Didattica della storia (I)

“J have a dream”, quello di progettare con qualche docente di storia o qualche storico di professione l’impostazione di una didattica di questa disciplina che prescinda nelle sue linee essenziali dai vari ordini e gradi di scuole. Cioè il sogno è quello di dipanare un filo comune trasversale, da utilizzare in chiave metodologica.

Il problema da risolvere non è più quello di trovare strategie adeguate per studiare un manuale prefatto, ma quello di come far capire concretamente l’importanza di una ricerca storica, suscitandone la motivazione nei ragazzi, che poi è la sola a garantire una memoria a lungo termine. “L’apprendere è un processo attivo, che richiede l’attività di elaborazione e di costruzione delle conoscenze del soggetto che apprende”; ecco perché bisogna lavorare anche sulle “procedure metodologiche di ricostruzione delle realtà del passato”, così scrive Hilda Girardet in Aspetti cognitivi della didattica di laboratorio (art. trovato in www.israt.it).

E la risoluzione di questo problema non dovrebbe riguardare il singolo insegnante ma l’insieme dei docenti di una classe, capaci di dare al suddetto problema un’impostazione storica condivisa, che faccia da leit-motiv alle diverse forme dell’indagine disciplinare.

Forse un giorno, quando ogni disciplina saprà garantire una propria impostazione storica, cioè saprà rendere culturalmente ragione del proprio esistere in ogni momento del proprio svolgimento, la “storia”, come materia a se stante, non esisterà più. Avremo finalmente trovato una calamita per la ricomposizione del sapere. E forse quel giorno non esisteranno neppure le “discipline”, oggi tenute rigorosamente separate le une dalle altre.

In tal senso oggi la didattica andrebbe superata in almeno tre direzioni:
1. la netta divisione tra scienze umane e scienze esatte;
2. l’impostazione cronologica delle scienze umane;
3. l’impostazione astratta delle scienze esatte.

Per rendere edotti gli studenti circa gli avvenimenti del loro tempo sarebbe sufficiente creare un insegnamento di “Argomenti di attualità”, impostato in chiave etica, sociale e culturale. O forse sarebbe meglio chiedere ad ogni docente di fare della propria disciplina un’occasione per comprendere la modernità.

1. Vivere senza

Negli attuali libri di testo di storia forse c’è un capitoletto che potrà tornarci utile alla realizzazione di questo progetto: quello relativo alle tecnologie in uso nei secoli passati.

Quando si affronta un argomento del genere si chiede sempre ai ragazzi come s’immaginano una società in cui non esiste telefono, cellulare, computer, automobile, televisione, radio ecc. Per saperlo diciamo loro che occorre chiederlo ai nonni, e così iniziano a diventare “ricercatori”. Ma tra un po’ non esisterà più un gap generazionale così grande e allora come potranno i giovani immedesimarsi in una vita quotidiana che da tempo non appartiene più a loro?

Per iniziare un qualunque discorso storico noi dobbiamo mettere l’alunno in grado di capire come si può vivere in condizioni tecniche, tecnologiche, socioeconomiche, culturali ecc. molto diverse dalle nostre. Cioè come si può “vivere senza”. Se non possono avvalersi delle persone più anziane, dovremmo poter avviare delle simulazioni sul campo, ricostruendo, con l’aiuto degli Enti Locali, una sorta di “villaggio demo”, in cui siano presenti gli elementi fondamentali del vivere quotidiano di un passato remoto.

I musei della civiltà contadino-romagnola possono andar bene allo scopo, ma occorrono anche animazioni, ricostruzioni virtuali, esemplificazioni reali, che l’alunno possa vedere coi propri occhi, toccare con mano. I musei storici devono essere vivi, devono farci sentire partecipi del periodo che rappresentano.

Non voglio una sorta di “Italia in miniatura”, in cui il turista gira tra un monumento e l’altro scattando fotografie o guardando ammirato di cosa siamo capaci di fare, ma una esemplificazione significativa in cui l’osservatore sia parte in causa, insomma una sorta di museo didattico all’aperto, in cui la ricostruzione degli ambienti e delle attività sia sufficientemente realistica.

Anche una gita scolastica potrebbe essere impostata su un’esperienza del genere. In fondo anche alla televisione, col concetto di “reality”, hanno provato a ricostruire ambienti per noi obsoleti.

Tutto ciò dovrebbe servire per far capire che si può vivere anche “senza”, cioè che non è la tecnologia che di per sé indica il valore di una civiltà. Dovrebbe servire anche per far capire le radici del nostro tempo, da dove veniamo, che cosa abbiamo sviluppato e cosa invece è stato abbandonato, ovvero il fatto che in questo processo sono state compiute delle scelte, le cui conseguenze hanno comportato aspetti positivi e negativi. Il presente non è migliore del passato solo perché presente.

5 commenti
  1. E se si sparassero sui coglioni? Cioè tra di loro...
    E se si sparassero sui coglioni? Cioè tra di loro... says:

    Sì, però si scrive “I have…” e non “J have..”.
    A parte questo, lei mette in crisi la ciarlataneria e l’opportunismo di molti intellettuali, che o scrivono libri di storia un po’ fasulli o su anche quei libri si sono comunque un po’ formati.
    Come a dire che le fondamenta del palazzo sono sfalsate.
    Ratzy a Mary

  2. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Prova a digitare in qualunque motore le parole “j have a dream” (usando le virgolette) e avrai una sorpresa.
    Comunque è vero, esiste un imprimatur implicito anche nei testi non confessionali, specie quelli di storia.

  3. Follotitta
    Follotitta says:

    L’ interesse prevalente della didattica dovrebbe essere abituare lo studente a pensare, quando invece il vero interesse e’ quello di abituarlo a credere. Una enorme differenza che come ultimo paradosso perpetua l’ insegnamento religioso, eliminando decine di migliaia di altri insegnanti dal sistema scolastico.
    Qualche tempo fa ho visto un film. Il titolo e’ ” Freedom Writers”. E’ la cronaca, sembra realmente accaduta, di una insegnante di writing in una high school di Rhode Island, e del suo tentativo di interessare una classe di studenti dei quartieri piu’ degradati e violenti, allo studio. Missione impossibile. Ma la ns insegnante ci tiene, al di la’ di tutti gli stereotipi, ai propri studenti, e sa che il solo modo per cui essi si possono interessare al mondo esterno e’ quello di incominciare con il conoscere il proprio, con il capire la propria condizione. E cerca di realizzare questo in 2 modi. Da una parte li invita a scrivere un diario, che non fara’ parte di nessun tipo di valutazione scolastica e che le faranno leggere solo se lo vorranno. Dall’ altra li mette a confronto con la storia del Olocausto, di cui naturalmente nessuno di loro aveva mai sentito parlare, rendendogli palese che la loro condizione di emarginazione, degrado e violenza, non appartiene solo a loro, ma e’ un fatto che si ripete ogni volta che la forza e il desiderio di prevaricazione di pochi ha il sopravvento sulla ragione dei piu’. Insomma una bella lezione di Storia. Per far questo la ns professoressa compra di tasca propria nuovi libri di testo fra cui “Il diario di Anna Frank”, li invita sempre a proprie spese a visitare il Museo del Olocausto e ad incontrare socialmente alcuni sopravvissuti ecc ecc.
    Mi sembra che il taglio di questo film si adatti abbastanza all’ idea di una scuola flessibile che cerchi di suscitare spontaneamente curiosita’ e quindi interesse e conoscenza. Ma al di la’ di qualsiasi altra considerazione, non mi sembra una cosa logica che per superare la macchina burocratica del proprio sistema scolastico, un insegnante si debba pagare personalmente un nuovo curriculum, per di piu’ nell’ ostracismo e derisione generale. Di eroi ce ne stanno molti, ma solo al cinema.
    Cordiali saluti, e grazie per i suoi interventi.
    Follotitta.

  4. Follotitta
    Follotitta says:

    Dimenticavo di dire che quei diarii nel 1999 sono stati raccolti in un libro dal titolo: “Freedom Writers Diaries”

  5. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Cara Follotitta, ormai sono arrivato alla conclusione che la scuola non dovrebbe essere né statale né privata ma pubblica, della comunità locale, sganciata dalle imposizioni ministeriali, che inevitabilmente non possono tener conto delle istanze territoriali. La storia dovrebbe partire dal vissuto dei nostri ragazzi e dei loro genitori e dei loro nonni. E considera che anche facendo questo non riusciremmo più a recuperare la lingua-dialetto che parlavano né le tradizioni che quella lingua raccontava.
    Oggi una scuola democratica, del “demos”, dovrebbe come minimo tener conto di tutte le specificità etnico-culturali e linguistiche delle molte tipologie geografiche di alunni che abbiamo nelle classi. Cosa di cui il Ministero non ha neppure il più vago sentore.

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