Gli storici e la religione cristiana (I)

Queste riflessioni sul modo come la religione cristiana viene trattata nei manuali scolastici di storia antica e medievale, vogliono soltanto essere esemplificative dei limiti cui si può andare incontro scegliendo come approccio ermeneutico quello meramente “occidentale” (che in detti testi coincide con quello dell’Europa cristiano-borghese).

1. IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

Quando nei manuali scolastici di storia antica o medievale si affronta il tema del cristianesimo primitivo, che cronologicamente va dalla nascita di Cristo al crollo di Gerusalemme nel 70, generalmente lo storico tiene un atteggiamento molto prudente.

Infatti se si mettono a confronto le versioni sulla natura di questo evento, espresse nei manuali scolastici di religione cattolica, che come noto devono sottostare a un placet ecclesiastico, con quelle espresse nei manuali di storia, si assiste quasi sempre a una sostanziale omogeneità di vedute.

Questo perché gli storiografi non confessionali hanno adottato in maniera del tutto acritica le tesi ufficiali della chiesa romana relative all’interpretazione di tale fenomeno storico. E questo senza considerare minimamente che nei paesi anglosassoni esistono tesi confessionali di tipo “protestantico” e in quelli greco-slavi tesi confessionali di tipo “ortodosso”, che su moltissimi punti divergono ampiamente da quelle cattoliche.

Per convincersi di questa abdicazione del laicismo all’esegesi confessionale basta citare alcuni semplici esempi tratti dal manuale di Alba Rosa Leone (Popoli nella storia, ed. Sansoni), uno dei più usati alle medie di I grado:

1. Gesù non predicò un regno di liberazione nazionale della Palestina oppressa dai romani, ma una salvezza di tipo “etico-religioso”, che si sarebbe realizzata nel cosiddetto “regno dei cieli”;

2. tale regno sarebbe stato fondato esclusivamente sull’“amore fraterno e universale” e sarebbe stato appannaggio delle categorie sociali più deboli e reiette.

La storiografia laica conferma quindi l’idea della storiografia confessionale secondo cui il Cristo non era affatto un liberatore politico-nazionale, bensì un redentore morale-universale.

Oltre a ciò si danno per scontate tutte le guarigioni miracolose (definite dall’autrice con l’aggettivo “inspiegabili”).

Ma il bello sta nel finale. Poiché dunque la popolazione riteneva Gesù il “messia” tanto atteso, egli finì coll’essere giustiziato sulla base di un incredibile equivoco, in quanto nei vangeli non appare in alcun punto ch’egli avesse mai desiderato diventare un “liberatore nazionale”. Egli fu crocifisso a causa dell’odio che nei suoi confronti nutriva il ceto sacerdotale giudaico, che temeva di perdere il proprio potere, di fronte all’eventualità di un’insurrezione armata contro i romani (realizzata a questo punto non si sa da chi). Pilato eseguì la sentenza senza neppure essere pienamente convinto della sua giustezza. Successivamente il primo che ebbe il coraggio di far uscire il cristianesimo agli angusti limiti geografici della Palestina fu Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo come religione universale.

In tutta la propria rappresentazione dei fatti, la Leone evita di soffermarsi su un punto che per la storiografia confessionale è di cruciale importanza, e cioè la resurrezione di Cristo. Ma questo silenzio, indubbiamente voluto, è il massimo della laicità possibile che si possa riscontrare nel suo manuale. Una omissione che, stante le premesse, verrebbe inevitabilmente giudicata come incomprensibile da una qualunque esegesi di tipo confessionale.

Considerando poi che i nuovi programmi fanno partire la storia del primo anno delle medie dalla caduta dell’impero romano, ci si chiede se l’affronto di un tema così importante debba restare definitivamente precluso ai preadolescenti. Il testo del Brusa – Guarracino – De Bernardi (Il nuovo racconto delle grandi trasformazioni, Mondadori), al cristianesimo primitivo non dedica neanche una riga, partendo direttamente dalla svolta costantiniana.

Il Neri (Il mestiere dello storico, La Nuova Italia) fa rientrare il cristianesimo nell’ambito della nascita delle “nuove religioni” e si limita ad affermare che tutto quanto sappiamo di questa religione ci è stato tramandato da una “tradizione”. Quella medesima tradizione che il manuale di Zaninelli – Bonelli – Riccabone (Storia ed educazione alla cittadinanza, Zanichelli) accetta come oro colato, pur essendo stampato da un editore che difficilmente si potrebbe definire come “confessionale”, e che però, verrebbe a dire “a scanso di equivoci”, ha pubblicato un altro manuale che sul tema in oggetto è più “realista del re”, quello di Barbero – Frugoni – Luzzatto – Sclarandis (La storia, l’impronta dell’umanità), dove viene detto che la vita eterna promessa dal Cristo per l’aldilà costituiva un messaggio autenticamente “rivoluzionario” per gli schiavi.

Un po’ più obiettivo appare il testo di Alberton – Benucci (St 1, ora di storia, Principato), che, tra una riga “confessionale” e l’altra, arriva ad ammettere che la predicazione del Cristo risultò scomoda anche ai romani, in quanto contraria allo sfruttamento degli schiavi.

Molto curiosa, specie in considerazione dell’orientamento della casa editrice, la collocazione dell’argomento in questione da parte di Ronga – Gentile – Rossi (Grandangolo, La Scuola): la paginetta dedicata al cristianesimo primitivo, in cui per fortuna si ribadisce la tesi laica secondo cui il Cristo venne crocifisso perché i romani lo giudicavano ostile alla loro autorità, si trova dopo le descrizioni particolareggiate del Pantheon e del Colosseo e subito prima di alcune pagine dedicate agli acquedotti, alle latrine pubbliche e alle fogne di Roma!