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Didattica della storia (I)

“J have a dream”, quello di progettare con qualche docente di storia o qualche storico di professione l’impostazione di una didattica di questa disciplina che prescinda nelle sue linee essenziali dai vari ordini e gradi di scuole. Cioè il sogno è quello di dipanare un filo comune trasversale, da utilizzare in chiave metodologica.

Il problema da risolvere non è più quello di trovare strategie adeguate per studiare un manuale prefatto, ma quello di come far capire concretamente l’importanza di una ricerca storica, suscitandone la motivazione nei ragazzi, che poi è la sola a garantire una memoria a lungo termine. “L’apprendere è un processo attivo, che richiede l’attività di elaborazione e di costruzione delle conoscenze del soggetto che apprende”; ecco perché bisogna lavorare anche sulle “procedure metodologiche di ricostruzione delle realtà del passato”, così scrive Hilda Girardet in Aspetti cognitivi della didattica di laboratorio (art. trovato in www.israt.it).

E la risoluzione di questo problema non dovrebbe riguardare il singolo insegnante ma l’insieme dei docenti di una classe, capaci di dare al suddetto problema un’impostazione storica condivisa, che faccia da leit-motiv alle diverse forme dell’indagine disciplinare.

Forse un giorno, quando ogni disciplina saprà garantire una propria impostazione storica, cioè saprà rendere culturalmente ragione del proprio esistere in ogni momento del proprio svolgimento, la “storia”, come materia a se stante, non esisterà più. Avremo finalmente trovato una calamita per la ricomposizione del sapere. E forse quel giorno non esisteranno neppure le “discipline”, oggi tenute rigorosamente separate le une dalle altre.

In tal senso oggi la didattica andrebbe superata in almeno tre direzioni:
1. la netta divisione tra scienze umane e scienze esatte;
2. l’impostazione cronologica delle scienze umane;
3. l’impostazione astratta delle scienze esatte.

Per rendere edotti gli studenti circa gli avvenimenti del loro tempo sarebbe sufficiente creare un insegnamento di “Argomenti di attualità”, impostato in chiave etica, sociale e culturale. O forse sarebbe meglio chiedere ad ogni docente di fare della propria disciplina un’occasione per comprendere la modernità.

1. Vivere senza

Negli attuali libri di testo di storia forse c’è un capitoletto che potrà tornarci utile alla realizzazione di questo progetto: quello relativo alle tecnologie in uso nei secoli passati.

Quando si affronta un argomento del genere si chiede sempre ai ragazzi come s’immaginano una società in cui non esiste telefono, cellulare, computer, automobile, televisione, radio ecc. Per saperlo diciamo loro che occorre chiederlo ai nonni, e così iniziano a diventare “ricercatori”. Ma tra un po’ non esisterà più un gap generazionale così grande e allora come potranno i giovani immedesimarsi in una vita quotidiana che da tempo non appartiene più a loro?

Per iniziare un qualunque discorso storico noi dobbiamo mettere l’alunno in grado di capire come si può vivere in condizioni tecniche, tecnologiche, socioeconomiche, culturali ecc. molto diverse dalle nostre. Cioè come si può “vivere senza”. Se non possono avvalersi delle persone più anziane, dovremmo poter avviare delle simulazioni sul campo, ricostruendo, con l’aiuto degli Enti Locali, una sorta di “villaggio demo”, in cui siano presenti gli elementi fondamentali del vivere quotidiano di un passato remoto.

I musei della civiltà contadino-romagnola possono andar bene allo scopo, ma occorrono anche animazioni, ricostruzioni virtuali, esemplificazioni reali, che l’alunno possa vedere coi propri occhi, toccare con mano. I musei storici devono essere vivi, devono farci sentire partecipi del periodo che rappresentano.

Non voglio una sorta di “Italia in miniatura”, in cui il turista gira tra un monumento e l’altro scattando fotografie o guardando ammirato di cosa siamo capaci di fare, ma una esemplificazione significativa in cui l’osservatore sia parte in causa, insomma una sorta di museo didattico all’aperto, in cui la ricostruzione degli ambienti e delle attività sia sufficientemente realistica.

Anche una gita scolastica potrebbe essere impostata su un’esperienza del genere. In fondo anche alla televisione, col concetto di “reality”, hanno provato a ricostruire ambienti per noi obsoleti.

Tutto ciò dovrebbe servire per far capire che si può vivere anche “senza”, cioè che non è la tecnologia che di per sé indica il valore di una civiltà. Dovrebbe servire anche per far capire le radici del nostro tempo, da dove veniamo, che cosa abbiamo sviluppato e cosa invece è stato abbandonato, ovvero il fatto che in questo processo sono state compiute delle scelte, le cui conseguenze hanno comportato aspetti positivi e negativi. Il presente non è migliore del passato solo perché presente.

Gli storici e la religione cristiana (II)

2. IL CRISTIANESIMO FEUDALE

Uno storico contemporaneo, di cultura laica, difficilmente arriva a sostenere che nel corso del periodo medievale la chiesa romana appariva su posizioni più antidemocratiche (meno “conciliari”) di quella ortodossa, proprio perché strutturata in maniera integralista, cioè politico-monarchica, con tanto di rigida gerarchia clericale, specie dopo la svolta autoritaria di papa Gregorio VII, con cui si pretendeva di subordinare alla curia pontificia la figura imperiale.

Uno storico del genere di regola ha scarsa dimestichezza con le questioni religiose, ovvero ne delega volentieri l’affronto (anche per non aver noie riguardo a pubblicazioni di tipo scolastico) agli stessi teologi e, di conseguenza, pone tutte le religioni sullo stesso piano, non facendo differenze di principio tra l’una e l’altra. E, fatto questo, si limita ad analizzare il fenomeno religioso dal punto di vista politico-istituzionale e, al massimo, socio-economico.

Ecco perché detto storico preferisce dare per scontate una serie di tesi che vanno per la maggiore, ancora oggi, nell’ambito della storiografia occidentale europea, la prima delle quali è che la chiesa ortodossa era del tutto prona, succube, secondo la pratica del “cesaropapismo”, alla volontà politica del basileus, per cui tra le due confessioni – cattolica e ortodossa – va preferita sicuramente quella cattolica, appunto perché si presentava storicamente come una potenza in grado di reggere il confronto con tutti gli imperatori, benché a volte essa abusasse dei propri poteri, come appunto è successo a partire da Gregorio VII sino a Bonifacio VIII.

È assai difficile incontrare uno storico laico che non accetti, consapevolmente o meno, tale interpretazione “cattolica” dei fatti storici. Questo però comporta conseguenze spiacevoli ai fini della ricerca della verità storica.

In primo luogo infatti si è costretti ad accettare come del tutto normale l’incoronazione di Carlo Magno in veste di imperatore del sacro romano impero, in opposizione al basileus bizantino, legittimamente costituito sin dai tempi di Costantino e Teodosio. E noi sappiamo che da quella incoronazione illegittima è poi dipeso tutto lo svolgimento politico-istituzionale dell’Europa occidentale, praticamente sino alla nascita delle moderne nazioni borghesi.

In secondo luogo si è costretti a sostenere che la rottura del 1054 fu voluta dagli ortodossi e non dai cattolici, i quali però, sin dai tempi del Filioque, avevano infranto la tradizione ecumenica e teologica della chiesa indivisa.

In terzo luogo si è indotti a considerare come legittime tutte le innovazioni, amministrative ma anche dogmatiche, introdotte dalla chiesa romana nell’ambito della cristianità mondiale.

Solo di recente lo storico medievista tende a considerare quanto meno esagerate le persecuzioni clericali ai danni dei movimenti pauperistici, da sempre ritenuti troppo settari ed estremistici per essere politicamente attendibili.

Tuttavia detto storico non può arrivare a prendere una posizione nettamente favorevole nei confronti di tali movimenti, altrimenti ciò ad un certo punto lo porterebbe a parteggiare, a seconda del movimento scelto, o per la causa protestante, oppure per un ritorno, sic et simpliciter, all’evangelismo pre-borghese.

Lo storico medievista, di cultura laica, si limiterà a dire che quelle persecuzioni erano un segno premonitore del fatto che il potere temporale della chiesa andava in qualche modo ridimensionato. Che poi questo storicamente sia avvenuto proprio a causa della riforma protestante, è un altro discorso, che non merita d’essere approfondito più di tanto. Infatti lo storico medievista italiano, se è costretto a scegliere tra ortodossia e cattolicesimo, sceglie il secondo, e se deve scegliere tra cattolicesimo e protestantesimo, sceglie il primo.

Assiomi da superare nell’interpretazione dei fatti storici

In qualunque testo scolastico di storia, di qualunque tendenza esso sia, vi sono sempre alcuni presupposti metodologici ritenuti irrinunciabili, che indicano in un certo senso il carattere apologetico dell’informazione trasmessa nella scuola di stato attraverso una delle sue discipline più significative, appunto la storia.

Tali presupposti provengono direttamente dal senso di appartenenza geo-politica all’Europa occidentale da parte degli autori dei libri di testo, i quali, generalmente, danno per scontata l’idea secondo cui la civiltà di questa parte del continente europeo sia la migliore del mondo, superiore anche a quella degli Stati Uniti, la cui grandezza viene misurata più in termini quantitativi, relativamente al progresso tecnico-scientifico, militare e nell’organizzazione dell’attività commerciale e industriale, che non in termini qualitativi (le tradizioni culturali, religiose e politiche), in cui l’Europa occidentale eccelle da almeno duemila anni.

Sulla base di questi presupposti si fonda l’idea di “scienza” o di “oggettività”. Come se nell’arco della propria vita uno storico non ne vedesse così tante da dover escludere a priori l’esistenza di qualcosa di incontrovertibile o di inconfutabile! Come se uno storico non sapesse quanto le interpretazioni siano condizionate dalla politica, dalle ideologie dominanti (esplicite o implicite), dalle forme di civilizzazione e, sul piano soggettivo, anche dalle proprie storie personali!

E se questo vale, in maniera evidente, per le scienze umane, non vale forse anche per quelle “esatte”? Su asserzioni cosiddette “scientifiche”, del tipo: “la matematica non è un’opinione”, ci sarebbe da discutere all’infinito, essendo ben noto che enunciati assolutamente inconfutabili sono poverissimi di contenuto dialettico o anche semplicemente informativo, e che la nostra “matematica” non è l’unica possibile (i cinesi p.es. usavano la numerazione binaria quando da noi non si sapeva neppure cosa fosse, e i Maya conoscevano la numerazione a base 20 che permetteva loro di fare calcoli molto più complessi di quelli che facevamo noi nel loro stesso periodo).

Gli autori dei manuali scolastici di storia possono essere di ideologia liberal-borghese (crociana-gentiliana), di ideologia socialista (generalmente gramsciana) o, in casi più rari, di ideologia cattolica, ma queste differenze non incidono minimamente sulle scelte di fondo (ontologiche) operate in materia di impianto metodologico generale.

Una constatazione del genere può forse apparire presuntuosa nella sua astratta generalizzazione, eppure essa emerge con sempre maggior insistenza proprio dallo sviluppo di un fenomeno ritenuto ormai incontrovertibile: il globalismo, in nome del quale è diventato legittimo chiedersi se possa essere considerata congrua (sul piano didattico-culturale) una visione unilaterale, in quanto geopoliticamente determinata, dei fenomeni storici.

I fatti dimostrano che le ideologie sottese (in maniera più o meno esplicita) all’elaborazione dei manuali scolastici di storia possono prescindere da molte cose, possono anche essere in competizione tra loro, ma su un aspetto di vitale importanza esiste sempre un’ampia convergenza di vedute, al punto che il senso di appartenenza geopolitica all’Europa occidentale, in particolare alle culture liberal-borghesi (ivi incluse quelle cattoliche e, in misura minore in Italia, quelle protestanti) e, all’opposto, alle culture socialiste-riformiste (che proprio nei testi di storia risultano prevalenti), appare come una sorta di dogma in cui credere per fede.

Si può rilevare questo anche dal fatto che in genere nessuno storico avverte mai l’esigenza di precisare che la sua interpretazione parte da tale assioma, o comunque di chiarire preventivamente i limiti epistemologici entro cui si muove la propria interpretazione dei fenomeni storici del passato e del presente.

Qui in sostanza si vuole sostenere la tesi che, per garantire un minimo di obiettività nei giudizi storiografici, la scelta di un’ideologia in luogo di un’altra, oggi, a differenza, diciamo, di una trentina d’anni fa, risulta del tutto irrilevante, in quanto agli autori dei manuali di storia pare sufficiente far dipendere la verità dei propri enunciati da una preliminare scelta di campo “geografica”, quella dell’Europa occidentale (di cui gli Usa sono soltanto una propaggine), da cui tutto il resto proviene in maniera logica, come una sorta di sillogismo aristotelico.

Si è ormai arrivati a un punto tale di superficialità nell’organizzazione dei contenuti, che ciò che va rimesso in discussione è proprio il rapporto tra ideologia in senso lato e occidente in senso proprio, che va oltre le differenze interne alle medesime ideologie. Questo per dire che anche l’ideologia marxista, o meglio gramsciana, che pur ha dimostrato d’essere teoricamente superiore a quella borghese, nonostante i fallimenti pratici del “socialismo reale”, ha dei difetti intrinseci dovuti proprio al fatto che gli storici di questa corrente considerano assodata la loro appartenenza ideale, specie dopo il crollo del muro di Berlino, all’area occidentale dell’Europa e, indirettamente, degli Stati Uniti, caratterizzati entrambi, soprattutto quest’ultimi, che meno hanno dovuto lottare contro le resistenze del mondo cattolico, da uno sviluppo progressivo dell’ideologia borghese-calvinista, nata nell’Europa del XVI secolo, quell’ideologia che ha portato nel Novecento alle due guerre mondiali e che ha trovato un freno significativo nell’istituzione post-bellica del “Welfare State”.

I limiti metodologici fondamentali che rendono tutti uguali e quindi poco utili, ai fini dell’obiettività del giudizio, i manuali scolastici di storia, sono sostanzialmente frutto di un postulato che andrebbe quanto meno rimesso in discussione, quello per cui si crede che esista una linea evolutiva che va dalla preistoria alla storia, una linea che si estrinseca materialmente secondo un percorso cronologico dei fatti, che trova nell’occidente capitalistico il suo point d’honneur.

Tale linea evolutiva, progressiva, si basa su alcuni fattori fondamentali di “sviluppo”:

1. sviluppo tecnologico e scientifico: la miglior scienza e tecnica – questa la tesi che si sostiene – è quella che permette un rapporto di dominio sulla natura (non è l’uomo che appartiene alla natura ma il contrario);

2. sviluppo dell’urbanizzazione e dei mercati: ogni forma di comunità basata sull’autoconsumo, sul valore d’uso, sul baratto, sulla vendita del surplus, in una parola su un ruralismo non-borghese, viene considerata sottosviluppata; il che porta a giustificare, da parte degli storici, il colonialismo e l’imperialismo, che possono andare dalle classiche crociate medievali alle forme di “aiuto economico” al Terzo Mondo per farlo diventare “come noi”, o comunque a considerare come inevitabili le guerre di conquista o la necessità che i mercati mondiali vengano dominati dall’Occidente;

3. sviluppo della produzione industriale: non solo l’artigianato viene considerato sempre inferiore all’industria (specie quella di massa), ma si tende anche a privilegiare la separazione tra agricoltura e artigianato, considerando prioritaria, specie nel basso Medioevo, la specializzazione dei mezzi tecnici e delle mansioni lavorative;

4. sviluppo della produzione culturale: i valori più significativi di una civiltà vengono ritenuti quelli basati soprattutto sul commercio, sulla scrittura, sul militarismo e in generale sulla supremazia del maschio, quindi tutti valori appartenenti a una determinata categoria di ceti, classi o individui, salvo fare concessioni di circostanza all’ambientalismo e al femminismo.

Posto questo, le differenze, se e quando esistono, tra uno schieramento ideologico e l’altro, risultano del tutto secondarie o formali, come p.es. si evidenzia tra le seguenti:

– nello sviluppo della produzione culturale, gli autori cattolici o protestanti mettono in rilievo l’evoluzione positiva dalle religioni primitive (animismo-totemismo) alle religioni monoteiste, senza però specificare che proprio quest’ultime sono state più facilmente strumentalizzate dalle esigenze di dominio mondiale;
– nello sviluppo della produzione industriale, gli autori di sinistra mettono in risalto le lotte operaie-contadine e, i più radicali (sempre meno in verità) l’esigenza di una socializzazione dei mezzi produttivi; e così via.

Qui si vuole ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che all’origine di questo incredibile appiattimento culturale sta proprio il primato concesso acriticamente al valore di scambio su quello d’uso, e non solo il primato concesso alla proprietà sul lavoro. Il socialismo non è più un’alternativa al liberismo non tanto perché ha smesso di contrapporre lavoro a proprietà, quanto perché ha sempre visto il lavoro all’interno del valore di scambio.

Sulla base di questi assiomi si è elaborato il concetto di civiltà, e ovviamente nessuno mette in discussione che quella più avanzata della storia sia quella occidentale (europea e statunitense); il Giappone non avrebbe fatto altro che copiare la civiltà americana, trapiantandola su un tessuto culturale semi-feudale, come d’altra parte la Cina sta impiantando il capitalismo in un paese agricolo dominato politicamente da un socialismo autoritario. Gli stessi paesi a cultura islamica non sono che paesi feudali nella sovrastruttura e capitalisti o soggetti a neocolonialismo capitalista nella sfera strutturale della produzione. I paesi ex-comunisti (specie quelli est-europei) non sarebbero che paesi neo-democratici, in quanto sul piano economico si sono finalmente aperti al mercato capitalistico. E così via.

Questa impostazione di metodo è così evidente che viene spontaneo darla per scontata in tutti i manuali di storia, anche se ovviamente solo pochi sono stati adottati o esaminati: ovunque infatti si tende a mettere in risalto quelle civiltà che con più decisione sono uscite dalla preistoria, quindi quelle che hanno sviluppato meglio l’organizzazione schiavistica e servile, e che in definitiva assomigliano di più a quella capitalistica.

Ancora oggi nei manuali scolastici di storia si pone una netta differenza tra “storia” e “preistoria”, senza mai precisare che i fenomeni che hanno determinato quella differenza: scrittura, urbanizzazione, metallurgia, commercializzazione degli scambi ecc., sono tutti strettamente correlati alla nascita dello schiavismo. Il che significa che non ha storicamente alcun senso apprezzarli positivamente separando concettualmente l’analisi di quelle forme sociali e tecnologiche dallo scopo per cui erano nate e che ne legittimava l’ulteriore sviluppo.

Ma c’è di peggio. Tutti i manuali tendono a privilegiare le civiltà commerciali basate sullo schiavismo rispetto a quelle agricole basate sul servaggio, allo scopo di sostenere la validità di alcuni fondamentali postulati, che indirettamente risultano funzionali alla legittimazione della modernità borghese, quali ad es. quelli relativi alla superiorità della città sulla campagna, del mercato sull’autoconsumo, del borghese sul contadino e sull’operaio (cioè del proprietario sul nullatenente), del lavoro intellettuale su quello manuale (cioè della scrittura sulla trasmissione orale del sapere), dell’artigiano specializzato sul contadino-artigiano, dell’agricoltore sull’allevatore, del sedentario sul nomade, del bellicoso sul pacifico, dell’occidentale cristiano (una volta si sarebbe aggiunto di “razza bianca”) su tutti gli altri credenti, e in generale dell’uomo sulla donna e della storia sulla natura.

Facciamo ancora un esempio. Quando si parla di migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) gli storici non sostengono mai ch’esse posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o che riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche.

Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri” o “bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente, che, se era “commerciale” e “stanziale”, sicuramente era superiore. Cioè non si prende mai l’organizzazione comunitaria primitiva come un modello di rapporto equilibrato tra esseri umani e tra questi e la natura.

A tutto ciò gli autori di sinistra aggiungono che va considerato necessario non solo il passaggio dalla preistoria alla storia (al fine di superare i limiti delle comunità basate sull’autoconsumo), ma anche il passaggio dal capitalismo al socialismo democratico, sebbene questa tesi oggi, dopo il crollo del “socialismo amministrato”, sia o stia diventando piuttosto rara, in quanto si tende a sostituirla con la cosiddetta ideologia dell’economia mista o “terza via”, in cui vige una sorta di influenza reciproca tra sfera pubblica e privata; e qui, mentre sul versante degli autori di sinistra si vorrebbe una sfera pubblica (statale) più importante di quella privata (il che contrasta con le tendenze di fatto dell’economia borghese), su quello degli autori borghesi si vuole invece un pubblico che faccia da mero supporto al privato.

Ciò che nessuno autore riesce a comprendere (ma in questa incomprensione possono celarsi motivazioni extra-culturali, come p.es. l’esigenza di dover collocare il libro di testo in un determinato mercato editoriale) è che nel rapporto tra comunità primitiva e civiltà storica, quella che più si avvicina al senso di umanità dell’essere umano non è la seconda ma la prima, e che quindi quanto più le civiltà tendono a svilupparsi, tanto più si allontanano dalla dimensione dell’umanizzazione, per quanto la resistenza ai conflitti di classe non lasci impregiudicata la possibilità di un ritorno alle origini.

Nessun autore sostiene che per ripristinare il concetto di umanità sia necessario “uscire” dal concetto di civiltà, così come esso s’è venuto configurando già nel passaggio dal comunismo primitivo alle prime formazioni schiavistiche, e come poi è andato sviluppandosi fino alle civiltà più recenti, che in un certo senso sono una variante dello schiavismo: il capitalismo è uno schiavismo, sotto la parvenza della democrazia, gestito dall’economia privata, quindi con esigenze di sfruttamento coloniale di paesi terzi; il socialismo amministrato è uno schiavismo gestito in maniera palesemente autoritaria dalla politica, quindi con esigenze di sottomissione a un’ideologia di stato.

Ovviamente con questo non si vuole sostenere che una rappresentazione tematica e non cronologica della storia potrebbe meglio garantire l’obiettività dell’interpretazione. È fuor di dubbio che una rappresentazione tematica aiuterebbe a focalizzare meglio le caratteristiche salienti di una civiltà, ovvero di una formazione sociale, perché in fondo è di questo che si tratta, e in tal senso il contributo del socialismo scientifico non va sottovalutato, in quanto è l’unica metodologia che ci permette di chiarire, sul piano economico-sociale, le differenze di sostanza tra una civiltà e l’altra.

Tuttavia lo storico non può basarsi unicamente sugli aspetti socio-economici: ha bisogno di trattare con pari dignità anche quelli culturali e politici. Ecco perché in una visione tematica o, se si preferisce, olistica, integrata, strutturata, organicista, della storia, ogni aspetto dovrebbe essere preso in esame e messo in rapporto trasversale rispetto a tutte le principali formazioni sociali della storia.

Solo che per arrivare a un’interpretazione sufficientemente obiettiva (e diciamo “sufficientemente” con la consapevolezza che la storia di cui trattiamo è quasi sempre la storia dei “vincitori” o quella di chi era padrone di quei mezzi che gli hanno permesso di trasmettere ai posteri una determinata rappresentazione di sé), occorre qualcosa che alla storiografia occidentale manca del tutto: il confronto con le istanze di identità umana.

Oggi non sappiamo neppure decifrare l’umano. Dopo seimila anni di storia delle civiltà abbiamo creato un essere umano quasi totalmente incivile, una sorta di barbaro che di civile ha solo le apparenze.

Possiamo pertanto lavorare solo sui “fantasmi”, cioè su quanto le civiltà ci offrono, tenendo ben presente, alla nostra indagine, che in tutte le civiltà esiste una divaricazione netta tra quanto affermato in sede teorica e quanto vissuto praticamente. Tale dicotomia tende ad accentuarsi col progredire delle civiltà e ha avuto una netta escalation a partire dal tradimento degli ideali del cristianesimo primitivo. Questo perché tutte le civiltà, nessuna esclusa, ha avuto bisogno, al suo nascere, di apparire più democratica rispetto al passato che stava per negare, proprio per poter vivere con legittimazione il contrario di quanto andava predicando, ne fosse o meno consapevole.

In sintesi. Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti, perché sarà su queste cose che si svolgerà il dibattito in classe tra il docente e i propri studenti:

1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera, ovvero quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente, ad un certo punto, si scelse? Lo storico non deve chiedersi il “perché”, in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un’altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il “come” ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l’ipotesi di un’alternativa che si sarebbe potuta seguire, naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve “inventarsi” le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi propri interessi).

2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una “egemonica” o maggioritaria e l’altra di “opposizione” o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi: a) la prassi era conforme all’ideologia? b) la prassi era accettabile nonostante l’ideologia? c) l’ideologia era accettabile nonostante la prassi? “Accettabile” naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico…

Il target della storia come disciplina

Quando i nostri studenti ci portano in classe, per mostrarceli con fierezza, gli album delle figurine dei calciatori o degli eroi del loro tempo, e noi sulla cattedra, mentre sfogliamo questi incipienti prodotti archivistici, buttiamo un occhio al manuale di storia ancora aperto, a cosa pensiamo? Io penso che la storia sia davvero una materia molto difficile da insegnare, anche perché è forse l’unica disciplina a non poter essere “insegnata”.

Un docente può insegnare a leggere, a scrivere, a far di conto, ma solo in misura molto limitata può insegnare a vivere. Non si insegna a vivere a qualcuno che al massimo si vede 18 ore la settimana, se non appunto in misura molto ridotta. Un docente non può insegnare a vivere quando non condivide coi propri alunni i motivi salienti della propria e della loro esistenza.

Quando un docente non è un punto di riferimento per i propri allievi anche al di fuori delle quattro mura scolastiche, c’è poca storia da costruire insieme e quindi poca storia da imparare insieme e da conservare gelosamente contro quanti vogliono sminuirla o demotivarla.

Un educatore dovrebbe esser tale 24 ore al giorno, per tutto l’anno, dovrebbe esserlo non solo per i giovani ma anche per le loro famiglie e per gli adulti in generale, poiché solo con una collettività del genere può diventare un costruttore di “storie”, al punto che la storia che insegna a scuola dovrebbe diventargli la stessa storia ch’egli vive con loro al di fuori della scuola, al punto che quella stessa storia insegnata al mattino potrebbe essere insegnata dagli stessi genitori dei propri allievi, nella generale consapevolezza che si tratta di una storia comune, condivisa nelle sue linee essenziali, un patrimonio generale che si trasmette ovunque, a prescindere da dove ci si trova, dal mestiere che si fa…

Ma questo è soltanto un miraggio, poiché la scuola statale è nata proprio allo scopo di “espropriare” il mondo contadino della propria storia, che s’è trovato così a studiare, come unica storia possibile, quella della classe dominante. Ai contadini è stata tagliata persino la lingua, obbligandoli a credere che l’unica vera lingua era l’italiano e che la loro era soltanto un miserabile dialetto.

L’espropriazione ci ha così lacerati nel vissuto quotidiano che noi docenti siamo arrivati a “insegnare” la storia proprio perché non riusciamo a “viverla” coi nostri ragazzi e coi loro genitori. Siamo intellettuali sradicati dal nostro territorio e trapiantati in luoghi che non ci appartengono e su cui non possiamo neppure mettere radici, poiché un “dipendente statale” è – come diceva un classico della Patty Pravo – “oggi qui, domani là”.

Noi insegniamo una storia a noi stessi estranea e ci meravigliamo che non venga appresa come un’operazione algebrica o una regoletta grammaticale. Noi docenti siamo l’espressione ufficiale di uno Stato che viene visto come una trave nell’occhio della cittadinanza locale, e in forza dei suoi poteri noi insegniamo una storia che la popolazione locale, pur non dicendolo, percepisce come imposta, come calata dall’alto.

È una storia che considera l’oggi migliore di ieri, la scienza superiore alla natura, il valore d’uso del tutto irrilevante rispetto a quello di scambio, la società civile come meno importante dello Stato, la democrazia delegata più giusta di quella diretta, il livello locale come insignificante rispetto a quello nazionale, e così via, sballottati tra le presunzioni di Scilla e i pregiudizi di Cariddi. Noi insegniamo una storia dei luoghi comuni, che sono poi “comuni” soltanto a chi li ha voluti imporre alla collettività. Non esiste neppure nei nostri libri di storia o di geografia una lettura delle tradizioni e delle caratteristiche locali, e d’altronde come potrebbe essere diversamente dal momento che gli editori vogliono vendere a livello nazionale?

Gli storici ci chiedono d’insegnare la storia “in modo da favorire la strutturazione di una mappa cognitiva storica permanente e non solo l’acquisizione a breve termine”(R. Neri, Il mestiere dello storico). Ma lo sanno gli storici che se noi insegnassimo la storia in questa maniera, rischieremmo di porre ai nostri ragazzi degli interrogativi troppo pericolosi per uno Stato che può svolgere una funzione autoritaria, funzionale ai poteri forti, appunto perché la popolazione del suo territorio non ha nel proprio dna una “mappa cognitiva storica permanente”? Non lo sanno gli storici che quanti più collegamenti riesce a fare una popolazione, tanto più essa rischia di sfuggire alle maglie della rete che la governa? È davvero così utile che i cittadini si pongano delle domande sul significato “storico” della loro esistenza? O non è forse meglio accettare un certo tasso di analfabetismo, relativo alle vicende cruciali della storia, che sicuramente è molto più facile da gestire sul piano politico?

Il sistema vuole gente che pensi, poiché nella globalizzazione è importante avere un terziario avanzato: la manovalanza a basso costo la possiamo trovare nel Terzo Mondo o tra i nostri immigrati. Ma che succede quando la gente comincia a pensare un po’ troppo? Quando comincia a chiedersi i motivi per cui nella globalizzazione il nostro paese non sta dalla parte dei molti deboli ma dei pochi forti? E che succederà quando i tanti deboli vorranno rivendicare un ruolo storico di primo piano (come d’altra parte sta già avvenendo in Cina e India)? Davvero dobbiamo dire ai nostri ragazzi che esistono rischi e pericoli relativi ai destini dell’Occidente, oppure è meglio lasciare che li scoprano da soli? Davvero è importante metterli di fronte alle contraddizioni strutturali del nostro tempo, oppure è meglio lasciar loro credere che di fronte a ogni tipo di problema noi siamo sempre in grado di trovare delle soluzioni soddisfacenti per tutti?

Insomma, fino a che punto si deve spingere un’indagine “critica” dei fenomeni storici? Di fronte al rischio che uno studente arrivi a capire i meccanismi di fondo che regolano le dinamiche dello sviluppo sociale, è davvero così preoccupante che metta in correlazione Alessandro Magno e Carlo Magno sulla base del cognome?