Il target della storia come disciplina

Quando i nostri studenti ci portano in classe, per mostrarceli con fierezza, gli album delle figurine dei calciatori o degli eroi del loro tempo, e noi sulla cattedra, mentre sfogliamo questi incipienti prodotti archivistici, buttiamo un occhio al manuale di storia ancora aperto, a cosa pensiamo? Io penso che la storia sia davvero una materia molto difficile da insegnare, anche perché è forse l’unica disciplina a non poter essere “insegnata”.

Un docente può insegnare a leggere, a scrivere, a far di conto, ma solo in misura molto limitata può insegnare a vivere. Non si insegna a vivere a qualcuno che al massimo si vede 18 ore la settimana, se non appunto in misura molto ridotta. Un docente non può insegnare a vivere quando non condivide coi propri alunni i motivi salienti della propria e della loro esistenza.

Quando un docente non è un punto di riferimento per i propri allievi anche al di fuori delle quattro mura scolastiche, c’è poca storia da costruire insieme e quindi poca storia da imparare insieme e da conservare gelosamente contro quanti vogliono sminuirla o demotivarla.

Un educatore dovrebbe esser tale 24 ore al giorno, per tutto l’anno, dovrebbe esserlo non solo per i giovani ma anche per le loro famiglie e per gli adulti in generale, poiché solo con una collettività del genere può diventare un costruttore di “storie”, al punto che la storia che insegna a scuola dovrebbe diventargli la stessa storia ch’egli vive con loro al di fuori della scuola, al punto che quella stessa storia insegnata al mattino potrebbe essere insegnata dagli stessi genitori dei propri allievi, nella generale consapevolezza che si tratta di una storia comune, condivisa nelle sue linee essenziali, un patrimonio generale che si trasmette ovunque, a prescindere da dove ci si trova, dal mestiere che si fa…

Ma questo è soltanto un miraggio, poiché la scuola statale è nata proprio allo scopo di “espropriare” il mondo contadino della propria storia, che s’è trovato così a studiare, come unica storia possibile, quella della classe dominante. Ai contadini è stata tagliata persino la lingua, obbligandoli a credere che l’unica vera lingua era l’italiano e che la loro era soltanto un miserabile dialetto.

L’espropriazione ci ha così lacerati nel vissuto quotidiano che noi docenti siamo arrivati a “insegnare” la storia proprio perché non riusciamo a “viverla” coi nostri ragazzi e coi loro genitori. Siamo intellettuali sradicati dal nostro territorio e trapiantati in luoghi che non ci appartengono e su cui non possiamo neppure mettere radici, poiché un “dipendente statale” è – come diceva un classico della Patty Pravo – “oggi qui, domani là”.

Noi insegniamo una storia a noi stessi estranea e ci meravigliamo che non venga appresa come un’operazione algebrica o una regoletta grammaticale. Noi docenti siamo l’espressione ufficiale di uno Stato che viene visto come una trave nell’occhio della cittadinanza locale, e in forza dei suoi poteri noi insegniamo una storia che la popolazione locale, pur non dicendolo, percepisce come imposta, come calata dall’alto.

È una storia che considera l’oggi migliore di ieri, la scienza superiore alla natura, il valore d’uso del tutto irrilevante rispetto a quello di scambio, la società civile come meno importante dello Stato, la democrazia delegata più giusta di quella diretta, il livello locale come insignificante rispetto a quello nazionale, e così via, sballottati tra le presunzioni di Scilla e i pregiudizi di Cariddi. Noi insegniamo una storia dei luoghi comuni, che sono poi “comuni” soltanto a chi li ha voluti imporre alla collettività. Non esiste neppure nei nostri libri di storia o di geografia una lettura delle tradizioni e delle caratteristiche locali, e d’altronde come potrebbe essere diversamente dal momento che gli editori vogliono vendere a livello nazionale?

Gli storici ci chiedono d’insegnare la storia “in modo da favorire la strutturazione di una mappa cognitiva storica permanente e non solo l’acquisizione a breve termine”(R. Neri, Il mestiere dello storico). Ma lo sanno gli storici che se noi insegnassimo la storia in questa maniera, rischieremmo di porre ai nostri ragazzi degli interrogativi troppo pericolosi per uno Stato che può svolgere una funzione autoritaria, funzionale ai poteri forti, appunto perché la popolazione del suo territorio non ha nel proprio dna una “mappa cognitiva storica permanente”? Non lo sanno gli storici che quanti più collegamenti riesce a fare una popolazione, tanto più essa rischia di sfuggire alle maglie della rete che la governa? È davvero così utile che i cittadini si pongano delle domande sul significato “storico” della loro esistenza? O non è forse meglio accettare un certo tasso di analfabetismo, relativo alle vicende cruciali della storia, che sicuramente è molto più facile da gestire sul piano politico?

Il sistema vuole gente che pensi, poiché nella globalizzazione è importante avere un terziario avanzato: la manovalanza a basso costo la possiamo trovare nel Terzo Mondo o tra i nostri immigrati. Ma che succede quando la gente comincia a pensare un po’ troppo? Quando comincia a chiedersi i motivi per cui nella globalizzazione il nostro paese non sta dalla parte dei molti deboli ma dei pochi forti? E che succederà quando i tanti deboli vorranno rivendicare un ruolo storico di primo piano (come d’altra parte sta già avvenendo in Cina e India)? Davvero dobbiamo dire ai nostri ragazzi che esistono rischi e pericoli relativi ai destini dell’Occidente, oppure è meglio lasciare che li scoprano da soli? Davvero è importante metterli di fronte alle contraddizioni strutturali del nostro tempo, oppure è meglio lasciar loro credere che di fronte a ogni tipo di problema noi siamo sempre in grado di trovare delle soluzioni soddisfacenti per tutti?

Insomma, fino a che punto si deve spingere un’indagine “critica” dei fenomeni storici? Di fronte al rischio che uno studente arrivi a capire i meccanismi di fondo che regolano le dinamiche dello sviluppo sociale, è davvero così preoccupante che metta in correlazione Alessandro Magno e Carlo Magno sulla base del cognome?

1 commento
  1. AZ Cecina Li
    AZ Cecina Li says:

    Visto che a scuola stanno tornando in auge i giudizi espressi in numeri, 10 e lode.

    Quando negli anni ’70 una generazione iniziò a porsi queste problematiche, le la cultura dominante reagì spandendo droga, consumismo rampantismo a piene mani e purtroppo ha raggiunto il suo scopo, restare cultura dominante.

    Antonio - – - antonio.zaimbri@tiscali.it

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