Ancora ‘sta storia delle “radici cristiane”! Ma in Italia, e in Europa, le radici sono molte e più antiche. Se non vogliamo la catastrofe è bene tenerne conto, ora che non solo la Cina è vicina e gli Usa sono invece un po’ più lontani

In occasione della recente visita del papa al Quirinale abbiamo assistito alla solita serie di affermazioni fasulle, che però fanno parte delle verità ufficiali avvalorate da tutti un po’. Anzi, proprio nell’insistenza nel riproporle si coglie il timore ad alto livello che i miti, i dogmi e i tabù cedano il posto alla conoscenza, alla critica delle ragione, alle ragioni della critica e al bisogno di nuovi miti fondanti meno conflittuali con il resto del mondo e in definitiva più umani.

Il refrain Numero Uno è l’affermazione delle “radici cristiane” dell’Italia, con l’annesso refrain che noi italiani siamo “un popolo di cristiani”. Durante gli ultimi anni del pontificato di Wojtyla il refrain Numero Uno era quello sulle “radici cristiane” dell’intera Europa, al punto da pretendere che nella Costituzione europea ci fosse un preambolo o cappello per l’appunto sulla cristianità dell’Europa, ovviamente col sottinteso che questa cristianità va mantenuta a tutti i costi, né più e né meno come Berlusconi vuole che il suo possesso della sue tv private e il loro predominio economico, con annessi e connessi, sia mantenuto a tutti i costi. Alla peggio, con un accordo con le tv di Stato, accordo che ricorda il “dialogo interreligioso” perché in definitiva si tratta pur sempre di costruire una corazza attorno al potere esistente, televisivo o religioso, per escludere il riconoscimento o l’arrivo degli “altri”. E gli “altri” sono per le tv lo sviluppo di Europa 7 e delle web tv, per le religioni l’affermazione della laicità che potrebbe finalmente mettere in crisi l’intera concezione e impalcatura monoteista, una e trina come la santissima trinità visto che allinea ebraismo, cristianesimo e islam. Sembra un pericolo irreale, ma da una parte c’è il rullo compressore cinese – gigante da sempre laico e, dal punto di vista della “triplice”, anche ateo – e dall’altra la forte spinta dell’India e l’inizio di spinte africane, vale a dire del mondo “pagano” le cui religioni allineano una tale ricchezza di divinità da fare impallidire persino il mondo egizio mesopotamico e greco romano. Il “pericolo” che il clero della “triplice” fiuta da lontano è per l’appunto che questo politeismo “folcloristico” – ovvero questi miti – si saldi a quello egizio mesopotamico e greco-romano. Che si saldi, cioè, alle vere radici culturali dell’Italia e dell’Europa…. Continua a leggere

Didattica della storia (I)

“J have a dream”, quello di progettare con qualche docente di storia o qualche storico di professione l’impostazione di una didattica di questa disciplina che prescinda nelle sue linee essenziali dai vari ordini e gradi di scuole. Cioè il sogno è quello di dipanare un filo comune trasversale, da utilizzare in chiave metodologica.

Il problema da risolvere non è più quello di trovare strategie adeguate per studiare un manuale prefatto, ma quello di come far capire concretamente l’importanza di una ricerca storica, suscitandone la motivazione nei ragazzi, che poi è la sola a garantire una memoria a lungo termine. “L’apprendere è un processo attivo, che richiede l’attività di elaborazione e di costruzione delle conoscenze del soggetto che apprende”; ecco perché bisogna lavorare anche sulle “procedure metodologiche di ricostruzione delle realtà del passato”, così scrive Hilda Girardet in Aspetti cognitivi della didattica di laboratorio (art. trovato in www.israt.it).

E la risoluzione di questo problema non dovrebbe riguardare il singolo insegnante ma l’insieme dei docenti di una classe, capaci di dare al suddetto problema un’impostazione storica condivisa, che faccia da leit-motiv alle diverse forme dell’indagine disciplinare.

Forse un giorno, quando ogni disciplina saprà garantire una propria impostazione storica, cioè saprà rendere culturalmente ragione del proprio esistere in ogni momento del proprio svolgimento, la “storia”, come materia a se stante, non esisterà più. Avremo finalmente trovato una calamita per la ricomposizione del sapere. E forse quel giorno non esisteranno neppure le “discipline”, oggi tenute rigorosamente separate le une dalle altre.

In tal senso oggi la didattica andrebbe superata in almeno tre direzioni:
1. la netta divisione tra scienze umane e scienze esatte;
2. l’impostazione cronologica delle scienze umane;
3. l’impostazione astratta delle scienze esatte.

Per rendere edotti gli studenti circa gli avvenimenti del loro tempo sarebbe sufficiente creare un insegnamento di “Argomenti di attualità”, impostato in chiave etica, sociale e culturale. O forse sarebbe meglio chiedere ad ogni docente di fare della propria disciplina un’occasione per comprendere la modernità.

1. Vivere senza

Negli attuali libri di testo di storia forse c’è un capitoletto che potrà tornarci utile alla realizzazione di questo progetto: quello relativo alle tecnologie in uso nei secoli passati.

Quando si affronta un argomento del genere si chiede sempre ai ragazzi come s’immaginano una società in cui non esiste telefono, cellulare, computer, automobile, televisione, radio ecc. Per saperlo diciamo loro che occorre chiederlo ai nonni, e così iniziano a diventare “ricercatori”. Ma tra un po’ non esisterà più un gap generazionale così grande e allora come potranno i giovani immedesimarsi in una vita quotidiana che da tempo non appartiene più a loro?

Per iniziare un qualunque discorso storico noi dobbiamo mettere l’alunno in grado di capire come si può vivere in condizioni tecniche, tecnologiche, socioeconomiche, culturali ecc. molto diverse dalle nostre. Cioè come si può “vivere senza”. Se non possono avvalersi delle persone più anziane, dovremmo poter avviare delle simulazioni sul campo, ricostruendo, con l’aiuto degli Enti Locali, una sorta di “villaggio demo”, in cui siano presenti gli elementi fondamentali del vivere quotidiano di un passato remoto.

I musei della civiltà contadino-romagnola possono andar bene allo scopo, ma occorrono anche animazioni, ricostruzioni virtuali, esemplificazioni reali, che l’alunno possa vedere coi propri occhi, toccare con mano. I musei storici devono essere vivi, devono farci sentire partecipi del periodo che rappresentano.

Non voglio una sorta di “Italia in miniatura”, in cui il turista gira tra un monumento e l’altro scattando fotografie o guardando ammirato di cosa siamo capaci di fare, ma una esemplificazione significativa in cui l’osservatore sia parte in causa, insomma una sorta di museo didattico all’aperto, in cui la ricostruzione degli ambienti e delle attività sia sufficientemente realistica.

Anche una gita scolastica potrebbe essere impostata su un’esperienza del genere. In fondo anche alla televisione, col concetto di “reality”, hanno provato a ricostruire ambienti per noi obsoleti.

Tutto ciò dovrebbe servire per far capire che si può vivere anche “senza”, cioè che non è la tecnologia che di per sé indica il valore di una civiltà. Dovrebbe servire anche per far capire le radici del nostro tempo, da dove veniamo, che cosa abbiamo sviluppato e cosa invece è stato abbandonato, ovvero il fatto che in questo processo sono state compiute delle scelte, le cui conseguenze hanno comportato aspetti positivi e negativi. Il presente non è migliore del passato solo perché presente.