Il non democratico Qatar, proprietà privata di uno sceicco immensamente ricco, dichiara ufficialmente che la “rivoluzione” libica è stata una rivolta preparata, alimentata e guidata sul terreno soprattutto dalle sue forze armate, supportate dai falsi di Al Jazeer e Al Arabija. E don Piero Gheddo chiede: “Siamo sicuri che Gheddafi sia il diavolo?”

Come volevasi dimostrare. Ovvero: ora si spiegano alla perfezione, tra l’altro, i falsi scoop libici propalati in tutto il pianeta dalle televisioni Al Arabija e Al Jazeera. Il Qatar  ha messo le mani avanti sul futuro della Libia rivendicando un ruolo più importante, e magari qualche ottima concessione petrolifera. Il perché di tali rivendicazioni lo ha reso pubblico il suo capo di stato maggiore delle forze armate, Hamad bin Ai al Atiya. Il capo militare ha rivelato con molto orgoglio non solo che il Qatar è stato il Paese che più di tutti ha appoggiato militarmente i ribelli libici, ma anche che  ha inviato “centinaia di uomini in ogni regione” libica. Non uomini qualsiasi, ma, ci ha tenuto a chiarire al Atiya, militari che dovevano pianificare le azioni dei ribelli contro Gheddafi. Continua a leggere

Perché lo Stato sociale ha il fiato corto?

“Stato sociale” oggi vuol dire molte cose: scuola, sanità, previdenza e assistenza, amministrazione, forze armate e di polizia, parlamento nazionale ed europeo, enti locali territoriali, opere pubbliche, tutela ambientale, elargizioni a fondo perduto (per le aree depresse, per le ristrutturazioni aziendali, per i partiti, per i mezzi di comunicazione, ultimamente persino per le banche in difficoltà, ecc.).

Per far funzionare tutte queste cose, per pagare gli stipendi dei settori economicamente produttivi e improduttivi, si devono imporre molte tasse, soprattutto ai dipendenti pubblici, che non possono evaderle. Con la scusa delle ingenti tasse per i servizi sociali nazionali, lo Stato in realtà mantiene una pletora di servizi che di “sociale” non hanno nulla, poiché fanno gli interessi solo delle classi egemoni.

Il primo Stato sociale fu inventato in Grecia, al tempo di Pericle, proprio nel momento in cui i greci si stavano godendo la vittoria militare contro l’impero persiano. Atene, con la sua Lega di Delo, aveva intenzione di spadroneggiare su tutto il Mediterraneo, inclusa quindi la città che più l’aveva aiutata nella guerra: Sparta.

Per avere delle finanze da gestire, Pericle s’inventò un’idea originale: tutti i cittadini dovevano versare un’indennità per permettere ad altri, privi di mezzi o non disposti a perdere i loro guadagni, di partecipare alla politica e alla gestione della cosa pubblica. Si partì insomma da un’esigenza che apparentemente sembrava giusta, per volgerla contro gli interessi delle categorie più deboli e cercare di fondare l’impero.

Infatti le ambizioni delle classi egemoni ateniesi furono pagate da una guerra interminabile (e dal risultato catastrofico) contro Sparta, dal ritorno in auge della potenza persiana e dall’invasione dell’esercito macedone di Alessandro il Grande, che pose fine alla tradizionale democrazia della polis. Poi fu la volta dei romani e la Grecia non si riprese più.

L’idea di “Stato sociale” apparve comunque sin dall’inizio un’assurdità. Infatti, prima d’allora la tendenza era sempre stata quella di permettere ai ricchi di campare di rendita, sfruttando al massimo i poveri, ch’erano gli unici a pagare le tasse. Con lo Stato sociale invece tutti dovevano pagare qualcosa e i poveri le pagavano due volte: ai privati che li comandavano e ora anche allo Stato.

Il fatto che i ricchi, di qualunque paese del mondo, pensassero di non dover mai pagare alcuna tassa e che per i servizi sociali i poveri dovessero arrangiarsi da soli, è sempre parso così incontestabile che dai tempi dei greci ad oggi ci sono volute migliaia di anni prima che si tornasse a riparlarne.

Persino Marx era contrario all’istituzione dello Stato sociale, poiché non voleva che il proletariato, con le proprie tasse, pagasse l’istruzione ai figli della borghesia. Lo Stato, per lui, era lo strumento più pericoloso nelle mani della borghesia.

Il socialismo infatti, ben prima della nascita dello Stato sociale, aveva saputo, in occidente, organizzarsi in maniera autonoma attraverso le associazioni dei lavoratori, che volevano tutelarsi nei casi di bisogno, proprio perché non esisteva alcuno Stato che avesse una funzione “sociale”.

Fino alla prima guerra mondiale lo Stato estorceva solo tasse, chiamava alla leva e favoriva le imprese private, e ovviamente gestiva l’ordine pubblico e le guerre. Se era forte, aiutava gli imprenditori a colonizzare i paesi non industrializzati.

L’esigenza di allestire una sorta di “Stato sociale” viene fatta propria, in un certo senso, anche dal fascismo, il cui Stato corporativo chiedeva ai cittadini, per poter beneficiare di determinati servizi, un’adesione di tipo ideologico.

In epoca moderna, esattamente nel 1948, il primo paese a realizzare il Welfare State è stata la Svezia, che garantiva a tutti, gratuitamente, alcuni servizi essenziali: sanità, istruzione, indennità di disoccupazione, pensione d’invalidità, accesso alla cultura, difesa dell’ambiente naturale… Non garantiva il pagamento dei servizi essenziali per poter vivere: elettricità, riscaldamento, rifornimento idrico… né un lavoro e neppure una proprietà rurale sufficiente per campare.

Il sistema di tassazione era ovviamente pesante rispetto al reddito, e lo è ancora. Solo che questo modello, che voleva porsi in alternativa allo Stato sociale di tipo sovietico e che ha funzionato bene finché l’economia capitalistica mondiale è stata in crescita, oggi è in crisi.

Oggi tutti gli “Stati sociali” del mondo sono enormemente indebitati. Il motivo principale di questo non sta nel fatto che le tasse non sono sufficienti a coprire i bisogni, ma nel fatto che uno “Stato sociale” gestito dalla borghesia, che non vuole controlli sul proprio operato, diventa un’occasione imperdibile per compiere qualunque tipo di abuso.

Tutti “sfruttano” lo Stato sociale, anche quelli che evadono o eludono il fisco. E’ “sociale” per tutti, ricchi e poveri, ma soprattutto per chi ha più “mezzi”. E’ un’arma potente per chi vuole arricchirsi e un’elemosina per chi paga ingenti tasse.

Lo Stato sociale non è nato per fare distinzioni a favore dei ceti marginali, ma per creare l’illusione di un’eguaglianza sociale generale, e quando questo Stato pseudo-socialista viene sfruttato da chi non ne avrebbe alcun bisogno, ciò viene sopportato con rassegnazione, a condizione che si abbia almeno un pezzo di pane da mangiare e un tetto sotto cui dormire.

Oggi lo Stato sociale ha il fiato corto per una serie di ragioni:

  1. è rimasto centralista, soggetto a una grande corruzione, non potendo essere tenuto sotto controllo dalla società civile;
  2. ha usato il debito pubblico come strumento di consenso e di gestione della propria amministrazione (burocrazia, scuola, sanità, rai, enti locali ecc.) e questo debito oggi è colossale, un’enorme ipoteca per le generazioni future;
  3. è uno Stato “sociale” nel momento in cui esige le tasse da parte di quei cittadini che non possono evaderle, ma resta uno Stato “privato” quando favorisce quei cittadini che possono evadere il fisco o che addirittura possono fruire di pubbliche agevolazioni per la propria attività (politici, imprenditori, giornalisti, istituti di credito, militari, chiesa…).

Questo Stato in questo sistema è irriformabile, è democraticamente ingestibile, in quanto fonte permanente di corruzione. L’alternativa è solo una: l’autonomia della società civile, che si autogestisce attraverso le proprie realtà locali, provvedendo in maniera indipendente alle proprie necessità.

Occorre creare delle comunità in grado di auto-organizzarsi nelle proprie necessità vitali e che facciano capo al principale ente locale: il Comune, che deve diventare una realtà indipendente dallo Stato (come nel Medioevo i Comuni volevano essere indipendenti dagli imperatori e dai pontefici).

Le tasse dei cittadini devono restare nel territorio locale che produce reddito, a disposizione dei cittadini che le pagano. Tutto quanto esula dalle competenze del singolo Comune deve essere soggetto a una trattativa pattizia, da stabilirsi di volta in volta. I Comuni e le Associazioni di Comuni devono diventare l’alternativa allo Stato e al suo principale organo di controllo locale: la Provincia.

Le Regioni vanno decise dalle Associazioni dei Comuni. La regola politica fondamentale dovrebbe comunque essere questa: quanto più ci si allontana dalla realtà locale, tanto meno ampi o forti devono essere i poteri, a meno che non fruiscano di una delega temporanea.

Fare sistema o uscire dal sistema?

“Fare sistema” o “uscire dal sistema” sono espressioni che sembrano non voler dire nulla al singolo cittadino.

Generalmente tutti noi “facciamo sistema”, pur senza volerlo o pur senza saperlo. Noi tutti esistiamo ereditando un sistema di vita precedente e ne riproduciamo le condizioni della sua sopravvivenza. In tal senso, p.es., anche il proletariato occidentale è co-responsabile dello sfruttamento delle periferie neocoloniali da parte dell’imperialismo statunitense, nipponico ed euroccidentale (a questo imperialismo ora bisogna aggiungere anche quello cinese, che tiene in condizioni sub-umane i propri lavoratori, i cui prodotti possono essere venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati).

Per “uscire dal sistema” c’è solo un modo: conquistare il potere politico e condizionare con lo strumento della politica l’attività economica. Il problema è come farlo, cioè non solo come “conquistare” il potere ma anche – ed è ancora più importante – come “condizionare” l’economia, evitando di ripetere tutti gli errori del passato.

La storia della sinistra ha dimostrato che, sul problema della “conquista”, i metodi generalmente sono due: o si conquista politicamente lo Stato dopo aver conquistato culturalmente la società civile, oppure questa si conquista “dopo” aver conquistato quello.

La prima soluzione è detta “gramsciana”, la seconda “leninista”. La prima non è mai arrivata a conquistare alcuno Stato; la seconda vi è riuscita in più Stati, ma è poi sempre stata tradita da una gestione autoritaria del potere.

Dov’è che si sbaglia quando si creano alternative al sistema, ovvero quando la politica vuole condizionare l’economia?

Intanto bisogna dire che la via gramsciana sbaglia nell’illudersi che il passaggio dalla conquista della società alla conquista dello Stato possa avvenire in maniere indolore, cioè in maniera automatica, come una logica conseguenza, una inevitabile necessità. E’ addirittura un errore pensare di poter conquistare una società di tipo “borghese” in maniera “progressiva”, per determinazioni quantitative, senza traumatiche rotture.

Il capitale ha mezzi molto potenti per “imborghesire” la popolazione, al punto che in una società “borghese” si è tutti “corrotti”, inevitabilmente. Per convincersene, è sufficiente vedere quante volte si è venuti meno, proprio durante le rivoluzioni, agli ideali di giustizia sociale.

Da quanto è nato il socialismo, i “momenti forti” in Italia sono stati soltanto il “Biennio rosso”, la Resistenza e il Sessantotto, e ogni volta gli ideali sono stati traditi. E gli altri paesi europei han fatto lo stesso: dalla Comune di Parigi alla Repubblica di Weimar, ecc.

Nell’Europa occidentale non solo è fallita la strategia gramsciana, ma anche quella pre- o filo-leninista di conquista dello Stato, che in genere si presenta quando le crisi sociali sono gravissime e insostenibili, di regola correlate a disastri bellici.

Il socialismo europeo non è mai riuscito ad approfittare delle situazioni favorevoli a una “fuoriuscita dal sistema”, quelle in cui le contraddizioni del sistema esplodono. Nelle società borghesi avanzate, opulente, il socialismo non riesce a spuntarla né in situazioni pacifiche né in quelle disastrate.

Al massimo il socialismo riesce a imporsi nei paesi periferici più arretrati, nei cosiddetti “anelli deboli” del sistema, dove la povertà regna sovrana. Solo che in questi paesi, dopo aver compiuto la rivoluzione, nasce immancabilmente una dittatura. Sicché non si capisce dove stia l’errore.

In occidente il socialismo, nel migliore dei casi, rischia di diventare un puntello del sistema borghese; altrove rischia di negare più libertà di quante ne neghi il capitalismo.

Le strade da percorrere sono altre. “Uscire dal sistema” non può voler dire soltanto attendere passivamente che la sua crisi strutturale giunga a esplodere, ma non può neppure voler dire aiutare il sistema a sopravvivere compiendo singoli aggiustamenti o parziali riforme.

A livello di società civile bisogna uscire progressivamente dalla logica del mercato, entrando in quella dell’autoconsumo, e il giorno in cui s’imporrà l’esigenza di una rivoluzione politica, occorrerà da subito porre le condizioni perché lo Stato venga sostituito dal governo politico della società civile, la quale deve essere messa in grado di autogestirsi.

In Russia la rivoluzione venne tradita nel momento stesso in cui si svuotarono i “soviet” del loro effettivo potere. Non si può affidare a uno “Stato socialista” il compito di abbattere la borghesia, perché poi, dopo che l’avrà fatto, esso non avrà pietà neppure del proletariato.

Bisogna demandare immediatamente alla società civile il compito di liberarsi della mentalità borghese al proprio interno, smantellando progressivamente tutte le funzioni dello Stato.

La dittatura è inevitabile? Forse no

Una svolta politica, per tenere in piedi un sistema malato come il nostro, non può essere che autoritaria. Se non si vogliono risolvere (ma, se vogliamo, neppure affrontare) le cause fondamentali del malessere e se si vuol far credere che il malato soffre di un male non cronico ma passeggero, non resta che la dittatura, cioè il modo tradizionale con cui illudere le masse che dall’alto si possono facilmente risolvere tutti i problemi, tutte le crisi.

Nei paesi occidentali, ove domina il capitale privato, quando la democrazia formale non funziona. non si chiede maggiore democrazia ma più autoritarismo. Lo chiedono ovviamente i poteri forti, quelli che gestiscono la politica, l’economia, l’informazione. Non si vede altra via d’uscita che il cesarismo, il capo carismatico, proprio perché gli esponenti di quei settori di potere vogliono conservare i loro privilegi e, anzi, possibilmente aumentarli. Non vogliono avere intralci di alcun genere, non vogliono sentire contestazioni.

I nemici da abbattere, da ridimensionare, da circoscrivere in un’area ben limitata sono gli oppositori politici, i magistrati che vogliono far rispettare la legge, i movimenti a favore delle libertà sociali civili ambientali, i docenti che fanno della loro libertà d’insegnamento un’occasione per criticare la democrazia borghese.

In questa operazione di censura e di costrizione, i poteri forti spesso si avvalgono della collaborazione delle confessioni religiose di stato o maggioritarie, le quali, essendo anch’esse istituzioni di potere o comunque di consenso, han bisogno, per sopravvivere, di determinate contropartite.

Il problema principale che in questo momento i poteri governativi (politici o economici) devono risolvere è capire in quali forme è possibile imporre una dittatura, cioè con quali pretesti si può cercare di convincere la popolazione della sua necessità. Devono infatti stare attenti a non ripetere le esperienze fallimentari del nazi-fascismo, quando la dittatura si poneva in maniera troppo esplicita.

Quelle furono esperienze conseguenti ai problemi rimasti irrisolti dopo la fine della prima guerra mondiale e al crac borsistico del 1929. Oggi non solo non esiste la prima condizione, ma grazie allo Stato sociale s’è potuto scongiurare un crollo finanziario altrettanto grave, quello del 2008. Le banche sono state salvate grazie ai risparmi dei cittadini, sottratti loro con la forza.

L’unica condizione che oggi il potere può utilizzare come pretesto per rendere necessaria una dittatura è appunto il colossale debito degli stessi Stati sociali: un debito che, in assenza di un Pil sostenuto, rischia di travolgere l’intero sistema.

I poteri forti non vogliono un caos generalizzato, i cui scenari potrebbero essere imprevedibili, ma aspira a utilizzare la paura del caos per rivendicare la necessità di un presidenzialismo autoritario. Ecco perché non ha fretta a fare delle riforme; ecco perché, quando parla di riforme, le vuole a costo zero, oppure molto dolorose per i ceti medio-bassi (negli Usa, addirittura, l’unica che sono riusciti a fare, quella sanitaria, se la stanno rimangiando).

Se vi è la minaccia di un crac finanziario dello Stato, se le famiglie temono che tutti i loro risparmi si riducano a un nulla, se il tenore di vita è sempre più costretto a subire gravi deterioramenti e se la popolazione ha la netta percezione che i propri sacrifici non sortiscono alcun effetto positivo sulla crisi, sicuramente si pongono le condizioni per una svolta autoritaria.

Il sistema, che è profondamente corrotto, vuole offrire l’illusione che la dittatura serva proprio per difendere la democrazia. Le istituzioni, quindi, possono anche sopravvivere, ma come un guscio vuoto. E’ la dittatura della democrazia che ci vogliono somministrare come medicina salutare per un sistema malato. Una dittatura non solo economica (del capitale) ma anche politica (delle istituzioni che lo rappresentano).

Un’operazione del genere, in Europa, può essere fatta solo in un modo: trasferendo tutti i poteri politici al Parlamento europeo, cioè ponendo fine all’autonomia dei singoli Stati, sempre più incapaci di autogovernarsi e soprattutto di gestire il proprio debito pubblico. Gli Usa invece, che questo centralismo l’hanno già e che sono infinitamente più militarizzati di noi europei, hanno bisogno di pretesti che coinvolgano immediatamente le forze armate e di polizia.

Ecco, di fronte a un’operazione del genere non si può tergiversare, soprassedere, minimizzare. Bisogna difendersi, non per limitarsi a tutelare la democrazia formale (come fa la sinistra riformista), ma proprio per uscire dal sistema. E, poiché questo è di tipo mercantile, la ricetta per farlo è una sola: l’autoconsumo.

La storia non offre ulteriori alternative. Ci vuole un autoconsumo armato, in grado di difendersi dagli attacchi del globalismo liberista e deregolamentato, dall’oligopolio delle multinazionali, dalla mondializzazione finanziarizzata: un virus che non proviene solo dagli Usa, ma anche dal Giappone e dall’Europa occidentale e, ultimamente, anche dalla Cina.

Dobbiamo farlo anche a costo di dover rinunciare a tutto il progresso tecnologico fin qui raggiunto e col rischio di ritornare al paleolitico. E’ la dignità umana che ne va di mezzo.

La strada della guerra per portare la Libia dalla sfera di influenza italiana a quella francese è – come per ogni guerra – lastricata di grandi bugie. Coronate dall’incivile scempio di Gheddafi e dall’ancor più incivile gioia occidentale

Non vorremmo guastare la festa a nessuno, ma abbiamo alcune domande. Ucciso Gheddafi, a chi andrà ora il suo 10% della partecipazione azionaria nella società Quinta Communications? Silvio Berlusconi possiede ancora con Tarak Ben Hammar la quota del 10% di questa società? L’acquisto è stato una delle conseguenze della visita libica di Berlusconi due anni fa. La notizia dell’intreccio Berlusconi-Gheddafi è stato di fatto confermato dallo stesso governo italiano, infatti il suo sito riporta per intero un articolo de Il Messaggero che dà conto delle varie compartecipazioni tra Italia e Libia. Il link del sito del governo che riporta l’articolo in questione è il seguente: http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=57205094 . Questa l’affermazione riguardante la Fininvest, cioè Berlusconi: “Poi ci sono i legami indiretti con l`Italia. Il fondo sovrano è anche intrecciato via-Francia a Fininvest, visto che la Lia, attraverso la società Lafi Trade, è presente con il 10% in Quinta Communications S.A., società di diritto francese controllata al 68% dal finanziere franco tunisino Tarak Ben Ammar e in cui è presente anche Fininvest, con una`quota del 22% (detenuta attraverso la controllata lussemburghese Trefinance)”. Infine: cosa c’è da gioire per l’evidente improvviso aumento degli islamisti, armati, anche in Libia, dove prima non erano tollerati come non era tollerata Al Qaeda?

In attesa delle risposte, passiamo ad altro, restando sempre in tema Gheddafi. Strano che a gioire della sua uccisione a sangue freddo, quando era ormai stato catturato e quindi protetto dalle leggi della Convenzione Internazionale di Ginevra, e a gioire anche del successivo suo scempio siano proprio coloro che ancora oggi condannano in massa “i comunisti” e i partigiani della guerra di liberazione che fucilarono Mussolini ed esposero come un trofeo animale il suo cadavere a piazzale Loreto. Continua a leggere

Quale nuova tecnologia per il socialismo democratico?

Non è possibile capire i passaggi da una civiltà a un’altra limitandosi ad esaminare l’evoluzione della tecnologia. Un’analisi del genere, benché strettamente connessa alla relativa formazione socio-economica, diventerebbe di tipo sovrastrutturale, in quanto non terrebbe conto delle motivazioni culturali che portano a fare determinate scelte.

Senza cultura è impossibile spiegarsi perché una civiltà avanzata come quella romana (specie sul piano ingegneristico), rimase ferma, in ambito rurale, alla zappa e alla vanga, e non riuscì a inventare la staffa, la ferratura e il collare da spalla per il cavallo, il giogo frontale per i buoi da traino, la rotazione triennale delle colture, il vomere dell’aratro, l’erpice, il mulino ad acqua, il carro a quattro ruote… La ruota idraulica venne prodotta solo per far fronte alla penuria di schiavi. Resta incredibile come la lavorazione della terra, in una civiltà di tipo mercantile, che sul piano militare aveva le legioni migliori del mondo, sia rimasta praticamente identica per oltre un millennio.

Questa cosa non si può spiegare se non facendo riferimento al fatto che l’economia romana si basava sulla schiavitù. Lo schiavo doveva essere continuamente sorvegliato e costretto a lavorare, poiché non aveva alcun interesse a farlo. Non aveva mai la percezione che, aumentando o migliorando il proprio lavoro, avrebbe di sicuro ottenuto un beneficio a favore della propria emancipazione umana, sociale e civile.

Certo uno schiavo poteva diventare semi-libero (o liberto), ma questo dipendeva esclusivamente dalla magnanimità o generosità del suo padrone. Un proprietario terriero poteva anche trasformare i suoi schiavi in coloni, ma questo dipendeva dai suoi personali interessi e in genere poteva valere solo per le periferie colonizzate, dove i controlli erano più difficili.

Se si pensa che Roma divenne una grande potenza schiavista durante le guerre bisecolari con Cartagine, si è in grado facilmente di spiegare il motivo per cui i ceti benestanti e le stesse autorità politiche non vedevano di buon occhio i miglioramenti tecnologici in ambito lavorativo. Là dove la disponibilità di manodopera schiavile è molto alta e questa manodopera viene acquistata su un mercato del lavoro, lo schiavista ha intenzione di sfruttarla il più possibile e non a sostituirla con la tecnologia.

Questo atteggiamento, semplice e diretto, è del tutto normale in una civiltà basata su rapporti di forza, in cui col concetto di “forza” s’intende proprio quella “militare”. Quando una popolazione veniva sconfitta sul piano militare, il suo destino era quello di subire rapporti schiavili, in forme più o meno gravi. Anche quando un cittadino romano veniva rovinato dai debiti, non c’era pietà che gli risparmiasse un destino da schiavo.

La sottomissione integrale a un padrone rende lo schiavo un semplice oggetto, senza personalità, senza diritti, su cui si può aver potere di vita e di morte. Non ci può essere progresso tecnologico in presenza di schiavismo, proprio perché si ritiene che lo schiavo sia già lo strumento più sofisticato, quello che permette, insieme alle terre che si possiedono, di vivere senza lavorare.

Prima di vedere un progresso tecnologico bisogna aspettare che lo schiavo venga considerato un “essere umano”, ma ciò sarà possibile, seppure parzialmente, solo nel Medioevo, quando gli schiavisti verranno sconfitti dai cosiddetti “barbari”, che non praticavano lo schiavismo come sistema di vita, e che incontreranno una cultura, quella cristiana, disposta a considerare tutti gli uomini “uguali” davanti a dio.

Per il cristianesimo la schiavitù è un titolo di merito, sia perché il “figlio di dio” s’è fatto schiavo per liberare l’umanità dall'”ira divina”, conseguente a quel peccato originale che impedisce agli uomini di compiere il bene, sia perché lo schiavo, una volta resosi cristiano, ha molte più possibilità di salvezza nell’aldilà di quante ne abbia il suo padrone pagano. Ecco perché, se è vero che il cristianesimo non chiede allo schiavo di emanciparsi, se non appunto “cristianamente”, chiede però al suo padrone di trattarlo umanamente e anzi di diventare “cristiano” come lui.

E’ la trasformazione dello schiavo in servo, cioè in persona semi-libera, che porta a fare delle migliorie significative in ambito rurale.

Tuttavia, poiché anche il servo continua a restare un lavoratore giuridicamente sottoposto al feudatario, queste migliorie restano un nulla rispetto a quelle che si verificheranno quando, nella civiltà borghese, si sancirà l’uguaglianza giuridica (davanti alla legge) di tutti gli uomini. Quando si è tutti formalmente uguali, l’unico modo per poter sfruttare un’altra persona è quello di utilizzare qualcosa che faccia da “tramite” o da “ponte”, ed è appunto la tecnologia. Non basta avere capitali o terre, bisogna anche fare investimenti sulle macchine, le quali devono riempire, in un certo senso, il vuoto che il lavoratore crea quando non sta lavorando, essendo un cittadino libero.

Finché lavora sotto padrone, resta schiavo, ma siccome è giuridicamente libero, il tempo del suo lavoro è determinato, è limitato; le macchine vengono proprio a rimpiazzare il tempo mancante, quello che il diritto sottrae al rapporto schiavile. Ecco perché si parla di “schiavitù salariata”.

Poiché lo schiavo moderno è giuridicamente libero, il suo indice di sfruttamento è per così dire super-concentrato nel momento in cui resta schiavo di una macchina il cui uso deve essere massimo. Quando lavora come schiavo, l’operaio è parte integrante delle macchine, che ovviamente determinano la sua produttività. E’ la macchina che gli impone un determinato tasso di rendimento, calcolato scientificamente. A parità di tassi di rendimento, per il capitalista resta più vantaggioso un rapporto di lavoro meno costoso, per cui quanto più un lavoratore si lascia schiavizzare, tante meno possibilità vi sono di trovare una transizione al capitalismo.

La tecnologia quindi è strettamente correlata al sistema produttivo. E’ stato un errore colossale ritenere che nella transizione dal capitalismo al socialismo fosse sufficiente socializzare i mezzi produttivi, conservando inalterata la tecnologia della borghesia, che ha subito uno sviluppo impetuoso proprio perché la finalità era quella di sfruttare al massimo dei lavoratori giuridicamente liberi.

In realtà il socialismo può anche svilupparsi sulla base di una tecnologia di livello inferiore. La tecnologia da sviluppare, una volta realizzato politicamente il socialismo, dovrà essere in rapporto a un lavoratore non solo giuridicamente ma anche socialmente libero. Cioè dovrà essere lui stesso a decidere la tecnologia con cui lavorare.

I criteri per poter stabilire quale tecnologia usare, saranno determinati non dal profitto o dai mercati, ma dalla stessa autosussistenza e non senza trascurare le esigenze riproduttive della natura, che sono vitali per la sopravvivenza del genere umano. La tecnologia dovrà essere molto diversa da quella attuale, in quanto più facilmente realizzabile e riproducibile, utilizzabile, riparabile e reintegrabile nell’ambiente. In una parola dovrà essere eco-compatibile. L’ecologia dovrà avere la preminenza sull’economia: questa sarà solo un aspetto di quella.

Ecco, questa idea di socialismo democratico è ancora tutta da costruire.

Nulla di nuovo: usare gli estremisti per squalificare e frantumare l’opposizione. Berlusconi andrebbe davvero processato per alto tradimento non solo della realtà

Ho scritto più volte ironicamente che Berlusconi andrebbe processato per alto tradimento della realtà, visto che da decenni usa le sue televisioni per far credere che la realtà sia quella di comodo che viene esibita in continuazione dai teleschermi, ingannando e tradendo così l’Italia intera e soprattutto i giovani. Ora però, dopo la pubblicazione delle sue telefonate eversive, con le quali auspica la discesa in piazza di milioni di suoi sostenitori armati, la distruzione del tribunale più scomodo per lui e l’assedio di un giornale, per l’ironia resta poco spazio. Scherzando ho scritto più volte che il capo dello Stato dovrebbe fare come fece il re con Mussolini: convocarlo per un colloquio e  farlo portar via dai carabinieri su un’autombulanza. Ora c’è poco da scherzare: Napolitano è tenuto a convocare Berlusconi e a obbligarlo a dimettersi. Il governo di centrodestra può proseguire sotto la guida di Roberto Maroni o Giulio Tremonti o Pisanu o di una personalità esterna che goda di prestigio e che sappia fare il capo del governo per almeno fare le due o tre cose essenziali, compreso il cambio dello sciagurato sistema elettorale, e poi magari andare a nuove elezioni.

Se Berlusconi riesce invece a farla franca anche questa volta, dopo che ha dimostrato di essere anche peggio del Caimano del film di Nanni Moretti, che a fine film fa proprio attaccare con le molotov dai suoi fans il tribunale di Milano, allora significa che l’Italia è messa molto peggio di quel che si crede: la strada verso un duro ridimensionamento della democrazia e verso l’impoverimento irreversibile è tutta in discesa, con possibili esiti di rottura dell’unità nazionale e con scontri da guerra civile. I fattacci di Roma a contorno della manifestazione degli Indignati sono una scintilla che sia pure per un attimo illumina e lascia intravedere una tale strada. Continua a leggere

Che cosa vuol dire “trasformare le cose”?

Noi “occidentali” siamo capaci solo di distruggere. Infatti tutto quello che costruiamo implica la distruzione irreversibile di qualcosa che appartiene all’ambiente naturale. La differenza fondamentale tra la nostra civiltà e quelle basate sull’autoconsumo è che queste si limitano a trasformare la natura, senza distruggerla.

Per trasformare la natura bisogna usare mezzi naturali, ricavati dalla stessa natura. Questo significa che dovremmo accontentarci di ciò che ci offre la superficie terrestre: non ha alcun senso “umano” o “naturale” andare a scavare troppo in profondità. Quando si è fatta una buca e si è piantato un seme, questo è sufficiente per l’alimentazione.

L’uomo deve vivere di ciò che gli offre la natura in superficie: caccia, pesca, allevamento, agricoltura… Le primissime popolazioni vivevano soprattutto di raccolta di cibo selvatico: tuberi, radici, frutti, funghi, miele, erbe, foglie, uova, insetti… La caccia venne dopo.

Quando si vanno a cercare risorse nel sottosuolo, la comunità originaria non esiste più: al suo posto sono subentrate le differenze di genere, di casta o di classe e quindi la necessità di avere eccedenze alimentari da controllare. Le civiltà antagonistiche sono nate proprio dall’esigenza di controllare queste eccedenze. Si pensava al futuro distruggendo tradizioni millenarie.

Noi dovremmo nutrirci di prodotti visibili a occhio nudo, che non richiedono particolari trasformazioni, al pari delle tribù che vivevano a contatto delle foreste. Invece di difendere queste popolazioni nell’habitat ove esistono, facciamo di tutto per “civilizzarle”, per farle diventare come noi.

Ma la nostra esistenza è del tutto artificiale e quindi innaturale. Non si conciliano le trasformazioni ottenute artificialmente con le esigenze riproduttive della natura. Esiste artificio là dove il prodotto che si ottiene non è facilmente riciclabile, cioè non si reintegra velocemente coi meccanismi riproduttivi della natura.

Non si può assegnare alla natura il compito di smaltire i nostri rifiuti e i nostri strumenti di lavoro in un lasso di tempo di molto superiore alla nostra esistenza. Se con la fine della nostra vita, tutto quello che abbiamo usato rimane, vorrà dire che noi avremo obbligato qualcuno, a prescindere dalla sua volontà, a smaltire quanto ci apparteneva. Un tempo i beni ch’erano appartenuti alla persona, venivano deposti nella sua tomba, vicini al suo corpo, nell’ingenua credenza che potesse averne bisogno anche nell’aldilà. E i morti si seppellivano in posizione fetale, perché avrebbero dovuto rinascere in una nuova dimensione, che non poteva essere molto diversa da quella già vissuta.

Una comunità o una generazione non può far pagare a un’altra comunità o alla generazione successiva il proprio impatto ambientale. Vivere un’esistenza naturale vuol dire che la natura è preposta a darci i mezzi necessari alla nostra sussistenza. Questi mezzi possono essere trasformati, ma rispettandone le caratteristiche di fondo. Dal ramo di un albero posso ricavare l’arco e la freccia con cui cacciare, ma se taglio il tronco per fare legna da ardere, sono già un anti-ecologista, a meno che io non sia in grado di garantire che nell’arco della mia vita tutti gli alberi da me tagliati potranno essere sostituiti con altri nuovamente piantati.

L’essere umano, all’interno del suo clan di appartenenza (poiché per un’esistenza naturale è da escludere qualunque individualità isolata), deve usare ciò che gli serve per sopravvivere: tutto quanto eccede questo scopo, va rifiutato.

Si possono catturare degli animali selvatici, addomesticarli e utilizzarli per la sopravvivenza. Ma tenere questi animali come reclusi, in appositi stabilimenti o, peggio ancora, negli zoo, o usarli come cavie, inseminarli artificialmente, riprodurli in laboratorio, obbligarli a gare sportive o a combattimenti o a comportamenti per loro del tutto innaturali, è immorale.

Noi dovremmo alimentarci con quanto la natura ci offre spontaneamente e con quanto produciamo nel rispetto delle sue esigenze riproduttive. Se vogliamo dare un senso alla nostra umanità, dobbiamo anzitutto accettare ch’essa si lasci fare dalla natura.

Il vero problema è come far accettare delle verità che dovrebbero essere evidenti e che millenni di cosiddetta “civiltà” han reso assurde.

“Un pezzo di Palestina è in Libano”

“Un pezzo di Palestina è in Libano”, ci scrive la mia amica Stefania Limiti in questo breve reportage da lei intitolato “Voci dai campi profughi dove si vive in condizioni estreme. Con la grande illusione che Israele, paese che occupa militarmente terre di altri, voglia costruire la pace”. Avrei dovuto partire con Stefania e un gruppetto di volenterosi, ma occuparmi del libro per don Andrea Gallo “Non uccidete il futuro dei giovani!”, che arriva in libreria sabato prossimo, mi ha assorbito talmente da avermi impedito, oltre ad anche un solo giorno di ferie, di tornare in Libano. Leggiamo cosa ci scrive Stefania:

Scrivo questo post di ritorno da Beirut, dove il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila ha portato la solidarietà ai rifugiati della Palestina.
Un pezzo di Palestina è in Libano. Oltre cinquecentomila persone, cacciate dalle loro case nel 1948 e poi nel 1967, vivono in circa dodici campi profughi sparsi nel paese dei Cedri, oggi alle prese con una difficile sfida per difendere la propria indipendenza e per superare l’eredità coloniale.
Nel 2003 l’ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs) calcolava che nel mondo ci sono 9.6 milioni di palestinesi: quasi cinque milioni (4.8 per l’esattezza) quelli della diaspora – una delle grandi tragedie del ‘900 completamente rimossa – che vivono in Giordania, Libano, Siria ma anche in altri stati arabi, Europa e Stati uniti: un milione e centomila vivono in Israele, i cosiddetti «arabo-israeliani», 3.7 quelli che risiedono nei Territori occupati – 380 sono le scuole gestite dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, un dato che segnala la gran quantità di bambini palestinesi costretti ad affrontare lo studio in condizioni di grande difficoltà. Continua a leggere

Amanda Knox e Raffaele Sollecito assolti. No comment. L’Italia trattata a pedate dai mass media Usa, gli stessi che nel loro Paese applaudono alle incivili esecuzioni perfino di innocenti

In un Paese civile le sentenze si rispettano ed è meglio un colpevole libero che un innocente condannato. Principi che valgono quindi anche per Raffaele Sollecito e Amanda Knox assolti in appello dall’accusa di avere ucciso Meredith Kercher. Ciò detto, non si possono non rilevare alcune cose:

- la più importante delle quali è come si possa avere già condannato l’africano Rudy Guede e assolto invece i suoi coimputati. La risposta più spontanea e meno ipocrita è la seguente: Rudy è un nero, neppure bello, con l’ulteriore colpa di essere povero, mentre Amanda e Raffaele sono due tipici esemplari di “pura razza ariana”, per giunta con i quattrini di mamma e papà. Abbiamo assistito perfino allo spettacolo disgustoso del parroco o cappellano del carcere impegnato in modo assai pubblicitario a stare accanto ad Amanda che pregava a uso e consumo dei mass media. Per Rudy non s’è mai sprecato nessun signore in tonaca.
– il comportamento colonialista dei mass media Usa, che hanno esercitato una pressione immensa pro Amanda trattando l’Italia e la nostra Giustizia come fosse roba da quarto mondo, un Dracula che succhiava sangue alla povera vittima Amanda dal viso angelico e un po’ troppo pronta a piangere, come a comando; Continua a leggere