La questione delle fonti storiche

Un qualunque lavoro didattico sulle fonti storiche è indispensabile, di qualunque natura esse siano. Tuttavia bisognerebbe partire dal presupposto che non esiste e non può esistere alcuna fonte storica la cui interpretazione sia incontrovertibile. Se tale fonte esiste non è storica, cioè non è un prodotto dell’azione umana. Anche quando, all’interno di una classe scolastica, succedono incidenti di percorso, dovuti a malintesi o a forme di insofferenza o di esasperazione, il docente ha il compito di sentire le “varie campane”, cercando di separare il grano dal loglio, ma sempre nella consapevolezza, e deve anche farlo capire ai ragazzi, che nessuno di loro, da solo, può aver la pretesa di raccontare una verità assoluta dei fatti.

Questo modo di agire porta a conseguenze ben precise quando si studia la storia:
1. il ricorso alle fonti e quindi la loro espressa citazione, nella ricerca della verità dei fatti, è sì una necessità ma relativa;
2. le fonti scritte non sono di per sé più oggettive di quelle non scritte;
3. in genere la verità non coincide mai con l’evidenza;
4. l’interpretazione delle fonti può essere anche più importante delle fonti stesse ai fini della ricerca scientifica;
5. nessuna fonte è muta, nessuna parla chiaramente;
6. nessuna fonte è sicura, nessuna è irrilevante;
7. le fonti false o falsificate non sono meno importanti delle altre fonti;
8. l’interpretazione delle fonti è sempre parziale e viziata dal limite soggettivo dell’interprete, il quale a sua volta è condizionato dal periodo storico in cui egli è vissuto;
9. non esiste un criterio oggettivo per stabilire quale interpretazione delle fonti sia più attendibile o più vicina alla verità oggettiva dei fatti, la quale pur esiste, anche se non siamo in grado di stabilirne tutte le proprietà;
10. credere in questa o quella interpretazione delle fonti è cosa soggettiva, connessa a convincimenti personali, che maturano nella coscienza e nell’esperienza dei ricercatori indipendentemente dalle fonti stesse e persino dalle interpretazioni che se ne possono dare;
11. l’accettazione di una determinata interpretazione (di un punto di vista) il più delle volte nasce, anche inconsapevolmente, da un interesse già maturato nella coscienza del ricercatore, nel senso che quest’ultimo finisce col ritenere attendibili cose in cui già crede, sicché le interpretazioni non fanno che dare una certa consapevolezza teorica, concettuale, a un qualche sentire interiore, a una percezione che matura sulla base di determinate esperienze;
12. questo modo di procedere, nell’analisi delle fonti storiche, rientra nella dialettica (o dinamica naturale) del comportamento umano in campo gnoseologico;
13. le vere falsificazioni emergono quando si vogliono negare le alternative, i modi diversi di intendere la realtà;
14. si può vivere nella falsificazione senza avvertirla come tale, senza avvertirla in tutto il suo spessore o in tutta la sua evidenza. Il problema infatti non sta in questo, ma nel rifiuto di accettare forme diverse di esperienze delle cose, della realtà. È l’attaccamento ostinato, pervicace, a determinate idee, opinioni, a sua volta connesse a determinati interessi, che porta ad atteggiamenti innaturali, inumani… Se tutti sono nell’errore, nessuno lo è, soggettivamente. Tutti però lo diventano quando si vuole rifiutare una qualunque alternativa allo status quo.
15. La miglior fonte per l’uomo è la storia in generale, che va vissuta sino in fondo nel proprio presente.
Una conoscenza oggettiva dei fatti storici è sempre una conoscenza parziale. Quanto più pretendiamo d’essere oggettivi, tanto più diventiamo astratti. Non a caso la conoscenza più oggettiva è quella matematica, che è poverissima di contenuto umanistico. Se la matematica non avesse trovato un’applicazione nell’informatica, sarebbe rimasta una scienza per pochi eletti, anche se chi insegna materie letterarie se la ritrova, in un certo senso, nell’impostazione della grammatica, in parecchie cose della geografia e persino nel genere letterario del giallo (sic!).

Per come noi oggi conosciamo la storia, cioè per come ci viene trasmessa dai libri di testo, dobbiamo dire ch’essa è solo la storia dei potentati economici e politici, è storia scritta, scritta da intellettuali che, nelle civiltà antagonistiche, hanno sempre fatto generalmente gli interessi di una ristretta minoranza.

Nei confronti di queste versioni ufficiali dei fatti, che ci hanno voluto tramandare facendoci credere che fosse “la verità nient’altro che la verità”, noi abbiamo il dovere di esercitare la funzione del dubbio.

In particolare la storia basata sulla scrittura è la più ambigua di tutte, la meno affidabile. È di gran lunga migliore la “non-storia”, quella tramandataci oralmente, attraverso le mille generazioni, collaudata nel tempo, patrimonio storico della cultura contadina, che è stata completamente distrutta dalla scienza basata sull’esperimento da laboratorio.

Per millenni si è andati avanti senza sapere che il sole sta fermo, che la terra è tonda e che l’universo è in espansione… Siamo proprio sicuri che le nostre conoscenze astronomiche, per l’uso quotidiano che ne facciamo, siano di molto superiori a quelle egizie, maya, celtiche o druidiche? Com’è possibile non guardare con sospetto il fatto che la borghesia, nel mentre diceva la “verità” di queste scoperte, ne approfittava anche per imporre il proprio stile di vita, il proprio modo di produrre? Ci sentiamo davvero più sicuri oggi, con tutta la nostra scienza? Quando la Germania scatenò le due guerre mondiali era forse un paese di trogloditi? E lo erano forse le altre nazioni europee che non seppero e addirittura non vollero impedirlo?

Questo per dire che un manuale scolastico di storia non può limitarsi ad essere un semplice “bignami” di testi di livello universitario, cui si aggiungono esercizi di verifica, apparati iconografici, mappature, glossari, linee del tempo ecc. per agevolare il più possibile l’apprendimento dei contenuti storiografici. Un manuale di storia dovrebbe soprattutto essere impostato sul piano della metodologia, favorendo al massimo la ricerca (in greco zetesis), che non vuol dire anzitutto ridurre la quantità delle nozioni, ma farle emergere da un bisogno reale di conoscenza, in cui ci si sente coinvolti attivamente.

Faccio ora un esempio tratto dal testo di Alba Rosa Leone, Dal villaggio alla rete: cap. di Napoleone. Al par. 3 spiega che ad un certo punto, dopo l’istituzione delle cosiddette “repubbliche sorelle” volute dall’imperatore, “nel sud in particolare migliaia di contadini e intere bande di briganti formarono, sotto la guida del card. Ruffo, l’esercito della Santa Fede che marciò contro la repubblica partenopea… riportando i Borboni sul trono”.

Poi, dopo aver riempito il paragrafo di nomi, lo conclude dicendo: “Analoghi movimenti sanfedisti insanguinarono il Lazio, la Toscana e il Piemonte, dimostrando l’incapacità dei nuovi governi di coinvolgere nei programmi di rinnovamento le masse rurali, povere e analfabete”. Punto!

Cosa capisce un alunno di scuola media? Come si poteva evitare il nozionismo? Semplicemente partendo dalla vita dei ragazzi, ponendo alcune domande su taluni comportamenti. In questo caso chiedendo loro: come ci si deve comportare quando, rispetto a tutti gli altri, si sa o si pensa di aver ragione? Se dopo aver detto le proprie ragioni, gli altri continuano ancora a non credervi, come ci si deve regolare? Quando si pensa di aver ragione è giusto usare la forza per dimostrarlo? Ci sono altri strumenti a disposizione?

Domande di questo genere se ne possono fare a centinaia. Sempre più precise, circostanziate, contestualizzate nello spazio e nel tempo, sempre più riferibili a situazioni in cui sono coinvolti gli adulti, i genitori, gli insegnanti, i protagonisti della storia.

A questo punto viene quasi da dire che sarebbe sufficiente avere un libro di storia composto unicamente di fonti, con domande interpretative da parte del curatore e al massimo uno specimen apposito per il docente, contenente le risposte effettivamente date a quelle domande, nonché quelle che si sarebbero potute dare se le cose fossero andate diversamente (storiografia del “se”). In questa maniera si lascerebbe campo aperto alla ricerca personale e di gruppo, nonché alla discussione in classe.

Un altro modo di fare ricerca storica (che in molte scuole ha preso piede) è quello di adottare un monumento locale, lavorandoci sopra a 360 gradi: cosa rappresenta per la cittadinanza locale? perché lo si è voluto? come preservarlo tecnicamente? come tramandarne la memoria? ecc. Esistono anche varie attività didattiche organizzate da associazioni culturali, relative p.es. a come si faceva il pane una volta o un codice miniato, ecc. Molto interessanti sono anche le rappresentazioni teatrali, cinematografiche, televisive e persino di animazione su taluni eventi storici. È difficile incontrare uno studente che non associ il cartoon di Lady Oscar alla rivoluzione francese.

L’importante insomma è rivedere criticamente i presupposti di fondo su cui si basano quasi tutti i manuali scolastici di storica, e cioè:
1. che l’Europa occidentale ha espresso la civiltà più significativa della storia;
2. che questa civiltà è diventata significativa a partire soprattutto dalla rivoluzione borghese, scientifica e industriale;
3. che lo era già al tempo del mondo greco-romano, “rovinato” dalle invasioni cosiddette “barbariche”;
4. che la religione migliore del mondo è quella cristiana, specie quella di confessione cattolico-romana, benché sia stata quella luterana e soprattutto calvinista a fare da supporto esplicito alle idee della borghesia.

È impressionante vedere con quanta sicurezza molti insegnanti, autori di manuali scolastici, ritengono che la storia sia una “scienza”. Basterebbe solo un esempio clamoroso per smentirli, ma se potrebbero fare molti: perché non parlano mai di quei sette secoli di “crociate baltiche” organizzate dall’Europa cristiana d’occidente?

Dunque di che scientificità stiamo parlando? Forse sarebbe meglio dire che in definitiva non esiste la storia, esiste solo la sua interpretazione, che è quella voluta dai poteri dominanti, dai quali però dobbiamo continuamente difenderci, ipotizzando una diversa interpretazione dei fatti. Qui il conflitto è tra un’esegesi e l’altra, tra un’ermeneutica e l’altra… Non esiste un solo concetto che non possa essere oggetto di interpretazioni opposte. Questo è l’unico dogma che bisognerebbe essere disposti ad ammettere.