Oasis novità: viva il rock, oltre ‘sti benedetti Beatles

Gli Oasis non mi sono mai piaciuti, fin dall’inizio. Un po’ perché sono una bastian contraria, piacciono a tutti dunque a me no, poi perché rifanno troppo il verso ai Beatles, ma soprattutto perché i due fratellini mi stanno caldamente sui marroni, presuntosi, boari, arroganti, insomma due stronzi. Perché allora li ho voluti scoprire solo adesso, quando probabilmente hanno già dato il meglio? Sono incappata sul primo singolo del nuovo album, “The shock of the lightning”, e improvvisamente mi sono diventati simpatici. Tosti i ragazzi: meno pop (che se non è sublime non mi acchiappa) e più rock. Sì, lo so, è sempre la solita solfa ma che ci posso fare ogni volta ci ricasco (“Mamma mia”).E poi non posso non riconoscere che gli Oasis un merito, da sempre, ce l’hanno. Quello di saper fare come si deve una Canzone: sembra facile…Ci basta accendere la radio e sentire che di fatte bene ne circolano sempre meno (a proposito, con i Gallagher non c’entra niente, sta spopolando un pezzo di Kid Rock, l’ex marito di Pamela Anderson, una cover di “Sweet home Alabama” suonato dai Lynyrd Skynyrd negli stessi anni in cui è nato il Kid, chissà quanti ragazzini non lo sanno e credono invece sia una novità e non una canzone scritta dai loro nonni). Torniamo a “Dig out your soul”. Viva il rock, dicevo, ma i Beatles continuano a farsi sentire, eccome. A partire dalla prima canzone del cd, “Bag it up”: suona come un “outtake” del White album del ’68 (il disco in effetti si chiama “The Beatles” ma com’è noto deve il suo “titolo” alla copertina bianca), ha un po’ di “Helter Skelter” (il brano di MacCartney che Manson citò come ispirazione per i suoi delitti), una discesa di accordi alla “Back in the Ussr” (sempre Macca, sempre ’68), il suono dei celli nel finale ricorda “I am the walrus” (John), ma complessivamente il ritmo e i celli ricordano anche i T. Rex di Marc Bolan prodotti da Tony Visconti. Per i beatlesiani, il fascino di questa canzone forse sta nel ricordare allo stesso tempo idee di Macca e di Lennon; d’altronde i Beatles sembrano essere un’eredità di cui i gruppi inglesi (e americani) sembra non riescano a liberarsi, un po’ come Battisti per i nostri cantautori pop. Tra tutte le canzoni dei Fab Four comunque direi che la canzone che mi ricorda di più è la lennoniana “Glass onion”(sempre 68). Più che plagio diretto, abbiamo quello che nella legge americana si chiama “plagio d’intenzione”, cioè il ricreare un’atmosfera, piuttosto che la melodia o l’armonia di una composizione. I Beatles tornano a più riprese, addirittura con tanto di dedica a Lennon come in “I’m outta time” scritta da Liam. Nonostante Noel abbia dichiarato che stavolta no, chiamando in causa Stooges, Stone Roses, Doors. I pezzi per me più riusciti: “Waiting for the rapture”, “Ain’t got nothing”, la psichedelica “To be where there’s life”. Niente di sconvolgente ma “verghene”…

Voto: stavolta niente voto né giudizio, per solidarietà con gli insegnanti che si stanno battendo contro il maestro unico.

Didattica della storia (IV)

4. Domande di senso

Dalla delineazione delle varie tipologie di relazioni umane che il docente dovrà esemplificare in rapporto al contesto scolastico, devono emergere le domande di senso, in virtù delle quali sia possibile comprendere le categorie fondamentali del processo storico: possibilità e necessità, che sono quelle in cui si muove la libertà di scelta.

Poiché svolgere un lavoro di ricerca storica è come svolgere un lavoro psicopedagogico sul singolo individuo e sulle relazioni sociali che lo caratterizzano, il docente deve stare molto attento a non dare per scontato nulla, se non appunto il fatto che l’essere umano è dotato, a differenza del mondo animale, della facoltà di scelta.

La storia, sia essa del singolo studente nella sua classe, sia quella degli uomini di tutti i tempi e luoghi, non è determinata univocamente dalla categoria della necessità.

Il compito dell’educatore-formatore è appunto quello di far capire al giovane che, pur essendo egli nato in un contesto che non dipende da lui, e che quindi gli è oggettivo, soggettivamente può contribuire a modificarlo, sia in senso positivo che in senso negativo.

Inutile qui dire che si possono fare mille esempi sul contesto urbano o rurale in cui si vive, sulle relazioni parentali che ci determinano, sulla cultura che assorbiamo attraverso i media, su tutta quella serie di condizionamenti indipendenti dalla nostra volontà.

I giovani, più degli adulti, tendono a considerare questi condizionamenti come molto oggettivi, cioè tali per cui uno sforzo al cambiamento sarebbe vano, ma si esaltano anche in maniera fanatica quando vedono che qualcuno dimostra, in qualche modo, che è possibile unire teoria e prassi. Non a caso le rivoluzioni, nella storia, non vengono fatte da persone “anziane”.

Bisogna dunque insegnare loro che i cambiamenti sono possibili (l’evoluzione della storia sta appunto lì a dimostrarlo), ch’essi avvengono il più delle volte in maniera graduale, su aspetti concreti della vita reale, e che quando scoppiano dei rivolgimenti sociali è perché una parte della società rifiuta di condividere la necessità di talune forme dell’agire e ne propone altre.

La storia non è altro che un immenso teatro i cui attori recitano delle parti sempre diverse. Noi non siamo solo spettatori di queste scene (volgendo lo sguardo verso il passato) ma anche protagonisti (vivendo il presente), e dobbiamo cercare di capire quando i cambiamenti sono stati giusti, cioè quando hanno fatto realmente progredire il senso di umanità degli uomini e delle donne, e quando invece l’hanno fatto regredire, non rispettando le condizioni della libertà di scelta.

Didattica della storia (III)

3. Esempi concreti

Per poter capire il significato delle formazioni socio-economiche della storia, e soprattutto le fasi di passaggio dall’una all’altra, occorre fare degli esempi concreti, presi dalla vita stessa dei giovani o da quella delle persone a loro più prossime.

Indicativamente sarebbe bene non partire mai da definizioni astratte da dimostrare, ma da esempi di vita da interpretare. La comprensione, sempre approssimata, della vita reale deve portare alla comprensione, ancora più approssimata, dei fatti e dei processi storici.

Per esperienza sappiamo che delle cinque formazioni sociali, quelle che colpiscono di più la fantasia degli alunni sono le prime due: il mondo primitivo e lo schiavismo (che ora però, coi nuovi programmi, non si fanno più alle medie).

L’epoca primitiva affascina per il rapporto diretto che l’uomo aveva con le forze della natura e degli animali. Lo schiavismo piace perché è facile stabilire chi sono i “buoni” e i “cattivi”. In particolare queste forme così palesi di oppressione e sfruttamento interessano perché i giovani, rispetto al mondo degli adulti in generale, si sentono deboli, vittime di torti o incomprensioni.

Non dovrebbe essere difficile trovare degli esempi in cui i ragazzi si sentono liberi nel loro rapporto con la natura e con gli animali e in cui invece si sentono a disagio nei loro rapporti con gli adulti o coi loro coetanei più grandi o più forti fisicamente. Le esperienze dei ragazzi devono poter avere un valore paradigmatico, nei limiti del possibile ovviamente, affinché si abbiano delle esemplificazioni non banali, in quanto sufficientemente realistiche: saranno poi queste ad aiutare a capire dei processi storici relativamente complessi.

Certo, noi non possiamo prescindere dal fatto che, trattando p.es. il problema dello schiavismo, cioè di come interpretarlo nella maniera più obiettiva possibile, siamo costretti a farlo all’interno di un preciso condizionamento storico-culturale: quello dell’ideologia borghese, che è dominante nelle nostre società capitalistiche.

E, poiché è praticamente insensato sostenere che l’epoca dello schiavismo sia stata migliore della nostra, dobbiamo altresì dare per scontato che tra lo schiavismo e il capitalismo vi sia stato un processo storico evolutivo, che ha portato l’umanità, pur soggetta a gravi contraddizioni (si pensi solo alle due guerre mondiali), ad avere oggi una maggiore consapevolezza di sé, cioè dei valori e dei diritti umani.

Dunque, quello che nella fase della motivazione bisogna fare è partire dalla comprensione delle varie tipologie di relazioni umane, per arrivare alla comprensione delle relazioni storiche tra le classi sociali delle diverse formazioni socio-economiche, rapportando il tutto all’età dei nostri alunni.

Ecco un confronto sinottici che indica come fare una comparazione teorica tra due forme di civiltà:

CONFRONTO TRA FEUDALESIMO E CAPITALISMO: MEDIOEVO E MODERNITA’

Rapporto con la società

Esistevano comunità di villaggio rurali, autonome, autosufficienti, indipendenti tra loro, con diverse leggi, monete, usi, tradizioni, lingue, pesi, misure, dazi, dogane…
Esiste la nazione, con un unico mercato, un’unica moneta, una sola legge, una sola lingua, un unico esercito, una sola burocrazia, una scuola statale…

La terra appartiene ai feudatari e i contadini (servi della gleba) la lavorano.
Il borghese è padrone di capitali o di terre o di imprese commerciali o manifatturiere e vi fa lavorare gli operai salariati, manuali e intellettuali.

Tra contadino e feudatario c’è un rapporto personale di dipendenza. Non c’è licenziamento.
Tra borghese e operaio c’è un rapporto contrattuale libero. Ci può essere licenziamento.

Lo sfruttamento del contadino non va oltre le esigenze di consumo del feudatario.
Lo sfruttamento dell’operaio va oltre le esigenze di consumo del borghese.

Il feudatario riceve dal contadino prodotti in natura (agricoli).
Il borghese riceve dall’operaio prodotti industriali.

Il contadino non è giuridicamente libero.
L’operaio è giuridicamente libero.

Il feudatario impedisce al contadino di lasciare il feudo.
Il borghese vuole che il contadino lasci il feudo, per farlo diventare operaio nella sua azienda.

Il feudatario si trasforma col tempo in borghese (p.es. obbliga i contadini a produrre per il mercato).
Il borghese non si trasforma mai in feudatario, anche se può comprare dei titoli nobiliari. Tuttavia aspira a vivere di rendita (anche solo finanziaria, cioè non produttiva).

Il contadino fa anche l’artigiano ed è commerciante dei propri beni.
Contadino, artigiano, commerciante e operaio sono figure sociali separate.

Famiglia patriarcale (allargata)
Famiglia borghese (ristretta)

Rapporto con l’economia

Prevale la campagna sulla città e la terra sull’industria (manifattura).
Prevale la città sulla campagna e l’industria sulla terra.

Prevale l’autoconsumo sullo scambio.
Prevale lo scambio sull’autoconsumo.

Prevale la rendita dei feudatari. Scarsi investimenti nelle attività produttive. Assenza di rischi.
Prevale il profitto dei borghesi. Capitali investiti in attività produttive. Presenza del rischio.

Autoconsumo: si consuma ciò che si produce.
Mercato: ciò che si consuma deve essere comprato.

Prevale il valore d’uso sul valore di scambio.
Prevale il valore di scambio sul valore d’uso.

Valore d’uso: una cosa ha valore se è necessaria.
Valore di scambio: una cosa ha valore se può essere comprata e venduta.

Prevale il baratto sulla moneta.
Prevale la moneta sul baratto.

Baratto: si scambiano gli oggetti.
Moneta: si acquista qualunque cosa (compravendita).

Mercati e fiere: si comprano poche cose che non si riescono a produrre (p.es. spezie, sale) e si vende l’eccedenza (surplus).
Mercati, negozi, ipermercati: si vende e si compra tutto, anche il superfluo.

Produzione per il consumo.
Produzione per il mercato, per accumulare capitali.

Pubblicità: non esiste o, se esiste, è di tipo più politico che economico (è propaganda).
Pubblicità: molta, serve per far acquistare i prodotti e per vincere la concorrenza (in mass-media, fiere, cartellonistica…).

Concorrenza tra produttori: non esiste o è regolamentata dalle corporazioni.
Concorrenza tra produttori: molta.

Monopolio nella produzione: non esiste, almeno sino quando non si formano le corporazioni. Esiste comunque il latifondo.
Monopolio nella produzione: tende inevitabilmente a imporsi sulla concorrenza dei produttori, portando i più deboli alla rovina.

Tecnologia: poco sviluppata.
Tecnologia: molto sviluppata (acciaio, plastica, alluminio, biotecnologie ecc.).

Mezzi di lavoro: aiutano il contadino a lavorare.
Mezzi di lavoro: servono al borghese per sfruttare l’operaio.

Le esigenze della natura prevalgono su quelle della società.
Le esigenze della società prevalgono su quelle della natura.

Materie prime prevalenti: legno, argilla, rame, ferro…
Materie prime prevalenti: carbone, petrolio, gas, nucleare.

Fonti energetiche: acqua, vento, legno, sole…
Fonti energetiche: carbone, derivati del petrolio, energia solare, eolica, nucleare, vulcanica…

Inquinamento della natura: quasi inesistente.
Inquinamento della natura: accentuato.

Locomozione: cavallo, asino, mulo, nave a vela.
Locomozione: bici, macchina, treno, aereo, nave a motore.

Rapporto con la politica

Il contadino lotta contro il servaggio, per avere la terra che appartiene al latifondista (feudatario laico o ecclesiastico).
Il borghese, già proprietario di capitali o di terre o di imprese, lotta contro i feudatari e il clero per avere più potere politico.

Il contadino che rifiuta il servaggio può diventare operaio, oppure se ha fortuna o pochi scrupoli può diventare borghese.
L’operaio lotta contro il borghese, proprietario dei mezzi produttivi.

Le figure politiche principali sono il papa e l’imperatore e i loro vassalli. Centralismo governativo sostenuto dai ceti agrari dominanti.
Le figure politiche principali sono i re nazionali, ma soprattutto i parlamenti e le costituzioni, che devono esprimere gli interessi anche della borghesia.

La successione al trono imperiale e alle cariche politiche è ereditaria.
Nei parlamenti si vota (prima sulla base di un certo censo, poi a suffragio universale).

L’imperatore e il papa sono al di sopra delle leggi. Monarchia assoluta.
I sovrani hanno un potere limitato dalla Costituzione e dal parlamento. Monarchie costituzionali o Repubbliche parlamentari.

Politica estera: si fanno crociate per sfruttare e dominare. Pretesto: difesa e diffusione del cristianesimo.
Politica estera: si pratica il colonialismo per sfruttare risorse umane e naturali. Pretesto: difesa e diffusione della democrazia.

Rapporto con la religione

Il contadino è una persona credente e praticante, di religione cattolica. Cristiano tutti i giorni. Dio prevale sull’uomo.
Il borghese è una persona poco credente e ancor meno praticante, di religione protestante (de facto o anche de jure). Cristiano la domenica. L’uomo prevale su Dio.

Prevale l’interpretazione del clero nella lettura della Bibbia.
Prevale l’interpretazione personale della Bibbia (libero esame).

Prevale la gerarchia ecclesiastica. Clero più importante dei laici.
Prevale il sacerdozio universale dei fedeli. Tra laici e clero non vi è alcuna differenza.

Sacramenti: sette.
Sacramenti (area protestante): due (battesimo e comunione). Ma il concetto di “sacro” tende a scomparire.

Prevale teologia dogmatica, anche se la chiesa romana ha modificato alcuni dogmi della chiesa ortodossa o aggiunto in proprio nuovi dogmi.
Il libero esame della Bibbia mette in discussione i dogmi della chiesa. Prevale il dubbio e l’analisi critica.
Prevale la tradizione della chiesa (sinodi e concili).

Prevale la comunità religiosa sul singolo credente.
Prevale il singolo credente sulla comunità religiosa.

Prevalgono le opere sulla fede e la fede sulla ragione.
Prevale la fede sulle opere e la ragione sulla fede.

Pessimismo sulla possibilità di libertà e giustizia sulla terra. Speranza nell’aldilà.
Fiducia nel progresso della scienza e della tecnica e nel benessere terreno.

Crociate: conquistare per convertire. Il potere secolare e i mercanti sono usati per dominare.
Colonialismo: conquistare per dominare. La chiesa è usata per convertire.

Lo Stato, per i cattolici, è subordinato alla chiesa nelle questioni morali. Stato confessionale.
Lo Stato, per i protestanti, è separato dalla chiesa e quindi autonomo nelle questioni morali. Stato laico.

Rapporto con la cultura

Prevale la cultura orale (che è di molti) su quella scritta (che è di pochissimi). Il latino non è più parlato ma solo scritto.
Prevale la cultura scritta su quella orale (le leggi, i contratti commerciali e di lavoro, la contabilità).

Nello scritto prevale il latino sul volgare (o lingua romanza). In Italia la svolta si ha con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Prevalgono sia nello scritto che nel parlato le lingue nazionali (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese…).

Valori: fiducia reciproca, parola data, onore, origine aristocratica, stretti rapporti parentali…
Valori: la parola non vale niente, contano solo i contratti, firmati e vidimati. Opportunismo, il farsi da sé…

Di fronte alle contraddizioni sociali si usa la carità, l’elemosina, l’assistenza… La povertà è considerata come inevitabile.
La povertà è considerata come una condizione che va assolutamente evitata, accettando qualunque tipo di lavoro. Il povero si condanna da sé.

Analfabetismo: diffuso tra i ceti più bassi o rurali.
Analfabetismo: tende a scomparire, soprattutto nelle città.

Cultura: monopolio del clero.
Cultura: diffusa tra la borghesia.

Cultura dominante: teologia, religione, filosofia religiosa, iconografia, diritto canonico…
Cultura dominante: diritto, filosofia, letteratura, scienza… Si riscopre la cultura pre-medievale (greco-romana).

Libri: scritti a mano.
Libri: stampati.

La scuola è privata, gestita dal clero. Prevalgono le università teologiche.
La scuola è pubblica, gestita dallo Stato. Prevalgono le accademie laiche.

Didattica della storia (II)

2. La storia per categorie

Bisognerebbe mettere lo studente in grado di capire che la storia non è complessa come sembra, se si categorizzano gli stili di vita che sono prevalsi all’interno delle singole civiltà.

Il vero problema tuttavia inizia proprio qui: come categorizzare le civiltà? Se riuscissimo a chiarirci su questo, sarebbe poi relativamente facile stabilire, a grandi linee, i relativi stili di vita.

Noi docenti dobbiamo trovare un denominatore comune che permetta agli alunni di classificare le civiltà in maniera relativamente semplice, in modo che possano comprendere astrattamente le loro caratteristiche salienti a prescindere, in un certo senso, dal luogo e dal tempo in cui si sono concretamente sviluppate. Questo lavoro di comparazione teorica sui “fondamenti” nessun libro di storia lo fa, semplicemente perché sono tutti incentrati sul primato dell’Europa occidentale in particolare e dell’Occidente in generale.

Una proposta di categorizzazione della storia del genere umano potrebbe essere questa:
1. storia della comunità primitiva o del comunismo primordiale (un periodo lunghissimo che ha coinvolto tutte le popolazioni della terra);
2. schiavismo (dalle civiltà mesopotamiche a quella romana, passando per quella egizia e per quelle asiatiche, ivi inclusa quella azteca);
3. servaggio (tutte le civiltà post-schiaviste, feudali ecc., fino al capitalismo escluso);
4. capitalismo (sorto nel XVI sec. ma con delle anticipazioni significative nell’Italia comunale-signorile, e i cui poli fondamentali sono stati e tuttora sono, seppur non più in maniera esclusiva, l’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Giappone, e che caratterizza fondamentalmente il nostro tempo);
5. socialismo (elaborato prima teoricamente nella versione utopistica e scientifica, poi realizzato praticamente con la rivoluzione d’Ottobre del 1917, diffusosi in alcune nazioni europee, asiatiche, africane e americane, collassato nella ex-Urss a motivo del suo autoritarismo e trasformatosi in socialismo di mercato nell’attuale Cina).

Si tratta dunque di cinque formazioni socio-economiche e politiche che, pur con qualche variante al loro interno, possono permetterci di capire tutta la storia mondiale, di ogni tempo e luogo.

Ovviamente noi dobbiamo dare per scontato che una qualunque interpretazione dei fatti storici, inclusa la nostra, risente inevitabilmente dei condizionamenti culturali della civiltà in cui essa viene elaborata.

Ancora ‘sta storia delle “radici cristiane”! Ma in Italia, e in Europa, le radici sono molte e più antiche. Se non vogliamo la catastrofe è bene tenerne conto, ora che non solo la Cina è vicina e gli Usa sono invece un po’ più lontani

In occasione della recente visita del papa al Quirinale abbiamo assistito alla solita serie di affermazioni fasulle, che però fanno parte delle verità ufficiali avvalorate da tutti un po’. Anzi, proprio nell’insistenza nel riproporle si coglie il timore ad alto livello che i miti, i dogmi e i tabù cedano il posto alla conoscenza, alla critica delle ragione, alle ragioni della critica e al bisogno di nuovi miti fondanti meno conflittuali con il resto del mondo e in definitiva più umani.

Il refrain Numero Uno è l’affermazione delle “radici cristiane” dell’Italia, con l’annesso refrain che noi italiani siamo “un popolo di cristiani”. Durante gli ultimi anni del pontificato di Wojtyla il refrain Numero Uno era quello sulle “radici cristiane” dell’intera Europa, al punto da pretendere che nella Costituzione europea ci fosse un preambolo o cappello per l’appunto sulla cristianità dell’Europa, ovviamente col sottinteso che questa cristianità va mantenuta a tutti i costi, né più e né meno come Berlusconi vuole che il suo possesso della sue tv private e il loro predominio economico, con annessi e connessi, sia mantenuto a tutti i costi. Alla peggio, con un accordo con le tv di Stato, accordo che ricorda il “dialogo interreligioso” perché in definitiva si tratta pur sempre di costruire una corazza attorno al potere esistente, televisivo o religioso, per escludere il riconoscimento o l’arrivo degli “altri”. E gli “altri” sono per le tv lo sviluppo di Europa 7 e delle web tv, per le religioni l’affermazione della laicità che potrebbe finalmente mettere in crisi l’intera concezione e impalcatura monoteista, una e trina come la santissima trinità visto che allinea ebraismo, cristianesimo e islam. Sembra un pericolo irreale, ma da una parte c’è il rullo compressore cinese – gigante da sempre laico e, dal punto di vista della “triplice”, anche ateo – e dall’altra la forte spinta dell’India e l’inizio di spinte africane, vale a dire del mondo “pagano” le cui religioni allineano una tale ricchezza di divinità da fare impallidire persino il mondo egizio mesopotamico e greco romano. Il “pericolo” che il clero della “triplice” fiuta da lontano è per l’appunto che questo politeismo “folcloristico” – ovvero questi miti – si saldi a quello egizio mesopotamico e greco-romano. Che si saldi, cioè, alle vere radici culturali dell’Italia e dell’Europa…. Continua a leggere

Didattica della storia (I)

“J have a dream”, quello di progettare con qualche docente di storia o qualche storico di professione l’impostazione di una didattica di questa disciplina che prescinda nelle sue linee essenziali dai vari ordini e gradi di scuole. Cioè il sogno è quello di dipanare un filo comune trasversale, da utilizzare in chiave metodologica.

Il problema da risolvere non è più quello di trovare strategie adeguate per studiare un manuale prefatto, ma quello di come far capire concretamente l’importanza di una ricerca storica, suscitandone la motivazione nei ragazzi, che poi è la sola a garantire una memoria a lungo termine. “L’apprendere è un processo attivo, che richiede l’attività di elaborazione e di costruzione delle conoscenze del soggetto che apprende”; ecco perché bisogna lavorare anche sulle “procedure metodologiche di ricostruzione delle realtà del passato”, così scrive Hilda Girardet in Aspetti cognitivi della didattica di laboratorio (art. trovato in www.israt.it).

E la risoluzione di questo problema non dovrebbe riguardare il singolo insegnante ma l’insieme dei docenti di una classe, capaci di dare al suddetto problema un’impostazione storica condivisa, che faccia da leit-motiv alle diverse forme dell’indagine disciplinare.

Forse un giorno, quando ogni disciplina saprà garantire una propria impostazione storica, cioè saprà rendere culturalmente ragione del proprio esistere in ogni momento del proprio svolgimento, la “storia”, come materia a se stante, non esisterà più. Avremo finalmente trovato una calamita per la ricomposizione del sapere. E forse quel giorno non esisteranno neppure le “discipline”, oggi tenute rigorosamente separate le une dalle altre.

In tal senso oggi la didattica andrebbe superata in almeno tre direzioni:
1. la netta divisione tra scienze umane e scienze esatte;
2. l’impostazione cronologica delle scienze umane;
3. l’impostazione astratta delle scienze esatte.

Per rendere edotti gli studenti circa gli avvenimenti del loro tempo sarebbe sufficiente creare un insegnamento di “Argomenti di attualità”, impostato in chiave etica, sociale e culturale. O forse sarebbe meglio chiedere ad ogni docente di fare della propria disciplina un’occasione per comprendere la modernità.

1. Vivere senza

Negli attuali libri di testo di storia forse c’è un capitoletto che potrà tornarci utile alla realizzazione di questo progetto: quello relativo alle tecnologie in uso nei secoli passati.

Quando si affronta un argomento del genere si chiede sempre ai ragazzi come s’immaginano una società in cui non esiste telefono, cellulare, computer, automobile, televisione, radio ecc. Per saperlo diciamo loro che occorre chiederlo ai nonni, e così iniziano a diventare “ricercatori”. Ma tra un po’ non esisterà più un gap generazionale così grande e allora come potranno i giovani immedesimarsi in una vita quotidiana che da tempo non appartiene più a loro?

Per iniziare un qualunque discorso storico noi dobbiamo mettere l’alunno in grado di capire come si può vivere in condizioni tecniche, tecnologiche, socioeconomiche, culturali ecc. molto diverse dalle nostre. Cioè come si può “vivere senza”. Se non possono avvalersi delle persone più anziane, dovremmo poter avviare delle simulazioni sul campo, ricostruendo, con l’aiuto degli Enti Locali, una sorta di “villaggio demo”, in cui siano presenti gli elementi fondamentali del vivere quotidiano di un passato remoto.

I musei della civiltà contadino-romagnola possono andar bene allo scopo, ma occorrono anche animazioni, ricostruzioni virtuali, esemplificazioni reali, che l’alunno possa vedere coi propri occhi, toccare con mano. I musei storici devono essere vivi, devono farci sentire partecipi del periodo che rappresentano.

Non voglio una sorta di “Italia in miniatura”, in cui il turista gira tra un monumento e l’altro scattando fotografie o guardando ammirato di cosa siamo capaci di fare, ma una esemplificazione significativa in cui l’osservatore sia parte in causa, insomma una sorta di museo didattico all’aperto, in cui la ricostruzione degli ambienti e delle attività sia sufficientemente realistica.

Anche una gita scolastica potrebbe essere impostata su un’esperienza del genere. In fondo anche alla televisione, col concetto di “reality”, hanno provato a ricostruire ambienti per noi obsoleti.

Tutto ciò dovrebbe servire per far capire che si può vivere anche “senza”, cioè che non è la tecnologia che di per sé indica il valore di una civiltà. Dovrebbe servire anche per far capire le radici del nostro tempo, da dove veniamo, che cosa abbiamo sviluppato e cosa invece è stato abbandonato, ovvero il fatto che in questo processo sono state compiute delle scelte, le cui conseguenze hanno comportato aspetti positivi e negativi. Il presente non è migliore del passato solo perché presente.

Gli storici e la religione cristiana (III)

3. L’ORTODOSSIA BIZANTINA

In un qualunque manuale scolastico di storia medievale, il tema principale dedicato al regno millenario dei bizantini è quello dell’epoca giustinianea. Tutto il resto viene generalmente liquidato in qualche paragrafo sparso qua e là.

Perché si accentua l’importanza di Giustiniano? Il motivo è semplice: perché sino a questo imperatore non vi è stata una sostanziale differenza tra cattolici e ortodossi. Sicuramente non ve n’era sul piano dogmatico, e anche su quello politico l’intera cristianità riconosceva un’unica realtà imperiale: tutti gli altri sovrani o erano re delle proprie genti o erano “patrizi romani” (titolo che indicava una sorta di vassallaggio nei confronti del basileus).

Le differenze tra cattolici e ortodossi han cominciato a farsi sentire sul piano politico con l’incoronazione di Carlo Magno, preceduta dalla rottura ideologica del Filioque nel Credo (rottura che i cattolici curiosamente definiscono col termine di “scisma di Fozio”).

Prima di allora la chiesa romana s’era limitata a ostacolare, in varie maniere, il progetto di riunificazione dell’ex impero romano sotto l’egida bizantina, anche a costo di favorire la penetrazione barbarica in occidente. Questo perché il papato non aveva mai accettato il trasferimento costantiniano della capitale da Roma a Bisanzio.

In tale resistenza ad oltranza, il papato aveva cercato non solo di prevalere su ogni altra cattedra episcopale della civitas cristiana, ma anche di acquisire quanti più beni possibili. Infatti, quando si sentì sufficientemente forte sul piano economico, al fine di poter rivendicare anche un potere politico, scelse di incoronare imperatore Carlo Magno, in totale dispregio del fatto che un imperatore esisteva già.

Ma come viene presentato Giustiniano? Bisogna prima fare un passo indietro e parlare dei due imperatori che l’hanno preceduto: Zenone e Giustino.

Del primo i manuali dicono che mandò in Italia gli Ostrogoti per liberarsi degli Eruli di Odoacre, di religione ariana. In realtà, si precisa, Zenone lo fece perché gli Ostrogoti premevano sui confini orientali (anche i Goti infatti erano ariani, per cui non vi sarebbe stata alcuna differenza di principio). Con ciò quindi si fa capire che l’Italia, per Zenone, non valeva nulla.

Tuttavia con gli Ostrogoti l’Italia ebbe 30 anni di pace. Dunque perché con Giustino l’impero volle disfarsi anche di questa popolazione? Forse perché era anch’essa ariana? No, il motivo era che Bisanzio voleva annettersi l’intera Italia.

Cioè lo storico vuol far credere che mentre Bisanzio aveva motivi ideali sul piano formale, sul quello sostanziale invece aveva i sordidi motivi dell’interesse di potere. Lo dimostra il fatto (storiografico) che il basileus viene sempre dipinto come un uomo senza scrupoli, continuamente ansioso d’intromettersi nelle questioni teologiche e di sottomettere politicamente la chiesa (cesaropapismo).

Per converso, la chiesa romana viene presentata come la paladina della libertà dell’occidente: libertà religiosa (cattolici contro ortodossi e contro impero), culturale (latino contro greco), economica (potere spirituale poggiante su quello temporale) e politica (autorità imperiale non indipendente ma riconosciuta dal papato).

Quando si inizia a parlare di Giustiniano, lo si definisce addirittura come “l’ultimo grande imperatore romano”! Tutti gli altri imperatori che si sono succeduti, dalla sua morte sino al 1453, cioè per altri 888 anni, è come se non fossero mai esistiti: non vengono neppure ricordati per nome.

Ma perché Giustiniano fu grande?

1. Perché cercò di riunificare tutto l’impero cacciando i barbari dall’Africa, dalla Spagna, dall’Italia, anche se, a causa della forte resistenza ostrogota, ridusse l’Italia a un cumulo di macerie;
2. perché riprese il controllo commerciale del Mediterraneo;
3. perché riorganizzò l’amministrazione dello Stato, sviluppò il commercio, l’artigianato, l’architettura ecc., e produsse quel capolavoro giuridico chiamato Corpus iuris civilis.

Insomma Giustiniano in tanto fu grande in quanto assomigliava ai migliori imperatori pagani del passato mondo romano. Tuttavia la sua idea di ricostruire il vecchio impero in nome del cristianesimo morì con lui. Si parla della sua “utopia” come se fosse stato un suo problema personale e non un’esigenza dell’intera cristianità.

Quando infatti si comincia a dire che il progetto fallì perché i Visigoti si ripresero la Spagna, i Longobardi entrarono in Italia, i Berberi e i Mauritani si ribellavano continuamente in Africa e i Persiani premevano a oriente, si tralascia del tutto di dire che la chiesa romana non fece assolutamente nulla in occidente per favorire la realizzazione di quel piano. Anzi lo ostacolò in tutte le maniere: dapprima con una forma di resistenza passiva, che impediva ai bizantini di concertare le forze in funzione anti-gota; poi col favorire l’ostilità monofisita delle forze copte dell’Egitto e siriane nei confronti del potere centrale dell’impero; infine con l’avvallo all’ingresso longobardo in Italia, onde impedire a Bisanzio, dopo la vittoria sui Goti, di potersi insediare in tutta tranquillità nella penisola (cfr la controversia dei Tre capitoli).

Il papato infatti aveva bisogno di un’Italia divisa sul piano territoriale, per meglio esercitare i propri tentativi egemonici; e a partire dall’ingresso dei Longobardi, essa resterà divisa sino all’unificazione di fine Ottocento.

Detto questo, si aggiunge che, avendo dovuto sostenere ingenti spese per le numerose e faticosissime guerre su più fronti, Giustiniano aveva prosciugato le casse dello Stato, sicché i suoi successori dovettero privilegiare gli aspetti del risanamento interno, interessandosi dell’Italia solo per motivi fiscali.

La questione delle tasse diverrà cruciale per sostenere le finanze dello Stato, ma anche per sostenere la tesi, propria degli storici papisti, secondo cui la chiesa romana aveva tutto l’interesse a staccarsi dal dominio di Bisanzio.

I bizantini saranno sempre odiati a causa del loro rapace fiscalismo e del loro cesaropapismo. Di fronte a una situazione del genere era dunque giusto che in occidente fosse la chiesa romana a porsi a capo della cristianità.

Ovviamente si tace del tutto sia il fatto che in occidente la chiesa esercitava quello che poi venne definito col termine di “papocesarismo” (l’imperatore come braccio secolare del papato), sia il fatto che in oriente il fiscalismo bizantino era una prerogativa dello Stato, esercitata nei confronti di qualunque cittadino, anche di quello possidente, cosa che nell’Europa feudale occidentale non è mai avvenuto, proprio perché la gestione del potere politico era personalistica (basata sul vassallaggio) e non istituzionale.

Gli storici e la religione cristiana (II)

2. IL CRISTIANESIMO FEUDALE

Uno storico contemporaneo, di cultura laica, difficilmente arriva a sostenere che nel corso del periodo medievale la chiesa romana appariva su posizioni più antidemocratiche (meno “conciliari”) di quella ortodossa, proprio perché strutturata in maniera integralista, cioè politico-monarchica, con tanto di rigida gerarchia clericale, specie dopo la svolta autoritaria di papa Gregorio VII, con cui si pretendeva di subordinare alla curia pontificia la figura imperiale.

Uno storico del genere di regola ha scarsa dimestichezza con le questioni religiose, ovvero ne delega volentieri l’affronto (anche per non aver noie riguardo a pubblicazioni di tipo scolastico) agli stessi teologi e, di conseguenza, pone tutte le religioni sullo stesso piano, non facendo differenze di principio tra l’una e l’altra. E, fatto questo, si limita ad analizzare il fenomeno religioso dal punto di vista politico-istituzionale e, al massimo, socio-economico.

Ecco perché detto storico preferisce dare per scontate una serie di tesi che vanno per la maggiore, ancora oggi, nell’ambito della storiografia occidentale europea, la prima delle quali è che la chiesa ortodossa era del tutto prona, succube, secondo la pratica del “cesaropapismo”, alla volontà politica del basileus, per cui tra le due confessioni – cattolica e ortodossa – va preferita sicuramente quella cattolica, appunto perché si presentava storicamente come una potenza in grado di reggere il confronto con tutti gli imperatori, benché a volte essa abusasse dei propri poteri, come appunto è successo a partire da Gregorio VII sino a Bonifacio VIII.

È assai difficile incontrare uno storico laico che non accetti, consapevolmente o meno, tale interpretazione “cattolica” dei fatti storici. Questo però comporta conseguenze spiacevoli ai fini della ricerca della verità storica.

In primo luogo infatti si è costretti ad accettare come del tutto normale l’incoronazione di Carlo Magno in veste di imperatore del sacro romano impero, in opposizione al basileus bizantino, legittimamente costituito sin dai tempi di Costantino e Teodosio. E noi sappiamo che da quella incoronazione illegittima è poi dipeso tutto lo svolgimento politico-istituzionale dell’Europa occidentale, praticamente sino alla nascita delle moderne nazioni borghesi.

In secondo luogo si è costretti a sostenere che la rottura del 1054 fu voluta dagli ortodossi e non dai cattolici, i quali però, sin dai tempi del Filioque, avevano infranto la tradizione ecumenica e teologica della chiesa indivisa.

In terzo luogo si è indotti a considerare come legittime tutte le innovazioni, amministrative ma anche dogmatiche, introdotte dalla chiesa romana nell’ambito della cristianità mondiale.

Solo di recente lo storico medievista tende a considerare quanto meno esagerate le persecuzioni clericali ai danni dei movimenti pauperistici, da sempre ritenuti troppo settari ed estremistici per essere politicamente attendibili.

Tuttavia detto storico non può arrivare a prendere una posizione nettamente favorevole nei confronti di tali movimenti, altrimenti ciò ad un certo punto lo porterebbe a parteggiare, a seconda del movimento scelto, o per la causa protestante, oppure per un ritorno, sic et simpliciter, all’evangelismo pre-borghese.

Lo storico medievista, di cultura laica, si limiterà a dire che quelle persecuzioni erano un segno premonitore del fatto che il potere temporale della chiesa andava in qualche modo ridimensionato. Che poi questo storicamente sia avvenuto proprio a causa della riforma protestante, è un altro discorso, che non merita d’essere approfondito più di tanto. Infatti lo storico medievista italiano, se è costretto a scegliere tra ortodossia e cattolicesimo, sceglie il secondo, e se deve scegliere tra cattolicesimo e protestantesimo, sceglie il primo.

Una vita di musica, una musica di vita

Un evento storico e straordinario quello del 3 ottobre. La presentazione di queste opere in tre versioni diverse pubblicate da una casa editrice specializzata nella musica classica è un riconoscimento enorme per la mia attività di musicista e per la cultura e l’arte romanì. Da sempre e soprattutto nel periodo Romantico l’arte romanì è stata sfruttata dai grandi musicisti e compositori. Qui l’operazione che noi proponiamo va  in senso opposto: l’orchestra sinfonica o ensamble classico che accompagna e sostiene un gruppo musicale Rom. Un direttore d’orchestra che volesse fare un omaggio all’arte o alla cultura romanì in qualsiasi parte del mondo oggi con queste partiture può farlo. E’ un contributo all’umanità e al patrimonio artistico e culturale universale. Le opere nelle tre versioni di partiture per orchestra, partiture per ensamble e partiture per fisarmonica sola e voce sono presentate in sei lingue e anche i testi della linea vocale è tradotta in sei lingue: romanì, italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco per una diffusione mondiale.

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Emmanuel, le nostre fobie e i nostri razzismi

Dai, ce l’abbiamo fatta. Siamo riusciti a scardinare, in poco tempo, quell’immagine dissacrante e beota che avevano di noi all’estero, tutto spaghetti e tarantelle e le classicità del “volemose bene”.
Ora, abbiamo imparato a picchiare duro, a essere razzisti, omofobi, xenofobi; a copiare il disprezzo contro chi non è come noi o così ci appare.
Che ci è successo? Siamo cresciuti o la paura che fa novanta da noi si è centuplicata all’infinito, e ancora e ancora fino a vedere in chi italiano non è, il nostro nemico?
Davvero gli unici che possono capirci sono i nostri connazionali? Stiamo diventando barbarie allo stato puro?

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Gli storici e la religione cristiana (I)

Queste riflessioni sul modo come la religione cristiana viene trattata nei manuali scolastici di storia antica e medievale, vogliono soltanto essere esemplificative dei limiti cui si può andare incontro scegliendo come approccio ermeneutico quello meramente “occidentale” (che in detti testi coincide con quello dell’Europa cristiano-borghese).

1. IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

Quando nei manuali scolastici di storia antica o medievale si affronta il tema del cristianesimo primitivo, che cronologicamente va dalla nascita di Cristo al crollo di Gerusalemme nel 70, generalmente lo storico tiene un atteggiamento molto prudente.

Infatti se si mettono a confronto le versioni sulla natura di questo evento, espresse nei manuali scolastici di religione cattolica, che come noto devono sottostare a un placet ecclesiastico, con quelle espresse nei manuali di storia, si assiste quasi sempre a una sostanziale omogeneità di vedute.

Questo perché gli storiografi non confessionali hanno adottato in maniera del tutto acritica le tesi ufficiali della chiesa romana relative all’interpretazione di tale fenomeno storico. E questo senza considerare minimamente che nei paesi anglosassoni esistono tesi confessionali di tipo “protestantico” e in quelli greco-slavi tesi confessionali di tipo “ortodosso”, che su moltissimi punti divergono ampiamente da quelle cattoliche.

Per convincersi di questa abdicazione del laicismo all’esegesi confessionale basta citare alcuni semplici esempi tratti dal manuale di Alba Rosa Leone (Popoli nella storia, ed. Sansoni), uno dei più usati alle medie di I grado:

1. Gesù non predicò un regno di liberazione nazionale della Palestina oppressa dai romani, ma una salvezza di tipo “etico-religioso”, che si sarebbe realizzata nel cosiddetto “regno dei cieli”;

2. tale regno sarebbe stato fondato esclusivamente sull’“amore fraterno e universale” e sarebbe stato appannaggio delle categorie sociali più deboli e reiette.

La storiografia laica conferma quindi l’idea della storiografia confessionale secondo cui il Cristo non era affatto un liberatore politico-nazionale, bensì un redentore morale-universale.

Oltre a ciò si danno per scontate tutte le guarigioni miracolose (definite dall’autrice con l’aggettivo “inspiegabili”).

Ma il bello sta nel finale. Poiché dunque la popolazione riteneva Gesù il “messia” tanto atteso, egli finì coll’essere giustiziato sulla base di un incredibile equivoco, in quanto nei vangeli non appare in alcun punto ch’egli avesse mai desiderato diventare un “liberatore nazionale”. Egli fu crocifisso a causa dell’odio che nei suoi confronti nutriva il ceto sacerdotale giudaico, che temeva di perdere il proprio potere, di fronte all’eventualità di un’insurrezione armata contro i romani (realizzata a questo punto non si sa da chi). Pilato eseguì la sentenza senza neppure essere pienamente convinto della sua giustezza. Successivamente il primo che ebbe il coraggio di far uscire il cristianesimo agli angusti limiti geografici della Palestina fu Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo come religione universale.

In tutta la propria rappresentazione dei fatti, la Leone evita di soffermarsi su un punto che per la storiografia confessionale è di cruciale importanza, e cioè la resurrezione di Cristo. Ma questo silenzio, indubbiamente voluto, è il massimo della laicità possibile che si possa riscontrare nel suo manuale. Una omissione che, stante le premesse, verrebbe inevitabilmente giudicata come incomprensibile da una qualunque esegesi di tipo confessionale.

Considerando poi che i nuovi programmi fanno partire la storia del primo anno delle medie dalla caduta dell’impero romano, ci si chiede se l’affronto di un tema così importante debba restare definitivamente precluso ai preadolescenti. Il testo del Brusa – Guarracino – De Bernardi (Il nuovo racconto delle grandi trasformazioni, Mondadori), al cristianesimo primitivo non dedica neanche una riga, partendo direttamente dalla svolta costantiniana.

Il Neri (Il mestiere dello storico, La Nuova Italia) fa rientrare il cristianesimo nell’ambito della nascita delle “nuove religioni” e si limita ad affermare che tutto quanto sappiamo di questa religione ci è stato tramandato da una “tradizione”. Quella medesima tradizione che il manuale di Zaninelli – Bonelli – Riccabone (Storia ed educazione alla cittadinanza, Zanichelli) accetta come oro colato, pur essendo stampato da un editore che difficilmente si potrebbe definire come “confessionale”, e che però, verrebbe a dire “a scanso di equivoci”, ha pubblicato un altro manuale che sul tema in oggetto è più “realista del re”, quello di Barbero – Frugoni – Luzzatto – Sclarandis (La storia, l’impronta dell’umanità), dove viene detto che la vita eterna promessa dal Cristo per l’aldilà costituiva un messaggio autenticamente “rivoluzionario” per gli schiavi.

Un po’ più obiettivo appare il testo di Alberton – Benucci (St 1, ora di storia, Principato), che, tra una riga “confessionale” e l’altra, arriva ad ammettere che la predicazione del Cristo risultò scomoda anche ai romani, in quanto contraria allo sfruttamento degli schiavi.

Molto curiosa, specie in considerazione dell’orientamento della casa editrice, la collocazione dell’argomento in questione da parte di Ronga – Gentile – Rossi (Grandangolo, La Scuola): la paginetta dedicata al cristianesimo primitivo, in cui per fortuna si ribadisce la tesi laica secondo cui il Cristo venne crocifisso perché i romani lo giudicavano ostile alla loro autorità, si trova dopo le descrizioni particolareggiate del Pantheon e del Colosseo e subito prima di alcune pagine dedicate agli acquedotti, alle latrine pubbliche e alle fogne di Roma!

Carlo De Pirro torna alla Biennale Musica: due i concerti

Ci sono persone che senti amiche, per davvero, anche se non le vedi a cena, non ci vai in vacanza insieme. Addirittura non le frequenti proprio. Ma le senti molto vicine per intenti, per spirito di battaglia, per amore innato verso la musica, per un comune destino, voluto, da cane sciolto. Carlo De Pirro per me era così. Bastava intravvedersi ad un concerto, un cenno, un sorriso ed era come se ci fossimo detti tutto. E non perché eravamo tutte e due lì come giornalisti. Colleghi ma per due testate concorrenti, io rockettara, lui “colto”, io per tentare di gustare brani scritti troppi secoli fa, lui come critico. Ma Carlo era mooolto più avanti di me perché era anche, soprattutto, un musicista e un compositore. Il suo indomabile cuore, forte come una roccia, s’è arreso a 51 anni nella lotta con una malattia sleale il 27 maggio. Una malattia combattuta con sfrontata compostezza, quasi con distacco. Nato ad Adria nel 1956, padre toscano e madre emiliana, durante l’infanzia era vissuto tra Napoli e la Liguria, per poi stabilirsi da ragazzino a Padova, sua città d’adozione. Qui, al conservatorio “Pollini”, studiò con Wolfango Dalla Vecchia, diplomandosi in Composizione e perfezionandosi poi con Franco Donatoni e Salvatore Sciarrino. A sua volta dedicò molti anni all’insegnamento come docente di Armonia e Contrappunto al conservatorio “Venezze” di Rovigo e al giornalismo come critico musicale. Innumerevoli le sue conferenze: Biennale veneziana, Accademia Sibelius a Helsinki, Accademia Olimpica a Vicenza, Università di Padova, Torino, Venezia e molte altre istituzioni culturali e concertistiche. Da ricordare in particolare i suoi lavori su musica e computer: importante la collaborazione con Alvise Vidolin e il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università padovana. Nel 2003 fu tra i fondatori del “Comitato per l’auditorium” di Padova e come suo rappresentante fece parte della commissione giudicatrice dei progetti ammessi al concorso indetto dal Comune. Già ferocemente provato dalla malattia aveva ripreso le idee del “comitato” per organizzare la scorsa primavera una manifestazione di protesta contro le polemiche che stanno tuttora paurosamente ritardando la realizzazione del progetto vincitore e contro l’indifferenza dei musicisti padovani. Le sue composizioni sono state commissionate dalla Biennale di Musica di Venezia ed eseguite in Italia e all’estero (tra tutte ci piace ricordare “Auretta assai gentil” per violino e pianoforte alla Carnegie Hall di New York nel 2003), trasmesse da Radio3 e Radio France, incise dalla Edipan di Roma e dalla Fonit Cetra e pubblicate da Ricordi. Tra i suoi lavori vogliamo segnalare per la Biennale Musica “Nove finali” nel ’95, “L’angelo e l’aura” con libretto del fido Andrea Vivarelli al Malibran e “Messaggeri e messaggini” all’Arsenale nel 2005. E ancora “Caos dolce caos” (debutto per Operagiovani al Teatro Sociale di Rovigo) nel 2001 e le “Sette stazioni di luce” per flauto del 2003. Singolarissima e anticonformista la collaborazione con i Solisti Veneti di Padova: Carlo, da sempre pronto ad abbattere i confini tra classica e contemporanea, ha composto per Claudio Scimone e la sua orchestra il concerto cangiante “Di luce e di vento” nel 2004, “Come sono suono” per cornista a rotelle e tromba di scorta nel 2006 e “La notte, la danza, il dono” nel 2007, suonata per il tradizionale concerto di Natale ai Servi. Per la “Giornata dell’ascolto” dello scorso anno presentò nel Salone del Palazzo della Ragione “Il tempo sospeso” per disklavier e nastro magnetico. Alla sua passione per il pianoforte comandato dal computer, protagonista anche di un concerto eseguito al Piccolo Teatro padovano sempre nel 2007, affiancava quella per le più curiose macchine sonore (memorabile il flipper “Anche tu musicista con 500 lire”) e i carillon: indimenticabile quello creato con lamine di metallo, seghe circolari e vetri di Murano per l’installazione sonora all’Expo 2002 in Svizzera, che ha poi trovato casa nel parco di Pinocchio a Collodi. Perché per Carlo la musica contemporanea voleva dire anche divertimento, gioco, sberleffo, poesia. Non per pochissimi, selezionati intenditori, ma per tutti. Mi diceva: “Trovo perverso distinguere tra classica e contemporanea, colta e pop, così come parlare ad una nicchia di esperti. Preferisco il metodo Mozart: “Questi concerti sono molto brillanti, gradevoli all’orecchio e naturali senza cadere nella vacuità. In alcuni punti solo gli intenditori possono cavarne diletto, ma faccio in modo che anche i non intenditori restino contenti, pur senza saperne il perché”.

Carlo torna anche quest’anno alla Biennale Musica di Venezia, intitolata “Radici futuro”. A ricordarlo saranno le sue composizioni, eseguite in due concerti. Un doveroso, affettuoso omaggio che curiosamente non ha ancora coinvolto le stagioni concertistiche di Padova, sua città d’adozione. Nei programmi dell’Orchestra di Padova e del Veneto, degli Amici della Musica e dei Solisti Veneti infatti De Pirro, che scrisse tre partiture proprio per Claudio Scimone, non compare. La Biennale veneziana vanta anche il merito di far ascoltare al pubblico “Descendit”, una composizione richiesta a Carlo dalla società musicale “Francesco Venezze” di Rovigo alla fine del 2007 per un concerto al tempio della Rotonda ma mai eseguito dal Quartetto della Scala, che non trovò neppure il tempo di provare il breve pezzo di contemporanea (10 minuti!) e si limitò ai collaudati Schubert e Beethoven. Il frutto di quattro mesi di scrittura, affrontati con passione nonostante l’aggravarsi della malattia e la mancanza di compenso, sarà finalmente eseguito domenica 5 ottobre alle 17 nella sale Apollinee della Fenice dal Quartetto d’archi del teatro veneziano, a fianco di composizioni di Beethoven e Nono. Venerdì 17 ottobre, sempre alle 17 ma nella sala concerti del conservatorio “Benedetto Marcello”, Carlo de Pirro aprirà il diciassettesimo colloquio di informatica musicale con ”Tempo sospeso”, per disklavier e nastro magnetico, composto in occasione della “Giornata dell’ascolto” di Padova del 2007 per andare in scena nel Salone del Palazzo della Ragione dalle 10 del mattino alle 11 di sera. Come critico De Pirro seguì numerose edizioni del Festival veneziano e fu invitato per la prima volta come compositore nel 1995 con un pezzo intitolato “Nove finali” per pianoforte, violino e violoncello, due clarinetti, suoni campionati e live electronics. Dieci anni dopo la Biennale Musica, per la sua vena creativa “assolutamente originale, la capacità davvero rara di raccontare storie, sogni, fantasie nel teatro musicale”, gli commissionò “Messaggeri e messaggini”. Sul palco le sue incredibili invenzioni sceniche e sonore: stelle di luce, campane tubolari, macchine orgogliose e giostre sonore. Scriveva: “Ogni rumore, se ascoltato a lungo, diventa una voce come diceva Victor Hugo in “La fin de Satan”. E non si spiegherebbe perché l’Harley Davidson abbia brevettato il rumore del suo motore se non per l’esclusivo tuffo al cuore che provoca nei suoi consumatori!”.

La musica del primo Novecento va in mostra a Venezia, dal vivo e su cd

Non di solo rock vive l’uomo…e la donna too. Eccomi dunque a segnalare una curiosa proposta di musica classica dal vivo agganciata ad una mostra in quel di Venezia. Ha infatti una colonna sonora speciale, che ci riporta ai primi del Novecento, l’antologica dedicata all’artista, illustratore di moda e scenografo George Barbier e alla nascita del déco allestita fino al 5 gennaio a Venezia, nel museo Fortuny. Composizioni di Debussy, Stravinskij, Satie, Faurè, Ravel e Milhaud, suonate dai giovani e intraprendenti Alessia Toffanin al piano e Alessandro Fagiuoli al violino, sono state infatti registrate dal fonico Matteo Costa tra gli affreschi di una chiesa sconsacrata alle porte di Padova per un cd prodotto dalla Blue Serge di Sergio Cossu (www.blueserge.it), in uscita prima di Natale.  Fagiuoli e il quartetto Paul Klee, di cui fa parte, hanno scelto su invito della curatrice della mostra veneziana, Barbara Martorelli, e della direttrice del museo, Daniela Ferretti, un repertorio di musiche dal vivo dal titolo “Colore in musica. Suggestioni di ascolto dalla Parigi di George Barbier” , proposto in quattro concerti al Fortuny (alle 19, una volta chiusa la mostra). «Non abbiamo voluto “sviscerare” musicalmente il ristretto periodo del déco ma piuttosto tradurre in musica le emozioni provate nel vedere le opere di Barbier – spiega il violinista – spaziamo così un po’ nel tempo proponendo da una parte maestri storici del gusto e e della tecnica compositiva francese come Debussy e Ravel e dall’altra autori più vicini a noi. Esemplare dunque il primo concerto al Fortuny il 6 settembre, con il grande pianista francese Jean-Pierre Armangaud e il mezzosoprano Sophie Fournier, che hanno eseguito un repertorio estremamente vario e “sentitamente” francese”».

Sulla stessa lunghezza d’onda il secondo appuntamento con la musica dal vivo: il 25 ottobre sarà il quartetto Paul Klee (ai violini lo stesso Fagiuoli e Stefano Antonello, alla viola Andrea Amendola e al violoncello Luca Paccagnella) a suonare il Quartetto di Debussy e il Quartetto di Ravel. Il 22 novembre il quartetto di flauti Berthomieu  proporrà invece autori francesi minori, puntando soprattutto sul “colore”. L’ultimo concerto, il 3 gennaio, saluterà il 2009 e il centenario dei mitici “Ballets russes” di Sergej Diaghilev, che danzarono sui capolavori composti da Stravinskij: Alessandro Fagiuoli al violino e Alessia Toffanin al pianoforte proporranno un omaggio ai balletti russi con un programma legato allo Stravinskij degli anni Venti e ad alcuni autori “minori” che scrissero anch’essi per la compagnia di Diaghilev: oltre a suonare il celebre “Prelude a l’apres midi d’un faune” di Debussy, coreografato da Nijinsky nel 1912. Un omaggio alla danza che vuole ricordare anche i fantasiosi disegni dei costumi realizzati dallo stesso Barbier per la danza, il teatro e il cinema: più di settanta quelli esposti a Venezia.

Assiomi da superare nell’interpretazione dei fatti storici

In qualunque testo scolastico di storia, di qualunque tendenza esso sia, vi sono sempre alcuni presupposti metodologici ritenuti irrinunciabili, che indicano in un certo senso il carattere apologetico dell’informazione trasmessa nella scuola di stato attraverso una delle sue discipline più significative, appunto la storia.

Tali presupposti provengono direttamente dal senso di appartenenza geo-politica all’Europa occidentale da parte degli autori dei libri di testo, i quali, generalmente, danno per scontata l’idea secondo cui la civiltà di questa parte del continente europeo sia la migliore del mondo, superiore anche a quella degli Stati Uniti, la cui grandezza viene misurata più in termini quantitativi, relativamente al progresso tecnico-scientifico, militare e nell’organizzazione dell’attività commerciale e industriale, che non in termini qualitativi (le tradizioni culturali, religiose e politiche), in cui l’Europa occidentale eccelle da almeno duemila anni.

Sulla base di questi presupposti si fonda l’idea di “scienza” o di “oggettività”. Come se nell’arco della propria vita uno storico non ne vedesse così tante da dover escludere a priori l’esistenza di qualcosa di incontrovertibile o di inconfutabile! Come se uno storico non sapesse quanto le interpretazioni siano condizionate dalla politica, dalle ideologie dominanti (esplicite o implicite), dalle forme di civilizzazione e, sul piano soggettivo, anche dalle proprie storie personali!

E se questo vale, in maniera evidente, per le scienze umane, non vale forse anche per quelle “esatte”? Su asserzioni cosiddette “scientifiche”, del tipo: “la matematica non è un’opinione”, ci sarebbe da discutere all’infinito, essendo ben noto che enunciati assolutamente inconfutabili sono poverissimi di contenuto dialettico o anche semplicemente informativo, e che la nostra “matematica” non è l’unica possibile (i cinesi p.es. usavano la numerazione binaria quando da noi non si sapeva neppure cosa fosse, e i Maya conoscevano la numerazione a base 20 che permetteva loro di fare calcoli molto più complessi di quelli che facevamo noi nel loro stesso periodo).

Gli autori dei manuali scolastici di storia possono essere di ideologia liberal-borghese (crociana-gentiliana), di ideologia socialista (generalmente gramsciana) o, in casi più rari, di ideologia cattolica, ma queste differenze non incidono minimamente sulle scelte di fondo (ontologiche) operate in materia di impianto metodologico generale.

Una constatazione del genere può forse apparire presuntuosa nella sua astratta generalizzazione, eppure essa emerge con sempre maggior insistenza proprio dallo sviluppo di un fenomeno ritenuto ormai incontrovertibile: il globalismo, in nome del quale è diventato legittimo chiedersi se possa essere considerata congrua (sul piano didattico-culturale) una visione unilaterale, in quanto geopoliticamente determinata, dei fenomeni storici.

I fatti dimostrano che le ideologie sottese (in maniera più o meno esplicita) all’elaborazione dei manuali scolastici di storia possono prescindere da molte cose, possono anche essere in competizione tra loro, ma su un aspetto di vitale importanza esiste sempre un’ampia convergenza di vedute, al punto che il senso di appartenenza geopolitica all’Europa occidentale, in particolare alle culture liberal-borghesi (ivi incluse quelle cattoliche e, in misura minore in Italia, quelle protestanti) e, all’opposto, alle culture socialiste-riformiste (che proprio nei testi di storia risultano prevalenti), appare come una sorta di dogma in cui credere per fede.

Si può rilevare questo anche dal fatto che in genere nessuno storico avverte mai l’esigenza di precisare che la sua interpretazione parte da tale assioma, o comunque di chiarire preventivamente i limiti epistemologici entro cui si muove la propria interpretazione dei fenomeni storici del passato e del presente.

Qui in sostanza si vuole sostenere la tesi che, per garantire un minimo di obiettività nei giudizi storiografici, la scelta di un’ideologia in luogo di un’altra, oggi, a differenza, diciamo, di una trentina d’anni fa, risulta del tutto irrilevante, in quanto agli autori dei manuali di storia pare sufficiente far dipendere la verità dei propri enunciati da una preliminare scelta di campo “geografica”, quella dell’Europa occidentale (di cui gli Usa sono soltanto una propaggine), da cui tutto il resto proviene in maniera logica, come una sorta di sillogismo aristotelico.

Si è ormai arrivati a un punto tale di superficialità nell’organizzazione dei contenuti, che ciò che va rimesso in discussione è proprio il rapporto tra ideologia in senso lato e occidente in senso proprio, che va oltre le differenze interne alle medesime ideologie. Questo per dire che anche l’ideologia marxista, o meglio gramsciana, che pur ha dimostrato d’essere teoricamente superiore a quella borghese, nonostante i fallimenti pratici del “socialismo reale”, ha dei difetti intrinseci dovuti proprio al fatto che gli storici di questa corrente considerano assodata la loro appartenenza ideale, specie dopo il crollo del muro di Berlino, all’area occidentale dell’Europa e, indirettamente, degli Stati Uniti, caratterizzati entrambi, soprattutto quest’ultimi, che meno hanno dovuto lottare contro le resistenze del mondo cattolico, da uno sviluppo progressivo dell’ideologia borghese-calvinista, nata nell’Europa del XVI secolo, quell’ideologia che ha portato nel Novecento alle due guerre mondiali e che ha trovato un freno significativo nell’istituzione post-bellica del “Welfare State”.

I limiti metodologici fondamentali che rendono tutti uguali e quindi poco utili, ai fini dell’obiettività del giudizio, i manuali scolastici di storia, sono sostanzialmente frutto di un postulato che andrebbe quanto meno rimesso in discussione, quello per cui si crede che esista una linea evolutiva che va dalla preistoria alla storia, una linea che si estrinseca materialmente secondo un percorso cronologico dei fatti, che trova nell’occidente capitalistico il suo point d’honneur.

Tale linea evolutiva, progressiva, si basa su alcuni fattori fondamentali di “sviluppo”:

1. sviluppo tecnologico e scientifico: la miglior scienza e tecnica – questa la tesi che si sostiene – è quella che permette un rapporto di dominio sulla natura (non è l’uomo che appartiene alla natura ma il contrario);

2. sviluppo dell’urbanizzazione e dei mercati: ogni forma di comunità basata sull’autoconsumo, sul valore d’uso, sul baratto, sulla vendita del surplus, in una parola su un ruralismo non-borghese, viene considerata sottosviluppata; il che porta a giustificare, da parte degli storici, il colonialismo e l’imperialismo, che possono andare dalle classiche crociate medievali alle forme di “aiuto economico” al Terzo Mondo per farlo diventare “come noi”, o comunque a considerare come inevitabili le guerre di conquista o la necessità che i mercati mondiali vengano dominati dall’Occidente;

3. sviluppo della produzione industriale: non solo l’artigianato viene considerato sempre inferiore all’industria (specie quella di massa), ma si tende anche a privilegiare la separazione tra agricoltura e artigianato, considerando prioritaria, specie nel basso Medioevo, la specializzazione dei mezzi tecnici e delle mansioni lavorative;

4. sviluppo della produzione culturale: i valori più significativi di una civiltà vengono ritenuti quelli basati soprattutto sul commercio, sulla scrittura, sul militarismo e in generale sulla supremazia del maschio, quindi tutti valori appartenenti a una determinata categoria di ceti, classi o individui, salvo fare concessioni di circostanza all’ambientalismo e al femminismo.

Posto questo, le differenze, se e quando esistono, tra uno schieramento ideologico e l’altro, risultano del tutto secondarie o formali, come p.es. si evidenzia tra le seguenti:

– nello sviluppo della produzione culturale, gli autori cattolici o protestanti mettono in rilievo l’evoluzione positiva dalle religioni primitive (animismo-totemismo) alle religioni monoteiste, senza però specificare che proprio quest’ultime sono state più facilmente strumentalizzate dalle esigenze di dominio mondiale;
– nello sviluppo della produzione industriale, gli autori di sinistra mettono in risalto le lotte operaie-contadine e, i più radicali (sempre meno in verità) l’esigenza di una socializzazione dei mezzi produttivi; e così via.

Qui si vuole ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che all’origine di questo incredibile appiattimento culturale sta proprio il primato concesso acriticamente al valore di scambio su quello d’uso, e non solo il primato concesso alla proprietà sul lavoro. Il socialismo non è più un’alternativa al liberismo non tanto perché ha smesso di contrapporre lavoro a proprietà, quanto perché ha sempre visto il lavoro all’interno del valore di scambio.

Sulla base di questi assiomi si è elaborato il concetto di civiltà, e ovviamente nessuno mette in discussione che quella più avanzata della storia sia quella occidentale (europea e statunitense); il Giappone non avrebbe fatto altro che copiare la civiltà americana, trapiantandola su un tessuto culturale semi-feudale, come d’altra parte la Cina sta impiantando il capitalismo in un paese agricolo dominato politicamente da un socialismo autoritario. Gli stessi paesi a cultura islamica non sono che paesi feudali nella sovrastruttura e capitalisti o soggetti a neocolonialismo capitalista nella sfera strutturale della produzione. I paesi ex-comunisti (specie quelli est-europei) non sarebbero che paesi neo-democratici, in quanto sul piano economico si sono finalmente aperti al mercato capitalistico. E così via.

Questa impostazione di metodo è così evidente che viene spontaneo darla per scontata in tutti i manuali di storia, anche se ovviamente solo pochi sono stati adottati o esaminati: ovunque infatti si tende a mettere in risalto quelle civiltà che con più decisione sono uscite dalla preistoria, quindi quelle che hanno sviluppato meglio l’organizzazione schiavistica e servile, e che in definitiva assomigliano di più a quella capitalistica.

Ancora oggi nei manuali scolastici di storia si pone una netta differenza tra “storia” e “preistoria”, senza mai precisare che i fenomeni che hanno determinato quella differenza: scrittura, urbanizzazione, metallurgia, commercializzazione degli scambi ecc., sono tutti strettamente correlati alla nascita dello schiavismo. Il che significa che non ha storicamente alcun senso apprezzarli positivamente separando concettualmente l’analisi di quelle forme sociali e tecnologiche dallo scopo per cui erano nate e che ne legittimava l’ulteriore sviluppo.

Ma c’è di peggio. Tutti i manuali tendono a privilegiare le civiltà commerciali basate sullo schiavismo rispetto a quelle agricole basate sul servaggio, allo scopo di sostenere la validità di alcuni fondamentali postulati, che indirettamente risultano funzionali alla legittimazione della modernità borghese, quali ad es. quelli relativi alla superiorità della città sulla campagna, del mercato sull’autoconsumo, del borghese sul contadino e sull’operaio (cioè del proprietario sul nullatenente), del lavoro intellettuale su quello manuale (cioè della scrittura sulla trasmissione orale del sapere), dell’artigiano specializzato sul contadino-artigiano, dell’agricoltore sull’allevatore, del sedentario sul nomade, del bellicoso sul pacifico, dell’occidentale cristiano (una volta si sarebbe aggiunto di “razza bianca”) su tutti gli altri credenti, e in generale dell’uomo sulla donna e della storia sulla natura.

Facciamo ancora un esempio. Quando si parla di migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) gli storici non sostengono mai ch’esse posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o che riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche.

Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri” o “bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente, che, se era “commerciale” e “stanziale”, sicuramente era superiore. Cioè non si prende mai l’organizzazione comunitaria primitiva come un modello di rapporto equilibrato tra esseri umani e tra questi e la natura.

A tutto ciò gli autori di sinistra aggiungono che va considerato necessario non solo il passaggio dalla preistoria alla storia (al fine di superare i limiti delle comunità basate sull’autoconsumo), ma anche il passaggio dal capitalismo al socialismo democratico, sebbene questa tesi oggi, dopo il crollo del “socialismo amministrato”, sia o stia diventando piuttosto rara, in quanto si tende a sostituirla con la cosiddetta ideologia dell’economia mista o “terza via”, in cui vige una sorta di influenza reciproca tra sfera pubblica e privata; e qui, mentre sul versante degli autori di sinistra si vorrebbe una sfera pubblica (statale) più importante di quella privata (il che contrasta con le tendenze di fatto dell’economia borghese), su quello degli autori borghesi si vuole invece un pubblico che faccia da mero supporto al privato.

Ciò che nessuno autore riesce a comprendere (ma in questa incomprensione possono celarsi motivazioni extra-culturali, come p.es. l’esigenza di dover collocare il libro di testo in un determinato mercato editoriale) è che nel rapporto tra comunità primitiva e civiltà storica, quella che più si avvicina al senso di umanità dell’essere umano non è la seconda ma la prima, e che quindi quanto più le civiltà tendono a svilupparsi, tanto più si allontanano dalla dimensione dell’umanizzazione, per quanto la resistenza ai conflitti di classe non lasci impregiudicata la possibilità di un ritorno alle origini.

Nessun autore sostiene che per ripristinare il concetto di umanità sia necessario “uscire” dal concetto di civiltà, così come esso s’è venuto configurando già nel passaggio dal comunismo primitivo alle prime formazioni schiavistiche, e come poi è andato sviluppandosi fino alle civiltà più recenti, che in un certo senso sono una variante dello schiavismo: il capitalismo è uno schiavismo, sotto la parvenza della democrazia, gestito dall’economia privata, quindi con esigenze di sfruttamento coloniale di paesi terzi; il socialismo amministrato è uno schiavismo gestito in maniera palesemente autoritaria dalla politica, quindi con esigenze di sottomissione a un’ideologia di stato.

Ovviamente con questo non si vuole sostenere che una rappresentazione tematica e non cronologica della storia potrebbe meglio garantire l’obiettività dell’interpretazione. È fuor di dubbio che una rappresentazione tematica aiuterebbe a focalizzare meglio le caratteristiche salienti di una civiltà, ovvero di una formazione sociale, perché in fondo è di questo che si tratta, e in tal senso il contributo del socialismo scientifico non va sottovalutato, in quanto è l’unica metodologia che ci permette di chiarire, sul piano economico-sociale, le differenze di sostanza tra una civiltà e l’altra.

Tuttavia lo storico non può basarsi unicamente sugli aspetti socio-economici: ha bisogno di trattare con pari dignità anche quelli culturali e politici. Ecco perché in una visione tematica o, se si preferisce, olistica, integrata, strutturata, organicista, della storia, ogni aspetto dovrebbe essere preso in esame e messo in rapporto trasversale rispetto a tutte le principali formazioni sociali della storia.

Solo che per arrivare a un’interpretazione sufficientemente obiettiva (e diciamo “sufficientemente” con la consapevolezza che la storia di cui trattiamo è quasi sempre la storia dei “vincitori” o quella di chi era padrone di quei mezzi che gli hanno permesso di trasmettere ai posteri una determinata rappresentazione di sé), occorre qualcosa che alla storiografia occidentale manca del tutto: il confronto con le istanze di identità umana.

Oggi non sappiamo neppure decifrare l’umano. Dopo seimila anni di storia delle civiltà abbiamo creato un essere umano quasi totalmente incivile, una sorta di barbaro che di civile ha solo le apparenze.

Possiamo pertanto lavorare solo sui “fantasmi”, cioè su quanto le civiltà ci offrono, tenendo ben presente, alla nostra indagine, che in tutte le civiltà esiste una divaricazione netta tra quanto affermato in sede teorica e quanto vissuto praticamente. Tale dicotomia tende ad accentuarsi col progredire delle civiltà e ha avuto una netta escalation a partire dal tradimento degli ideali del cristianesimo primitivo. Questo perché tutte le civiltà, nessuna esclusa, ha avuto bisogno, al suo nascere, di apparire più democratica rispetto al passato che stava per negare, proprio per poter vivere con legittimazione il contrario di quanto andava predicando, ne fosse o meno consapevole.

In sintesi. Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti, perché sarà su queste cose che si svolgerà il dibattito in classe tra il docente e i propri studenti:

1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera, ovvero quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente, ad un certo punto, si scelse? Lo storico non deve chiedersi il “perché”, in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un’altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il “come” ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l’ipotesi di un’alternativa che si sarebbe potuta seguire, naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve “inventarsi” le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi propri interessi).

2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una “egemonica” o maggioritaria e l’altra di “opposizione” o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi: a) la prassi era conforme all’ideologia? b) la prassi era accettabile nonostante l’ideologia? c) l’ideologia era accettabile nonostante la prassi? “Accettabile” naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico…