Pansa, Napolitano, Berlusconi: e vai con le parole in libertà…. Ma chi rappresenta politicamente l’Italia della manifestazione di sabato 25 ottobre?

Al festival del cinema di Roma Giampaolo Pansa dopo la proiezione del film “Il sangue dei vinti”, tratto dal suo omonimo romanzo centrato sui crimini dei partigiani a fine guerra mondiale e subito dopo, pontifica da par suo: “L’Italia non è ancora un Paese pacificato perché chi allora vinse non ha raccontato fino in fondo cosa accadde durante e dopo la guerra civile. Il muro d’omertà dei vincitori non è stato mai rotto. E dunque la guerra civile, nel dolore delle famiglie, non è mai finita”. Che l’Italia non sia pacificata è vero, ma è vero da vari secoli e i partigiani “non ci azzeccano”, e se ci azzeccano è solo come ultimi della serie dei responsabili. Sarebbe come prendersela con Pansa per il degrado del giornalismo italiano, del quale lui semmai è una delle ultime concause, ma certo non la prima né la principale. In ogni caso è da ipocriti l’insistere di Pansa a dire “i vincitori” riferendosi di fatto sempre e solo ai partigiani e ai comunisti, perché a vincere sono stati soprattutto i filoamericani, i padroni, gli stessi che avevano foraggiato il fascismo, dalla Fiat di Agnelli fino alla Confindustria e ai padroni anche del Corriere della Sera. A vincere è stata anche la Democrazia Cristiana, i liberali, i repubblicani, i monarchici, i banchieri, per non dire della Chiesa che ha evitato di pagare lo scotto per le sue malefatte, dal benedire l’invasione coloniale dell’Africa fino a benedire Mussolini, dal togliere di mezzo gli ostacoli come don Sturzo sulla strada dei fascisti in cambio dei Patti Lateranensi fino all’equivalente in Germania in cambio di un altro grasso piatto di lenticchie da parte di Hitler. Persino un cattolico convinto come Cossiga ha riconosciuto tempo fa che senza il disco verde della Chiesa il fascismo in Italia non avrebbe preso il potere. E non sono pochi quelli che dicono la stessa cosa riguardo la presa del potere dei nazisti in Germania, facilitata dalla decisione del Vaticano di togliere di mezzo i don Sturzo tedeschi. Continua a leggere

Ripensamenti semantici

Inutile dire che un qualunque lavoro di ricerca storica implica un preliminare lavoro di ricomprensione semantica delle parole che usiamo. Bisogna chiarirsi sul significato di ciò che diciamo, anche se spesso ciò avviene soltanto alla fine di un determinato percorso didattico-culturale. Anche qui possiamo proporre sette piccoli esempi.

  1. Rivoluzione culturale. Si dice che la nascita delle civiltà abbia comportato una “rivoluzione culturale”. Tuttavia, se intendiamo il concetto di “cultura” nella sua accezione più generica, quale espressione di un’esperienza di popolo, si dovrebbe parlare, per quanto riguarda le civiltà basate sulle differenze di classe, di “involuzione culturale”.
    Oggi sarebbe più opportuno affermare che le popolazioni più “civili” sono in realtà quelle che hanno conservato un rapporto equilibrato con la natura; quelle che hanno conservato un rapporto democratico ed egualitario al loro interno e con le popolazioni limitrofe; quelle, in sostanza, che hanno rifiutato di compiere una rottura storica con se stesse non per insufficienza di mezzi o di ingegno, ma proprio per una volontà democratica di restare fedeli al proprio passato.
  2. Progresso storico. Si dice che lo sviluppo delle civiltà sia stato una forma di “progresso storico”. In realtà il nostro concetto di “progresso” risulta fortemente influenzato da un determinato stile di vista che si basa prevalentemente su indici quantitativi di produzione e di consumo di beni materiali. Si pensa che gli indici di qualità della vita debbano discendere, come conseguenza automatica, da quelli quantitativi, dei quali il più importante è il prodotto interno lordo.
    È sbagliato considerare “primitive” quelle popolazioni che non hanno conosciuto alti livelli di tecnologia, forti divisioni del lavoro e via dicendo.
    Peraltro è ampiamente documentato che in occasioni di cataclismi naturali o di disintegrazioni politico-economiche (ad Harappa in India, nel 1700 a.C., scomparvero persino le forme della scrittura), sono non i sistemi organizzati delle civiltà antagonistiche a riprendersi più in fretta, ma proprio le comunità piccole, relativamente autosufficienti.
  3. Interpretazione storica. Noi interpretiamo il passato sulla base del presente e si dice che questa operazione sia inevitabile. Tuttavia, un’interpretazione adeguata della qualità di vita delle civiltà pre-schiavistiche è per noi oggi praticamente impossibile, in quanto i modelli di confronto sono stati quasi ovunque distrutti dalla nostra civiltà planetaria. È in tal senso sintomatico che una civiltà “superiore” come la nostra non riesca a tollerare alcun altro modello di civiltà che pretenda una propria autonomia di sviluppo.
  4. Civiltà e Barbarie. Per gli storici occidentali se una civiltà viene distrutta da una seconda civiltà che non riesce a conservare e sviluppare ulteriormente le migliori conquiste della precedente, la seconda viene considerata inevitabilmente come “barbara” (p.es. tutta la transizione dall’impero romano ai regni barbarici viene interpretata in questo senso). Cioè il criterio per definire “civile” una “civiltà” non è tanto il tasso di umanità ch’essa è riuscita a esprimere, quanto il livello tecnologico, scientifico, di organizzazione statale, di sviluppo commerciale, di divisione del lavoro ecc. che è riuscita a realizzare.
  5. Civiltà e schiavismo. Lo sfruttamento del lavoro altrui, la situazione schiavile o servile della maggioranza della popolazione di una civiltà antagonistica non possono essere considerati come elementi sociali marginali, secondari, paralleli a tutto il resto, come se fossero soltanto un limite di quei tempi, oggi impensabile. Cioè non è possibile soprassedere a queste forme di mancanza di libertà in nome di un’idea di progresso tecnologico o di resa produttiva o di altri indici quantitativi (p.es. l’estensione di un territorio o dei traffici commerciali), che di per sé non aiutano minimamente a capire il livello di qualità della vita in generale di una determinata regione o località.
    È illusorio pensare che le grandezze monumentali di una civiltà siano un indice sicuro del benessere sociale delle popolazioni che le hanno edificate. Ancora oggi ci meravigliamo che in virtù di utensili molto primitivi, almeno rispetto ai nostri, le antiche civiltà abbiano potuto costruire dei monumenti che non stentiamo a paragonare ai nostri grattacieli. E non ci rendiamo conto che al centro del lavoro non vi erano solo gli ingegneri e gli architetti, ma anche gli artigiani, gli operai, gli stessi agricoltori, che sicuramente vivevano in condizioni di grande precarietà.
  6. La necessità storica. Il marxismo, ragionando con la categoria hegeliana della “necessità storica” si è trovato ad essere molto limitato nell’interpretazione della transizione dal comunismo primitivo alle civiltà antagonistiche. Infatti, se il passaggio era “necessario”, a prescindere dai prezzi che si sono storicamente pagati, il discorso è già chiuso, e quando si dice che il futuro socialismo democratico sarà un ritorno al comunismo primitivo in altre forme – quelle della rivoluzione industriale – si dice una cosa su cui sarebbe bene avere molti dubbi. Come d’altronde bisognerebbe avere molti dubbi sulla inevitabilità del passaggio dal capitalismo al socialismo.
    In nome della categoria della “necessità storica” noi rischiamo: 1. di non avere alcun passaggio, in quanto le distruzioni causate dal capitalismo non ce ne daranno il tempo; 2. di non avere il passaggio desiderato, poiché il socialismo rischierà di ereditare anche gli aspetti negativi del capitalismo, proprio come fino a ieri è stato fatto nelle esperienze del cosiddetto “socialismo reale” e come oggi si sta facendo in Cina.
  7. L’idea di surplus. In virtù della categoria della “necessità storica” il marxismo s’era preoccupato di cercare delle alternative, più che sulle forme di realizzo dell’eccedenza produttiva (la cosiddetta sovrapproduzione che permette lo sviluppo di una civiltà), sulle forme di redistribuzione sociale di questa eccedenza, al fine di evitare che la sovrapproduzione si ritorcesse contro gli interessi della collettività. A questa corrente di pensiero, che era anche una storiografia, interessava non tanto negare la necessità di proseguire lo sviluppo industriale e tecnologico, quanto di assicurare la giustizia sociale.
    Questa impostazione del problema oggi non regge più, proprio perché va messa in discussione l’idea stessa di surplus. Indicativamente si può dire ch’esso non dovrebbe mai appartenere a una singola famiglia, o classe, o tribù o clan ma a tutta la collettività, e le quantità di questo surplus, nonché la sua distribuzione, secondo esigenze obiettive e conformi a quelle riproduttive della natura, andrebbero decise in maniera democratica dalla stessa collettività che ne fruisce. Questo implica un’importanza decrescente degli organi statali.