La storia della Whirlpool al capolinea

La storia della Whirlpool è finita male. Il 31 ottobre chiuderà.

Dopo un anno di scioperi per impedire che i macchinari fossero portati in Polonia o in Cina, dove il costo del lavoro è ridicolo, la multinazionale del Michigan ha approfittato della seconda ondata di pandemia per chiudere definitivamente la sede napoletana.

Costruita dalla Ignis nel 1957, passata alla Philips nel 1972 e finita alla Whirlpool all’inizio degli anni novanta, era diventata un piccolo gioiello con standard tecnologici e produttivi molto alti. L’impianto oggi perde 20 milioni di euro all’anno e quindi non è più sostenibile.

Anche il polo casertano di Carinaro è stato trasformato in un deposito di pezzi di ricambio.

Il ministro Stefano Patuanelli ha dichiarato di non avere strumenti per fermare una multinazionale (che impegna 70 mila lavoratori in tutto il mondo ed è la maggiore produttrice mondiale di elettrodomestici). Il piano industriale 2019-2021, che prevedeva ammortizzatori sociali e incentivi economici, in cambio di un investimento da parte dell’azienda di 17 milioni di euro, non è servito a niente. L’azienda ha ricevuto aiuti pubblici in varia forma per un ammontare complessivo di circa 100 milioni di euro.

Per il 2020 la Whirlpool ha previsto un calo di fatturato tra il 13 e il 18% a causa della pandemia. Per questo l’azienda ha deciso di tagliare 500 milioni di dollari su manodopera e altri settori.

I lavoratori hanno ricevuto una lettera nella quale veniva annunciato il loro trasferimento a un’altra società, la Passive refrigeration solutions (Prs), una start-up svizzera dai finanziatori sconosciuti, che non ha neppure un sito web e non ha mai prodotto niente. La sede è a Lugano. La Prs ha già sciolto ogni trattativa con Whirlpool per la cessione della sede di Napoli, anzi ha dato mandato ai propri legali per denunciare la Whirlpool a causa dei suoi comportamenti.

Intanto 14 operai han già accettato la buonuscita di 75mila euro proposta dall’azienda.

Il lento esodo dei lavoratori è cominciato un anno fa. Erano 420, ora sono 350. Finora nessuno di loro ha trovato un altro lavoro, anche perché a 45 anni (età media nella fabbrica) non è facile Poi c’è un altro migliaio di persone che lavora nell’indotto.

Quali errori si sono compiuti? Alcuni storici: aver indotto i Paesi comunisti a diventare capitalisti. Altri strategici: non aver occupato la fabbrica. Non avere alcuna idea di come ristrutturare una fabbrica in maniera non capitalistica. Fidarsi delle promesse di una multinazionale, concedendole ampie agevolazioni.

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