Le inutili alternative

Il problema maggiore delle moderne civiltà è che qualunque tentativo si faccia per risolvere determinati problemi finisce sempre per produrre nuovi problemi, spesso ancora più gravi dei precedenti. Noi sembriamo destinati a ottenere il contrario di ciò che vorremmo.

Prima che le civiltà antagoniste comparissero si doveva cercare di conservare, il più possibile inalterato, tutto il passato, per poter avere delle certezze sul futuro. Oggi invece non abbiamo alcuna cognizione del passato e viviamo alla giornata, del tutto ignari di ciò che ci attende, tanto che qualunque evento, anche disastroso come un crac borsistico, ci giunge assolutamente inatteso e pensiamo che prima o poi si risolva da sé (si pensi solo a quanto furono impreviste le due guerre mondiali).

Purtroppo però non possiamo non far nulla col pretesto che, facendo qualcosa, peggioreremmo la situazione. Se non facciamo niente, le cose peggiorano lo stesso, proprio perché esse sono frutto di rapporti antagonistici, le cui contraddizioni, stante l’attuale sistema che le produce, risultano irrisolvibili.

Infatti, quando si ha l’impressione ch’esse siano meno pesanti da sopportare, è perché il loro carico maggiore è stato trasferito su categorie sociali più deboli. In molti si sta pagando per far contenti i pochi. E questo meccanismo si verifica a tutti i livelli territoriali: locale regionale nazionale continentale mondiale, essendo strettamente intrecciati. P.es. se in ambito nazionale esiste un’imprenditoria che sfrutta la propria componente operaia, esse, insieme, sfruttano le aree del Terzo Mondo.

Insomma non c’è solidarietà tra sfruttati: ognuno se la deve vedere da solo coi propri “padroni”. Il capitale vuole il globalismo per gli scambi commerciali e finanziari e per il mercato del lavoro, ma si opporrebbe con qualunque mezzo, anche il più devastante possibile, all’idea di un’opposizione internazionale al sistema.

Il crollo dell’impero romano (la maggiore società schiavistica del mondo antico) dovremmo vederlo come esempio emblematico, a livello territoriale (in quanto i suoi confini erano abbastanza definiti), di cosa potrebbe accadere al nostro sistema, che è capitalistico, i cui confini non esistono, essendo un fenomeno mondiale.

La differenza, tra allora e oggi, è che a quel tempo esistevano, in Asia e in Europa orientale, molte popolazioni in grado di opporre resistenza all’idea di “schiavismo”; oggi invece l’idea di “socialismo” sembra aver perduto qualunque forza propulsiva. Il motore della nave s’è spento e non possiamo sostituirlo con la vela, perché ci era stato detto che, in nome del progresso tecnologico, non ne avremmo più avuto bisogno. Siamo praticamente in balia dei venti.

Finalmente si protesta in piazza S. Pietro contro l’omertà vaticana sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Proprio mentre dall’Olanda arriva l’ennesimo mega scandalo della pedofilia del clero e della annessa protezione vaticana

Un nuovo scandalo per la pedofilia di troppi sacerdoti scuote la Chiesa. Questa volta tocca all’Olanda, dove sotto la spinta dell’opinione pubblica, la Conferenza episcopale olandese l’anno scorso aveva deciso di istituire una commissione d’inchiesta sugli abusi commessi dai preti pedofili.  I sei membri della commissione includevano un ex magistrato, uno psicologo e doventi universitari. Presidente, l’ex ministro Wim Deetman. L’inchiesta ha riguardato oltre 800 sacerdoti  e ha indagato su quanto accaduto dal 1945 al 2000. Come già per gli Usa, Australia e Irlanda, la conclusione è agghiacciante: gli abusi si contano infatti a decine di migliaia, la Chiesa e il Vaticano li conoscevano bene, ma, come sempre, non hanno mai avuto nulla di ridire e non hanno mai preso iniziative per punire i responsabili degli abusi. Nel rapporto si legge tra l’altro:

- “Il problema degli abusi sessuali era ben noto agli ordini e nelle diocesi della Chiesa cattolica olandese, ma non furono prese le misure appropriate”;

- la Chiesa olandese e il Vaticano “pur sapendo non hanno aiutato le vittime”;

- degli oltre 800 autori di abusi “105 sono ancora vivi”.

Eppure in Italia lo spazio dedicato a questo nuovo orrore è minimo. In televisione non mi pare se ne sia parlato, e non è certo colpa di Minzolini. Nei giornali cartacei e nei loro siti online o non se n’è parlato o se ne è parlato poco e di sfuggita nelle pagine interne e nella loro parte bassa, mai in apertura. E’ interesante notare che si tratta di una omertà stranamente simile a quella che vige sempre riguardo gli abusi e i crimini di Israele contro i palestinesi.

Poco o nullo lo spazio dedicato anche a una iniziativa senza dubbio interessante, ma a mio avviso tardiva. Dopo avere raccolto via Internet oltre 40 mila firme a un appello che chiede la fine dell’omertà del Vaticano sulla scomparsa di sua sorella Emanuela, sparita a quasi 16 anni nel giugno del 1983, Pietro Orlandi ha dato appuntamento a tutti i firmatari per domenica, 18 dicembre, direttamente in piazza S. Pietro. Un gesto in apparenza talmente dirompente da apparire provocatorio. Fatto però con un ritardo di quasi 30 anni. Continua a leggere

Apparenza e realtà tra etica e scienza

Per millenni abbiano creduto vera un’apparenza – che fosse il sole a girarci intorno -, eppure siamo vissuti lo stesso e dignitosamente.

Sostenere che il progresso sia iniziato quando abbiamo scoperto la verità, sarebbe sciocco. Di per sé la verità scientifica non dice nulla sulla verità etica o filosofica o politica di una società, tanto meno sul suo “progresso”. Questa è una verità elementare ma sconosciuta, in genere, agli autori dei manuali scolastici di storia, che vedono il presente migliore del passato.

Il Medioevo non è più falso della Modernità perché più ignorante, né la Modernità è più vera perché più sapiente. L’ignoranza non ha alcun rapporto con la falsità. L’apparenza, di per sé, non è più falsa della realtà. Esiste forse materialmente l’arcobaleno? No, eppure lo vediamo e ci costruiamo sopra persino dei miti, proprio a causa di questa sua particolarità.

Se qualcuno, di fronte al cucchiaino spezzato in un bicchier d’acqua, ci spiega il fenomeno della rifrazione, noi forse smettiamo, solo per questo, d’avere una percezione magica della realtà? E allora perché c’illudiamo di poter pagare i nostri debiti col gioco d’azzardo o le lotterie o gli imbonitori alla Vanna Marchi? Perché pensiamo di poter un giorno recuperare le nostre perdite in borsa? Perché pensiamo che un semplice cambio di governo possa migliorare, stante l’attuale sistema, la nostra situazione disastrata? Perché usiamo le medicine come un toccasana miracoloso? E così via.

Semmai la falsità subentra quando si vuol negare che l’apparenza sia solo un’apparenza, ovvero che non possa o, peggio, non debba esistere una realtà opposta, cioè che non possa essere dimostrata un’altra verità, come appunto sosteneva la chiesa ai tempi di Galileo.

Oggi diciamo che l’ignoranza della verità non è ammessa, ma lo diciamo perché siamo illuministi e positivisti, cioè ideologici. Noi in realtà ci illudiamo che la verità etica possa dipendere da quella teoretica o gnoseologica. Ma son due cose del tutto separate, com’è giusto che sia.

Uno deve poter essere giudicato anche nella sua ignoranza, non in quanto ignorante, ma in rapporto al suo modo di vivere il bene. Il bene può essere vissuto anche nell’ignoranza.

Il bene è verità? Se lo è, allora la verità può anche essere ignorante. Il fatto di non sapere non può essere usato come scusa o pretesto per “non-essere”. Non è possibile dire: “Mi sono comportato male perché non sapevo”. La percezione del bene e del male va al di là della conoscenza della verità o della falsità.

Si può però dire: “Ora so quale sia la verità, cambierò atteggiamento”, cioè “se ho sbagliato in qualcosa, per mia ignoranza, rimedierò”. Ma una disponibilità del genere – bisogna ammetterlo – lascia supporre che anche l’errore in causa non fosse molto grave. Questo perché l’etica è sempre superiore alla gnoseologia, altrimenti non avremmo fatto alcun passo avanti rispetto alla Grecia classica, quando i filosofi dicevano che la colpa sta nell’ignoranza.

Nell’ignoranza esiste la buona fede, che viene sempre moralmente (benché non giuridicamente) giustificata, tant’è che diciamo: “errare è umano”, ma non per questo diciamo che un errore gnoseologico porta automaticamente a un errore del comportamento. Il male non viene prodotto dall’ignoranza in sé, ma da un modo sbagliato di vivere il bene, cosa possibile anche nella conoscenza della verità.

Un contadino cattolico, che ha sempre obbedito alle leggi e pagato le tasse, può odiare lo straniero islamico se gli viene fatto credere che può essere un suo nemico. Una persona buona può diventare cattiva nella sua ignoranza, ma non è la sua ignoranza che la fa diventare cattiva: è piuttosto l’abitudine a obbedire ciecamente, a fidarsi dei propri superiori, come in genere avveniva nel Medioevo, e se vogliamo anche oggi, nonostante la nostra sterminata conoscenza.

Tant’è che è vero anche il contrario, e cioè che non è la certezza del carattere inoffensivo dello straniero che ci porterà a non odiarlo. L’atteggiamento nei confronti del bene è soggetto a valutazioni che esulano dalla conoscenza della verità in senso stretto.

Gli indiani del Nord America sapevano bene che i bianchi mentivano quando firmavano i loro trattati, eppure, siccome erano abituati a credere nel valore della parola data, continuavano a credere nella verità di quei trattati e nella sincerità di chi li firmava; l’uomo bianco aveva la lingua biforcuta, ma l’indiano, nella sua ingenua buona fede, si sentiva in dovere di credere nelle promesse di lui: se voleva continuare a vivere nel bene, sentiva di non avere alternative.

E così il genocidio degli indiani non è stato solo uno sterminio della buona fede ma anche della verità e del bene in generale, al punto che oggi l’uomo bianco non sa più distinguere il bene dal male, e quando parla fa fatica a credere nelle sue stesse parole. La finzione s’è sostituita alla realtà, tanto che qualunque animale, nella semplicità dei suoi istinti, è diventato più “vero” di qualunque essere umano.

Siamo diventati falsi proprio nella nostra grande conoscenza, non perché la conoscenza renda falsi, ma perché quando non si vuol vivere il bene, quando non si vuole “essere”, non c’è conoscenza che tenga: la sua funzione si riduce soltanto a mistificare meglio il “non-essere”.

Ciò detto, resta da stabilire cosa s’intenda con la parola “bene”. Ma questo è un discorso che la filosofia non può fare, neppure la filosofia della morale o l’etica in generale. Per comprendere la natura del “bene”, bisogna storicizzarlo, calarsi nelle determinazioni di spazio e tempo, fare considerazioni che riguardano i comportamenti umani in senso stretto, che concernono discipline come l’economia, la politica ecc. Parlare del “bene” in astratto, senza considerare i rapporti di proprietà o i conflitti sociali, non serve a nulla.

Che cos’è la libertà di coscienza?

Gli uomini devono imparare a disobbedire agli ordini che violano la libertà di coscienza. Come facevano i cristiani quando gli imperatori romani li volevano obbligare a rinnegare la loro fede in Cristo. Quella volta i cristiani avevano ragione anche se oggi sappiamo che la loro fede storicamente non aveva alcun senso, essendo la fede non in un “liberatore” ma in un “redentore”.

E’ preferibile che gli uomini si facciano ammazzare piuttosto che violare questa libertà, da cui dipendono tutte le altre. Non per passare alla storia pur avendo mentito sulle proprie visioni – come nel caso di Giovanna d’Arco -, ma proprio per ribadire che sulle questioni di coscienza non si scherza, vere o false che siano le proprie convinzioni o quelle altrui. Ricordiamoci sempre di Tommaso Moro che, nei confronti del proprio sovrano, politicamente aveva torto ma eticamente aveva ragione.

Non serve a niente avere la libertà di associazione, di voto, di culto, di insegnamento o qualunque altra libertà, se viene negata o non viene adeguatamente rispettata quella di coscienza.

Prendiamo p.es. il fenomeno della guerra. Una pura e semplice dichiarazione di guerra è già una violazione della coscienza, non solo di quella del “nemico”, che sarà costretto a difendersi, ma anche di quella dei cittadini dello Stato che ha dichiarato guerra, perché saranno costretti a considerarla come un dato di fatto, essendo stata decisa dal governo in carica senza previa consultazione popolare e, una volta accettata, saranno costretti ad accettare mille altre limitazioni, in un crescendo continuo, soprattutto se i “nemici” saranno in grado di difendersi.

L’unica guerra ammissibile dovrebbe essere quella difensiva, da considerarsi come gesto estremo dopo il fallimento di tutti i negoziati politici, e solo per evitare conseguenze peggiori, come la sottomissione di un intero popolo o il suo genocidio o la sua deportazione in altri territori, e così via. In tal caso la guerra difensiva va giudicata come l’ultima possibilità di sopravvivenza.

Dobbiamo ritenere altamente significativo che nella nostra Costituzione sia stato posto il divieto di usare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; anzi tutte le Costituzioni del mondo dovrebbero prevedere il principio secondo cui i crimini compiuti contro l’umanità non possono mai cadere in prescrizione, come si disse al processo di Norimberga contro i nazisti.

Questo perché occorre dare una qualche soddisfazione ai sopravvissuti, i quali devono essere indotti a credere che la giustizia non è una parola vuota e che, per ottenerla, non hanno bisogno di nutrire sentimenti di vendetta o di farsi giustizia per conto loro o di pretendere pene che violano il diritto ad avere una propria umanità.

Generalmente nelle situazioni belliche la libertà di coscienza viene ridotta al minimo. Nelle forze armate esiste una rigida gerarchia: l’inferiore è tenuto ad obbedire agli ordini del superiore di grado, a meno che non venga violata – oggi finalmente lo diciamo – la sua libertà di coscienza. Un soldato dovrebbe rifiutarsi di giustiziare i prigionieri o le persone disarmate, ferite o che si sono arrese.

Quando un soldato afferma, sotto processo, ch’era stato costretto a compiere determinate cose contro la sua coscienza solo perché gli era stato ordinato, in genere mente, poiché, se si fosse davvero rifiutato, non gli sarebbe successo nulla di particolarmente grave. I superiori sanno bene che se in casi del genere agissero con mano pesante creerebbero dei precedenti che poi risulterebbero ingestibili. Di qui la necessità di formare dei picchetti per le fucilazioni sulla base della libera adesione o di caricare a salve almeno uno dei fucili o di non intervenire se i componenti del plotone non colpiscono il bersaglio o lo colpiscono non per farlo fuori ma solo per ferirlo.

In genere i superiori devono convincere con la persuasione il plotone d’esecuzione che il soggetto da giustiziare meritava d’esserlo senza alcuna attenuante, in quanto le prove erano schiaccianti o il suo reato era assolutamente infame. Prediche analoghe, in grande stile, a interi eserciti, vennero fatte non solo ai giapponesi che bombardarono Pearl Harbor, ma anche agli americani che bombardarono Hiroshima e Nagasaki. Stessa cosa fecero Napoleone e Hitler alle loro truppe quando invasero la Russia.

E’ molto difficile rispettare la libertà di coscienza nelle situazioni-limite, i cui comportamenti unilaterali sono dettati da decisioni schematiche, semplificate al massimo. Frasi di questo genere: “Se tu non uccidi lui, lui ucciderà te”, “Non fate prigionieri”, “T’assicuro che in un modo o nell’altro parlerai”, “Sii spietato se vuoi che il nemico abbia paura di te”, “Bruciate tutto!”, “Ci teniamo il diritto a un colpo preventivo”, “Per sicurezza non rischiare”, “Quando uccidi degli innocenti, devi considerarlo un incidente di percorso” ecc., non dovrebbero mai essere pronunciate da un soldato e tanto meno da un ufficiale, che è preposto a dare l’esempio.

Quando non si rispetta la libertà di coscienza altrui, ci si mette nelle condizioni di non veder rispettata neppure la propria: sia perché si teme sempre che la vendetta del nemico, nel caso in cui abbia la meglio, sarà terribile; sia perché, temendo di dover sottostare a trattamenti analoghi ai propri, si preferisce il suicidio.

Suicidarsi per non diventare schiavi, come fecero gli ebrei a Masada, si può capire; ma suicidarsi piuttosto che pentirsi, è un grave atto contro la propria coscienza. Ancora più grave è l’atteggiamento di chi vuol mascherare il proprio suicidio accusando qualcuno d’averlo assassinato, ma qui siamo già nell’ambito della follia (come quella di Kierkegaard nei confronti della Chiesa danese).

La libertà di coscienza è la cosa più seria di questo mondo. E’ il metro di giudizio di ogni nostra azione, ma se uno pensa di potersi giudicare da solo, s’illude enormemente. L’essere umano è un animale sociale: nessuno è in grado di giudicare obiettivamente se stesso, se non si confronta con altre persone.

Da soli non abbiamo nessun criterio per stabilire la differenza tra bene e male, poiché per ogni azione sappiamo sempre trovare una giustificazione, anche a costo d’ingannare consapevolmente noi stessi.

Per una democrazia compiuta

E’ possibile farsi una rappresentazione della democrazia compiuta? O bisogna limitarsi a considerarla una semplice aspirazione da realizzarsi in un futuro imprecisato? Se partissimo dal presupposto che per una democrazia compiuta non ci può essere alcuna evidenza che s’imponga da sé, forse il futuro potrebbe iniziare da subito.

Dovremmo cioè partire dall’idea che non c’è nessun obbligo da rispettare se non quello della libertà di coscienza, che non è neppure un dovere ma un piacere. Se tutti amassero rispettare la coscienza, sapendo che questa è la fonte di ogni libertà, avremmo posto la pietra più importante dell’intero edificio della democrazia.

Il potere di fare le cose, di crearle o di trasformarle, dovrebbe essere messo in relazione alla capacità di rispettare la libertà di coscienza. La scienza dovrebbe essere completamente subordinata alla co-scienza, e questa non dovrebbe essere soltanto una prerogativa dell’individuo singolo, ma anche un fenomeno collettivo, come quando nel Medioevo chiedevano al popolo di confessare pubblicamente le proprie colpe, per essere assolto come popolo.

Infatti la migliore coscienza delle cose è quella che si manifesta in un collettivo, all’interno del quale ci si può confrontare. Questa è la prima regola fondamentale della democrazia: rispettare collegialmente la libertà di coscienza.

Il modo migliore per rispettare questa libertà è quello di compiere delle azioni di cui si è personalmente responsabili. Non può esistere, in campo etico e sociale, la delega di ruoli e funzioni, se non in casi eccezionali e per un tempo molto limitato. Noi dovremmo avvertire con ansia la mancanza di democrazia e non limitarci a opporre all’autoritarismo dei governi in carica il nostro anarchico individualismo.

Il singolo dovrebbe sentirsi direttamente responsabile delle proprie azioni non solo come singolo, ma anche in quanto appartenente a un collettivo. Dovrebbe diventare una nostra seconda natura il principio per il quale quando un singolo sbaglia, sbaglia l’intero collettivo, poiché il collettivo ha dimostrato di non saper prevenire gli errori. Ognuno quindi dovrebbe essere responsabile delle proprie azioni due volte: come singolo e come membro di un collettivo.

Tuttavia un collettivo è davvero responsabile solo se è in grado di autogestirsi, cioè solo se è padrone delle proprie risorse, e non dipende da risorse altrui o da altri collettivi. Se c’è dipendenza, dev’essere reciproca e non sulle cose essenziali, quelle che permettono di vivere.

Se un collettivo non è in grado di autogestirsi, va aiutato e messo nelle condizioni di poterlo fare. Non si può utilizzare la scienza per sottomettere quei collettivi che non ne dispongono allo stesso livello. In una democrazia compiuta lo sfruttamento delle risorse altrui dovrebbe essere considerato vietatissimo, proprio in quanto costituisce, immediatamente, una violazione della libertà di coscienza.

Ora, che succederà nei casi in cui risulterà poco chiaro se la coscienza è stata o no violata? Se ogni decisione viene presa da un collettivo, all’interno di questo le persone più autorevoli sono necessariamente quelle con più esperienza. Non ci sono altri criteri. Il secondo criterio infatti lo conosciamo già: “nessuno è insostituibile”.

Ma il problema più complesso è un altro. In un sistema come il nostro, dove la libertà di coscienza non può essere adeguatamente rispettata, che ruolo può giocare una formazione politica che voglia realizzare la democrazia compiuta?

Una formazione del genere dovrebbe agire soltanto nell’ambito della società civile, al fine di rispondere ai bisogni della gente comune. Non dovrebbe neppure sedere in Parlamento. Dovrebbe cioè porre le basi non per acquisire un potere prossimo venturo, quando le contraddizioni esploderanno, ma per esautorare progressivamente questo potere di tutte le sue funzioni.

Infatti, se anche una tale formazione operasse nel solo ambito della società civile, lavorando per risolvere le contraddizioni sociali, il giorno in cui andasse al potere, stante l’attuale sistema, inevitabilmente si corromperebbe. Gli uomini hanno creato un sistema che corrompe a prescindere dal livello di eticità della loro coscienza.

Questo mostruoso Moloch si chiama “delega istituzionalizzata”. Un partito per la transizione, che voglia realizzare la democrazia compiuta, è meglio che stia fuori dal Parlamento, proprio per dimostrare che la politica del sistema non solo non risolve alcun problema ma addirittura li crea.

Andare o non andare a votare, in tal senso, conta assai poco. La democrazia rappresentativa o delegata è un altro di quei problemi da risolvere, per il quale la medicina è una sola: la democrazia diretta o autogestita.

Hosea Jaffe e la riscoperta del comunismo primitivo

Hosea Jaffe è uno di quegli economisti di sinistra che dice pane al pane e vino al vino. Non so quanti suoi colleghi contemporanei sostengano che va recuperata la società primitiva, quella pre-schiavistica, al fine di ritrovare l’uguaglianza e la democrazia “moderne”. Di sicuro non v’è nessuno tra quelli borghesi e si farà fatica a trovarne persino qualcuno tra quelli marxisti.

Lui p.es. nega una cosa che per il marxismo (e forse questa è una delle tante ragioni che ha indotto la Jaca Book a pubblicare molti suoi libri) è sempre stato considerato un dogma: la necessità di una qualsivoglia transizione a un livello superiore di civiltà, sia quella dal comunismo primitivo allo schiavismo, che quella dal feudalesimo al capitalismo, per non parlare di quella dal capitalismo al socialismo. E’ proprio sul concetto di “necessità” che non vuol sentire ragioni.

Di tutta la civiltà europea, a partire dalla nascita dello schiavismo come stile di vita, Jaffe non salva nulla. Per lui la più grande disgrazia dell’umanità è stata la distruzione del comunismo primitivo. Non solo, ma, pur dichiarandosi marxista (che oggi in occidente è come dire “alieno”), egli ha sottoposto a dura critica i classici del marxismo, soprattutto là dove ritengono “arretrati” i popoli non-europei, giustificando così il colonialismo occidentale, al fine appunto di poter parlare di “necessaria transizione al socialismo”.

Secondo lui con la nascita dell’imperialismo (verso la fine dell’Ottocento) è andato irrimediabilmente distrutto il comunismo primitivo a livello planetario. En passant potremmo aggiungere a questa tesi incontrovertibile la seguente considerazione: l’imperialismo (oggi chiamato globalismo) riproduce la stessa percezione unitaria del pianeta che avevano gli uomini primitivi, che si sentivano liberi di esplorarlo e di popolarlo come volevano, ma con la fondamentale diversità che oggi, per avere questa consapevolezza, bisogna essere proprietari di capitali.

Sotto questo aspetto la vera mimesi del comunismo primitivo non è neppure prerogativa del globalismo occidentale, i cui capitali sono gestiti da privati o, al massimo, da società anonime, ma diventerà prerogativa di un paese che sta per prendere in mano le redini dell’intero pianeta: la Cina, per la quale la gestione dei capitali deve essere strategica e non individualistica, e per poterlo essere efficacemente, occorre l’intervento dirigistico dello Stato e del partito unico. Lo Stato non può essere al servizio dei capitali più di quanto questi non debbano esserlo nei confronti dello Stato.

Al tempo di Marx – scrive Jaffe nel suo Era necessario il capitalismo?, Jaca Book 2010 – l’ultima esperienza di comunismo primitivo era quella della obscina russa (che poi, in realtà, era una forma edulcorata di feudalesimo, in quanto il vero comunismo primitivo poteva al massimo trovarsi in qualche tribù misconosciuta, ridotta di numero e dispersa in quelle zone non appetibili o non ancora debitamente sfruttate dal grande capitale, dell’Africa, dell’Asia, del Sudamerica o dell’Oceania).

Hosea Jaffe è uno di quegli economisti radicali che sostiene che senza lo sfruttamento di questo comunismo primitivo non sarebbe mai nato il capitalismo. In tal senso fa le pulci allo stesso Marx, il quale non affermò mai espressamente che l’accumulazione originaria del capitalismo fu una conseguenza diretta del colonialismo. NelCapitale infatti il colonialismo è indubbiamente visto come elemento che favorì la nascita del capitalismo, ma non è visto come fattore determinante in prima istanza.

Jaffe invece, per sostenere la sua tesi, anticipa il colonialismo all’epoca delle crociate, cioè lo fa risalire ad almeno mezzo millennio prima della nascita della rivoluzione industriale, sicché questa poté avvenire proprio perché le “casse per gli investimenti” erano già piene di uno sfruttamento intensivo e plurisecolare.

Gli si può dar torto? Sì. Ma come, non ha forse ragione quando equipara le crociate a una forma di colonialismo? Sì, ha ragione, ma per far nascere il capitalismo non basta il colonialismo. Se fosse così facile, non si spiega perché il “capitale” (nell’accezione borghese) abbia dovuto impiegare mezzo millennio prima di nascere; e meno ancora si spiega perché, passato questo mezzo millennio, le prime due grandi nazioni colonialiste europee, il Portogallo e soprattutto la Spagna, non siano mai diventate capitalistiche (in senso industriale o finanziario), se non dopo un altro mezzo millennio, con molta fatica e, per giunta, quando i loro imperi coloniali non li avevano più.

Per diventare capitalisti ci vuole una mentalità, una cultura molto particolare, che non avevano neppure i Romani, che pur avevano creato una società mercantile e coloniale molto più evoluta, molto più centralizzata e organizzata di quella europea esistente al tempo delle crociate.

Ci vuole una mentalità che faccia della liberà formale (giuridica) il criterio dei rapporti umani, che anzitutto vogliono essere “produttivi”, basati sulla “quantità”. Questa non è una cosa semplice, poiché viene più istintivo trattare il perdente, il nullatenente o l’insolvente alla stregua di uno schiavo. Per ritenere necessaria una mediazione giuridica tra oppresso e oppressore, occorre compiere un salto di qualità.

Certo anche i Romani avevano il diritto – eccome se l’avevano! -, ma da esso erano totalmente esclusi gli schiavi. Il concetto di “persona” non lo si applicava allo schiavo, e anche quando la legislazione chiedeva agli schiavisti di non eccedere nelle punizioni, al massimo imponeva una sanzione amministrativa.

C’è voluto il cristianesimo e la cultura “barbara” per umanizzare il rapporto di schiavitù, trasformandolo in rapporto servile. Ma questo a Jaffe non interessa, e neppure al marxismo è mai interessato. E’ vano chiedergli di fare un’analisi di questa cultura: il suo discorso è meramente strutturale, ponendosi, in questo, sulla falsariga di quello vetero-marxista. L’unica “cultura” che vede è quella ideologica che ha favorito l’abolizione formale della schiavitù per trasformare il colonialismo in un imperialismo, modernizzando, per così dire, il razzismo.

A suo dire l’Europa occidentale ha conosciuto solo esperienze di schiavismo e di razzismo (almeno a partire dai Greci), fatto salvo il periodo altomedievale, dominato da popolazioni extraeuropee, che al massimo conoscevano un “dispotismo comunitario”. L’Europa cioè sarebbe passata da una forma di schiavismo all’altra, diffondendolo come un virus in tutto il pianeta. I due principali eredi di questo schiavismo sono stati gli Usa e il Giappone.

Trattare o discutere con questi tre poli dell’imperialismo è fatica sprecata. Il loro obiettivo è quello di dominare il mondo. Semmai – scrive Jaffe che, in questo, la pensa come Samir Amin – ci si deve chiedere quale sia il modo migliore per difendersi da questi sistemi schiavistici. Jaffe infatti contesta sia Marx che Engels là dove ritengono che il capitalismo, pur con tutte le sue aberrazioni, costituisce un prodotto “necessario” della storia, propedeutico alla nascita del socialismo.

Jaffe sostiene che per realizzare il socialismo non c’era affatto bisogno del capitalismo, anche perché, là dove questo s’è imposto, non s’è mai verificata alcuna transizione socialista, come invece è accaduto in alcuni paesi poveri e colonizzati, ovvero negli anelli più deboli del sistema mondiale borghese.

Pensare dunque che il capitalismo possa aiutare a realizzare il socialismo è pura follia. Infatti – scrive Jaffe – persino il proletariato industriale dell’occidente è co-responsabile dello sfruttamento del Terzo Mondo, e se dovesse scoppiare una guerra contro qualche paese colonizzato o addirittura un conflitto mondiale, assai difficilmente esso la trasformerebbe – come già chiedeva Lenin nel corso del primo conflitto mondiale – in una guerra civile contro i propri governi nazionali.

Più che cercare rapporti di collaborazione con l’occidente, il Terzo Mondo dovrebbe organizzarsi in maniera autonoma, cercando di ridurre al massimo i propri rapporti di dipendenza neocoloniale.

Per Hosea Jaffe il vizio di fondo dell’economia mondiale sta nel voler vivere sulle spalle altrui, cioè sta nelcolonialismo, che India e Cina, p.es., non hanno mai praticato, pur conoscendo lo schiavismo. In tal senso la fine del capitalismo e del colonialismo non necessariamente dovrà comportare la fine dell’industrializzazione, ma solo un diverso modo di gestirla.

Se avesse però fatto un discorso “culturale” e avesse ripensato i rapporti tra uomo e natura, Jaffe avrebbe dovuto ammettere che anche l’industrializzazione della produzione è un concetto che va superato. E si sarebbe forse risparmiato l’ingenuità di credere che un paese come la Cina, una volta imparato ad usare la libertà giuridica nella maniera fittizia dell’occidente, non sia destinata a diventare una potenza imperialistica.

Troppo berlusconismo nell’esordio del governo Monti. E l’Italia, a furia di subire “lacrime e sangue”, è governata da governi o da becchini, sanguisughe e vampiri?

Non solo Mario Monti è andato a Porta a Porta da Bruno Vespa in prima serata, commettendo così il grave errore di debuttare in pubblico officiando la politica nello stesso salotto televisivo usato e abusato da Silvio Berlusconi e molti altri personaggi della politica, ma poi da Vespa ci sono andati anche, in seconda serata, verso le 23,20, due suoi ministri, Vittorio Grilli ufficialmente viceministro all’Economia, e Corrado Passera, superministro allo Sviluppo Economico. Per  giunta, il ministro del Welfare  Elsa Fornero e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà sono andati a Ballarò per prestarsi al solito prolungato battibbecco da pollaio avendo come dirimpettai, tra gli altri, l’ex ministro dellla Pubbblica Istruzione, Mariastella Gelmini, e l’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Monti ha avuto almeno il buon gusto di stare a Porta a Porta da solo, senza altri ospiti con cui litigare e far baccano, in una sorta di intervista colloquiale e illustrata con tabelloni vari condotta da Vespa. Però dopo le 23,20 tra Ballarò e Porta a Porta i membri del governo impegnati contemporaneamente a tentare di spiegarsi facendosi largo tra le chiacchiere da ballatoio erano in totale quattro. Come inizio berlusconiano, per il nuovo governo non c’è male. Neppure Monti e i suoi ministri hanno capito che NON è la tv, anche se Rai invece che Mediaset, il centro dell’Universo e neppure dell’Italia. Continua a leggere

Elogio dell’ambiguità

Non c’è nulla che non possa essere interpretato in maniera ambivalente: né una parola, né un’immagine o un suono, neppure il silenzio o il vuoto. Tutto è soggetto ad ambiguità, anche perché è proprio questa incertezza che indica la presenza nell’essere umano della libertà di coscienza, che stimola la mente ad aprirsi, che misura la virtù.

Per cui pensare che i sensi siano più sicuri dell’intelletto è pura follia, come d’altra parte lo è il contrario, in quanto proprio l’attaccamento pervicace a determinate idee ha provocato disastri incalcolabili; così come le strategie basate sulla manipolazione degli istinti. I sensi senza l’intelletto sono ciechi, e l’intelletto senza i sensi è sordo.

Non c’è nulla di definito o di definibile, se non appunto il concetto di “relatività” o, se si preferisce, di “dialettica”, che è lo strumento che tiene uniti gli opposti. Nulla può esistere di indipendente dalla volontà, dalla facoltà di scelta, dal libero arbitrio dell’uomo; nulla che possa imporsi da sé, come un’evidenza certa, indiscutibile, automatica. Nessun dio può vantare d’essere più grande dell’uomo. L’unico essere è “umano”, che non sopporta alcun altro “essere” privo di umanità, unica vera fonte della libertà.

La stessa natura, che pur ci è data come un’evidenza esterna, non ha leggi superiori a quelle che possono regolamentare in maniera equilibrata l’esistenza umana. Anzi gli uomini rappresentano il grado supremo dell’autoconsapevolezza dell’universo.

Chi pensa il contrario è un fanatico, un illuso o una persona limitata, con poche idee nella testa. Non abbiamo alcuna possibilità di dire “ciò che è”, ma solo “ciò che non è”, con tutta l’umiltà possibile, ma anche con tutta l’onestà, la sincerità e la convinzione di dire la sacrosanta verità.

Possiamo parlare solo al negativo, possiamo soltanto usare espressioni come “forse”, “dipende”, “può darsi”, “per il momento”, “stante le cose in questi termini”, “posti questi presupposti”, e così via.

Possiamo soltanto essere apofatici, cioè indiretti, possibilisti, simbolici, allegorici; non possiamo essere categorici, apodittici, esclusivisti. La vita è soltanto una metafora, che richiede una continuametanoia.

Quando diciamo che non esiste alcun dio al di fuori dell’uomo, lo diciamo proprio per assicurare all’uomo la sua umanità e quindi la sua libertà di scelta, di essere per la scelta e non per il dover essere.

Un qualunque dio sarebbe una non-scelta, un’imposizione intollerabile, un giudizio insopportabile. L’a-teismo non è la semplice negazione del dogmatico teismo, non è il rovescio della medaglia, ma la pre-condizione minima per iniziare ad essere se stessi. L’a-teismo non indica all’esistere la strada dell’essere, ma permette di cercarla liberamente, lontani dai condizionamenti della religione, che, per forza di cose, sono alienanti, in quanto separano l’umano dalla libertà.

La fede religiosa impedisce la ricerca, l’auto-esame, la disponibilità al mutamento; favorisce solo la rassegnazione, la passività di chi si affida ad altri, a un dio ritenuto infinitamente migliore di sé (che poi, nel concreto, vuol dire affidarsi ai suoi rappresentanti, che speculano sulle debolezze altrui).

La fede è soltanto la giustificazione del vittimismo, l’idea illusoria che il vittimismo possa essere un valore. Tutte le religioni indicano che nel passato più remoto è esistita un’età dell’oro, ma nessuna ha mai avuto la forza per farci ritornare a quell’età.

Tra Smith e Marx

Perché Adam Smith è “borghese”? Il motivo fondamentale non sta affatto nel suo individualismo, ma, al contrario, nel far passare il proprio individualismo come una forma di collettivismo. In particolare la “divisione del lavoro”, per lui fonte di ricchezza, insieme ovviamente alle macchine, veniva considerata una forma di “collettivismo industriale”, sconosciuta a qualunque civiltà pre-borghese.

E’ infatti nella mistificazione che sta la grandezza della borghesia. Se, esplicitamente, essa avesse detto che il singolo (artigiano, imprenditore, commerciante) è migliore del collettivo rurale, ci avrebbe messo molto più tempo per affermarsi, poiché difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’accusa di egoismo, di perseguire interessi privati ecc.

Sostenendo invece il contrario, e cioè che la produzione borghese era un’esperienza collettivistica, molto più efficace di tutte le precedenti, i tempi si sono di molto ridotti.

Il contadino, sapendo fare di tutto, resta un isolato, uno che non ha bisogno del lavoro altrui. L’autarchia viene fatta passare, da Smith, come una forma di primitivo individualismo, analogo a quello delle specie animali, che è sempre decisamente inferiore, come produttività, alla dipendenza reciproca, fonte principale della ricchezza di una nazione.

La produzione borghese, dovendo coinvolgere tante persone per realizzare anche una semplice merce come uno “spillo”, diventa un’operazione collettivistica, in cui ognuno si specializza in una particolare attività, migliorandola in tutti i suoi più piccoli aspetti, al fine di ottenere una grande quantità di beni. Ci vuole molta organizzazione per realizzare un’operazione del genere.

Smith afferma la superiorità del collettivismo operaio meccanizzato della produzione in serie, al fine di sostenere, rispetto alla comunità feudale, la superiorità del singolo produttore-organizzatore, proprietario di capitali da investire e di mezzi produttivi da impiegare. Cioè da un lato afferma, contro la rendita feudale, che solo il lavoro è fonte di ricchezza; dall’altro evita però di affermare che la vera ricchezza sta nello sfruttamento borghese della forza-lavoro operaia, compiuto attraverso le macchine.

Marx, criticandolo, ha accettato un suo fondamentale punto di vista. Egli infatti s’è limitato a sostenere che la proprietà dei mezzi produttivi andava socializzata e che quindi il reddito andava equamente suddiviso tra i vari lavoratori, ma non è mai arrivato a sostenere che il lavoro del contadino pre-borghese non fosse affatto individualistico, né che l’aumento della quantità dei beni utili alla riproduzione non fosse un criterio fondamentale per capire il progresso di una nazione. Il Marx economista non ha mai messo in discussione né la divisione del lavoro, né lo sviluppo del macchinismo. Ha messo solo in discussione la privatizzazione dei profitti.

Da Marx i contadini sono sempre stati visti come lavoratori isolati. Il nuovo collettivismo anti-capitalistico poteva essere realizzato solo dagli operai all’interno delle fabbriche borghesi. Ecco perché occorre dire ch’egli ha ereditato i fondamentali pregiudizi borghesi sull’epoca feudale e sulla classe rurale in particolare (per quanto la critica della rendita fosse più che giustificata).

E le conseguenze quali sono state?

  1. Che la classe operaia non ha mai avuto una cultura ma solo una politica alternativa a quella borghese, finalizzata ad acquisire la semplice proprietà comune dei mezzi capitalistici;
  2. che una politica senza una cultura alternativa si corrompe molto facilmente, nel senso che l’operaio ad un certo punto smette di opporsi alla borghesia in maniera rivoluzionaria e si limita a fare semplici rivendicazioni salariali (in questo peraltro sta la differenza tra marxismo e leninismo, per quanto neppure quest’ultimo abbia saputo impostare i termini del problema in chiave culturale).

Se l’operaio si opponesse culturalmente alla borghesia, cioè non solo a un “modo di produzione” (quello che privatizza i profitti), ma anche e soprattutto alla “civiltà” che gli è strettamente correlata, non si limiterebbe a esigere la proprietà sociale dei mezzi produttivi, ma metterebbe in discussione l’intero sistema produttivo, fino alle sue fondamenta tecnologiche e scientifiche.

Un’opposizione culturale è necessariamente sistemicaglobale, parte cioè dal presupposto di non salvare a priori nulla del sistema borghese, o comunque di chiedersi, per ogni singolo suo aspetto, se davvero meriti di essere salvato, soprattutto in rapporto all’impatto che ha sull’ambiente naturale.

L’economia politica borghese ha fatto coincidere ricchezza e benessere (o quantità e qualità) dal punto di vista della ricchezza (o della quantità). Non ha guardato gli interessi collettivi da un punto di vista generale, ma ha fatto credere che quelli privati dei capitalisti avessero una ricaduta positiva sull’intera collettività. Non ha mai preso in considerazione le persone in quanto tali, ma solo i lavoratori e, di questi, ha privilegiato solo quelli che sanno sfruttare il lavoro altrui. Ha fatto della natura una serva al servizio del capitale e della sua tecnologia e ha fatto credere, alle popolazioni prive di questa tecnologia, ch’era nel loro interesse restare sottomesse a chi la possedeva, nella speranza di poter un giorno cambiare vita.

A questo sistema economico il cosiddetto “socialismo reale” ha opposto il rovescio di una medesima medaglia, con la differenza che in luogo del capitalista privato aveva creato uno Stato centralizzato, intenzionato a utilizzare analoghi mezzi produttivi con sistemi pianificati dall’alto.

Questo ovviamente non significa che non avrebbe mai dovuto esserci una industrializzazione del lavoro, ma semplicemente ch’essa avrebbe dovuto porsi come scelta consapevole di una collettività democratica, e non come un’imposizione di pochi, mascherata dalla formale libertà giuridica tra proprietari e lavoratori, o da una superiore ideologia collettivistica in cui tutta la proprietà doveva essere statalizzata.