare, ecc.

Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso la scuola apologetica del consensus servì da “portavoce storiografica” alle istituzioni: essa tolse al passato americano la scomoda realtà dei conflitti di classe e alimentò il concetto di “esclusività americana”.

Tuttavia, a partire dalla metà degli anni ’60 sino alla fine degli anni ’70, il trend storiografico radicaldemocratico, che si sviluppò in sintonia con i movimenti democratici di massa di quel periodo, provocò un’inversione di rotta. Gli antagonismi, le contraddizioni e i conflitti non solo smettevano d’essere censurati, ma venivano anche posti alla base del processo storico.

Si può in sostanza dire che la storiografia americana non marxista è passata, dalla seconda guerra mondiale sino all’inizio degli anni ’80, per tre stadi: conservativo, liberale e radicaldemocratico, ognuno dei quali ha chiaramente espresso uno stretto legame fra la storia come disciplina e le situazioni sociopolitiche in mutamento.

Negli anni ’40 e ’50 la storiografia reagì favorevolmente alla “guerra fredda” scatenata dalle autorità americane e alla pesante atmosfera anticomunista. La scuola del “consenso” era riuscita facilmente a far convergere gli orientamenti conservatori e liberali, la cui principale differenza stava semplicemente nell’idea storica dell’America.

Gli storici conservatori sostenevano che la società nordamericana avesse conseguito la sua forma classica nel momento in cui i Padri pellegrini (o fondatori) sbarcarono in America dal Mayflower nel 1620, stipulando il primo “contratto sociale” della storia. I liberals invece sostenevano il capitalismo monopolistico riformato, che, a loro giudizio, avrebbe creato uno stato di prosperità universale.

In ogni caso entrambi i gruppi manifestavano piena lealtà alla teoria dell’esclusività americana, e interpretavano l’esperienza storica americana come l’incarnazione di un esperimento democratico unico. Essi videro lo Stato economico creato dai monopoli come molto solido e negarono la presenza di antagonismi di classe e conflitti sociali acuti nella storia americana.

L’assenza di un’eredità feudale nel passato americano si pensava avesse liberato la storia degli Usa non solo dalla tradizione borghese rivoluzionaria ma anche da quella socialista. Questa tesi, elaborata per la prima volta da Louis Hartz nel 1955, acquistò subito vasti consensi.

La tradizione socialista veniva così ad essere considerata una conseguenza della lotta antifeudale, non antiborghese: era il prodotto non della società capitalista ma di quella feudale. Questa concezione storica priva di qualunque scientificità venne usata proprio per eliminare la tradizione rivoluzionaria, radicale e socialista del passato americano.

Ma proprio nel momento in cui sembrava che l’edificio costruito su questi pilastri teoretici fosse di una solidità eccezionale, scoppiò la gravissima crisi degli anni ’60. Influenzati dalla lotta per i diritti civili dei neri americani, dal movimento di massa antimilitarista e dalle azioni politicosindacali della classe operaia, gli storici cominciarono ad assumere posizioni radicali e di sinistra.

La scuola del consenso andava perdendo ogni credibilità e l’ala liberale si stava progressivamente staccando da quella conservatrice. Una monografia di R. Hofstadter, leader riconosciuto della tendenza liberale, conferma questo mutamento. Mettendo criticamente a confronto le due principali scuole storiografiche non-marxiste degli Usa, quella del consensus e quella progressista, egli ammise non solo che nella storia dell’America ci sono stati forti conflitti e contraddizioni antagonistiche, ma anche che la guerra d’Indipendenza del 1775-83 e la guerra civile del 1861-65 avevano un carattere rivoluzionario (cfr The Progressive Historians: Turner, Beard, Parrington, N.Y. 1968).

Tuttavia, il risultato più importante degli anni ’60 fu la formazione della cosiddetta storiografia new left (nuova sinistra), che si guadagnò i riconoscimenti accademici negli anni ’70 e ’80 con la denominazione di “scuola radicale”.

Molto famosi divennero i suoi principali esponenti: W. A. Williams, G. Kolko, E. D. Genovese, E. Foner, H. G. Gutman, L. F. Litwack e M. Dubofski. A tutt’oggi essa rappresenta il meglio della storiografia americana. La stessa scuola marxista non regge il confronto.

Le sue origini risalgono alla progressive school degli inizi del secolo. Ch. Beard, C. L. Becker, V. L. Parrington, A. Schlesinger sr., C. Vann Wooward furono i primi non-marxisti ad elaborare una sofisticata analisi delle tradizioni rivoluzionarie, radicali e democratiche della storia americana, i primi a studiare la lotta di classe dei farmers e dei movimenti di massa antimonopolistici.

Questi storici distinguevano tre principali periodi nella loro concezione della storia americana: un periodo iniziale che va dalla formazione delle colonie nordamericane alla fine del XVIII sec.; un periodo medio che va sino al 1860; e l’ultimo periodo che andava a concludersi agli inizi del Novecento.

Stando alle loro analisi la guerra d’Indipendenza – definita come una “rivoluzione socio politica” – portò il primo periodo a maturità; la guerra civile (chiamata anche “seconda rivoluzione americana”) concluse il secondo periodo; mentre la vittoria delle forze antimonopoliste fu l’atto culminante del terzo periodo.

Le concezioni contraddittorie e a volte semplicistiche di questa scuola progressista dipesero indubbiamente dalle origini piccolo borghesi dei suoi esponenti, nonché da un certo eclettismo metodologico. Sebbene infatti essi riconoscessero l’importante ruolo della lotta di classe nella storia degli Usa, non considerarono mai il proletariato come una classe indipendente, caratterizzato da una propria ideologia, preferendo invece vedere i lavoratori come alleati della borghesia liberaldemocratìca. Lo dimostra ad es. il fatto ch’essi stimavano il new deal di Roosevelt degli anni ’30 come la “terza rivoluzione antimonopolistica” degli Usa.

Sotto questo aspetto si può tranquillamente affermare che gli storici radicali degli anni ’60 siano stati influenzati dal marxismo molto più dei loro colleghi progressisti d’inizio secolo. Essi infatti videro la società capitalistica americana come un sistema antagonistico a livello economico, sociale e politico, che tale è stato – come essi ben evidenziarono – sin dall’inizio della storia americana, e non solo relativamente al periodo moderno. Di qui la loro esigenza di trasformare la critica dei monopoli in una critica del sistema qua talis.

I progressisti avevano ricondotto la lotta di classe a una serie di conflitti fra interessi meramente economici di diversi strati sociali. Gli storici radicali invece mostrarono l’influenza delle leggi economiche basilari del capitalismo (e anzitutto quella dell’accumulazione privata capitalistica) nelle motivazioni dello Stato borghese e della borghesia americana, in campi come quelli della politica sociale ed economica, interna ed estera.

Ma c’è di più. Gli storici progressisti pensavano che gli interessi di classe del proletariato fossero semplicemente volti a migliorare le proprie condizioni materiali d’esistenza, all’interno di una società borghese mai messa in discussione. Essi han sempre guardato la classe operaia come un alleato o addirittura come un supporto sociale dei politici liberalriformisti.

Viceversa, gli storici radicali erano convinti che gli interessi del proletariato fossero anticapitalisti e sostanzialmente diversi dagli obiettivi liberalriformisti. H. Gutman, D. Montgomery, M. Dubofsky, J. R. Green, J. Weinstein e altri, in questo senso, criticarono duramente la scuola del Wisconsin che aveva dominato gli studi del movimento operaio americano per buona parte di questo secolo.

I “wisconsinisti” – essi notarono – avevano scorrettamente equiparato la storia del proletariato americano con quella delle trade unions, sebbene quest’ultime non raccogliessero più di 1/5 di tutti i lavoratori americani. Peraltro di queste unions si preferiva prendere in considerazione solo il pensiero e l’azione dell’élite: gli altri membri venivano considerati più o meno consenzienti. Non a caso le contraddizioni fra il proletariato e la borghesia venivano ridotte a semplici conflitti di carattere economico-sindacale, riguardanti il mercato del lavoro.

Gli storici radicali, servendosi di metodi quantitativi moderni e di approcci interdisciplinari, contribuirono enormemente alla comprensione del ruolo della borghesia e dello Stato, della società monopolistica e della politica estera imperialistica. In particolare fornirono validi strumenti per individuare la mentalità del lavoratore americano, la cui vita sociale veniva analizzata sotto gli aspetti religiosi, familiari-parentali, politico ideali, ecc.

Oltre ai nomi citati possiamo ricordare M. Urofsky, R. Radosh, W. F. La Feber, G. Alperovitz, L. C. Gardner, T. Mc Cormic. Ma, nonostante ciò, molte loro opere soffrono di stereotipi ideologici e di eclettismo metodologico.

E’ ben noto, ad esempio, l’approccio idealistico nell’analisi del ruolo della borghesia durante le prime tappe del capitalismo o l’ammirazione per le azioni spontaneistiche del movimento operaio. Alcuni storici radicali hanno sopravvalutato le capacità dei sistema monopolistico statale di preservare se stesso.

Queste due correnti continuano ad esercitare una certa autorità nel panorama degli studi storici americani. Alla presidenza dell’organizzazione degli storici americani si sono succeduti, nel corso degli anni Ottanta, tre radicali: Williams, Genovese e Litwach.

I buchi neri dell’Italia

Siamo sempre più convinti che se il socialismo burocratico ha avuto al proprio interno le forze sufficienti per ripensarsi globalmente, per rimettersi completamente in discussione, il capitalismo invece è ancora ben lontano da questa prospettiva; anzi, piuttosto che ripensarsi, è incline a scatenare guerre di conquista, crociate contro nemici esterni (gli ultimi sono i terroristi islamici, come se l’aggettivo “islamico” fosse ormai sinonimo di “terrorista”), ovviamente propagandando l’esigenza di esportare in tutto il mondo la cosiddetta “democrazia occidentale”, come al tempo dei romani si esportava il corpus del diritto.

La propaganda borghese è riuscita a farci odiare non solo le aberrazioni del socialismo (com’era giusto che fosse), ma anche qualunque idea di socialismo, persino quelle più umanistiche e democratiche, al punto che oggi non riusciamo a intravedere altra soluzione alle classiche contraddizioni del capitale (lo sfruttamento dell’uomo e della natura in nome del profitto) che non sia la mera rassegnazione, quella che poi si dirama in tanti rivoli destinati solo a peggiorare la situazione, come la frode, la corruzione, l’immoralità, gli eccessi dell’individualismo… Si pensa di poter sopravvivere generalizzando i metodi che un tempo appartenevano solo a una certa categoria di persone.

Da questo punto di vista si può dire che l’Italia sia un paese privo di un’identità precisa. Ci trasciniamo da troppo tempo problematiche irrisolte, come il rapporto neocoloniale tra nord e sud all’interno del nostro stesso paese, esito di una rivoluzione tradita, i cui obiettivi: unificazione nazionale, mercato unico, Stato centralista, hanno portato beneficio solo alle classi proprietarie, non certo a quella agricola o a quella operaia.

Se l’Europa di oggi, che è giovane rispetto alle nazioni che continuano ad opporle i privilegi acquisiti in secoli di dura lotta per l’egemonia, è destinata a ripercorrere, su scala più grande, il medesimo cammino delle nazioni, la prospettiva diventa inevitabilmente quella di vedere acuirsi le contraddizioni a livelli sempre più elevati e quindi quella di veder spostarsi verso un futuro molto incerto il compito delle loro soluzioni.

In Italia i nodi rimasti irrisolti sono ancora molti e, non essendo mai stata spezzata la linea di continuità tra liberalismo – fascismo – democrazia cristiana – polo delle libertà, si è di fatto impedito di far luce sui tanti misteri che circondano le azioni delittuose degli apparati dello Stato, partendo anzitutto dai suoi servizi segreti.

La stessa presenza anomala di uno Stato nello Stato, quello del Vaticano, sancita dalla Costituzione e ribadita dall’ultima revisione concordataria, ci tiene costantemente legati ai retaggi del fascismo.

Continua a prevalere nettamente nel nostro paese l’idea che sia meglio uno Stato centralista di uno federalista; parole come decentramento, autonomia regionale, autogoverno degli enti locali territoriali o vengono usate in maniera retorica, per dimostrare che sotto il capitalismo si può essere più democratici e più efficienti, o addirittura si temono, poiché si preferisce continuare a dirigere la cosa pubblica dall’alto e ad “assistere” chi sta in basso, oppure vengono usate come uno strumento per permettere al capitale d’essere più aggressivo e dispotico. Nessuno associa federalismo a socialismo.

Gli storici italiani non sono mai stati capaci di produrre un senso o una mentalità comune sull’interpretazione da dare all’Italia repubblicana. La sudditanza ai valori occidentali dell’americanismo (consumismo ad oltranza, anticomunismo viscerale ecc.) ha impedito di delineare una visione critica del dopoguerra.

Noi oggi non siamo neppure capaci di fare dei discorsi ecologisti o ambientalisti correlati a quelli economici per una transizione verso il socialismo democratico. Pretendere di migliorare i rapporti uomo-natura in un contesto in cui i rapporti interumani sono caratterizzati dallo sfruttamento più vergognoso, è semplicemente utopistico.

Con la svolta della perestrojka gorbacioviana si era per un momento creduto possibile realizzare il socialismo dal volto umano sulle rovine di quello statale, ma oggi la disillusione è grande. Abituati per 70 anni a obbedire, i popoli est-europei hanno atteso dall’alto, ancora una volta, la realizzazione della nuova sociètà, e invece è arrivato lo smantellamento di qualunque idea di socialismo, a tutto vantaggio del sistema economico oggi prevalente nel mondo.

Sicuramente è aumentata la secolarizzazione e la laicizzazione nella società civile e anche nelle istituzioni, ma laicizzazione di per sé non vuol dire umanizzazione. Se la laicizzazione s’identifica col materialismo volgare della società borghese, basata su profitto e consumismo, è facile ch’essa degeneri in disumanizzazione, e non a caso è su queste incoerenze che la religione trova linfa vitale per tornare alla ribalta.

L’esplosione di Internet degli anni Novanta, che ha fatto seguito a quella informatica degli anni Ottanta, ha catapultato nel protagonismo anarchico, spontaneistico, moltissime persone non legate a partiti, sindacati, movimenti della vita reale, e ha aiutato queste stesse realtà ad ampliare i consensi e le iniziative.

Ma Internet è una realtà relativamente fragile, che sta peraltro diventando sempre più costosa, la cui evoluta tecnologia può essere bersagliata da attacchi virulenti di molestatori che possono inibire o scoraggiare l’uso costante o progressivo della rete, anche perché, per potersi difendere dai loro attacchi, occorrono non poche competenze, che l’utente finale, spesso unico vero difensore di se stesso, non sempre è in grado di avere.

Sicuramente oggi si può affermare che il sociale sia, nella sensibilità delle gente, considerato più importante del politico; i movimenti, l’associazionismo, il no profit vengono considerati più coinvolgenti dei partiti e persino dei sindacati. Ma nonostante questo il loro peso istituzionale è alquanto risicato. Essi non hanno alcuna rappresentanza parlamentare che non sia mediata dagli stessi partiti, i quali, inevitabilmente, tendono a strumentalizzare ogni cosa per esigenze di puro potere. E questo significa che l’associazionismo deve materialmente contare solo sulle proprie forze.

La caduta delle ideologie può aver indotto una certa disillusione riguardo all’impegno politico. Oggi abbiamo una generazione molto informatizzata o tecnologizzata, ma praticamente analfabeta sul piano politico e con scarse cognizioni culturali. Tuttavia è un bene che oggi il concetto di “alternativa al sistema”, quando viene propagandato, si caratterizzi anche sul piano etico e non solo su quello politico. Non basta la piattaforma programmatica per dimostrare la propria diversità, occorre anche mostrare, da subito, che si è capaci di “umanità”, cioè di mettere in pratica i “valori umani” (quei valori p.es. che nessun partito politico seppe dimostrare in occasione del delitto Moro).

L’Italia non ha mai fatto i conti col suo passato. Siamo ancora troppo pieni di buchi neri. Non vogliamo affrontare i tradimenti degli ideali borghesi di democrazia e di libertà d’iniziativa per tutti semplicemente perché ciò c’indurrebbe a riprendere temi scomodi, quali appunto il socialismo, la cooperazione, il decentramento ecc. Il capitalismo non può sopportare le alternative che lo negano. E così oggi l’Italia si trova ad affrontare non un dibattito approfondito su quale tipologia di socialismo occorra adottare, ma una vexata quaestio circa la presunta superiorità del capitalismo su ogni altro sistema produttivo.

Discutiamo ancora di cose che Marx considerava superate 150 anni fa. Il capitalismo non ha futuro e non è il crollo del comunismo da caserma che può mettere in discussione questa realtà, già abbondantemente dimostrata dai classici del marxismo. Se partissimo dall’esigenza di trovare un’alternativa praticabile, smetteremmo di dire che non abbiamo un’identità nazionale, che gli storici peraltro, succubi come sono dell’anticomunismo imperante, non sono mai stati capaci di promuovere.

Noi ci sentiamo troppo debitori nei confronti degli Usa, non riusciamo a scrollarci di dosso miti come l’aiuto bellico contro i nazisti (risoltosi in un’occupazione dell’Italia per mezzo delle basi Nato), il generoso piano Marshall (che ci legò le mani economiche a quella che era diventata la potenza più forte del mondo), la superiorità tecnologica degli Stati Uniti (utilizzata prevalentemente per fini bellici) ecc. Tutti miti che andrebbero storicamente smontati.

Bob Dylan, benvenuti verso l’infinito e oltre

Poche parole, subito, anche se non è serio scrivere di un disco quando non lo si è ascoltato bene. Io “Tell tale signs”  di Bob Dylan non l’ho addirittura ascoltato tutto, sono alla traccia 8 del primo dei due cd. Ma è talmente… potente che non posso fare altrimenti. E’ la raccolta delle “Bootleg series” numero 8, ma niente rarità d’annata, roba vecchia. Solo (solo?!?) canzoni che vanno dal 1989 a un paio d’anni fa, mai uscite nei dischi di quel periodo oppure rivisitate dallo stesso Dylan più una manciata di registrazioni live. E basta sentire la prima, “Mississippi”, che non ha trovato posto in “Time out of mind” perché ti si allarghi il cuore e le altre intanto non ti deludono. Perché ancora una volta riscopri che Dylan resta inimitabile, anche come cantante. Che voce… Io l’ho amato molto da ragazzina, la mia formazione emotiva e sentimentale è nata e cresciuta con lui. Poi l’ho perso per strada, quelle menate con Gesù e compagni non le ho più sentite così mie. Ma ogni volta che ricasco nel suo gorgo mi lascio voluttuosamente catturare, appagata. Se ancora non l’avete fatto, lasciate stare la rete, niente mp3 stavolta. Per la qualità del suono e per quel libro di ben 62 pagine ricche di storie, segreti, curiosità, più un’esauriente sfilza di credits canzone per canzone e tante fotografie. Staccate i telefoni, fuori tutti, ed entrate nell’altro mondo. E’ il più bel regalo che potete farvi. A me è toccata la fortuna di riceverlo, inaspettato e folgorante come un fulmine a squarciare la nebbiolina padana: vale più di un mazzo di 100 rose rosse. E Dio solo sa quanto mi piacciono i fiori….

 

Prospettive di ricerca

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l’alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all’interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l’autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un’alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un’alternativa quando il capitalismo era in fieri, e naturalmente solo a condizione che il sistema dell’autoconsumo fosse in grado di eliminare la piaga del servaggio.

Oggi, perché l’autoconsumo possa costituire un’alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l’esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla anche i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello sarà il momento buono per realizzare l’internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un’alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. “Autonomia” non può solo voler dire “indipendenza dal mercato”, ma deve anche voler dire “libertà” da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di “dipendenza”, ma da qualunque forma di “dipendenza” in cui esista un “padrone” e un “servo”, una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E’ stata un’illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l’equilibrio dell’ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l’oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l’edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell’Europa occidentale, proprio perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell’Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l’autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d’uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l’impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo è riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest’ultimo mezzo millennio l’umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono “in avanti”, sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell’ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un’infima parte dell’umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

  1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell’autoconsumo le possibili alternative al servaggio;
  2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo sia stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c’era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull’autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull’altra):

  1. l’autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch’egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d’altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;
  2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l’uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l’apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero adottare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all’aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate “paritetiche” e non dovrebbero essere numericamente “minoritarie”.

In ogni caso sarà impossibile per l’Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.

Per una filosofia della storia (V)

Europa e America

Per quanto riguarda l’Europa si può sostenere che pur essendo stati posti qui i fondamenti del superamento del cristianesimo e del capitalismo (che è la versione schiavista moderna del cristianesimo protestante), di fatto non si è pervenuti al socialismo democratico.

Si potrebbe però precisare che i paesi est europei hanno tentato l’esperienza del socialismo, vivendola però in maniera autoritaria. Tuttavia, questi paesi devono dimostrare d’essere capaci di superare il socialismo restando nel socialismo e a tutt’oggi non sembra siano in grado di farlo. Di tutti i paesi est-europei quelli che sono meno in grado di farlo provengono dalle culture cattolica e protestante o comunque da queste culture sono stati maggiormente influenzati, pur avendo conservato l’ortodossia come religione prevalente.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti bisogna dire che l’unica possibilità che questo continente ha di recuperare il comunismo primitivo è quella di ripristinare i criteri di vita delle tribù indiane relegate nelle riserve. Stesso discorso vale per tutta l’America latina, in riferimento alle popolazioni amerinde.

L’Islam

Quanto all’islam, il suo destino è segnato, poiché sul piano teorico esso non è che un giudaismo cristianizzato o un cristianesimo giudaizzato e in tal senso non costituisce un’alternativa né al cristianesimo né al capitalismo né al socialismo autoritario, mentre sul piano pratico la sua forza sta unicamente nell’incoerenza del cristianesimo e del capitalismo che in teoria predicano la democrazia e i diritti umani e in pratica fanno esattamente l’opposto.

Quindi l’islam è destinato a essere superato da ciò che supera lo stesso cristianesimo e lo stesso capitalismo e cioè il socialismo democratico.

Le nuove popolazioni

Le genti che più devono interessare lo storico sono oggi, oltre a quelle che si pongono in maniera decisa contro il cristianesimo in tutte le sue forme, contro il capitalismo e contro il socialismo autoritario, quelle che provengono dalla Cina, dall’India, dalla Russia asiatica, dai territori pre-cristiani dell’Africa, dell’America latina, dai territori più remoti e oscuri, più freddi o desolati o aridi della Terra.

Obiettivi da realizzare

Gli obiettivi principali da realizzare sono noti al socialismo democratico:

  1. fine della proprietà privata, quindi ripristino della proprietà sociale dei mezzi produttivi, facendo bene distinzione tra i concetti di proprietà privata, sociale e personale (con l’esclusione della proprietà privata bisogna escludere anche quella statale, in quanto il concetto di “pubblico” coincide solo con quello di “sociale”);
  2. fine del dominio dell’uomo sulla natura, quindi revisione totale dei principi scientifici e tecnologici della cultura occidentale (occorre partire dal presupposto che l’uomo ha più bisogno della natura di quanto la natura abbia bisogno dell’uomo, quindi qualunque sviluppo tecnico-scientifico dev’essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura);
  3. fine del dominio dell’uomo sulla donna;
  4. ricomposizione del diviso: città e campagna, lavoro intellettuale e manuale, teoria e prassi;
  5. affermazione della democrazia diretta, localmente circoscritta, quindi fine della democrazia delegata e superamento di concetti come Stato, nazione, parlamento, leggi, istituzioni…;
  6. superamento della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), in quanto è il popolo che decide, esegue e giudica;
  7. il popolo deve difendere se stesso, quindi no alla delega del potere militare.

A questo punto è evidente che per realizzare la transizione dal capitalismo e dal socialismo autoritario al socialismo democratico diventa di fondamentale importanza riesaminare i rapporti tra l’organizzazione sociale dell’uomo primitivo, di tipo comunistico, e quella subito successiva, basata sullo schiavismo.

Molto utile sarà anche l’esame dell’organizzazione tribale che ancora oggi si ritrova in pochissime popolazioni rimaste isolate o che sono sopravissute al contatto con gli occidentali, conservando le proprie caratteristiche fondamentali.

Bisogna tuttavia considerare che se il primo tentativo (quello giudaico) di ripristinare i valori primitivi è durato circa 4.000 anni, e il secondo (quello cristiano) circa 2.000, il terzo (quello socialista) non potrà durare meno di 1.000 anni, dopodichè davvero l’alternativa non potrà che essere: o socialismo o barbarie.

Per una filosofia della storia (IV)

Il ruolo dell’Inghilterra

L’ultimo aspetto che andrebbe chiarito è il motivo per cui la rivoluzione industriale è avvenuta nei paesi anglosassoni e non in quelli latini. Il motivo può essere questo: la chiesa romana, pur essendo disposta al compromesso sui princìpi, non è disposta a perdere il potere politico. I compromessi li fa solo a condizione di conservare più o meno integralmente i propri privilegi. Ecco perché la rivoluzione industriale è potuta avvenire dove il potere politico della chiesa romana era più debole. L’”anello debole” della chiesa romana era l’Inghilterra.

Ma perché questa rivoluzione non è avvenuta in Germania, che pur era stata la prima a staccarsi dalla chiesa cattolica? Perché la Germania, allora, non era ancora una nazione e poi perché la sua mentalità tradizionale era di tipo filosofico-idealistico, simile a quella greca. Perché accadesse una rivoluzione borghese in Germania, occorreva prima di tutto una larga diffusione delle idee anticattoliche, cioè protestanti, così i tedeschi avrebbero avuto la necessaria giustificazione teorica per modificare radicalmente il loro sistema di vita. Quand’essi sono giunti alla convinzione ch’era il momento di fare la rivoluzione borghese, il mondo era già stato diviso dalle potenze coloniali di Francia e Inghilterra. Ecco perché la Germania ha avuto bisogno di sviluppare il nazismo.

L’Italia ha fatto la stessa cosa, ma dal punto di vista cattolico, non protestante. L’Italia ha dovuto cercare nell’ambito del cattolicesimo la giustificazione che le permettesse di accettare la rivoluzione borghese e industriale. Probabilmente, se la chiesa cattolica avesse contribuito alla realizzazione dell’unificazione nazionale, l’Italia avrebbe partecipato prima alla spartizione delle colonie e forse non avrebbe sperimentato la dittatura fascista.

La rivoluzione borghese e industriale poteva dunque nascere e svilupparsi solo in Inghilterra, cioè in una nazione lontana dal potere politico della chiesa cattolica, non molto influenzata dalla civiltà latina e tradizionalmente poco speculativa. Questo dimostra che non basta una Riforma protestante per creare una rivoluzione industriale (Weber qui ha torto). Come non è bastata la rivoluzione borghese, nata in Italia nell’XI secolo, a provocare la rivoluzione industriale. Perché avvenisse questa transizione occorreva che la borghesia italiana operasse una lotta ideale contro il cattolicesimo, unificando la penisola. Il che non è mai avvenuto in maniera decisa e risoluta. Ecco perché dopo il Rinascimento l’Italia è tornata al feudalesimo.

Naturalmente l’Inghilterra, essendo lontana dall’influenza della chiesa cattolica (si pensi che Duns Scoto ha elaborato delle teorie che al suo tempo non trovavano riscontri in alcuna parte dell’Europa, ad eccezione del mondo bizantino), ha potuto realizzare l’unificazione nazionale molto più facilmente (e quindi molto tempo prima) sia dell’Italia che della Germania, divise in tanti principati e signorie.

Questo spiega anche il motivo per cui Spagna e Portogallo, che pur sono state le prime nazioni cattoliche colonialistiche, sono state anche le ultime a diventare nazioni borghesi-industrializzate. In entrambe la mentalità cattolica ha avuto un peso determinante. Esse non hanno mai avuto le capacità speculative della Germania per opporsi alla tradizione cattolica (anzi, soprattutto la Spagna, ha sviluppato ancora di più il concetto di “obbedienza” e di “gerarchia”, come appare soprattutto nel movimento dei gesuiti e nell’uso massiccio dell’inquisizione).

Se al loro cinismo materialistico (si pensi alla reintroduzione dello schiavismo) Spagna e Portogallo avessero unito forti capacità speculative, in luogo di quelle burocratico-militari, la rivoluzione industriale sarebbe sicuramente nata qui. Cosa che sta avvenendo adesso, come un processo calato dall’alto.

Se la rivoluzione capitalistica avviene in presenza non del protestantesimo ma del cattolicesimo, significa che del cattolicesimo è rimasto soltanto l’involucro esterno. Non a caso la nazione che oggi meglio incarna il capitalismo, e cioè gli USA, è anche quella più lontana dalle posizioni cattoliche.

Tentativi di superamento dello schiavismo

Nell’Antico Testamento ampio spazio viene dedicato alle vicende di due grandissimi personaggi, intorno ai quali sono state costruite numerose leggende: Abramo e Mosè. Due soggetti, strettamente legati a due popoli, che ancora oggi vengono considerati patriarchi, con più o meno enfasi, di due religioni per molti versi opposte: Ebraismo e Islamismo.

Ebbene, proprio le vicende di questi due personaggi possono essere considerate quanto di meglio l’umanità abbia prodotto in relazione al tentativo di superare le fondamenta del regime schiavistico, a partire dal momento in cui è stato abbandonato il comunismo primitivo (circa 6.000 anni fa), fino alla nascita di Cristo.

La fuoriuscita di Abramo dalla civiltà assiro-babilonese e quella di Mosè dalla civiltà egizia hanno prodotto, sul piano della riflessione culturale, sociale e politica delle conquiste di livello così elevato da restare ineguagliate per quattro millenni.

Al punto che ancora oggi viene da chiedersi se non sia vera l’ipotesi di chi ritiene la Palestina il centro della Terra, cioè il luogo dell’Eden originario, in cui sarebbero nate le prime esperienze di tradimento dell’ideale comunitario primitivo, poi sviluppatesi in Africa (civiltà egizia), nel Mediterraneo (civiltà fenicia, minoica ecc.) e nel Medio Oriente (civiltà sumera, ittita, assiro-babilonese, persiana).

L’esilio di Abramo e Mosè costituirebbe, se vogliamo, il tentativo, non riuscito, di recuperare nel territorio ch’era stato abbandonato secoli prima, le radici democratiche, egualitarie dell’uomo primitivo.

Le migrazioni dei popoli

Le migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche. Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri o bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente.

In realtà si tratta di porre ogni civiltà in rapporto all’organizzazione comunitaria primitiva, cercando di capire fino a che punto se n’era allontanata. Sotto questo aspetto, p.es., le popolazioni cosiddette “barbariche” che posero fine all’impero romano erano di molto superiori alla civiltà latina nel rispetto della dignità umana (lo dimostra, successivamente, il fatto che la condizione dello schiavo si trasformò in quella del servo della gleba).

Cristo e il Cristianesimo

L’altro grande personaggio da considerare è Gesù Cristo, il quale, col suo vangelo (non scritto) riuscì a porre le basi di un recupero del comunismo primitivo, cercando di superare le basi storico-culturali del giudaismo e successivamente, con la predicazione apostolica, prescindendo totalmente dall’appartenenza etnica al giudaismo.

Il cristianesimo fu il tentativo di sfruttare il fallimento del giudaismo estendendo ai non giudei il compito di recuperare le modalità del comunismo primitivo. Ma anch’esso, in questi ultimi duemila anni di storia, s’è rivelato del tutto fallimentare.

Nella versione cattolica e protestante, attraverso il colonialismo culturale dei paesi europei occidentali e degli Usa, il cristianesimo s’è diffuso in quasi tutto il mondo, ma nessun paese “cristiano” (né colonizzato né colonizzatore) è stato capace di liberarsi dalle catene dello schiavismo, vecchio e nuovo, se non in maniera formale non sostanziale, o relativa non assoluta.

Questo significa che le popolazioni che nel prossimo millennio saranno protagoniste della storia non potranno essere che quelle meno influenzate dalle teorie cristiane, o quelle che meglio avranno saputo superare tali condizionamenti, e che avranno saputo darsi una teoria e pratica anti-schiavistica, sufficientemente credibile al mondo intero.

Qui però bisogna intendersi: come il cristianesimo ha potuto sostituire il primato del giudaismo provenendo dallo stesso giudaismo, così anche il socialismo democratico potrà sostituire il primato del cristianesimo provenendo dallo stesso cristianesimo.

Questo significa che la storia del prossimo millennio apparterrà a quelle popolazioni che saranno riuscite a vivere l’esperienza del socialismo democratico come conseguenza del fallimento dell’ideologia cristiana. Quindi, queste genti o popolazioni dovranno essere in grado di emanciparsi dalla tradizione cristiana o provenendo da questa stessa tradizione oppure ereditando di questa tradizione l’esigenza del suo superamento.

Obama indica o scruta il futuro? In ogni caso, queste elezioni hanno portato varie novità epocali. Mentre in Italia invece…

Della campagna elettorale di Obama mi ha colpito questa foto: http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/comizio-obama/16.html Posa abbastanza inusuale di un braccio destro di leader teso a indicare con il dito indice un futuro ignoto, mi ha colpito perché manca di retorica, e per questo lo trovata disarmante. In via dei Fori imperiali a Roma c’è una statua in bronzo dell’imperatore Galla che si sporge stranamente in avanti, pare quasi stia per compiere un passo,  per tendere anche lui il braccio e puntare il dito verso il futuro, chiaramente per indicare ai romani la gloria.

Ma la foto del braccio proteso di Obama mi ha invece ricordato il dipinto del Caravaggio nella chiesa romana di S. Luigi dei Francesi noto come “La vocazione di Matteo” e che potete vedere qui: http://digilander.libero.it/maestridellapittura/Caravaggio03.htm

e qui: http://www.artinvest2000.com/caravaggio_vocazione-san_matteo.html

Ho voluto riportare due foto dello stesso quadro perché hanno illuminazioni differenti, che meglio permettono di farsene un’idea. Continua a leggere

Per una filosofia della storia (III)

Protestantesimo e capitalismo

Il protestantesimo emerge dalla constatazione che il principio cattolico dell’obbedienza non era più in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti feudali. Tale contraddizione -come noto- diventava tanto più acuta e insostenibile quanto più crescevano le forze della borghesia. Rifiutando la logica autoritaria, centralistica della chiesa cattolica, unitamente alla profonda corruzione del suo idealismo politico, il protestantesimo ha affermato il principio della libertà interiore del singolo individuo, cioè il primato della coscienza individuale, permettendo così al cristianesimo di recuperare una parte del modello originario del Cristo (modello che la Riforma non ha dedotto dall’esperienza ortodossa perché qui era connesso al rispetto scrupoloso della tradizione, motivo per cui l’ortodossia non aveva più alcuna influenza in Europa occidentale da almeno mezzo millennio prima che nascesse la Riforma).

Tuttavia, il protestantesimo, non riuscendo a modificare i rapporti sociali esistenti, basati sullo sfruttamento, non ha fatto altro che accelerare la trasformazione del servaggio in dipendenza salariata (quella per cui l’uomo è giuridicamente libero e socialmente schiavo), lasciandosi coinvolgere, anima e corpo, nel gretto mondo dell’economia borghese.

Sotto tale aspetto, i protestanti hanno operato un tradimento peggiore di quello dei cattolici, perché più sofisticato e più pericoloso. Da un lato infatti essi hanno permesso che lo Stato usasse del proprio potere nella maniera più arbitraria possibile; dall’altro hanno fatto dell’esperienza sociale della religione una pura e semplice “intellettualizzazione della fede”. In verità, anche la Scolastica medievale non era meno astratta e speculativa; tuttavia la teologia protestante, essendo più “libera” (perché non vincolata a concetti come “tradizione”, “autorità”, ecc.), è arrivata a giustificare quasi ogni cosa.

Il protestantesimo non ha mai avuto un interesse specifico di potere ecclesiastico da difendere, eppure, per salvaguardarsi come confessione, si è servito del potere degli Stati come nessun’altra confessione aveva fatto prima. Resta tuttavia interessante nel protestantesimo la tendenza all’agnosticismo se non all’ateismo, che è il frutto appunto di uno studio razionalistico delle Scritture, fatto con l’apporto di buona parte della cultura laico-umanistica. Questo aspetto lo avvicina al marxismo, lo allontana di molto dal cattolicesimo e di moltissimo dall’ortodossia, per la quale unica vera preoccupazione è quella di salvaguardare la tradizione e gli aspetti rituali-sacramentali, mentre il livello della riflessione speculativa -dopo le grandi dispute sulla natura del Cristo e sulle eresie del mondo cattolico- è rimasto poco consistente.

Il ruolo del socialismo scientifico

Nel mondo medievale era chiaro che il servo della gleba non poteva essere libero, anche se aveva più diritti dello schiavo. Nel mondo moderno invece l’uomo è formalmente libero ed è in questa libertà fittizia ch’egli accetta “spontaneamente” -come vuole la borghesia- di diventare operaio salariato. E’ stato il marxismo a togliere il velo all’ipocrisia della società capitalistica, e quindi all’ipocrisia della religione protestante, della filosofia idealistica, dell’economia politica classica e dell’ideologia politica borghese: il marxismo ha dimostrato che una libertà affermata davanti alla legge o allo Stato, nel pensiero o nella coscienza, senza una corrispettiva libertà dal bisogno, è una libertà falsa.

Non bisognerebbe mai dimenticare che i princìpi fondamentali del marxismo sono due: la socializzazione dei mezzi produttivi e il materialismo storico-dialettico (che include l’ateismo-scientifico). E’ sulla base di questi due princìpi ch’esso è stato in grado di ereditare le migliori conquiste della filosofia tedesca, della politica francese e dell’economia inglese.

A loro volta, queste tre correnti di pensiero rappresentano l’eredità e lo sviluppo, in veste laicizzata, di quanto di meglio potevano esprimere le due religioni principali dell’Europa occidentale: cattolicesimo e protestantesimo (quest’ultimo nella forma luterana in Germania e nella forma calvinista in Inghilterra). Il leninismo, dal canto suo, rappresenta una nuova sintesi, poiché è riuscito a ereditare non solo tutto il marxismo (e quindi tutta la cultura occidentale), ma anche tutta l’ortodossia (attraverso il populismo), rappresentando così, nell’epoca contemporanea (che è imperialistica), una via sicura per la realizzazione dei due suddetti princìpi fondamentali del marxismo.

Vista da questa angolazione, l’attuale perestrojka non andrebbe considerata come un superamento del leninismo, ma come una sua progressiva democratizzazione sul piano sociale e umano. Il leninismo infatti, quale ideologia politica, potrà essere superato solo dalla sua stessa democratica realizzazione: cosa che in URSS e negli altri paesi socialisti, lo stalinismo prima e la stagnazione dopo avevano reso del tutto impossibile. Il leninismo è stato il tentativo di affrontare il problema di una democrazia socialista a partire da una prospettiva prevalentemente politica; l’attuale perestrojka va vista come un tentativo di aggiungere a tale prospettiva anche quella eminentemente sociale e umanistica (quella cioè in cui il popolo si sente protagonista attivo del suo destino).

La perestrojka, se bene attuata, comporterà un modo diverso non solo di concepire le relazioni sociali e umane, ma anche la stessa attività politica, la quale non potrà più essere delegata dalle masse alle istituzioni statali e partitiche come fino ad oggi è accaduto.

Lo sviluppo del socialismo, sul piano culturale o ideologico, è una conseguenza indiretta della precedente cultura (non diretta, poiché nella storia non solo non c’è nulla di assolutamente arbitrario ma neppure nulla di assolutamente automatico). Ora, siccome la cultura pre-socialista era prevalentemente caratterizzata dalla religione, ciò significa che sul piano culturale il socialismo ha un debito nei confronti della religione. Infatti, grazie anche alla religione, cioè nonostante il suo “tradimento” dell’ideale originario, noi possiamo risalire (almeno sul piano dell’interpretazione storica) a questa positività primitiva, mettendola a confronto con gli ideali più significativi del moderno socialismo.

In altre parole: se per vivere una società a misura d’uomo oggi possiamo farlo senza alcun riferimento alla religione (in quanto il socialismo è un’esperienza di umanesimo integrale), per vivere questa stessa società con una coscienza storica, cioè con una coscienza dell’intera evoluzione del genere umano, una coscienza che ci aiuti a non dimenticare nulla del passato ma anzi a valorizzare quanto di meglio esso abbia prodotto, la religione può ridiventare utile, in quanto riflesso opaco di una positività tradita.

Se noi ad es. riuscissimo a dimostrare che la moderna emancipazione dalla religione e soprattutto dallo sfruttamento del capitale è, in fondo, un ritorno, in nuce, alle idee originali del Cristo -che predicò comunione dei beni e primato dell’uomo- noi non avremmo fatto un “servizio” alle chiese di questo mondo, ma al socialismo, poiché la storia ha dimostrato che lo sviluppo della religione costituisce sempre un tradimento degli ideali originari, benché nonostante questo tradimento (o in virtù di esso) possano verificarsi dei progressi, condotti in ambito religioso, per “purificare” l’idea di religiosità, e dei progressi, condotti in ambito laico, utili al superamento della stessa religione e utili persino alla recupero dell’ideale tradito. Naturalmente con questo non si ha alcuna intenzione di sostenere che gli ideali umanistici del socialismo possono di per sé garantire dagli eventuali abusi che si compiono sul piano pratico. Il fallimento del “socialismo reale” rappresenta anche la fine di questa illusione.