Sulla cinematografia americana (VI)

In fondo è solo una questione tecnica quella di far credere che chi soffre ha sempre ragione. Se si dovesse analizzare il dolore (fisico o morale) soltanto da un punto di vista etico, non si riuscirebbe ad avere alcuna visione obiettiva delle cose, neppure minima.

Certo, l’obiettività è sempre relativa, ma è importante, per riuscire ad avvicinarvisi il più possibile, sforzarsi di guardare le cose in maniera storica o, se si preferisce, olistica, poiché, se ci si limita a guardarle in maniera soggettiva, che è appunto quella della morale, di sicuro si resterà lontanissimi dalla verità.

Una visione etica della vita, che prescinda totalmente dalla storia (che nelle civiltà antagonistiche è sostanzialmente “storia di lotta di classi”, e quindi storia politica oltre che economica), finisce col diventare del tutto astratta e fuorviante. Basta vedere, in tal senso, di quanti stereotipi si è alimentata la cinematografia americana: cow boy e indiano, militare yankee e vietnamita (o giapponese o nazista ecc.), spia russa e controspionaggio anglo-americano, criminale e poliziotto; fino a poco tempo fa anche maschile e femminile, bianco e nero… tutte categorie predefinite, grazie alle quali è stato ed è ancora possibile farci dei film o dei telefilm in forma seriale, come un prodotto industriale.

Ecco perché diciamo che suscitare una commozione di fronte a una situazione di dolore (fisico o morale) può essere soltanto una questione di abilità tecnica, soprattutto psicologico-comunicativa. In tal senso gli americani, con la loro cinematografia basata sul soggettivismo, sono a dir poco superlativi.

La loro cinematografia è sempre stata maestra nel saper creare dei ruoli prestabiliti, nel saper ottenere determinati effetti (psicologici) sulla base di determinati artifici scenici e recitativi. Là dove è massima la finzione, come appunto nella cinematografia, lì è minima l’identità umana, cioè la possibilità di individuare il lato umano della persona.

L’individuo è caratterizzato solo scenicamente, sulla base di una sceneggiatura ben predisposta, che si deve rispettare alla lettera, proprio perché il prodotto non è “artigianale” ma “industriale”. La tecnica del “far commuovere” o del “far ridere” o del “far ragionare in maniera logica” (si pensi p.es. ai gialli) deve avere un’efficacia planetaria, essendo utilizzata per ottenere un guadagno che prescinda da differenze di qualsivoglia genere: etnico, religioso, geografico, linguistico, culturale… Quando parlano, gli attori devono usare un linguaggio di facile comprensione, dove persino le frasi idiomatiche sono universalmente accettate.

Su set si recita, non si è mai se stessi; anche quando si è convinti di esserlo, si sta sempre recitando un copione prestabilito. Il regista non si pone il compito di trovare delle persone. Deve soltanto trovare gli attori adatti per una determinata parte che lui ha in mente. A ognuno il suo ruolo, la sua funzione. Non ci sono “persone” nei film, ma marionette senza una vera personalità, burattini mossi da fili invisibili.

Gli attori lo sanno benissimo, tant’è che quelli di maggior successo sono anche i più docili, e loro pensano di rifarsi, di questa strumentalizzazione, semplicemente nella fase dell’ingaggio, della contrattazione commerciale. Poi ci sono anche gli attori che s’immedesimano talmente nella loro parte che quasi non riescono più a distinguere la realtà dalla finzione, e vanno in depressione quando qualcuno glielo fa notare.

Un film è riuscito quando fa ridere o quando fa piangere, non quando aiuta a scoprire la verità, o a far riflettere sulle contraddizioni sociali, a meno che la cosiddetta “verità” non sia meramente logica, come nei film ove è necessario scoprire un colpevole, che sono in assoluto quelli più standardizzati. I registi non amano, in genere, gli attori egocentrici, nervosi, agitati, che parlano gesticolando o balbettando o che pronunciano le battute troppo in fretta, senza fare pause, a meno che ciò non serva per fare un film comico.

Naturalmente attori del genere possono esserci in tutti i film, ma non diventeranno mai dei “grandi attori”, non prenderanno mai dei premi, che vengono appunto dati a chi sa meglio spersonalizzarsi. Il miglior attore infatti è quello che non ha una propria personalità (è quello che – come si diceva di Brando – con un occhio piange e con l’altro, contemporaneamente, ride). Non deve far pesare se stesso su ciò che gli viene richiesto, non deve sovrapporsi o cercare delle mediazioni: deve solo lasciarsi fare, anche perché non vede la scena come la vede il regista.

L’attore è semplicemente il “prodotto finito” che deve sostenere finanziariamente quell’enorme background di professionisti che l’ha creato. Non si può sbagliare nella scelta degli attori, anche perché al 99% i film commerciali americani (e lo sono tutti quelli che entrano nel circuito internazionale) vengono fatti proprio sulla base di determinati attori.

Non esiste quasi mai una “storia in sé” da far vedere, ma una storia che gira attorno a uno o più attori: sono loro che la rendono interessante a un pubblico di massa. Ecco perché negli Usa è importantissimo andare a scuola di recitazione, anzi, devono farlo persino quelli che, propriamente parlando, “non recitano”, come p.es. i Presidenti della Repubblica.