Lo studio delle civiltà (IV)

Barbaro e civile

Quando trattano la storia dell’impero romano, pagano o cristiano che sia, gli storici sono abituati a considerare le popolazioni cosiddette “barbariche” nemiche non solo di questa specifica civiltà, ma anche della civiltà qua talis. Non vedono mai le distruzioni e le devastazioni operate dai “barbari” come una forma di negazione delle contraddizioni antagonistiche della civiltà romana e quindi come un tentativo di ricostruzione della “civiltà” su basi nuove.

Noi sappiamo che le civiltà individualistiche (che potremmo definire anche come quelle dello “sfruttamento”) hanno fatto a pezzi quelle collettivistiche: quest’ultime oggi sopravvivono a stento in posti remoti della terra e, per definizione, non fanno la “storia”.

Noi ovviamente non possiamo sostenere che le popolazioni cosiddette “barbariche”, che distrussero il mondo romano, fossero caratterizzate da un collettivismo analogo a quello del comunismo primitivo. Però possiamo dire che vivevano una forma di collettivismo sufficiente a far fronte all’ondata individualistica della civiltà romana. Se questa forma pre-schiavistica non avesse avuto sufficiente forza, l’impero romano non sarebbe crollato o per lo meno non l’avrebbe fatto in maniera così rovinosa.

Probabilmente proprio il continuo contatto con l’individualismo dei romani aveva permesso ai “barbari” di porsi nei loro confronti in maniera non ingenua, li aveva cioè indotti a trovare delle strategie utili alla propria difesa. Cosa che non è avvenuta da parte degli africani nei confronti delle potenze occidentali o da parte degli indiani d’America nei confronti degli europei.

Solo che questo continuo contatto non solo ha permesso ai “barbari” di comprendere le astuzie dei romani, ma ha anche prodotto un condizionamento negativo: infatti, una volta penetrati nell’impero, i cosiddetti “barbari” si sono sostituiti all’individualismo romano, limitandosi a mitigarne le asprezze (vedi p.es. il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in cui però la proprietà feudale resta una forma di individualismo, essendo contrapposta a quella comune di villaggio).

Gli storici sono abituati a vedere la “civiltà” come un qualcosa che si basa su elementi prevalentemente formali: p.es. il valore delle opere artistiche e architettoniche, le espressioni linguistiche e comunicative, i livelli economici e commerciali raggiunti ecc. Tutti questi aspetti, che pur sono “strutturali” ad ogni civiltà, vengono visti in maniera esteriore o convenzionale, in quanto non ci si preoccupa di verificare il tasso di “umanità” in essi contenuto.

Nell’esame storico di una civiltà gli storici dei nostri manuali non riescono neppure a capire che non si possono giustificare i rapporti antagonistici tra le classi, facendo leva sul fatto che anche tra le fila delle classi dirigenti vi possono essere soggetti che provano sentimenti umani o che sono capaci di gesti di umanità, ecc. Così facendo si fa un torto a milioni di persone che vivono in condizioni servili, da cui non possono sperare di uscire confidando nei buoni sentimenti di chi rappresenta l’oppressione.

Noi dobbiamo rinunciare alla pretesa di sentirci assolutamente superiori a qualunque altro tipo di civiltà, di ieri di oggi e di sempre. Non abbiamo il diritto di porre una seria ipoteca per il futuro, solo perché non sappiamo immaginare soluzioni alternative allo status quo.

È pedagogicamente un’indecenza non riuscire a trovare uno storico che accetti almeno come ipotesi l’idea di considerare più “civili” proprio quelle esperienze tribali prive di tecnologia avanzata, di urbanizzazione sviluppata, di mercati e imprese produttive ecc. Nei manuali che usiamo un’esperienza “tribale” non appare tanto più “civile” quanto più “umana”, ma solo quanto più è vicina al nostro modello di sviluppo. Infatti quanto più se ne allontana, tanto più diventa, ipso facto, “primitiva”. E per noi occidentali il concetto di “primitivo” non vuol soltanto dire “rozzo e incolto” in senso intellettuale, ma anche in senso morale: il primitivo è un essere con poca intelligenza e con scarsa profondità di sentimenti, quindi non molto diverso da una scimmia. Tale rappresentazione dei fatti è semplicemente ridicola.

Se mettessimo a confronto i livelli di istintività con cui si reagisce a determinate forme di condizionamento sociale e culturale, ci accorgeremmo che noi “individualisti” siamo molto più vicini al mondo animale di quanto non lo siano stati gli uomini primitivi, che ragionavano mettendo l’interesse del collettivo sempre al primo posto. Una reazione istintiva di fronte alle difficoltà è tipica di chi è abituato a vivere la vita sotto stress, in stato di continua tensione, ai limiti del panico, sentendo tutto il peso delle responsabilità sopra le proprie spalle, senza possibilità di avere significativi aiuti esterni.

Questo per dire che il crollo di una civiltà non andrebbe di per sé giudicato negativamente, poiché bisogna sempre vedere se da questo crollo è sorta (o può sorgere) una civiltà superiore, e se questa superiorità s’è manifestata solo sul piano meramente formale della tecnologia, della scienza, dell’arte, dell’economia, dell’organizzazione politica ecc., o non anche invece sul piano dell’esperienza dei valori umani, sociali, collettivi.

P.es. nel passaggio dal mondo romano al feudalesimo sicuramente vi è stata un’evoluzione positiva nel tasso di umanità degli individui, in quanto si riuscì a sostituire lo schiavismo col servaggio. Tuttavia questa forma specifica di evoluzione non può essere analogamente riscontrata nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, in quanto esigenze collettive rurali sono state qui distrutte da esigenze individualistiche urbane.

Negli ultimi settant’anni si è creduto possibile che l’individualismo urbano del capitalismo potesse essere sostituito con il collettivismo urbano del socialismo amministrato dall’alto, ma il fallimento di questo risultato è stato totale. Ciò a testimonianza dell’impossibilità di creare una civiltà autenticamente “umana” limitandosi a cambiarne alcune forme. Non si può costruire un socialismo umanistico limitandosi semplicemente a socializzare la proprietà e la gestione dei mezzi produttivi.

Altri aspetti, generalmente dati per scontati, vanno riconsiderati: p.es. il primato della città sulla campagna, dell’industria sull’agricoltura, del lavoro intellettuale su quello manuale, della cultura sulla natura, dell’uomo sulla donna, della scienza sulla coscienza ecc.

Il giudice del Nebraska ha respinto la denuncia contro Dio presentata da un senatore, ma l’ha respinta con motivazioni che non reggono

Sembra quasi una barzelletta, ma non lo è. Come ha già fatto notare qualche lettore, negli Usa il senatore del Nebraska Ernie Chambers, in carica da 38 anni, ha tentato di citare in tribunale addirittura il cosiddetto buon Dio accusandolo di “aver diffuso paura e terrore e di permettere catastrofi e sciagure”. Nella denuncia depositata in tribunale il 14 settembre dell’anno scorso il senatore accusa, giustamente, Dio e i suoi seguaci “delle continue minacce terroristiche, con conseguenti danni per milioni e milioni di persone in tutto il mondo”. Secondo Chambers, si tratta di minacce da non sottovalutare, perché ad avallarle è la stessa “storia personale di Dio”, che ha la pesante responsabilità di “terremoti, uragani, guerre e nascite di bimbi con malformazioni”. Chambers accusa inoltre Dio di aver “distribuito, in forma scritta, documenti che servono a trasmettere paura, ansia, terrore e incertezza, al fine di ottenere obbedienza” da parte degli uomini. Si riferisce cioè alla famosa bibbia, che da Spinoza in poi ha iniziato a essere sempre più smascherata e sempre più presa per quel che è: un “Mein Kampf” scritto prima in ebraico antico e poi tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, e per fortuna che c’è quel “quasi”. Continua a leggere