La struttura sociale dei Romanès

Il sistema sociale e vissuto nelle profonde componenti umane, basato essenzialmente sul severo rispetto delle norme etico-morali che regolano e disciplinano la comunità romanès per garantire ai singoli individui la piena integrazione. Essi tutelano la dignità e l’onore del Rom.
Il cardine della struttura sociale dei Rom è la famiglia patriarcale, dove il vecchio, considerato saggio, ne è rappresentante riconosciuto. La famiglia patriarcale o famìljë, che non si esaurisce nel semplice nucleo coniugale, si estende a tutti i consanguinei discendenti da un antenato comune. Appartenere ad una famìljë significa riconoscersi in un complesso di valori etici vincolanti e vivere la propria esistenza nel rispetto di essi. L’appartenenza è profondamente sentita e questo determina la volontaria esclusione da altre famìljë e da altre comunità che sono regolate da norme morali diverse.
La famìljë è la sola realtà stabile al cui interno si sviluppano legami profondi che uniscono l’individuo al gruppo. Quello che assicura l’esistenza di una persona è l’attribuzione di una identità sociale riconosciuta da tutti, identità segnata dal nome che gli viene dato e dalla famiglia a cui appartiene.
I nomi utilizzati per designare i componenti della famìljë, riscontrabili in numerosi dialetti della lingua romaní, sono:
papu (nonno), phuri daj o mami (nonna), dad (padre), daj (madre), chavo (figlio), chaj (figlia), phral (fratello),
phen (sorella), kako (zio), bibi (zia), rom (marito), romni
(moglie), 3amutro (genero), bori (nuora), sastro (suocero), sasuj (suocera), salò (cognato), nispiò (nipote).
La famìljë comprende, normalmente, tre generazioni legate patrilinearmente: un capofamiglia o patriarca (phuro), i suoi figli maschi (chave) e i figli di questi (nispié). Essendo la famìljë virilocale, le figlie una volta sposate lasciano la famiglia di origine per aggregarsi a quella del marito. Così, per esempio, la famìljë di un Rom italiano di antico insediamento comprende in linea paterna tutti i fratelli (li phràl), le sorelle nubili (li phenæ tarnæ), gli zii (li khàkë) patrilaterali e le zie nubili (li bibæ), i cugini paralleli patrilaterali (li phràl ku‡in), il nonno (o papù) e la nonna (i phurì daj). È interessante sottolineare che i Rom italiani (ma questo accade anche fra numerose altre comunità romanès) chiamano i figli di due fratelli phràl ku‡in o phèn ku‡in, ovvero “fratello cugino” o “sorella cugina” poiché discendenti da un antenato comune mentre i cugini acquisiti sono chiamati semplicemente kuzin. I consanguinei in linea collaterale di parte paterna, dunque, non vengono distinti da quelli in linea diretta. Ora se consideriamo che la parola “kuzin” è di origine europea, i Rom si considerano fra loro tutti “fratelli”. Questo dimostra inequivocabilmente che la famìljë è basata sui rapporti di parentela e adotta un sistema sociale che riflette il particolare modo di concepire la vita in maniera “orizzontale”, in cui le persone di sesso maschile, con le dovute differenze di età e di ruolo, sono in una posizione di uguaglianza. Va sottolineato anche che i Rom distinguono nettamente i parenti “di sangue” da quelli acquisiti. Il confine dei parenti “di sangue” è dato dai cugini bilaterali di primo grado a cui ci si rivolge in caso di necessità e a cui si confidano i segreti di famiglia. Ai parenti acquisiti si deve rispetto e considerazione, ma a loro si chiede aiuto solo dopo averlo chiesto a quelli “di sangue”. Punto di forza della “mentalità orizzontale” e particolarmente della famìljë è la solidarietà, che si manifesta nella protezione morale, nel sostegno psicologico e nell’aiuto finanziario e fisico di un individuo che vive così nella sicurezza di una piena integrazione in seno al suo gruppo familiare. La famìljë si basa soprattutto sulla condivisione che assicura un accesso alle risorse economiche che non dipende dal grado di prestigio. Le risorse economiche, il cibo, il vestiario e quant’altro vengono divisi tra tutti i membri della famìljë e passano frequentemente da un individuo all’altro.
La sicurezza del gruppo contribuisce a quella individuale e viceversa. Tutto questo rafforza la coesione dell’intero gruppo parentale: il bambino viene accudito, il malato assistito e curato, il vecchio ascoltato, i genitori rispettati. Ogni cosa gravita attorno alla coesione familiare che catalizza la vita e l’identità di un individuo dal punto di vista sociale, economico, educativo, etico, linguistico e culturale. La coesione e la sicurezza psicologica, sottolineate dall’osservanza della tradizione e dallo specifico status sessuale, pongono i membri della famiglia solidali e compatti nei confronti di altre famìljë, così che i conflitti e i rapporti sociali sono vissuti, non individualmente, ma collettivamente. Questo rafforza, ancora una volta, la sicurezza personale e l’autostima. Un errore o un atto onorevole è sempre percepito da un punto di vista familiare, cioè collettivamente poiché ogni membro rappresenta un’intera famìljë. I vincoli del gruppo sono particolarmente sentiti in caso di lutto, di grave difficoltà economica e sociale e in caso di vendetta. Sotto la costante pressione della minaccia del mondo esterno, la famìljë è il luogo sicuro in cui rifugiarsi e in cui soddisfare i propri bisogni umani e culturali.
Nella famìljë si possono riscontrare una marcata differenza ed una complementarietà sottesa fra i ruoli femminili e maschili.
Essi sono collocati in ambiti sociali diversi e ci si aspetta che ognuno si comporti conformemente allo stereotipo applicato al proprio sesso. Si ritiene che gli uomini e le donne abbiano carattere, comportamento e compiti sociali differenti. L’uomo domina la sfera pubblica, la donna si occupa della vita domestica e il suo prestigio è in relazione alla sua attività di moglie e di madre.
I compiti assegnati all’uomo e alla donna necessitano di spazi separati confacenti alle funzioni sociali di ogni sesso. La separazione dei sessi è netta, ma non riguarda solo la semplice tipologia degli spazi. Riguarda anche l’importanza sociale di tali luoghi. Gli uomini occupano gli spazi aperti, i luoghi pubblici che rivestono rilevante importanza sociale (si pensi alla kriss o tribunale pubblico). Alla donna sono riservati gli spazi domestici e familiari.
L’uomo deve essere presente alle attività collettive, deve evitare di stare in casa, soprattutto in cucina: il luogo femminile per eccellenza. Rimanere attaccato alle donne di casa porta all’effeminatezza ed alla sottomissione. Restare in casa viene visto con sospetto, come segno di mollezza.
La differenza sessuale fa apparire naturale la separazione degli uomini e delle donne: così come i compiti, anche gli spazi sono contrapposti conformemente alla loro natura. La separazione è necessaria per mantenere intatta la propria virtù. Si ritiene infatti che la pulsione sessuale, soprattutto quella femminile, sia incontrollabile ed è dunque necessario costruire barriere che la frenino. Tutte le istituzioni sessuali (ripudio, segregazione sessuale, monogamia, verginità) possono essere percepite come una strategia per contenere il loro potere. Le donne possono infatti distruggere la reputazione dei loro mariti e dell’intera discendenza. Detengono, così, il potere di compromettere il prestigio dell’intera famìljë. Non sorprende dunque che il controllo delle donne nubili sia ferreo. La purezza virginea è di massima importanza per il prestigio di tutta la famìljë ed il futuro della donna. Le bambine fino a poco prima del menarca possono giocare liberamente in strada e non subiscono particolari restrizioni. Crescendo viene imposto loro un comportamento sempre più riservato. Nell’età dell’adolescenza devono indossare le coxà e il romanó urævipen (vestito tradizionale) e non è permesso loro la stessa libertà di movimento che avevano in precedenza.
Al Rom, specie se anziano (phuro), è affidato il compito di proteggere, sostenere e tutelare, come capofamiglia, l’onore ed il prestigio della famìljë verso l’esterno. Il suo prestigio e la sua statura morale sono direttamente connesse al modo in cui riesce a difendere l’onorabilità della famìljë dalle dicerie e dalle cattive nomee soprattutto se queste riguardano le proprie donne. Nei confronti degli altri membri della famìljë rappresenta l’autorità, a lui spetta il compito di dare l’esempio di come essere solidale con gli altri; a lui spetta anche l’onere di mantenere i legami familiari e di discutere e regolare le questioni che possono sorgere. Fra i suoi compiti più importanti vanno annoverati quelli che riguardano le decisioni più importanti per il futuro dei figli: se devono continuare la scuola, se e quando si devono sposare, se devono lavorare ecc. All’interno delle famìljë, quindi, convivono più generazioni e il phuro (il vecchio patriarca) ne è il tutore morale. È interessante sottolineare che il termine phuro ha qualcosa di religioso nel suo significato profondo: il termine infatti deriva dal pali Buddho (in lingua hindi BuÔÔha) col significato di “il vecchio, il saggio, l’illuminato, lo sveglio”.
La sua autorità non è coercitiva poiché non può imporre niente a nessuno, non impartisce ordini, ma si tratta di una autorità morale tenuta in grande considerazione per la sua esperienza e per la sua profonda conoscenza della legge romaní o kriss.
Alla Romni è affidato il compito di sostenere materialmente la famìljë e alle sue cure è anche affidata l’educazione dei figli piccoli e delle figlie fino al matrimonio.
La nascita è considerata l’evento che finalizza il matrimonio e rende l’uomo fiero di sua moglie, oltre che dare prestigio alla donna. Una Romni sterile nella società romaní rappresenta una vergogna per il marito. I figli rappresentano una ragione di vita per i genitori e l’orgoglio vero del nucleo coniugale. Grazie a questo meccanismo il bambino si trova inserito in una linea di discendenza che sottolinea un continuum.
Nella famiglia coniugale i figli assumono una posizione di particolare importanza e rappresentano la massima ambizione per i genitori. In alcune culture, la virilità, ovvero le modalità socialmente condivise che l’uomo deve assumere, si esprime attraverso la lotta, il coraggio o la potenza sessuale intesa come capacità di procreazione. La virilità e la mascolinità devono essere dimostrate attraverso prove e comportamenti.
Nella cultura romaní si pensa che le doti di un uomo si trasmettono attraverso il suo sperma ai suoi figli. La salute e il vigore dei figli sono la manifestazione evidente della forza e del vigore del padre. Il non aderire agli stereotipi dello status sessuale e il non rispetto delle funzioni distinte dei due sessi, provoca l’indebolimento delle proprie capacità virili. Non bisogna giungere all’estremo dell’omosessualità, per vedere compromessa la propria virilità. È sufficiente un rapporto troppo stretto con il mondo femminile.
Al pari del vigore fisico dei figli, il loro genere sessuale è un ulteriore elemento che comprova la virilità del padre. Avere solo figlie femmine è considerata una vera sventura e vista con sospetto, quasi come una incapacità riproduttiva. Un padre che ha solo figlie femmine è spesso oggetto di scherno. La mancanza di progenie maschile è vissuta con grande drammaticità.
Sono i figli maschi, dunque, a fornire in ultima istanza la prova della virilità e garantire così il prestigio familiare oltre che protezione e forza fisica in caso di attrito con altre familjë o in caso di contrasto con i Gage. La positività di avere figli maschi è interiorizzata dagli individui attraverso il sistema di prestigio che rende la persona orgogliosa agli occhi della gente e diventa uno degli strumenti più efficaci per far aderire, conformare o rispettare i modelli sociali.