Super multa per la JPMorgan per manipolazione dei mercati. Ma tanto poi non cambia niente….

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La JP Morgan Chase, la più grande banca americana, dovrà pagare una multa di 920,2 milioni di dollari, la più salata della storia, per protratte operazioni di manipolazione del mercato. La decisione è stata presa dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia del governo statunitense che si occupa della regolamentazione dei future e di altri derivati finanziari contrattati sui mercati delle commodity, quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari.  Il suo scopo è quello di garantire l’integrità del settore finanziario.

Secondo l’ordinanza della citata Cftc, dal 2008 al 2016 la JP Morgan ha tenuto “una condotta manipolatrice e ingannevole” in particolare nei mercati dei metalli preziosi e dei contratti future legati alle obbligazioni del Tesoro. Di fatto, gli operatori, i trader, della JP Morgan hanno emesso centinaia di migliaia di ordini di acquisto che venivano poi ritirati, cancellati, prima della loro esecuzione. In questo modo hanno stravolto il normale andamento della domanda e dell’offerta, inducendo gli altri investitori a intraprendere azioni finanziarie basate su valutazioni e attese falsate.

In pratica il sistema JP Morgan funzionava in questo modo: gli operatori emettevano ordini farlocchi di acquisto, per esempio, di contratti future sull’oro, i cosiddetti spoof order. Creavano così un “effetto onda”, imitato da altri operatori, per far salire il prezzo dei derivati. Poi, un momento prima di ritirare gli ordini fatti, essi emettevano un ordine vero, il cosiddetto genuine order, con il quale, invece, vendevano il future, il cui valore a quel punto era salito.  

Solo per un dato segmento di operazioni analizzate, è stato appurato che la JP Morgan avrebbe fatto profitti per oltre 172 milioni di dollari mentre gli altri operatori avrebbero avuto perdite per circa 312 milioni.

Nell’ordinanza della Cftc si legge anche che per anni la banca ha disinformato e manipolato la stessa agenzia di controllo, rallentando così ogni possibile intervento di correzione e di sanzione. La JP Morgan non ha potuto nemmeno giustificarsi e scaricare le responsabilità su qualche singolo dipendente “avventuriero”, in quanto i vari dirigenti dei dipartimenti preposti ai mercati erano direttamente coinvolti.

Soltanto nel 2016 la JP Morgan avrebbe iniziato a collaborare con l’agenzia di controllo. Per questa ragione, e ciò è alquanto sorprendente, l’ammontare della multa è stato proposto dalla banca e accettato dalla Cftc. Inoltre, sempre per tale tardiva e discutibile dimostrazione di buona volontà e di cooperazione, l’agenzia non ha chiesto che la banca fosse squalificata e dichiarata bad actor e, quindi, esclusa dai mercati perché “cattivo operatore”. Il che, e non solo secondo noi, sarebbe stata una vera rivoluzione nella finanza.  

Ancora una volta per le banche too big to fail si applica un conveniente accordo di favore. Le multe, anche se apparentemente salate, sono spesso solo una misera percentuale dei profitti fatti illegalmente e fraudolentemente. Il loro patteggiamento, di conseguenza, comporta sempre la fine delle indagini e dei procedimenti legali intrapresi.

In merito, comunque, il Dipartimento di Giustizia e il Procuratore dello Stato del Connecticut stanno istruendo dei procedimenti penali per frode. Anche la Security Exchange Commission (Sec), la Consob americana, l’agenzia federale preposta alla sorveglianza delle attività delle borse valori e alla protezione degli investitori, sta iniziando un caso legale in sede civile. Vedremo se andranno oltre l’imposizione di semplici ammende. C’è poco da sperarci.

Indubbiamente è in corso un profondo dibattito negli Stati Uniti circa l’efficacia delle azioni di controllo e di repressione da parte delle agenzie preposte al funzionamento dei mercati. Infatti, due consiglieri della succitata Cftc, si sono dichiarati non completamente soddisfatti per la mancata applicazione dello status di bad actor per la JP Morgan. Hanno richiesto una maggiore e fattiva collaborazione tra la Cftc e la Sec, che avrebbe l’autorità di escludere dai mercati le banche e gli operatori considerati inaffidabili. “Essenzialmente, hanno detto i due consiglieri, oggi la Sec consiglia alla Cftc quello che la Cftc deve consigliare alla Sec, il cui regolamento, poi, le vieta di fare”, Un “procedimento circolare” che oscura la trasparenza e le responsabilità con uno spreco di risorse. E’ qualcosa che anche in Europa e in Italia dovremmo imparare, circa le nostre varie agenzie di controllo.

La gravità dell’affaire della JP Morgan va ben oltre il caso in sé. La manipolazione dei mercati delle commodity non ha soltanto una valenza finanziaria. In questi mercati vengono contrattate le derrate e le risorse più importanti per l’economia e per la vita dei popoli e dei singoli cittadini: il cibo, l’energia, e tutte le materi prime che entrano nei settori produttivi dell’economia reale.

Non ci si può dimenticare dei picchi d’inflazione relativi ai prezzi del grano, del riso o del petrolio che, più volte in questi primi venti anni del ventunesimo secolo, hanno stravolto intere nazioni e impoverito, spesso fino alla fame, centinaia di milioni di persone.

Su problemi di tale portata non si dovrebbe né mettere la testa sotto la sabbia per non vedere né usare la mano leggera quando si scoprono comportamenti illegali. Essi, di solito, sono alla base di scandalosi arricchimenti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il destino di Taiwan è segnato?

Su “Internazionale” un bell’articolo di Pierre Haski sui rapporti tra Cina e USA (21 ottobre 2020).

Questa settimana la Cina festeggia il settantesimo anniversario del suo ingresso nella guerra di Corea, nel 1950. Per Pechino la volontà di onorare i vecchi combattenti si aggiunge a quella di inviare un messaggio bellicoso a due potenziali avversari, gli Stati Uniti e Taiwan.

Nella guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, si affrontarono per la prima volta nel XX sec. gli eserciti cinese e americano.

Il messaggio dell’attuale governo è piuttosto esplicito: “abbiamo combattuto quando eravamo deboli e poveri, dunque non esiteremo a combattere ancora oggi”.

Gli eventi del 1950 hanno infatti assunto le forme del mito. All’epoca, l’esercito americano del generale MacArthur aveva salvato l’esercito sudcoreano dalla sconfitta coi comunisti del nord, e avanzava verso la frontiera cinese.

Ma nella notte del 19 ottobre 1950 Mao diede l’ordine a 250mila soldati cinesi di attraversare le acque gelate del fiume Yalu, prendendo di sorpresa le truppe statunitensi. Fu una carneficina, anche se i cinesi erano equipaggiati nettamente peggio degli americani. Mao aveva puntato sui numeri e aveva vinto, pur con pesanti perdite, compresa quella di suo figlio.

Nelle settimane successive gli statunitensi furono costretti ad arretrare fino all’attuale linea di demarcazione tra le due Coree. Per MacArthur fu una mezza sconfitta. Furioso, il vincitore della guerra nel Pacifico chiese a Washington l’autorizzazione a sganciare una bomba atomica sulla Cina. Il permesso fu negato e il generale fu sollevato dall’incarico.

Ora la Cina potrebbe approfittare della confusione dovuta alle elezioni negli Stati Uniti per lanciarsi all’assalto di Taiwan, anche se il rapporto di forze è ancora largamente favorevole agli americani.

Ormai da settimane Pechino aumenta la pressione sull’isola, rivendicata come propria sin dal 1949, in cui si affermò la rivoluzione di Mao.

La Repubblica Democratica Cinese di Taiwan è semipresidenziale, monocamerale e pluripartitica con oltre 22 milioni di abitanti. È dotata di un governo democraticamente eletto, di un esercito e di tutti i crismi di uno Stato indipendente, fatta eccezione per il riconoscimento internazionale, in quanto vari Paesi non la riconoscono, mentre altri non riconoscono la Cina: Swaziland, Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu, Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Paraguay.

Da quando Taiwan perse il suo seggio alle Nazioni Unite in qualità di rappresentante della “Cina” nel 1971 (sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese), la maggior parte degli Stati del mondo hanno spostato il loro riconoscimento diplomatico alla RPC, ammettendo che quest’ultima è la sola rappresentante legittima di tutta la Cina, anche se molti evitano deliberatamente di affermare chiaramente quali territori debba includere la Cina comunista.

Il che non impedisce a Taiwan di mantenere relazioni diplomatiche ufficiali con molti Stati sovrani.

La cosa curiosa è che, con la rielezione del KMT (Partito Nazionalista Cinese) al potere esecutivo nel 2008, il governo di Taiwan afferma che “la Cina continentale è parte del territorio della Repubblica Democratica Cinese”. È curiosa perché le domande della RDC di ammissione alle Nazioni Unite sono state respinte per 16 volte fin dai primi anni 1990.

Le femministe salveranno la Polonia dall’oscurantismo?

Un anno fa la Camera del parlamento polacco votò a favore di un disegno di legge che voleva criminalizzare la promozione dell’attività sessuale minorile, vietando l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole, riconosciuta dalle femministe come uno degli strumenti principali contro la violenza di genere, contro la trasmissione di malattie, per la riduzione di gravidanze indesiderate e della mortalità materna.

Il disegno di legge praticamente metteva sullo stesso piano pedofilia ed educazione sessuale. Educatori, insegnanti o medici se fanno riferimento, o danno consigli o rispondono a domande sul sesso in presenza di minori rischiano il carcere. Ora è in discussione al Senato, nonostante la ferma opposizione del Parlamento europeo.

Le scuole pubbliche polacche non prevedono, formalmente, l’insegnamento dell’educazione sessuale, ma prevedono lezioni di “vita familiare” spesso basate sui cosiddetti valori della famiglia tradizionale, sull’opposizione all’aborto, all’uso dei contraccettivi e ai diritti delle persone LGBTQI e sugli stereotipi di genere.

In diverse città del Paese, guidate da sindaci meno conservatori, sono stati avviati nelle scuole programmi di educazione sessuale, cosa che ha causato pesanti contestazioni da parte del partito di estrema destra al governo, Diritto e Giustizia (PiS), e da parte della Conferenza episcopale polacca, una delle più conservatrici in Europa.

In genere per le associazioni cattoliche l’educazione sessuale precoce porta alla depravazione, stimola l’eccitazione sessuale durante quelle stesse lezioni causando una sessualizzazione forzata, e promuove la cosiddetta “ideologia gender” (che non esiste).

Per queste associazioni l’aborto andrebbe vietato quasi completamente.

Infatti di recente hanno ottenuto dalla Corte costituzionale, attraverso i parlamentari più retrivi, che la malformazione del feto non sia più un motivo per abortire.

Da notare che in Polonia ancora oggi non avviene nessuna cerimonia pubblica a cui non sia presente almeno un membro del clero. Eppure proprio in questo Paese negli ultimi 25 anni sono stati denunciati numerosi casi di pedofilia nella Chiesa. Nel marzo 2019 le autorità ecclesiastiche avevano dichiarato di essere a conoscenza di almeno 382 sacerdoti che dagli anni Novanta a oggi avevano abusato di 625 minori.

* * *

Il 22 ottobre la Corte Costituzionale polacca ha stabilito che l’aborto per grave malformazione del feto viola la Costituzione. Quindi sono rimasti solo due i casi in cui si può abortire.

Infatti secondo la legislazione del 1993 l’aborto può essere fatto solo in tre casi: pericolo di vita per la madre, stupro e, appunto, grave malformazione del feto. Il 98% delle procedure abortive veniva praticato per quest’ultimo motivo.

Ora la sentenza della Corte stabilisce un divieto quasi totale di interruzione di gravidanza.

I giudici hanno motivato la sentenza, approvata con 11 voti favorevoli e 2 contrari, dicendo che non può esserci tutela della dignità di un individuo senza la protezione della vita.

Soddisfatta la maggioranza governativa guidata dal partito di estrema destra Diritto e Giustizia (PiS), appoggiata da diversi gruppi religiosi cattolici e da molti vescovi. Il leader di questo partito, completamente filo-Trump e anti-Putin, è molto attivo nel Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Cekia, Slovacchia), un gruppo sempre polemico con la UE, pur facendone parte dal 2004. Il premier si chiama Mateusz Morawiecki ed è figlio di uno dei fondatori di Solidarność, il sindacato più anticomunista che la Polonia abbia mai avuto, finanziato coi fondi del Vaticano.

Insomma è il solito problema che i cattolici più retrivi non sanno come affrontare: è “persona” l’embrione? Se sì, si dovrebbe impedire l’aborto anche in caso di stupro. In ogni caso può essere considerata meno importante la volontà di una donna rispetto alla non volontà di un embrione?

Ma forse sarebbero altre le domande scomode cui i polacchi dovrebbero rispondere. Per es.: cosa fanno le istituzioni, la società per indurre le donne a non abortire? Quali sono le garanzie o le tutele di cui una coppia o una donna può beneficiare perché sia indotta a non abortire? Sono facilmente accessibili i mezzi di controllo delle nascite? No, perché sono tantissimi i medici obiettori di coscienza. Esiste la possibilità legale del disconoscimento del neonato? Sì, ma in casi eccezionali. È possibile fruire di ampie agevolazioni sociali ed economiche nel caso in cui si voglia portare avanti la gravidanza? E come potrebbero? La Polonia si caratterizza per stipendi bassi, costo della vita elevato, elevata disoccupazione, scarse o nulle tutele sindacali e ammortizzatori sociali, forte emigrazione, soprattutto da parte di coppie giovani e ben istruite. Esiste una educazione sessuale in ambito scolastico? No, perché l’educazione sessuale viene equiparata alla pedofilia.

Possibile che un problema umano del genere debba essere affrontato solo con strumenti coercitivi di tipo legislativo? Se un problema così grave viene affrontato solo in questi termini, è evidente che la finalità è quella di imporre un controllo del corpo femminile e una dittatura sull’intera società.

Intanto secondo le organizzazioni femministe, sono tra 100mila e 200mila le donne polacche che ogni anno sono costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero per poterne avere accesso: in genere in Slovacchia, Cekia, Germania o Ucraina. Due di questi Paesi appartengono al suddetto Gruppo di Visegrád: non è ridicolo?

Il razzismo in Australia

Perché l’Australia è uno dei paesi più razzisti del mondo anglofono? Perché la politica dell’“Australia bianca” (con il rifiuto di tutti gli immigrati non bianchi) è stata ufficialmente abbandonata solo nel 1973.

La politica dell’Australia bianca fu un movimento politico isolazionista e di corrente xenofoba nato nel 1901, intenzionato a bloccare totalmente i flussi immigratori dall’estero.

L’ideatore di questo movimento fu Alfred Deakin, convinto che cinesi e giapponesi costituissero una seria minaccia al progresso del popolo bianco australiano, soprattutto per le proprie caratteristiche di instancabili lavoratori e la loro resistenza allo scarso tenore di vita.

Oggi invece è il gruppo di Murdoch che ha un istintivo atteggiamento islamofobo e xenofobo. Le varie testate della News Corp non si stancano mai di attaccare i musulmani e in generale di veicolare un razzismo spinto. Di recente hanno cominciato a sostenere i concetti del nazionalismo bianco e nel 2018 hanno diffuso ostinatamente il mito del “genocidio bianco” a danno degli agricoltori bianchi del Sudafrica.

Il dominio pressoché assoluto della News Corp nel panorama dei mezzi d’informazione australiani ha pochi eguali negli altri paesi democratici.

Sono così persuasivi che i profughi soccorsi in mare continuano a marcire in centri di detenzione nei vicini paesi insulari del Pacifico come Nauru e Papua Nuova Guinea. Oggi questa politica è talmente normalizzata da avere un sostegno bipartisan nel parlamento australiano.

Ma perché i bianchi australiani sono più razzisti dei bianchi neozelandesi, pur essendo stati i due paesi colonizzati a distanza di soli cinquant’anni l’uno dall’altro da persone provenienti dallo stesso paese e della stessa etnia: inglesi, irlandesi e scozzesi? La differenza sta nel fatto che i popoli che hanno incontrato erano molto diversi tra loro.

Gli aborigeni australiani vivevano in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, quasi disarmati e divisi da 600 lingue diverse. Non avevano mai sviluppato l’agricoltura, nonostante avessero abitato quelle terre per 65mila anni. I colonizzatori bianchi si limitarono a soggiogarli. Gli aborigeni non hanno ottenuto la cittadinanza e il diritto di voto fino al 1967.

La storia delle violenze razziali in Australia è andata avanti contro i cinesi nell’Ottocento, contro gli italiani negli anni trenta del Novecento e contro i libanesi nel 2005. Per questo motivo i bianchi australiani di oggi non sono preparati a un mondo segnato dal pluralismo culturale. Ma dovranno farsene una ragione, poiché al censimento della popolazione del 2001, solo il 39% della popolazione risultava essere di etnia bianca europea con avi appurati di origine britannica.

I maori neozelandesi, invece, erano arrivati appena cinquecento anni prima dei bianchi ma avevano già fattorie, vivevano in protostati (territori governati dai capi tribù) e avevano costruito fortezze in tutta la North Island.

L’arrivo dei colonizzatori bianchi fu devastante per i maori, ma erano un popolo abbastanza coriaceo da ottenere il rispetto degli invasori. Quando finalmente fu firmato un trattato, nel 1940, il documento era scritto in entrambe le lingue. Gli omicidi andarono avanti per altri trent’anni e i maori furono duramente colpiti, ma oggi il paese è ufficialmente bilingue e tutti i neozelandesi capiscono che si può vivere insieme a persone diverse.

Oggi le teorie razziste sono sostenute dai media di Murdoch, che hanno sicuramente favorito la strage di Christchurch del 15 marzo 2019, la quale, pur essendo avvenuta in Nuova Zelanda, era nata dal razzismo dell’Australia bianca.

Vi sono state 50 persone morte e il ferimento di altrettante. Furono prese di mira la moschea di Al Noor e il centro islamico di Linwood, entrambi i luoghi affollati da persone di religione musulmana che praticavano la preghiera del venerdì.

L’autore degli attentati di stampo islamofobo, un uomo australiano chiamato Brenton Harrison Tarrant di 28 anni vicino agli ambienti neofascisti, aveva trasmesso il video in diretta Facebook con una videocamera messa sulla testa. Sulle armi da lui utilizzate erano riportati nomi di storiche battaglie in cui i musulmani furono sconfitti (ad esempio quelle di Lepanto e di Tours) e nomi di personaggi storici o contemporanei responsabili di aver fatto guerra (in quanto comandanti militari) a persone di fede islamica e/o di aver ucciso persone di fede islamica.

È stato il più grande omicidio di massa della storia della Nuova Zelanda, un paese con una popolazione di più di quattro milioni di abitanti dove nel 2019 si sono verificati appena 35 omicidi.

La Nuova Zelanda è simile al Canada, dove il razzismo e i pregiudizi nei confronti degli immigrati e dei musulmani esistono, specialmente nelle aree rurali e nel francofono Québec, ma questa ostilità viene di rado manifestata apertamente, perché il rischio è quello di sembrare ignoranti. La gioventù delle città sembra sostanzialmente indifferente al colore della pelle.

La Nigeria al limite della guerra civile?

La Nigeria, ex colonia britannica, la più grande economia dell’Africa, è nella bufera. Il Paese più popoloso e urbanizzato dell’Africa (200 milioni di persone destinate a crescere fino a 440 milioni entro il 2050) è sconvolto dalle proteste che chiedono lo scioglimento della Sars (Special Anti Robbery Squad), una squadra di primo intervento istituita nel 1992 per combattere gli episodi di violenza nel Paese, ma che si è poi macchiata di episodi di corruzione, tortura e violenza generalizzata. Quasi un centinaio di inermi cittadini sono già stati ammazzati.

Al centro c’è la spaccatura tra un’élite vecchia e corrotta e una popolazione giovane e urbanizzata. Circa il 60% della popolazione ha meno di 24 anni e molti giovani si sentono esclusi da un sistema politico che è al servizio degli interessi di una parte ristretta della società.

La Nigeria è il maggiore produttore di petrolio in Africa, scoperto dalla società olandese Shell nel 1956 nel delta del Niger, oggi una delle zone più inquinate, più violente e povere del mondo. Gli introiti statali derivanti dalla produzione di greggio costituiscono più del 50% delle entrate totali del governo federale. Da questo commercio deriva il 90% del reddito statale in valuta estera.

I giganti occidentali del petrolio, Royal Dutch Shell (Paesi Bassi), Total (Francia), Agip (Italia), Exxon Mobil (USA), Chevron (USA), controllano il 95% dell’industria petrolifera della Nigeria attraverso delle joint-ventures. Il 20% del petrolio è destinato ai paesi europei, il 5% al Canada e all’Australia, mentre agli Stati Uniti è destinata la quota maggiore della torta con il 43%. Mentre quasi tutta la produzione giornaliera di petrolio viene esportata all’estero, la Nigeria deve importare circa 187.000 barili al giorno a prezzi esorbitanti. Una situazione assurda dovuta all’assenza di un’industria nazionale per i prodotti petroliferi. Il governo nigeriano contribuisce a questa situazione in cambio di tangenti.

Un tribunale militare condannò a morte nel 1995 lo scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa e altre otto persone perché lottavano contro i danni ambientali provocati dalla Shell. Infatti negli ultimi 50 anni le multinazionali petrolifere non solo hanno incamerato introiti per oltre 600 miliardi di dollari, ma hanno anche disperso nei corsi d’acqua e nelle terre del Delta 15 milioni di tonnellate di greggio.

Oggi c’è una generazione di giovani donne politicamente agguerrite che fanno capo all’influente Feminist Coalition, un collettivo di nigeriane nato nel luglio 2020 con l’obiettivo di ampliare i diritti e le possibilità delle donne nel Paese africano. Si chiedono possibilità di accesso gratuito ai servizi di base, come sanità e istruzione. Si chiedono lavoro e infrastrutture. Si vuol mandare a casa il governo del musulmano Muhammadu Buhari (ex golpista del 1983, salito al potere nel 2015), che ha imposto il coprifuoco, pur avendo sostituito la Sars con la Swat (Special Weapons and Tactics). Sono 10,6 milioni i nigeriani che vivono in grave stato di necessità. Il loro numero, anche a causa della pandemia, è in continuo aumento.

Fondamentale è il ruolo della diaspora nigeriana, molto forte negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa. Fin dall’inizio la diaspora ha supportato anche economicamente il movimento, organizzando manifestazioni in tutto il mondo, inclusa l’Italia.

Ma la tragedia della Nigeria è iniziata ben prima. Sono state 50.157 le morti violente legate a scontri armati avvenuti tra il 1997 e il 2015, con un picco nel 2015 quando le vittime sono state 10.933.

Nel 2016, il 7,8% dei conflitti armati in Africa ha avuto luogo in Nigeria, anche a causa della presenza nel nord-est del Paese di Boko Haram, nato nel 2002, che ha causato 1/4 di tutti i decessi in Africa, rendendo la Nigeria il paese più pericoloso per i civili africani: si conta che in sette anni di insurrezione armata il gruppo islamista abbia ucciso circa 15mila persone, costringendone all’esilio più di due milioni.

Boko Haram è un gruppo (diviso in due fazioni) a forte connotazione etnica perché intercetta il malcontento dei Kanuri, una popolazione del Nordest molto discriminata che vive in condizioni limite. Vuole trasformare la Nigeria in un emirato dominato dalla sharia. Considera nemici il governo e gli sponsor occidentali, americani, italiani, europei che avrebbero corrotto i costumi islamici dei nigeriani.

L’esercito non ha potuto far niente contro Boko Haram perché la Nigeria ha 139 gruppi etnici differenti e anche se tutti i militari hanno la stessa divisa, quando entrano in una regione di etnia diversa dalla propria vengono percepiti come forze di occupazione.

Vi è inoltre la potente la mafia nigeriana, formatasi agli inizi degli anni ’80, in seguito alla crisi del petrolio, che portò i gruppi dirigenti a cercare l’appoggio della criminalità per mantenere i loro privilegi. Si è poi sviluppata in Niger, Benin e nel resto del mondo. Presente in molti paesi (Germania, Spagna, Portogallo, Belgio, Romania, Regno Unito, Austria, Stati Uniti, Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Ucraina, Polonia, Russia, Brasile, Malta e Italia), gestisce oltre al traffico di eroina e di cocaina, la prostituzione delle proprie connazionali tenute in schiavitù col sequestro dei documenti e le minacce ai familiari rimasti nel paese d’origine. Oggi è capace di gestire anche i flussi di spam informatico e il cybercime evoluto fino al traffico di esseri umani.