Didattica della storia (V)

5. La questione del come

Compito di un qualunque formatore è quello di far capire al giovane come può contribuire, nel suo piccolo, alla modificazione della realtà in cui vive. Quindi il lavoro da fare è anzitutto di tipo psicopedagogico: comprendere il giovane nei suoi bisogni, nelle sue capacità e attitudini, nella sua realtà pregressa, individuando gli aspetti su cui far leva per suscitare la motivazione.

I docenti sanno bene che questo, a scuola, è il compito più difficile: non solo perché l’università non è stata, fino a ieri, in grado di abilitarli didatticamente all’insegnamento (a ciò s’è cercato di rimediare con l’istituzione della SSIS, rimessa in discussione dall’attuale ministra Gelmini), ma anche perché spesso hanno la percezione di essere considerati dalla pubblica opinione come semplici impiegati statali, cioè rappresentanti di uno Stato che non sa dimostrare di credere davvero nell’importanza della formazione.

A scuola non esiste quasi nulla che predisponga ad una vera azione educativa e formativa. Lo impedisce la rigidità dei criteri fondamentali su cui si regge tutta l’organizzazione scolastica, che, in tal senso, non è molto diversa da una di tipo carcerario o militare: la classe ben definita nei suoi componenti, l’orario rigidissimo, il burocratico registro, le scadenze improrogabili, gli ansiosi voti, i pedanti programmi ministeriali, i libri di testo supponenti, ecc. L’odierna scuola è esattamente l’opposto di ciò che aveva preventivato un qualunque pedagogista classico, quando poi non si ha a che fare con le ben note esperienze di bullismo, di assenteismo, di dequalificazione degli studi, di promozioni assicurate ecc.

Nonostante questo noi dobbiamo comunque realizzare un’attività didattica che ci dia soddisfazione e che permetta ai giovani di avere fiducia nelle loro risorse. Lo studio della storia ha senso soltanto se serve per fare questo tipo di lavoro, così come devono servire la geografia, la lingua italiana e tutte le altre discipline.

A noi interessa far crescere il giovane secondo caratteristiche umane e democratiche, in cui la conoscenza dei contenuti delle varie aree di sapere appaia soltanto come l’aspetto “intellettuale” di una crescita a tutto tondo.

Attenzione in tal senso a non confondere “intellettuale” con “culturale”. La “cultura” è un complesso di cose che va ben oltre la semplice conoscenza dei contenuti: la cultura è esperienza condivisa, basata su valori sociali comuni, tradizioni usi e costumi trasmessi a livello generazionale, linguaggi e credenze popolari che appartengono a una collettività storica, è anche “resistenza” a un colonialismo ideologico che passa attraverso i media dominanti. Tutto ciò oggi esiste sempre meno.

Forse, prima di fare un qualunque lavoro storiografico, bisognerebbe chiarire entro quali confini ci si potrà muovere, i limiti epistemologici entro cui le nostre definizioni troveranno il loro senso; quei limiti che sono appunto determinati dalla società borghese, dalla civiltà occidentale, dal sistema capitalistico ecc. Noi infatti possiamo soltanto ipotizzare una società, una civiltà, un sistema diversi da quelli in cui viviamo, ma non possiamo certo prescindere dal nostro presente, dall’hic et nunc.

Volendo, si può anche fare il percorso inverso (quello di tutti i manuali scolastici di storia): partire cioè dall’esperienza primitiva, per poi giungere alla nostra. Ma in tal caso sarebbe bene non lasciar sottintendere l’inevitabilità di un percorso evolutivo, progressivo, che porta necessariamente alla considerazione che la nostra epoca è la migliore di tutte.

Ogni formazione socio-economica andrebbe affrontata come un unicum, chiarendo bene che nelle fasi di transizione verso una diversa formazione sono state compiute determinate scelte, consapevoli o indotte dalle circostanze, che hanno comportato determinate conseguenze, positive o negative.

Oasis novità: viva il rock, oltre ‘sti benedetti Beatles

Gli Oasis non mi sono mai piaciuti, fin dall’inizio. Un po’ perché sono una bastian contraria, piacciono a tutti dunque a me no, poi perché rifanno troppo il verso ai Beatles, ma soprattutto perché i due fratellini mi stanno caldamente sui marroni, presuntosi, boari, arroganti, insomma due stronzi. Perché allora li ho voluti scoprire solo adesso, quando probabilmente hanno già dato il meglio? Sono incappata sul primo singolo del nuovo album, “The shock of the lightning”, e improvvisamente mi sono diventati simpatici. Tosti i ragazzi: meno pop (che se non è sublime non mi acchiappa) e più rock. Sì, lo so, è sempre la solita solfa ma che ci posso fare ogni volta ci ricasco (“Mamma mia”).E poi non posso non riconoscere che gli Oasis un merito, da sempre, ce l’hanno. Quello di saper fare come si deve una Canzone: sembra facile…Ci basta accendere la radio e sentire che di fatte bene ne circolano sempre meno (a proposito, con i Gallagher non c’entra niente, sta spopolando un pezzo di Kid Rock, l’ex marito di Pamela Anderson, una cover di “Sweet home Alabama” suonato dai Lynyrd Skynyrd negli stessi anni in cui è nato il Kid, chissà quanti ragazzini non lo sanno e credono invece sia una novità e non una canzone scritta dai loro nonni). Torniamo a “Dig out your soul”. Viva il rock, dicevo, ma i Beatles continuano a farsi sentire, eccome. A partire dalla prima canzone del cd, “Bag it up”: suona come un “outtake” del White album del ’68 (il disco in effetti si chiama “The Beatles” ma com’è noto deve il suo “titolo” alla copertina bianca), ha un po’ di “Helter Skelter” (il brano di MacCartney che Manson citò come ispirazione per i suoi delitti), una discesa di accordi alla “Back in the Ussr” (sempre Macca, sempre ’68), il suono dei celli nel finale ricorda “I am the walrus” (John), ma complessivamente il ritmo e i celli ricordano anche i T. Rex di Marc Bolan prodotti da Tony Visconti. Per i beatlesiani, il fascino di questa canzone forse sta nel ricordare allo stesso tempo idee di Macca e di Lennon; d’altronde i Beatles sembrano essere un’eredità di cui i gruppi inglesi (e americani) sembra non riescano a liberarsi, un po’ come Battisti per i nostri cantautori pop. Tra tutte le canzoni dei Fab Four comunque direi che la canzone che mi ricorda di più è la lennoniana “Glass onion”(sempre 68). Più che plagio diretto, abbiamo quello che nella legge americana si chiama “plagio d’intenzione”, cioè il ricreare un’atmosfera, piuttosto che la melodia o l’armonia di una composizione. I Beatles tornano a più riprese, addirittura con tanto di dedica a Lennon come in “I’m outta time” scritta da Liam. Nonostante Noel abbia dichiarato che stavolta no, chiamando in causa Stooges, Stone Roses, Doors. I pezzi per me più riusciti: “Waiting for the rapture”, “Ain’t got nothing”, la psichedelica “To be where there’s life”. Niente di sconvolgente ma “verghene”…

Voto: stavolta niente voto né giudizio, per solidarietà con gli insegnanti che si stanno battendo contro il maestro unico.