Dall’economia alla finanza

Qual è la differenza fondamentale tra economia e finanza? La differenza sta nel fatto che per circa mezzo millennio (ma se guardiamo l’Italia comunale dobbiamo raddoppiare il periodo) il capitale è stato usato per produrre beni industriali (o comunque manifatturieri); oggi invece il capitale come denaro pretende di autogestirsi e di dettare legge anche alla produzione. La moneta, figlia legittima della merce, si sta ribellando contro la propria madre. E una madre severa non può far nulla contro una figlia viziata.

In questo momento le banche, gli istituti finanziari e di credito, gli speculatori di borsa sono i veri protagonisti della vita economica del mondo, sia esso industrializzato o no. Stiamo assistendo a un passaggio epocale, analogo a quello che nel mondo romano portò alla supremazia degli imperatori-generali sul Senato, composto prevalentemente dai latifondisti e da una borghesia arricchitasi con lo sfruttamento delle colonie, gli appalti, la compravendita degli schiavi, l’usura ecc.

La finanziarizzazione moderna dell’economia è iniziata dopo la guerra civile americana, con la prestigiosa ascesa della borsa di New York (1869): da allora l’andamento della borsa è diventato un termometro essenziale dell’andamento delle varie economie. Le principali crisi economiche hanno avuto nella borsa il loro epicentro. La prima fu quella del 1873, seguita dalla crisi del 1890 e da quella del 1907.

Queste crisi contribuirono non poco allo scoppio della I guerra mondiale, la quale, come un effetto domino, portò al crac del 1929, il quale, a sua volta, portò allo scoppio della II guerra mondiale. Gli effetti dei disastri finanziari sono sempre di lunga durata. Alla catastrofe della I guerra mondiale l’unica alternativa che il capitalismo riuscì a porre fu la dittatura dei regimi nazi-fascisti, i quali però, essendo economicamente fallimentari, furono costretti a far scoppiare la II guerra mondiale. E la fine di questa guerra, molto più devastante della prima, comportò la nascita dello Stato sociale, che voleva essere la risposta “borghese” al socialismo statale che s’andava diffondendo nell’Europa orientale, in Cina e in altri paesi ancora.

A partire dagli anni Ottanta i grandi capitali di tutto il mondo hanno iniziato a smantellare lo Stato sociale (deregulation), cercando di porre le condizioni per cui divenga necessario ripristinare l’idea, in nome dell’anticomunismo, di una dittatura militare, che è più facile da gestire sul piano politico e meno onerosa su quello economico. Almeno in teoria. Queste dittature infatti comportano sempre, sia come causa che come effetto, un generale impoverimento della società, cui si cerca di rispondere aumentando la tensione a livello internazionale, cioè subordinando la politica estera a quella militare, nel senso che tutto il peso delle contraddizioni interne viene scaricato all’esterno.

La dittatura, più che degli imprenditori (in mezzo ai quali vi sono livelli di fatturato incredibilmente diversificati), è oggi un’esigenza dell’alta finanza, i cui interessi sono abbastanza omogenei, persino a livello internazionale, per quanto qui la parte del leone venga svolta dagli Usa, che controllano il FMI, la Banca Mondiale, il WTO ecc.

Cos’è che spaventa di più l’alta finanza da indurla a volere la dittatura? Non è forse stato sufficiente il crollo del socialismo di stato per rassicurarla?

L’alta finanza s’è arricchita grazie all’industria, la quale, estorcendo plusvalore ai propri lavoratori, finiva con l’ingrassare soprattutto le banche, che avevano meno rischi delle imprese, anche se una pessima gestione degli enormi capitali accumulati ha poi portato alcune di esse a clamorosi crolli (soprattutto negli Usa), e molte altre le avrebbero seguite a ruota se non fossero intervenuti gli Stati sociali dei vari paesi, i quali temevano seriamente, in caso di crac bancari o borsistici, delle ripercussioni rivoluzionarie.

Gli istituti finanziari si sono trovati a gestire dei patrimoni enormi e, come spesso succede in questi casi, hanno cominciato a fare investimenti sbagliati, oppure a promettere cose che poi non sono riusciti a mantenere (p.es. degli alti tassi di rendimento).

Le banche hanno cominciato a indebitarsi e gli Stati, già indebitati per conto loro, non sempre sono stati in grado di coprire i debiti delle loro banche. Alcune, per quanto imponenti, han dovuto chiudere.

Quando una banca fallisce ci rimettono anzitutto i suoi risparmiatori, e anche coloro che hanno bisogno di crediti (mutui per farsi una casa o per avviare o ristrutturare un’attività produttiva). Gli Stati han cercato di salvare le banche, ma le banche non stanno salvando le imprese, né favorendo la nascita di nuove attività produttive.

La finanza sta usando il debito per ricattare l’economia produttiva e per ricattare anche gli Stati, il cui aspetto “sociale” è sicuramente molto costoso, anche perché gli Stati capitalisti non fanno pagare tasse adeguate ai ceti più benestanti e meno che mai a quelli che possono sfuggire i controlli fiscali.

A livello mondiale la grande finanza si sta accorgendo di alcuni aspetti importanti:

  1. il Terzo Mondo non è in grado di pagare i propri debiti e, di fronte alle proprie crisi finanziarie, tende a optare per soluzioni che non piacciono al grande capitale (p.es. vengono nazionalizzate le risorse energetiche o strategiche);
  2. un paese come la Cina sta diventando troppo competitivo, con dei ritmi di crescita impensabili per qualunque paese capitalista (è peraltro il maggiore creditore degli Usa);
  3. l’euro è una moneta troppo forte e un’Europa troppo unita, che rischi di inglobare anche la Russia, fa decisamente paura agli Stati Uniti. Di qui i continui attacchi speculativi contro i paesi più deboli della Unione Europea, affinché da un loro default si possa ottenere la crisi anche di quelli più forti.

In questo momento solo due paesi possono avere interesse a minacciare la stabilità dell’occidente: gli Stati Uniti, che hanno bisogno di una dittatura militare per sopravvivere, in quanto i loro debiti sono enormi e i loro avversari economici cominciano a preoccuparli seriamente; oppure la Cina, che al cospetto di un crollo del sistema economico occidentale, avrebbe tutto da guadagnare, ponendosi come unica alternativa praticabile. I suoi capitali infatti sono enormi (frutto di un colossale sfruttamento interno di manodopera sottopagata): possono mandare in crisi intere nazioni soltanto usando la Borsa in maniera spregiudicata.

I cinesi hanno il vantaggio di controllare la gran parte del debito americano e di poter gestire i loro capitali in chiave strategica, in quanto l’area pubblica (controllata da un partito unico e da uno Stato centralista) politicamente è dominante rispetto a quella privata. Le decisioni possono essere prese molto in fretta: cosa che nessun paese occidentale può permettersi, in quanto qui la politica è subordinata all’economia e, oggi, l’economia alla finanza.

Berlusconi riattacca il disco rotto della lotta al comunista. Sentiamo cosa dice Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Partito dei Comunisti Italiani

Ma che fine hanno fatto i comunisti, di cui Berlusconi  ha sempre parlato in continuazione come fossero orde pronte a qualunque sopruso? E lo sapevate che Romano Prodi insegna economia ai quadri del partito comunista cinese? E che Cina, Giappone e Coree stanno comprando interi pezzi d’Africa anche per mandarvi ad abitare centinaia di migliaia di propri cittadini? Ce lo rivela in questa intervista Oliviero Diliberto, ex ministro della Giustizia nel governo D’Alema e rieletto di recente segretario del Partito dei Comunisti Italiani (PdCI).

Domanda – Berlusconi si è dimesso. Lei ha brindato?

Ovviamente! Però per ubriacarmi aspetto la fine della legislatura. Infatti, pur nella gioia immensa per l’insperata suo sfratto da palazzo Chigi, il mio è stato un brindisi robusto, ma senza ubriacatura.  Berlusconi non è morto, è solo uscito da palazzo Chigi, ma resta ben radicato nel parlamento. Che userà per condizionare il più possibile il governo Monti, ovviamente non per motivi politici, ma solo per continuare a fare gli interessi delle proprie aziende. A partire da quelle televisive senza le quali chissà dove sarebbe…. Forse già ad Hammamet, anche se lui come è noto preferisce Antigua.

E ora… Continua a leggere

La facoltà della memoria storica

La memoria è una facoltà molto particolare, dalle potenzialità incredibili. La memoria non è solo una cosa che riguarda il nostro passato personale (in questo caso sarebbe meglio parlare di “ricordo”). La memoria è un qualcosa di storico, che riguarda l’intero genere umano.

In un certo senso tutti, a prescindere dal tempo e dallo spazio, ci ricordiamo cose comuni, poiché le sentiamo nella stessa maniera. Nella memoria infatti è implicito il desiderio, l’emozione, la sensibilità… Nel senso che vi sono cose che non si possono dimenticare, poiché sembrano far parte del Dna della nostra specie, come p.es. quando amiamo qualcuno o quando qualcuno di caro ci muore. Son cose che riaffiorano sempre alla mente, anche a distanza di molti anni, tant’è che finiamo col provare gli stessi sentimenti della prima volta. Questo accade in tutti.

Ma la memoria è storica anche per un’altra ragione. Quando, nei libri che leggiamo, vediamo esperienze di dolore, di sofferenza morale o materiale, noi ci chiediamo sempre come avremmo potuto risolverle, anche se, rispetto al nostro presente, esse sono distanti migliaia di anni. Noi guardiamo il passato cercando di immedesimarci nelle situazioni e nei personaggi che gli appartengono.

Lo facciamo istintivamente, come se fra loro e noi non ci fosse alcuna barriera insormontabile a dividerci. La differenza sta solo negli aspetti formali, negli strumenti che si usano: la sostanza invece è la stessa.

Se sentiamo fortemente i problemi del presente, il passato ci può essere più vicino di quanto non lo sia stato per chi lo viveva con una consapevolezza superficiale. Per certe cose noi possiamo avere la medesima memoria di chi ci ha preceduto di secoli e secoli.

Quali cose è presto detto: il senso della libertà, della giustizia, della verità, dell’onestà… Noi possiamo capire chi ha sofferto ingiustamente nel passato, meglio di quanto abbia potuto farlo lui stesso o un suo contemporaneo. Dipende dall’intensità con cui si affrontano le cose.

Noi abbiamo memoria della sofferenza di tutta la storia e non riusciamo a dimenticare nulla, anzi preferiamo immedesimarci con la sofferenza di tutti e ci chiediamo sempre cosa avremmo fatto al loro posto, e ci duole il fatto di non poter parlare coi diretti interessati e di doverci inventare degli ipotetici dialoghi.

Sarebbe bello poter ricapitolare, tutti insieme, la storia del genere umano, per poterci chiarire sul perché delle scelte compiute. Abbiamo bisogno di fare chiarezza, ripulendo la nostra memoria dalle incrostazioni dei pregiudizi.

Una nuova periodizzazione della storia

Una delle più grandi disgrazie dell’umanità è stata la scoperta dell’uso dei metalli, la metallurgia, che gli storici invece definiscono come la più importante innovazione tecnologica del mondo antico, insieme alla ruota e all’aratro.

Con la metallurgia l’uomo smette definitivamente d’essere “naturale”, soprattutto quando arriva al “bronzo”, che in natura non esiste. Comincia in sostanza a sovrapporsi a ciò che l’ambiente naturale gli mette a disposizione. Fino a quel momento infatti – cioè per milioni di anni – aveva usato la pietra, l’osso, il legno, l’avorio… tutto quello che la natura gli offriva e che si poteva facilmente trovare, sostituire, riciclare e riconvertire in altro.

Era l’abbondanza stessa della natura che rendeva inutile l’esigenza di utilizzare i metalli. Quindi si può presumere che tale esigenza sia maturata anzitutto in un territorio molto ostile, impervio, difficile da vivere (p.es. le paludi o le aree acquitrinose e melmose dei fiumi che esondano periodicamente); territori prodottisi a causa di imprevisti o improvvisi mutamenti climatici o di errati comportamenti umani. Non è infatti da escludere che le cosiddette “civiltà” siano nate presso popolazioni disadattate o emarginate o addirittura escluse dal consesso di altre popolazioni, a causa di certi loro atteggiamenti.

Non dimentichiamo che sono state proprio queste popolazioni sui generis che, per giustificare taluni atteggiamenti arbitrari, hanno inventato la religione, la quale non ha solo la funzione di reprimere chi non si adegua al regime dominante, ma anche di legittimare la disuguaglianza sociale (tra uomo e uomo e tra uomo e donna), che poi si traduce in oppressione dell’uomo nei confronti della natura. Dio sostituisce la natura quando un particolare ceto sociale vuol far valere i propri interessi su una collettività e si serve appunto della religione per far credere che i propri interessi appartengano all’intera collettività.

In origine ciò che fu insensato fu il passaggio dall’agricoltura allo sviluppo urbano. Già il passaggio dal nomadismo alla stanzialità (che gli indiani nordamericani sino alla metà dell’Ottocento non avevano mai conosciuto) era foriero di rischi imprevedibili. Quando poi, nella stanzialità, si passò all’urbanizzazione, l’uso sistematico dei metalli divenne inevitabile: rame, stagno, bronzo, ferro, oro, argento… E coi metalli non si facevano solo oggetti d’uso domestico, ma anche armi, e non tanto per cacciare quanto piuttosto per fare guerre di conquista e di sterminio.

E siccome le cave, le miniere, le fonti di rifornimento erano poche e facilmente esauribili (non essendo rinnovabili), il bisogno di ampliare i mercati o d’impadronirsi di territori altrui divenne sempre più forte. S’era imboccata una via irreversibile, che rendeva tutto innaturale.

La storia è diventata col tempo un gigantesco mattatoio tra popolazioni dedite alla cosiddetta “civilizzazione”, sia che questa fosse espressamente voluta, sia che fosse passivamente ereditata: in entrambi i casi infatti s’è dovuta imporla con tutta la forza e l’astuzia possibile a quelle popolazioni ancora caratterizzate dall’ingenuo collettivismo dell’innocenza primordiale.

A volte queste aggressive popolazioni sono state sconfitte militarmente da altre che, dal punto di vista della “civilizzazione”, erano più indietro (perché p.es. ancora nomadiche, prive di città ecc.), ma col tempo queste popolazioni tecnologicamente più arretrate sono state assorbite, hanno “modernizzato” il loro stile di vita, si sono lasciate corrompere, diventando come le popolazioni che avevano sconfitto (vedi p.es. i “barbari” nell’alto Medioevo europeo).

Il virus dell’antagonismo sociale si è lentamente ma progressivamente diffuso in tutto il pianeta. Le catastrofi epocali che questo stile di vita ha prodotto non sono mai state sufficienti per ripensare i criteri che determinano il concetto di “civiltà”. Tutto quanto è anteriore a un certo periodo noi continuiamo a chiamarlo col termine di “preistoria”.

Ecco perché dobbiamo ripensare i criteri di periodizzazione con cui siamo soliti distinguere i periodi storici. La civiltà è una sola, quella umana. Semmai sono le forme a essere diverse. Da una storia fondata sul collettivismo democratico siamo passati a una storia basata sull’antagonismo sociale, gestito, a seconda dei casi, da gruppi privati (monopolistici) o da istituzioni statali (burocratiche). I gruppi privati sono tipici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti (dove lo Stato è alle loro dipendenze); le istituzioni statali sono invece tipiche di molti paesi asiatici (anzitutto la Cina, ma il collettivismo forzato ha caratterizzato anche tutto il cosiddetto “socialismo reale”).

Il momento è grave. Un buon motivo per farci due risate alla faccia del Trota

Facciamoci nonostante tutto due risate. Nel web non si contano più le battute sul figlio di Umberto Bossi, Di quel Renzo Bossi ribattezzato “il Trota” da quando il padre lo ha definito “più che un delfino una trota” si ride ovunque. In verità ci sarebbe da piangere, visto quanto si mette in tasca del danaro pubblico grazie alla sistemazione nella Regione Lombardia procuratagli dal paparino, l’arcitaliano senatùr Umberto Bossi. Per il quale evidentemente l’italianissimo “Tengo famiglia!” più che un modo di dire è una regola aurea.

- Il Trota ha detto che l’uva passa e manco saluta.

- Il Trota ha detto che ha provato a vendere accendini ai semafori, ma non ha trovato nessun semaforo che fumasse.

- Il Trota ha detto che una volta ha provato a sniffare coca ma gli sono rimasti incastrati nel naso i cubetti di ghiaccio e il limone

- Il Trota ha detto che lo spirito santo è quello che ti fa prendere delle sbronze della madonna!

- Il Trota riceve lezioni gratis dal Cepu. Paga per quello che capisce.

- Da quando il Trota si è iscritto al Cepu l’azienda può star tranquilla per i prossimi 15 anni.

- Il Trota ha chiesto al tutor del Cepu se agli esami deve presentarsi digiuno.

- Il Trota ha detto che nelle biblioteche dovrebbero esserci solo porte a libro. Continua a leggere

Che cos’è l’ignavia?

Noi siamo destinati a ripetere le cose, ma sempre in forme diverse, proprio perché gli effetti negativi ch’esse ci procurano, modificano il livello di consapevolezza del bene comune.

Dovremmo però metterci nelle condizioni di troncare questa spirale perversa, questa coazione a ripetere, poiché se è vero che il ripetere fa parte del ciclo della vita umana, e in fondo della stessa natura, cui apparteniamo, è anche vero che dovremmo basarci soltanto sul meglio, senza sentirci obbligati, ogni volta, a sperimentare il peggio.

Purtroppo però, non sapendo più noi cosa sia il vero bene, in quanto abbiamo voluto abbandonare il comunismo primitivo ed eliminato tutti coloro che nella storia, in un modo o nell’altro, con maggiore o minore consapevolezza, volevano ripristinarlo, sembra che l’unica possibilità che ci resta (di sopravvivere o di resistere dignitosamente), sia quella di far tesoro della negatività, nella speranza di non dover reiterare gli enormi errori già compiuti. Possiamo cioè arrivare al bene attraverso il male, all’ovvia condizione di volerlo davvero.

Sotto questo aspetto non c’è alcun bisogno di guardare la storia in maniera tragica. La vera tragedia infatti non sta tanto nel male che si compie, quanto piuttosto nell’incapacità di trarne profitto per compiere delle svolte decisive verso un’alternativa, sottraendosi al ciclo infernale dei corsi e ricorsi.

La vera tragedia è la perdita di tempo, è la rassegnazione con cui s’accetta qualunque decorso della storia. E’ questa ignavia che meriterebbe d’esser messa all’inferno, poiché essa non è, posta in questi termini, un semplice fatto personale, come nella Commedia dantesca, ma un’ipoteca sul futuro della storia, un peso insopportabile sullo sviluppo delle generazioni.

Se affrontassimo con decisione e lungimiranza le conseguenze dei nostri errori, eviteremmo certamente di ripeterli in altre forme e modi. Le dittature (esplicite o, come quelle occidentali, mascherate dal parlamentarismo) dovrebbero servirci per capire il valore della democrazia, quella vera, non per passare continuamente da una dittatura all’altra, in un crescendo di orrori e tragedie, col rischio di annientare per sempre la nostra libertà, salvo gli intermezzi in cui ci lecchiamo le ferite e in cui nuove mistificazioni, ancora più sofisticate, ci fanno vedere la realtà come Alice nel paese delle meraviglie.

Se ci pensiamo, tutta la storia della fase imperiale della Roma classica ha pagato duramente la mancata realizzazione della democrazia durante la fase repubblicana. Ci sono volute le popolazioni cosiddette “barbariche” per ridare libertà non solo agli schiavi catturati in guerra ma anche agli stessi cittadini romani ridotti in schiavitù per i debiti. Ma quanti secoli s’è dovuto soffrire?

Anche nel basso Medioevo tutti i tentativi abortiti d’impedire la nascita della borghesia, non hanno fatto altro che favorire lo sviluppo impetuoso del capitalismo industriale vero e proprio, legittimandolo sul piano dei valori, facendolo diventare “cultura dominante”.

Ecco dunque che cos’è l’ignavia: è l’illusione di credere che i poteri forti, vedendo la debolezza della società civile, abbiano meno motivi di comportarsi in maniera arrogante. L’ignavia è il timore che il proprio sacrificio sia inutile per la causa della libertà individuale e, insieme, della giustizia collettiva. L’ignavia è la falsissima idea di far coincidere la giustizia sociale col mero conseguimento di una libertà personale. E’ cioè l’accontentarsi di un vantaggio individuale, invece di estenderlo a quante più persone possibili.

Gli ignavi sono peggio dei nemici dichiarati, proprio perché spendono parole sopraffine per arrendersi al sopruso, oppure fingono soltanto di opporvisi.

La stragrande maggioranza dei credenti può essere considerata indifferente alle sorti dell’umanità. Quando un credente si fa ammazzare, lo fa per difendere il suo credo personale, al fine di rivendicare una libertà di coscienza che andrà poi a usare contro la credenza o la non-credenza altrui.

Quand’anche infatti si trovasse un credente capace di lottare contro le assurdità del suo tempo, non lo farebbe certo in nome della propria religione, poiché ogni religione è sempre stata debole coi forti e forte coi deboli. Non è possibile liberarsi dell’ignavia se non ci si libera della fede.

La questione della riproduzione tra religione e sessualità

Quando sessualità vuol dire soltanto “riproduzione”, quando cioè in ogni atto sessuale esiste la possibilità di una fecondazione, e quando la riproduzione è una fonte di ricchezza per l’intera collettività, che così è in grado di espandersi e di fortificarsi, posto che vi siano sufficienti risorse per la sopravvivenza del collettivo, storicamente non viene mai usata la sessualità in chiave etico-religiosa. L’unico divieto è quello dell’incesto, di cui si dovettero scoprire molto facilmente gli inconvenienti fisiologici.

La sessualità, per milioni di anni, venne considerata come un semplice strumento tecnico per ottenere un fine pratico: la riproduzione della specie. Probabilmente anzi in epoca preistorica la sessualità veniva usata come tra gli animali, unicamente a fini riproduttivi, e molto probabilmente dipendeva dalla ricettività o disponibilità della femmina, che doveva portarne l’onere maggiore.

Non potevano esserci “perversioni sessuali”, poiché una cosa del genere presume già la separazione della sessualità dalla riproduzione. La religione nasce o subentra quando esiste già la possibilità di compiere questa separazione, la quale è stata possibile soltanto dopo che l’uomo ha assunto un atteggiamento di superiorità nei confronti della donna, cioè quando si è fatto valere il principio maschile della forza su quello femminile della debolezza.

Tale prevaricazione è stata la conseguenza di una scissione avvenuta nell’uomo stesso: il maschio che non sa più chi è (perché ha rotto il suo rapporto con la natura e comincia a vedere il proprio simile come un rivale), pensa che un modo per “ritrovarsi” sia quello di dominare la donna.

La sessualità viene slegata dalla riproduzione con la nascita delle città, col dominio delle città sulla campagna, dei poteri intellettuali su quelli manuali, del commercio-artigianato sull’agricoltura-allevamento e così via. Se si stacca la sessualità dalla riproduzione, la donna diventa un mero oggetto sessuale per il piacere dell’uomo (piacere fisico o economico, a seconda del tipo di sfruttamento).

La fine della preistoria ha comportato la fine dell’uguaglianza dei sessi e l’inizio dell’uso strumentale della differenza di genere. L’eccessiva importanza erotica che si dà alla sessualità è frutto di un’alienazione dei rapporti sociali, è la conseguenza del prevalere dell’individualismo sul collettivismo.

La religione (in particolare quella cattolico-romana, che pretende una certa visibilità politica) interviene proprio su questa alienazione, appropriandosene, per poter esercitare un controllo sulle persone. Essa obbliga ad associare sessualità a riproduzione senza far nulla per creare i presupposti che rendono quell’unità un fatto naturale, spontaneo, cioè senza far nulla per superare gli ostacoli che impediscono di associare in maniera naturale sessualità a riproduzione o che impediscono di considerare la sessualità soltanto come uno strumento di piacere.

Da un lato quindi la religione conferma l’individualismo delle società antagonistiche, dall’altro invece, al fine di crearsi un proprio spazio di legittimità, associa la sessualità fine a se stessa alla colpa. In tal modo fa sentire in colpa chi, in quell’antagonismo sociale, subisce la volontà del più forte. Non solo, ma anche tra i più deboli, la religione fa sentire la donna più colpevole dell’uomo.

L’ipocrisia della religione sta proprio in questo, che, pur partendo da un’istanza giusta, quella di colpevolizzare la sessualità fine a se stessa, se ne serve per confermare le contraddizioni sociali che la rendono inevitabile.

La psicanalisi freudiana è intervenuta proprio su questa ipocrisia, facendo in modo che il credente (sessualmente frustrato) cominciasse a vivere la sessualità separata dalla riproduzione senza alcun senso di colpa, cioè liberandosi del proprio rapporto di soggezione nei confronti della chiesa. Anch’essa, sul versante opposto a quello della fede, ha contribuito a giustificare l’antagonismo sociale. Ha semplicemente diminuito il peso di una contraddizione, abbassando il tasso di moralità. E tale operazione intellettuale è passata alla storia come una forma di “emancipazione borghese”.

Vita e Scrittura. Riflessione metalinguistica

Quando si scrive una qualunque cosa, bisogna arrivare a un punto oltre il quale deve esistere la vita allo stato puro, cioè non mediato dalla scrittura stessa, che è appunto “assenza di vita”.

Non ci si appropria della vita attraverso la scrittura, che non ha neppure il potere di rappresentarla adeguatamente. La vita può essere rappresentata solo da se stessa, come qualunque altro sentimento o valore umano, e la scrittura, in tutte le sue forme, è solo una forma di illusione (che va smascherata); non foss’altro – nel migliore dei casi – che per una ragione molto semplice: tutto quello che la scrittura tocca, diventa “passato”. Anche quando parla del futuro, lo schematizza in maniera arbitraria, in quanto lo fissa su una determinata ipotesi.

E che la scrittura sia un mezzo molto limitato, lo dimostra il fatto che quando un autore vuole diversificare le proprie ipotesi interpretative, cade sempre in un insopportabile o insostenibile artificio retorico o intellettualistico, usato con l’intenzione di intrigare, di suscitare un interesse, ma che sortisce soltanto l’effetto di riempire un vuoto di noia. Spesso queste diversificazioni meramente logico-astratte vengono utilizzate per produrre opere in serie (commerciali), il cui valore culturale, esistenziale, spirituale è prossimo allo zero (si vedano p.es. i gialli, l’horror, il noir, i romanzi rosa tipo Harmony, le saghe alla Harry Potter, ma anche certi raccolti cervellotici di Pirandello, ecc.).

Una scrittura potrebbe avere una qualche utilità se anzitutto chiarisse i limiti (epistemologici) entro cui si muove. Purtroppo però chi scrive ha proprio, generalmente, la pretesa contraria, e cioè quella di mostrare una solida coerenza interna (espressa in positivo o in negativo), che nella realtà, nella vita (propria o altrui) non esiste mai, in senso stretto. Una coerenza assoluta può anche essere una forma incredibile di fanatismo, di folle miopia.

Il pregio fondamentale dell’esistenza sta proprio nella dialettica degli opposti, che non può essere ipostatizzata o cristallizzata in alcuna teoria, neanche in una che facesse di questa stessa dialettica il criterio dell’agire.

La scrittura è sempre una finzione, un inganno, un’apologia se non addirittura una sorta di agiografia di qualcosa o di qualcuno (in maniera diretta o indiretta, poiché qualunque buon scrittore sa che la migliore apologia è quella in cui l’oggetto non è palese ma occulto).

Una scrittura ha valore solo se si auto-nega, cioè solo se mostra i suoi stessi limiti, rispetto alle esigenze della vita. Non solo, ma chiunque si accinga a usare la scrittura in questa maniera, deve sapere che il tempo che le dedica, inevitabilmente lo sottrae alla vita. E dovrebbe altresì chiedersi, in tal senso, se, a parità di fatica, non si ottengono cose migliori, o semplicemente maggiori, dedicandosi alla vita pratica che non elaborando opere teoriche. Lenin lo disse chiaramente: è meglio farla, la rivoluzione, che scriverci sopra. Uno non dovrebbe mai arrivare al punto da indurre la propria moglie a dire: “è in biblioteca ad ammazzare il tempo”.

La scrittura può servire per riflettere sopra un’esperienza di vita, ma non ha più potere della parola. La scrittura è un’operazione che si compie in solitudine; la parola è un mezzo che implica, in una situazione normale, la presenza almeno di un’altra persona; tant’è che quando vediamo uno parlare da solo, sospettiamo che sia matto. Non lo diciamo anche di uno che scrive da solo, poiché ci appare come un intellettuale (o anche un artista) in atto di produrre qualcosa. Solo dopo aver esaminato il suo prodotto, ne scopriamo i pregi e i difetti.

Beato quello scrittore che non permetterà a un critico di dire: “Era arrivato a un passo dal capire l’inutilità della scrittura, ma non fece in tempo”. Beato soprattutto quello scrittore che, dopo tanto scrivere, non decide di togliersi la vita per non averla saputa vivere a causa della propria scrittura. La “retta via” può essere smarrita in tanti modi, ma certamente non la si recupera scrivendo un’imponente Commedia.

Mettiamo un fiore sulla tomba di quanti han cercato disperatamente nella propria scrittura una ragione della propria vita, senza riuscire a trovarla. L’elenco è lunghissimo: Kierkegaard, Nietzsche, Pavese, Hemingway, Primo Levi, Sylvia Plath, Majakovskij, Esenin, Antonia Pozzi, Emilio Salgari, Virginia Woolf e tanti altri.

La comunicazione deve sempre presumere una relazione (quella minima è interpersonale); tuttavia la scrittura non diventa più significativa quando un testo viene scritto a quattro mani. Se si vuole usare uno strumento comunicativo in maniera relazionale (il che non necessariamente vuol dire in maniera “razionale”), cioè in maniera che l’opera sia il prodotto di qualcosa di “collettivo”, il frutto di una tradizione comune, di valori di vita condivisi, la scrittura non è il mezzo migliore per farlo, in quanto non è olistica, ma intellettualistica, settoriale. La scrittura è un’operazione del cervello, esattamente come la lettura.

Se proprio si vuol scegliere la scrittura, bisogna ch’essa sia poeticizzata al massimo e possibilmente letta o recitata o cantata in pubblico, come in passato i greci facevano col teatro e le gesta epiche degli eroi, i trovatori con le liriche provenzali, i menestrelli con la letteratura cortese, i cantori con le saghe popolari, gli adulti con le fiabe e le favole per i bambini, i sacerdoti con i vangeli per i credenti, gli ebrei coi salmi cantati ecc.

Ma qualunque cosa si faccia con la scrittura, bisogna che la voce, con cui la si usa, arrivi a toccare il cuore e non sia un mero esercizio della mente. E chi non è capace di farlo con la scrittura, lo faccia con la pittura o con la musica, che sono arti di una straordinaria bellezza, sicuramente molto più olistiche di qualunque testo scritto. Un popolo che pretende di definirsi “popolo del libro”, è solo pedante e cavilloso.

Israele colto con le mani nel sacco delle frottole “atomiche” all’AIEA per spingere alla guerra (anche) contro l’Iran?

Questa volta Israele pare proprio sia stato colto col sorcio in bocca, come si usa dire a Roma di qualcuno beccato con le mani nella marmellata, cioè in flagrante. Un sorcio in bocca per spingere alla guerra contro l’Iran con la solita scusa delle bombe atomiche a gogò, così come il precedente sorcio “atomico” in bocca agli Usa aveva “fruttato” l’invasione dell’Iraq. Anche in quel caso, con i buoni uffici dei servizi segreti israeliani sempre pronti a sfornare dossier debitamente taroccati. Come è noto, l’Aiea è l’agenzia Onu che vigila contro la proliferazione di bombe atomiche, ma solo ed esclusivamente nei Paesi che hanno firmato il Trattato di Non Proliferazione. Israele NON l’ha firmato, perciò le sue centinaia di atomiche se l’è prodotte senza rotture di scatole né denunce o allarmi di un qualche tipo. Peraltro, secondo il libro “L’Iran e la Bomba” di Giorgio Frankel, Israele possiede anche le ben più terribili bombe H e forse anche le bombe N, cioè a neutroni, ordigni che ammazzano gli esseri viventi ma non danneggiano le costruzioni: vale a dire, una forma perfetta di “pulizia” se non etnica quanto meno “nazionale”. Più o meno un anno fa qualcuno ha recapitato all’Aiea un dossier che “dimostrava” come l’Iran fosse ormai a un passo dal produrre ordigni nucleari. Peccato che all’Aiea qualcun altro s’è accorto che nel documento, redatto in lingua farsi, quella più parlata in Iran, ricorrevano termini che nessun iraniano usa più: guarda caso, li usano solo i membri della comunità ebraica locale…. E taciamo sulla “inspiegabile” uccisione di scienziati nucleari iraniani e sul virus informatico che ha paralizzato per qualche mese i computer addetti al controllo e al funzionamento dei reattori nuvleari iranianu tilizzati per produrre corrente elettrica. Guarda caso, qualcuno s’è accorto che nella sequela di termini che componevano il virus ce n’era uno che figura nella bibbia…. Continua a leggere

Ballando sull’orlo della fine dell’Europa: “Venghino, siòri, venghino: dopo le panzane sulle atomiche di Saddam ora vi rifiliamo le panzane sulle atomiche di Gheddafi e di Ahmadinejad”. Così Israele, forse in interessata compagnia di Londra, può realizzare il vecchio sogno di bombardare l’Iran, uno dei due motivi per il quale è stato eletto Netanyahu (l’altro è impedire a tutti i costi che nasca lo Stato palestinese)

E’ difficile da credere, ma ormai viene dato per certo che con la classica scusa della “produzione di bombe atomiche”, sperimentata con successo dagli USA per invadere l’Iraq, Israele attaccherà quanto prima l’Iran, con l’appoggio degli inglesi, per mettere anche la Casa Bianca di fronte al fatto compiuto. Il presidente Obama infatti, per timore di perdere voti, è contrario a una tale azione militare prima della sua rielezione, ma alcuni collaboratori lo esortano invece ad autorizzarla e appoggiarla perché ricompatterebbe l’elettorato riportandolo di sicuro alla Casa Bianca e scongiurando la temuta candidatura di Hilary Clinton, sempre più popolare nell’elettorato non solo del Partito Democratico. E’ dal 2006 che l’attacco militare all’Iran da parte degli Usa e di Israele viene dato per imminente e certo, senza però che sia poi stato sferrato. Ecco per esempio cosa dichiarava nel 2006, poco dopo la terza invasione israeliana del Libano, Seymour Hersh, il famoso giornalista americano che ebbe il coraggio di denunciare il massacro di tutti gli abitanti di My Lai compiuta dai marine in Vietnam e che per primo ha denunciato le torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib:

L’amministrazione Bush era molto direttamente impegnata nel pianificare la guerra libanese-israeliana. Il presidente Bush ed il vice presidente Cheney erano convinti che il successo della campagna militare israeliana in Libano avrebbe non soltanto raggiunto gli obiettivi desiderati da Tel Aviv, ma sarebbe anche servito come preludio ad un possibile attacco contro le strutture nucleari iraniane”.

La scusa è anche oggi quella del “pericolo atomico” iraniano. Nella vulgata corrente infatti l’Iran sarebbe così idiota e suicida da produrre atomiche per affrettarsi a lanciarne già la prima su Israele, nonostante Israele di atomiche ne possieda circa 400 e possa quindi cancellare non solo l’Iran dalla faccia della terra. Senza contare che la signora Clinton ha dichiarato senza arrossire di vergogna che “prima di finire di schierare per il lancio il suo primo missile nucleare l’Iran sarebbe riportato all’epoca delle caverne”, con un olocausto fulmineo di oltre  80 milioni di esseri umani, più o meno quanti ne ha  l’Italia intera. Embé c’è olocausto e olocausto. Quello sulla pelle di 70-80 milioni di iraniani evidentemente per la signora Hilary&C è buono, nonostante sia ben 12-14 volte quello che purtroppo c’è stato davvero per mano dei nazisti. Continua a leggere

Obama e Netanyahu: i palestinesi devono fare solo ciò che conviene a Israele, altrimenti scattano altre rappresaglie

La rappresaglia è arrivata più puntuale di un treno svizzero. “Non resteremo con le braccia conserte verso queste mosse che danneggiano Israele”, aveva avvertito minacciosamente lunedì il premier Netanyahu, molto contrariato per l’ammissione all’Unesco della Palestina, rappresentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Teniamo presente che l’Unesco è l’agenzia creata dall’Onu nel 1946 per occuparsi di educazione, scienza e cultura. Tra i suoi compiti e poteri, anche quello di dichiarare “patrimonio dell’umanità” monumenti, siti archeologici, parchi e anche intere città e metterle così sotto la sua protezione. Meno di 48 ore dopo la minaccia di Netanyahu   il gabinetto ristretto israeliano (i sette ministri più importanti) ha preso una serie di decisioni che è francamente difficile definire eque:
- accelerare la costruzione di 2.000 case per coloni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Di queste nuove abitazioni per israeliani, 1650 saranno costruite nella zona palestinese di Gerusalemme e le altre a sud di Betlemme;
- congelare il trasferimento di fondi palestinesi (dazi doganali e tasse) che Israele è tenuto a raccogliere per conto dell’ANP in base agli accordi di Oslo del ’93;
- minacciare per bocca del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman addirittura la morte definitiva del cosiddetto “processo di pace”, peraltro da sempre frenato proprio dagli israeliani per poter avere tutto il tempo di occupare tramite altri insediamenti di coloni quanta più terra possibile palestinese;
- minacciare il divieto di ingresso in Israele di delegazioni dell’Unesco nonostante sia un organismo dell’Onu. Continua a leggere

Stato, mercato e leggi di natura

Comuni, Signorie, Principati, Stati-Nazione, Imperi… La borghesia s’è sviluppata in maniera progressiva, non perché ha creato un “progresso” per l’umanità, ma perché l’ha fatto lentamente, tant’è che ad ogni grave crisi del suo sistema o stile di vita essa è riuscita, o con la forza o con l’astuzia, a riprendersi, allargando addirittura la propria sfera d’influenza.

Nessuna forza che le si opponeva è mai riuscita a invertire la rotta: nessuno è mai riuscito ad approfittare, definitivamente, delle sue crisi, dei drammi e delle tragedie ch’essa creava. La borghesia ha indotto le masse a credere di poter risolvere i propri problemi semplicemente usando altri mezzi e modi, più potenti dei precedenti.

In quest’ultimo millennio la borghesia non ha fatto altro che aumentare il proprio potere, sottomettendo un numero sempre più grande di persone. La forza, la resistenza, l’abilità e l’astuzia della borghesia nel cercare di sopravvivere e, anzi, di espandersi è stata enormemente sottovalutata.

La borghesia ha avuto buon gioco proprio perché i suoi avversari, che detenevano il potere prima ch’essa riuscisse a imporsi (e cioè le classi aristocratiche, laiche ed ecclesiastiche), non avevano alcun titolo per dimostrare che il loro stile di vita era qualitativamente migliore; tant’è che quando s’è trattato di combattere con le armi il diffondersi dei mercati, quelle classi non si sono mai alleate né coi contadini né con gli operai. Anzi, contadini e operai si sono lasciati coinvolgere, ingenuamente, dalla stessa borghesia, i cui diritti, essendo essa all’opposizione, apparivano più giusti dei privilegi millenari rivendicati da clero e nobiltà.

E quando contadini e operai, insieme alla borghesia, han vinto la loro battaglia contro le classi parassitarie della rendita feudale, essi non han chiesto alla borghesia alcuna vera contropartita: si sono sacrificati per nulla, si sono lasciati ingannare, si sono illusi di poter diventare davvero liberi, di poter addirittura diventare ricchi come i borghesi.

Invece la borghesia li ha traditi subito e, piuttosto che vederli emancipare, liberarsi delle loro catene ancestrali, ha stretto alleanze coi nemici d’un tempo, i quali non chiedevano di meglio.

Dopo essersi guadagnata il potere economico, la borghesia voleva anche quello politico e non era disposta a spartirlo con chi avrebbe potuto contestarla per i suoi metodi disumani d’arricchimento, anche se formalmente leciti, legalmente ineccepibili.

La borghesia ha saputo ingannare le masse meglio di qualunque altra classe sociale. E nessuno ha saputo accorgersi in tempo che quando essa, a causa delle proprie intrinseche contraddizioni, subiva preoccupanti rovesci, quello era il momento giusto per abbatterla. Forse l’unica vera eccezione è stata la rivoluzione d’Ottobre, peraltro tradita subito dopo la morte di Lenin.

Sicché in realtà è stata la stessa borghesia che ha saputo approfittare delle proprie crisi, ampliando ulteriormente i propri poteri. Essa ha creato delle trasformazioni ancora più pericolose delle precedenti.

Il capitalismo, p.es., nacque nell’Italia cattolica, ma si sviluppò nei paesi protestanti. Le guerre di religione in Europa, tra cattolici e protestanti, posero le basi per lo sviluppo impetuoso degli Stati Uniti, paese calvinista per eccellenza. Le due guerre mondiali indebolirono enormemente l’Europa occidentale (soprattutto i due imperi coloniali di Francia e Inghilterra), a tutto vantaggio degli Stati Uniti. Le forze di sinistra s’illusero che due guerre così devastanti sarebbero state sufficienti per frenare lo sviluppo del capitalismo o, quanto meno, per regolamentarlo attraverso uno Stato cosiddetto “sociale”. Invece il capitalismo s’è diffuso in maniera vertiginosa dagli Usa al Giappone, dal Giappone al Sud-est asiatico e poi in tutto il mondo. Le guerre mondiali non hanno fatto altro che spostare il baricentro del capitale dall’Europa occidentale agli Stati Uniti, dall’Atlantico al Pacifico. Le singole nazioni europee si sono distrutte reciprocamente, permettendo a una supernazione, oggi di 300 milioni di abitanti, di dominare incontrastata la scena internazionale.

Oggi, se scoppiasse una terza guerra mondiale e gli Usa venissero sconfitti e crollasse l’intero occidente, come una locomotiva che, deragliando, si trascina con sé tutti i vagoni, nuove supernazioni capitalistiche, come la Cina e l’India, che da sole hanno un terzo di tutti gli abitanti del pianeta, subentrerebbero alle precedenti, senza alcuna difficoltà, avendo esse da tempo acquisito, proprio grazie all’occidente, i criteri per fare affari sui mercati mondiali.

Questo spiega perché il problema non è più solo quello di come abbattere l’attuale sistema, ma è diventato anche quello di come impedire che venga ereditato dall’Asia. E, a tale proposito, i modi fondamentali per poterlo fare sono soltanto due, quelli previsti dalla storia (non dobbiamo inventarci nulla):

  1. sostituire il mercato con l’autoconsumo, che era lo stile di vita antecedente alla nascita dello schiavismo e che, nel periodo medievale, ha convissuto con la rendita parassitaria delle classi feudali e col clericalismo della chiesa romana;
  2. sostituire lo Stato (che nella sua forma embrionale è nato appunto con la nascita dello schiavismo o del servaggio forzato) con l’autogestione di collettivi autonomi, democratici, basati sull’autoproduzione e quindi sull’autoconsumo, disposti al baratto solo per i prodotti eccedenti il fabbisogno quotidiano.

Stato e mercato sono due facce d’una stessa medaglia, che vuole dire, sostanzialmente, “delega di poteri” (politici ed economici), ovvero “rinuncia all’autonomia”, ovvero “spersonalizzazione” o “deresponsabilizzazione”.

Dobbiamo recuperare noi stessi, la nostra identità umana. E, per farlo, non c’è altro modo che lasciarsi guidare dalle leggi della natura.

Il destino che ci attende

Non siamo figli dei nostri genitori più di quanto non lo siamo del genere umano. Non possiamo sentirci vincolati a dei rapporti biologici quando ciò che ci caratterizza come esseri umani è soltanto la nostra umanità. Siamo tutti figli dell’universo e nessuno può pretendere, solo perché padre, di dire a un altro, solo perché figlio, come deve vivere la sua vita.

Gli uomini sanno che senza memoria storica non c’è futuro, ma devono essere lasciati liberi di capirlo da soli, anche perché non tutto, del passato, merita d’essere conservato.

Tutto il genere umano è parte di un destino comune, in cui le forme dell’esistenza possono essere diversissime, ma la sostanza resta sempre la stessa: la libertà, di cui quella di coscienza è in assoluto la più importante.

Il genere umano ha il dovere di comprendere cosa significa essere liberi. I tempi possono essere lunghi o corti, gli errori possono essere tanti o pochi, ma il destino è uno solo, uguale per tutti. E’ da quando è nato lo schiavismo che abbiamo smesso di capire che cosa sia la libertà. E fino ad oggi, nonostante tutti gli sforzi compiuti per vincere l’oppressione, ancora non siamo riusciti a realizzare il nostro compito.

Abbiamo buttato via migliaia di anni, illudendoci di poter superare la schiavitù senza affrontare alla radice il problema della libertà. E così siamo passati da una schiavitù all’altra, mutandone solo le forme, rendendole sempre più subdole e sofisticate.

Un tempo, quando esisteva la schiavitù fisica, esistevano anche tante popolazioni libere, e una speranza di tornare liberi c’era. Oggi è l’intero mondo ad essere sottomesso alla volontà di chi detiene capitali. Che speranza possiamo avere di uscirne? Non possiamo più attendere che altri vengano a liberarci. Dobbiamo farlo da soli. Dobbiamo mettere paura a chi ci domina. E soprattutto dobbiamo porre le basi perché, dopo aver cacciato i mercanti dal tempio, non abbiano la possibilità di ritornarci. Dobbiamo porre le condizioni perché la rivoluzione planetaria non venga strumentalizzata da qualcuno per compiere una controrivoluzione, come i maiali di Orwell.

E’ indubbiamente questo il compito più difficile. E’ infatti più difficile odiare il nemico al punto da volerlo definitivamente abbattere che, una volta abbattuto, non diventare come lui.

L’unica vera condizione per poter affrontare in maniera concreta questo problema è quella di tenerci sotto controllo, cioè quella di creare dei collettivi in cui la responsabilità delle azioni resti personale e diretta, ovvero i poteri delegati siano di breve durata, rivedibili in qualunque momento e mai così ampi da risultare incontrollabili.

Collettivi di questo genere non possono essere molto vasti, altrimenti la democrazia si trasforma inevitabilmente in un qualcosa di formale, appunto perché prevede l’istituto della delega, della rappresentanza parlamentare, che è la principale forma in cui la borghesia esercita la propria dittatura.

Ma perché un collettivo possa essere politicamente autonomo, occorre che lo sia anche economicamente: di qui l’importanza dell’autoproduzione e dell’autoconsumo. Stato e mercato sono due nemici da abbattere. Patti di solidarietà tra collettivi e scambio alla pari di beni eccedenti sono le alternative che dobbiamo realizzare. E dobbiamo farlo anche a costo di opporre generazione a generazione, anche a costo di far fuori i nostri padri.

Sulla cinematografia americana (VI)

In fondo è solo una questione tecnica quella di far credere che chi soffre ha sempre ragione. Se si dovesse analizzare il dolore (fisico o morale) soltanto da un punto di vista etico, non si riuscirebbe ad avere alcuna visione obiettiva delle cose, neppure minima.

Certo, l’obiettività è sempre relativa, ma è importante, per riuscire ad avvicinarvisi il più possibile, sforzarsi di guardare le cose in maniera storica o, se si preferisce, olistica, poiché, se ci si limita a guardarle in maniera soggettiva, che è appunto quella della morale, di sicuro si resterà lontanissimi dalla verità.

Una visione etica della vita, che prescinda totalmente dalla storia (che nelle civiltà antagonistiche è sostanzialmente “storia di lotta di classi”, e quindi storia politica oltre che economica), finisce col diventare del tutto astratta e fuorviante. Basta vedere, in tal senso, di quanti stereotipi si è alimentata la cinematografia americana: cow boy e indiano, militare yankee e vietnamita (o giapponese o nazista ecc.), spia russa e controspionaggio anglo-americano, criminale e poliziotto; fino a poco tempo fa anche maschile e femminile, bianco e nero… tutte categorie predefinite, grazie alle quali è stato ed è ancora possibile farci dei film o dei telefilm in forma seriale, come un prodotto industriale.

Ecco perché diciamo che suscitare una commozione di fronte a una situazione di dolore (fisico o morale) può essere soltanto una questione di abilità tecnica, soprattutto psicologico-comunicativa. In tal senso gli americani, con la loro cinematografia basata sul soggettivismo, sono a dir poco superlativi.

La loro cinematografia è sempre stata maestra nel saper creare dei ruoli prestabiliti, nel saper ottenere determinati effetti (psicologici) sulla base di determinati artifici scenici e recitativi. Là dove è massima la finzione, come appunto nella cinematografia, lì è minima l’identità umana, cioè la possibilità di individuare il lato umano della persona.

L’individuo è caratterizzato solo scenicamente, sulla base di una sceneggiatura ben predisposta, che si deve rispettare alla lettera, proprio perché il prodotto non è “artigianale” ma “industriale”. La tecnica del “far commuovere” o del “far ridere” o del “far ragionare in maniera logica” (si pensi p.es. ai gialli) deve avere un’efficacia planetaria, essendo utilizzata per ottenere un guadagno che prescinda da differenze di qualsivoglia genere: etnico, religioso, geografico, linguistico, culturale… Quando parlano, gli attori devono usare un linguaggio di facile comprensione, dove persino le frasi idiomatiche sono universalmente accettate.

Su set si recita, non si è mai se stessi; anche quando si è convinti di esserlo, si sta sempre recitando un copione prestabilito. Il regista non si pone il compito di trovare delle persone. Deve soltanto trovare gli attori adatti per una determinata parte che lui ha in mente. A ognuno il suo ruolo, la sua funzione. Non ci sono “persone” nei film, ma marionette senza una vera personalità, burattini mossi da fili invisibili.

Gli attori lo sanno benissimo, tant’è che quelli di maggior successo sono anche i più docili, e loro pensano di rifarsi, di questa strumentalizzazione, semplicemente nella fase dell’ingaggio, della contrattazione commerciale. Poi ci sono anche gli attori che s’immedesimano talmente nella loro parte che quasi non riescono più a distinguere la realtà dalla finzione, e vanno in depressione quando qualcuno glielo fa notare.

Un film è riuscito quando fa ridere o quando fa piangere, non quando aiuta a scoprire la verità, o a far riflettere sulle contraddizioni sociali, a meno che la cosiddetta “verità” non sia meramente logica, come nei film ove è necessario scoprire un colpevole, che sono in assoluto quelli più standardizzati. I registi non amano, in genere, gli attori egocentrici, nervosi, agitati, che parlano gesticolando o balbettando o che pronunciano le battute troppo in fretta, senza fare pause, a meno che ciò non serva per fare un film comico.

Naturalmente attori del genere possono esserci in tutti i film, ma non diventeranno mai dei “grandi attori”, non prenderanno mai dei premi, che vengono appunto dati a chi sa meglio spersonalizzarsi. Il miglior attore infatti è quello che non ha una propria personalità (è quello che – come si diceva di Brando – con un occhio piange e con l’altro, contemporaneamente, ride). Non deve far pesare se stesso su ciò che gli viene richiesto, non deve sovrapporsi o cercare delle mediazioni: deve solo lasciarsi fare, anche perché non vede la scena come la vede il regista.

L’attore è semplicemente il “prodotto finito” che deve sostenere finanziariamente quell’enorme background di professionisti che l’ha creato. Non si può sbagliare nella scelta degli attori, anche perché al 99% i film commerciali americani (e lo sono tutti quelli che entrano nel circuito internazionale) vengono fatti proprio sulla base di determinati attori.

Non esiste quasi mai una “storia in sé” da far vedere, ma una storia che gira attorno a uno o più attori: sono loro che la rendono interessante a un pubblico di massa. Ecco perché negli Usa è importantissimo andare a scuola di recitazione, anzi, devono farlo persino quelli che, propriamente parlando, “non recitano”, come p.es. i Presidenti della Repubblica.