Vent’anni di controcultura sorseggiando una tazza di tè

Sottoculture metropolitane a Padova negli ultimi vent’anni: se ne parlerà domenica3 dicembre alle 16 al circolo “Mela di Newton” in via Della Paglia, all’ombra della Specola,  in un’inusuale tavola rotonda con tè e biscotti. Interverranno per chiacchierare di punk, metal, goth, glam, skin, rockabilly e altro ancora Mara Persello dell’Università di Potsdam, Heman Zed scrittore, Scar Firstblackpope punk, Fulvio Tagliaferri dj radiofonico, organizzatore di concerti e musicista, Nicola Genovese artista, Simon Dredo rocker  e Caterina Cisotto giornalista. Obbligatorio portare una tazza per il tè. Per ulteriori informazioni sull’incontro telefonare a Macho
3403031736.

1) – Contro la crisi la politica monetaria da sola non funziona 2) Appello contro la caccia ai pensionati con la scusa delle “pensioni d’oro”

L’illusione di una governance delle liquidità

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** *Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Nel giro di pochi giorni le banche centrali ed i governi dei maggiori Paesi occidentali hanno preso una serie di decisioni finanziarie e monetarie di enorme portata. Se le si analizza una alla volta separatamente fanno notizia per un breve tempo e poi diventano passato. Se, invece, si prendono insieme diventano una strategia globale con preoccupanti conseguenze future. La Banca Centrale Europea ha portato il tasso di interesse di riferimento allo 0,25%, cioè allo stesso livello di quello della Federal Reserve. E’ dalla crisi del 2007 che i tassi di interesse hanno continuato a scendere senza effetti significativi sulla ripresa economica dimostrando che i vecchi strumenti di politica monetaria non funzionano. Sotto lo zero non si può andare; adesso i tassi potranno solo risalire. Continua a leggere

1) Rispondere agli USA con l’Eurasia 2) Fan di Israele, tattiche e tecniche: per chi non sa o fa il finto tonto

Le accuse all’Europa di deflazione. La sfida dello sviluppo eurasiatico.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

L’ultimo Rapporto semestrale del Tesoro americano sulla situazione economica internazionale addebita tutte le responsabilità della mancata stabilità dell’economia mondiale alla Germania. Il suo surplus commerciale sarebbe la causa di tutti i mali. Più che una esagerazione ci sembra una pura provocazione non solo nei confronti della Germania ma dell’Unione Europea. I malfunzionamenti e gli squilibri nel vecchio continente pur ci sono e spetta a noi affrontarli e risolverli.

In passato nel mirino c’era soprattutto la Cina a cui si addebitava che la mancata rivalutazione dello yuan avrebbe aggravato le difficoltà economiche degli Usa e di conseguenza anche del resto del mondo. Oggi il problema sarebbero le troppe esportazioni tedesche. Nel 2012 il surplus tedesco è stato di 238,5 miliardi di dollari superando di gran lunga i 193,1 miliardi della Cina. E nel primo semestre del 2013 il surplus tedesco è aumentato ancora andando oltre il 7% del Pil. Questi andamenti, secondo il Tesoro americano, e in mancanza di una crescita della domanda interna tedesca, starebbero provocando una situazione di deflazione, con una inflazione più bassa delle aspettative ed una stagnazione nei consumi in tutta Europa. Con conseguenze negative per gli Usa e il resto del mondo. Continua a leggere

Gli esiti delle guerre civili

La Francia e l’Inghilterra sono diventate due grandi nazioni (coi rispettivi imperi mondiali) solo dopo cocenti sconfitte in politica estera e sanguinose guerre civili, che la politica interna, fosse essa autoritaria o diplomatica, non seppe in alcun modo impedire.

Delle due nazioni, quella che subì più sconvolgimenti interni, di più lunga durata e di più forte intensità fu l’Inghilterra, che, non per nulla, diventò la prima nazione al mondo sino alla fine della seconda guerra mondiale.

L’inizio della catastrofe inglese porta la data della battaglia di Bouvines (1214), con cui la Francia, appoggiata dal papato, ebbe la meglio sul sovrano inglese Giovanni Senza Terra e sull’imperatore tedesco Ottone IV di Brunswick, iniziando seriamente a pensare alla propria unificazione nazionale.

Quella fu una battaglia storica, la prima tra monarchie cattoliche. La sconfitta inglese comportò addirittura che la corona dovette accettare la prima Costituzione democratica del mondo moderno: la Magna Charta Libertatum (1215) e nel 1258, con le Provvisioni di Oxford, il primo Parlamento europeo, diviso in Camera Alta (nobiliare) e Camera Bassa (borghese).

La dinastia Lancaster cercò di trasformare l’Inghilterra da paese agricolo-feudale a borghese, senza però riuscirvi, anche perché proprio sotto questa dinastia scoppiò, per motivi formalmente dinastici, la guerra dei Cent’anni (1337-1453) contro la Francia, la quale ebbe la meglio, cacciando definitivamente gli inglesi dal proprio territorio.

Dopo questa guerra la Francia cercò, a partire dal 1494, di occupare il nostro Mezzogiorno, che nel 1246 il papato aveva concesso in feudo agli Angioini per eliminare gli Svevi, e che era stato loro sottratto dagli Aragonesi, chiamati dai siciliani durante la guerra del Vespro (1282-1302), e poi dilagati in tutto il Mezzogiorno sino alla vittoria definitiva a Napoli nel 1442.

Tuttavia dal confronto con la Spagna, enormemente arricchitasi dopo il 1492, la Francia uscì sconfitta (pace di Cateau-Cambresis del 1559) e dovette rassegnarsi a non occupare più l’Italia sino ai tempi di Napoleone.

Dal canto suo l’Inghilterra, distrutta dalla guerra dei Cent’anni, si trovò immersa in una durissima guerra civile, detta delle Due Rose (bianca e rossa), in cui due Casati nobiliari, York e Lancaster, si distrussero a vicenda per trent’anni (1455-85), sino a quando vennero sostituiti dalla dinastia dei Tudor, la quale però, avendo scelto la riforma anglicana come ideologia e la borghesia come classe di riferimento, si trovò ben presto a scontrarsi con la resistenza dei cattolici e dei feudatari, capeggiati dagli Stuart.

La rivoluzione inglese fu durissima e lunghissima: dal 1603 al 1688, nel corso della quale i puritani calvinisti, perseguitati dai cattolici e dagli anglicani, fuggirono nell’America del Nord, ponendo le basi di quello che sarebbe diventato, dopo la seconda guerra mondiale, lo Stato più forte del mondo.

La Francia comunque non restò con le mani in mano, poiché, dopo quarant’anni di guerra civile (1559-98), immediatamente successiva alla sconfitta in Italia contro la Spagna, e che si concluse con l’Editto di Nantes, che assegnò piena libertà agli ugonotti calvinisti, decise di far scoppiare una nuova guerra, questa volta contro una Spagna strettamente alleata all’impero asburgico. È la famosa guerra dei Trent’anni (1618-48), in cui la Francia ebbe la meglio, riuscendo persino a insediare un proprio ramo, quello Borbone, sul trono spagnolo, ancora oggi esistente.

La Spagna, che aveva conquistato le terre americane in veste di paese feudale, ad un certo punto s’era accorta di non avere sufficienti mezzi contro nazioni di tipo borghese: la sua stessa flotta navale era già stata interamente distrutta da quella inglese nel 1588.

Quindi praticamente nel corso del XVII sec. si formarono in Europa due nazioni molto potenti: una sul continente, l’altra sui mari. E mentre l’Inghilterra non riuscirà mai più a conquistare militarmente l’Europa, la Francia invece riuscirà, seppur in ritardo rispetto agli inglesi, a farsi un impero coloniale di non poco conto: il ritardo peraltro venne recuperato proprio dopo la rivoluzione di fine Settecento, con cui si eliminò l’intera classe feudale.

Tutto questo per dire che le sconfitte che un paese subisce all’estero e le devastazioni procurate all’interno dalle guerre civili, di per sé non determinano affatto uno svolgimento negativo degli eventi. Anzi, i fatti hanno dimostrato che quanto più forti sono gli sconvolgimenti, tanto più è facile la transizione verso nuovi sistemi sociali. Questo perché le vecchie classi sociali subiscono un trauma da cui non riescono più a riprendersi, se non modificando radicalmente i propri comportamenti. Probabilmente la Francia ebbe bisogno di una propria cruenta rivoluzione un secolo dopo quella inglese proprio perché lo scontro tra aristocrazia e borghesia non era stato così risoluto nei secoli precedenti.

Da noi invece le guerre civili sono state molto rare e ci si è affidati di più al compromesso tra forze progressive e forze retrive. Le abbiamo avute ai tempi di Mario e Silla, che portarono all’istituzione del principato imperiale, e di nuovo nell’Ottocento per formare una nazione unita, che non a caso iniziò il proprio colonialismo in Africa, avendo creato più problemi di quanti ne aveva risolti; e poi ancora sotto il fascismo, che, non avendo risolto alcun vero problema economico, di nuovo portò all’avventura coloniale in Africa e nei Balcani;e poi ancora con la Resistenza, che portò l’Italia, tradendo se stessa, nell’alveo della democrazia formale borghese, all’americana; e poi infine nel decennio 1968-78, ove si contestò il formalismo della democrazia parlamentare, eliminando gli ultimi residui dell’autoritarismo fascista, senza però costituire alcuna valida alternativa alle contraddizioni del capitale.

Quanto più forti sono state le guerre civili in favore della borghesia, tanto più gli Stati han cercato di espandersi all’estero, a spese di altre popolazioni e di altri Stati. Oggi una guerra civile, se davvero vuole raggiungere la democrazia, non può più sperare di risolvere con la politica estera i problemi che non riesce a risolvere con la politica interna: scoppierebbe immediatamente una guerra mondiale.

Democrazia può soltanto voler dire una cosa: abbattere lo Stato e le sue istituzioni centralizzate. L’unico modo di realizzare la democrazia è quello di eliminare le istituzioni che la rendono formale e che presumono di rappresentarne l’idea stessa. L’unica alternativa possibile allo Stato centralista è la comunità locale, in cui vige la democrazia diretta, i bisogni della collettività vengono autogestiti e la proprietà dei mezzi produttivi è socializzata. Stato e mercato sono due obiettivi da abbattere, perché principali responsabili della dipendenza dei cittadini da realtà esterne alla loro volontà.

Riconciliarsi col proprio passato

Se, in via ipotetica, ammettessimo che la coscienza umana non è il frutto di un processo evolutivo, avvenuto per successive determinazioni quantitative, ma una caratteristica assolutamente originaria, la cui qualità intrinseca non dipende da particolari modificazioni della materia, saremmo poi in un certo senso costretti ad ammettere che con la fine dell’esistenza corporea dell’essere umano non può aver termine anche l’esistenza e quindi lo sviluppo della coscienza.

Cioè se esiste una correlazione tra materia e coscienza, o è negativa, nel senso che alla fine dell’una corrisponde la fine dell’altra, o è positiva, nel senso che non vi è un’origine per nessuna delle due ed entrambe sono destinate a durare nel tempo, influenzandosi a vicenda.

In altre parole: se l’essenza umana coesiste, in origine, con la materia, essa è destinata per sempre a tale coesistenza. Se invece ammettiamo che la coscienza è un prodotto evoluto della materia, dovremmo poi spiegarci perché questo prodotto non è destinato a sopravvivere alla morte del nostro corpo.

Infatti che senso avrebbe, da parte della natura, aver creato un prodotto così complesso e, fino a prova contraria, unico in tutto l’universo, per poi lasciare che si annulli al momento della morte del corpo? Sarebbe un incomprensibile spreco di risorse e di energie.

Delle due l’una: o la coscienza non è un prodotto assolutamente unico nell’universo ed è, in un certo senso, facilmente riproducibile anche in assenza di esseri umani, oppure noi siamo destinati a esistere anche dopo la morte del nostro fisico. Cioè il corpo è solo un involucro che la coscienza si è data per esistere sulla terra, ma, essendo destinati a esistere nell’universo, esso sarà libera di darsi un nuovo involucro, molto probabilmente con migliori caratteristiche qualitative, p. es. in grado di adeguare più facilmente il desiderio alla realtà; o forse soltanto con migliori caratteristiche quantitative, come p. es. la possibilità di viaggiare alla velocità della luce.

In un certo senso dovremmo dire che l’essere umano non è mai nato, proprio perché non morirà mai. Parole come nascere o morire dovremmo reinterpretarle, poiché quando vengono racchiuse in un orizzonte meramente terreno, acquisiscono un significato molto restrittivo. Il nostro pianeta è soltanto il luogo in cui la coscienza universale ha preso una forma corporea determinata, cui però non si sente legata in maniera assoluta.

La coscienza umana terrena è solo il riflesso di una coscienza umana universale: il corpo ch’essa ha assunto ha caratteristiche idonee per il pianeta in cui è stata chiamata a svilupparsi, ma non necessariamente si deve pensare che tali caratteristiche saranno le stesse in un’esistenza extra-terrena. Noi dovremmo considerarci più figli dell’universo che non di un semplice pianeta.

L’universo è la possibilità di ricapitolare tutte le cose, a un livello di consapevolezza che sarà enormemente superiore a quello che possiamo avere su questa terra, ove siamo strettamente condizionati da uno spazio e da un tempo finiti, limitati. Dovremmo, in tal senso, fare uno sforzo di fantasia e immaginarci all’interno di una dimensione spazio-temporale dove tutto è infinito, illimitato, e dove la stessa coscienza può raggiungere livelli di profondità impensabili su questa terra.

Cioè tutto quanto su questa terra abbiamo compiuto, pensando d’essere assolutamente nel giusto, dovrà essere sottoposto al vaglio di una coscienza universale. Nell’universo tempo e spazio coincidono in qualunque momento e luogo, per cui non ci sarà modo di sottrarsi a un giudizio di merito, confidando nel fatto che il passato non può più essere compreso come se fosse un presente.

Finché tutte le scelte compiute su questa terra non avranno trovato il loro punto di chiarimento, sarà impossibile andare avanti, pensando di poter fare qualcosa in comune. Il genere umano di tutti tempi dovrà riconciliarsi con se stesso. Non possiamo rischiare di ripetere nell’universo gli stessi madornali errori che abbiamo compiuto su questa terra e che ci sono costati immani sofferenze.

È anche vero però che nessuno può essere obbligato a credere in cose in cui è implicata la libertà di coscienza. Questo quindi vuol dire che il processo di umanizzazione dovrà poter andare avanti anche se una parte dell’umanità non ne vorrà sapere. Cioè se l’adeguamento del desiderio alla realtà non potrà essere il frutto di un’azione meramente soggettiva, che non tenga conto della libertà altrui, è anche vero che non ci potranno essere impedimenti allo sviluppo della coscienza altrui da parte di chi non vuole riconciliarsi col proprio passato.

Chi vuole migliorare se stesso, deve poterlo fare in libertà, rispettando la libertà altrui, e non potrà certo essere impedito dal farlo dalla non-libertà altrui. Nell’universo non esistono principi giuridici del tipo “chi ha sbagliato paga”, come, d’altra parte, non esiste alcuna verità autoevidente, che s’impone da sé. L’essere umano avrà soltanto la consapevolezza di poter migliorare se stesso, e il primo modo di farlo sarà quello di riconciliarsi col proprio passato, poiché questo, in una dimensione infinita di spazio tempo, gli è sempre presente.

Un destino segnato

Di tutte le crociate medievali in Medio oriente solo due risultarono decisive: la prima del 1096, che colse arabi e turchi del tutto impreparati, e la quarta, del 1204, che colse impreparati i bizantini. Delle due, quella che diede i frutti maggiori fu la seconda, che comportò la prima grave caduta di Costantinopoli e che, senza dubbio, favorì il suo crollo definitivo nel 1453, permettendo il formarsi di un gigantesco impero ottomano, comprendente tutta la costa africana, i Balcani e tutto il Medio oriente fino alla penisola arabica, durato sino alla fine della prima guerra mondiale.

Chi fu il responsabile di questo “gesto di madornale insipienza politica… che sconvolse – come dice Steven Runciman in Storia delle crociate – l’intero sistema di difesa della cristianità”? Fu l’occidente latino nel suo complesso, impersonato dal papa teocratico Innocenzo III, desideroso quanto mai di sottomettere la chiesa ortodossa; dal doge veneziano Enrico Dandolo, unicamente preoccupato di far acquisire alla sua Repubblica i maggiori vantaggi economici; da vari signori feudali, che ambivano ad assumere cariche prestigiose, come p.es. quella di re o addirittura di imperatore, smembrando un impero non meno cristiano del loro in occidente. E in mezzo a queste potenti forze clericali, borghesi e feudali stavano gli intrighi degli ambienti di corte della capitale bizantina, inevitabilmente soggetti ad ampie strumentalizzazioni.

La quarta crociata fu infatti l’esempio più eloquente del vero motivo che spinse decine di migliaia di persone a intraprendere delle avventure in cui rischiavano facilmente la vita: quello economico. In Europa occidentale le contraddizioni sociali avevano raggiunto un livello così acuto che ai ceti dominanti parve essere la politica estera l’unico mezzo per poterle risolvere.

Abituati a vivere rapporti sociali fortemente antagonistici, questi ceti dominanti, che coinvolsero, con la propaganda, anche quelli meno abbienti, ritenevano del tutto normale l’uso della violenza più efferata per la difesa della fede religiosa. Ci volle infatti la predicazione francescana prima di capire che con le armi della parola, della pace, del rispetto della diversità si potevano ottenere risultati più significativi.

Con le crociate il colonialismo europeo ebbe la meglio nel Mediterraneo fino al 1453, poi si spostò sull’Atlantico, andando a occupare tutte le coste africane, creando avamposti commerciali in tutta l’Asia e soprattutto invadendo l’intero continente americano. Sono praticamente mille anni che la cultura occidentale, prima europea, poi statunitense, domina tutti i principali mari del mondo, fonte primaria degli scambi commerciali. Il capitalismo ha le sue radici storiche, le sue premesse culturali, le sue basi economiche nel Mille.

Oggi stiamo addirittura assistendo alla nascita di un nuovo protagonista mondiale dell’economia capitalistica, estraneo alla cultura occidentale, ma che la va assimilando molto velocemente, seppur all’interno di proprie caratteristiche: la Cina. Un assaggio di questa nuova gestione asiatica dell’economia borghese l’avevano già dato il Giappone, la Corea del sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan, ecc., ma con la Cina si ha a che fare con un gigante senza paragoni, con un colosso che, quando inizierà a muoversi militarmente, non avrà difficoltà ad annettersi tutte le suddette “anticipazioni”.

Bisogna solo dargli il tempo di crescere, cioè il tempo di vedere che alle proprie interne contraddizioni, quando diverranno esplosive, non vi sarà altra soluzione che la guerra. E possiamo facilmente prevedere, sin da adesso, che quando il capitalismo viene gestito da uno Stato autoritario, militarizzato, a partito unico, il destino degli europei e degli americani, così individualisti, egocentrici e volubili, è segnato.

Ci serve una crociata

Mille anni fa la situazione sociale, economica, etica e politica era, in Europa occidentale, sull’orlo della catastrofe. La corruzione imperava ovunque. Dopo aver acquisito l’ereditarietà dei feudi maggiori, nell’877, ogni nobile si comportava, nei propri possedimenti, come un autentico despota, sapendo benissimo che nessuno avrebbe potuto impedirglielo, neppure il sovrano.

A Roma la carica di pontefice era appannaggio delle famiglie aristocratiche più influenti. Nepotismo e simonia nella chiesa non erano l’eccezione ma la regola, al punto che tra le fila del clero benedettino – uno dei maggiori proprietari terrieri – parti di una riforma generale che trovò soltanto nel fanatismo dogmatico e teocratico lo strumento migliore per affrontare l’immoralità dominante.

Lo stesso papato, insieme ai Franchi, aveva completamente distrutto il valore dell’istituzione imperiale del basileus bizantino, tanto che nel 1054 decise di separarsi definitivamente dalla chiesa ortodossa, che dell’impero d’oriente costituiva la rappresentazione più significativa.

La formazione delle città italiane stava avvenendo contro la feudalità rurale, e si stava sviluppando contro qualunque prerogativa imperiale. La borghesia era disposta a scendere a patti col papato in funzione anti-imperiale, ma non amava ingerenze di alcun tipo nella propria attività affaristica.

Avversa alla grande nobiltà era pure quella piccola, che pretese l’ereditarietà dei feudi minori nel 1037 e che appoggiò lo sviluppo dell’urbanizzazione.

La progressiva abolizione del servaggio nelle campagne comportava la formazione del primo proletariato cittadino, che però era già così numeroso da non poter essere assorbito in toto dalle nascenti manifatture.

Le tensioni erano molto forti: i Comuni più grandi tendevano a fagocitare quelli più piccoli e a ridurre i contadi rurali in aree coloniali prive di autonomia economica.

Bande di pirati normanni (a nord), ungari (a est) e saraceni (a sud) infestavano buona parte dell’Europa, e, di questi, sicuramente i primi erano i più organizzati e i più feroci, tant’è che in pochissimo tempo riuscirono a conquistare la Normandia, l’Inghilterra e l’Italia meridionale, e poco mancò, a est, che arrivassero ad annettersi la Russia e Bisanzio.

Intanto dalla Persia erano giunti i Turchi Selgiuchidi, i quali, dopo aver occupato il Medio oriente, stavano minacciando, in Asia minore, quel che era rimasto dell’impero bizantino.

Quando venne in occidente la richiesta, da parte del basileus, di un aiuto militare, nessuno vi prestò ascolto, sia perché i bizantini e gli ortodossi erano avvertiti come rivali nella fede religiosa (sin dai tempi del Filioque introdotto nel Credo) e nel potere politico (sin dai tempi dell’incoronazione illegale di Carlo Magno), sia perché l’occidente latino non aveva possedimenti da difendere in Palestina o nell’Africa settentrionale, anche se cominciava a preoccuparsi della presenza dei Mori in Spagna, in Sicilia e in altre località ove erano approdati come pirati.

Lo spirito di crociata nacque così, come tentativo di risolvere militarmente una crisi molto grave, che si trascinava da almeno due secoli. Bisognava darsi un’ottima motivazione – è questa la offrirono i Turchi intolleranti e fiscalmente esosi -, cui se ne sarebbe subito aggiunta un’altra: la possibilità di conquistare nuove terre in Medio oriente, che anche per colpa degli ebrei deicidi – si diceva – erano da sempre tormentate (l’antisemitismo nacque proprio in occasione della prima crociata).

La soluzione dei problemi interni venne affidata alla politica estera. Che è, in fondo, quello che stanno facendo oggi gli americani, che dopo il crollo delle torri di Manhattan, si sono inventati un nemico internazionale, chiamato “terrorista islamico”, che ha autorizzato loro a spiare il mondo intero per motivi di sicurezza e a dichiarare guerra a qualunque paese (o a minacciare di farlo) che, anche solo intenzionalmente, voglia munirsi di armi di sterminio di massa.

Gli Usa pensano di risolvere così il disastro della loro economia interna, indebitata fino al collo e corrotta quanto mai: stanno pressando tutti i paesi avanzati a muover guerra contro questo fantomatico “nemico mondiale” (che fino a ieri pareva essere il “socialismo reale”), e a farlo, beninteso, non in autonomia, ma seguendo le loro direttive strategiche.

Per convincersi a mettersi in fila dietro questi nuovi feudatari diretti in “oriente”, occorre soltanto che la situazione peggiori, che si acuiscano le contraddizioni e che emergano pseudo motivazioni ideali molto sentite. I più forti militarmente son loro: su questo non si può avere dubbi. E loro ci dicono d’essere anche i più democratici di tutti: per questo sono così odiati.

1) – Com’è in realtà amaro lo zucchero! 2) – La JP Morgan Chase della condanna se ne frega: business as usual!

1) – Il baccano che facciamo in Occidente su tragedie che facciamo finta di voler risolvere serve anche a coprire tragedie delle quali non sospettiamo neppure l’esistenza e che fanno da base per i nostri piaceri quotidiani. A malapena sappiamo che la benzina per le nostre auto e il petrolio delle nostre centrali elettriche, senza il quale creperemmo di freddo e paralisi varie, ha origini piuttosto violente. Abbiamo saputo, e presto dimenticato, che troppo spesso i giocattoli per i nostri bambini sono prodotti da masse di altri bambini trattati come schiavi in altre parti del mondo. Nulla sappiamo del fatto che la produzione di tè, caffè, cioccolata, banane e altre delizie che da secoli rendono “superiore” la nostra qualità della vita e dei consumi comporta nei luoghi di produzione danni a fronte dei quali la nostra inarrestabile emorragia italiana di morti e malati per il lavoro è poca cosa.
La cosa che ignoriamo del tutto è quanto sia in realtà amaro lo zucchero che ci addolcisce in mille modi il palato e soddisfa la gola, da quello nel caffè a quello per i dolci, le torte nuziali e di compleanno e mille altri usi ancora. Ecco perché questa volta pubblico un bell’articolo comparso su L’Espresso a firma del collega Marco Magrini, tratto dal sul seguente link:
DOSSIER
“Zucchero amaro”: la battaglia in difesa della terra.

Un business che vale 47 miliardi di dollari l’anno. Il rapporto Oxfam rivela una sorta di colonialismo per il land grabbing: sfratti ed espropri, omicidi e conflitti, popolazioni sfollate. Disastri causati dalla nuova corsa all’oro: la caccia ai terreni. Ma le Ong si sono schierate contro le multinazionali

di Marco Magrini
Oltre all’oppio, al whisky e al tabacco, c’è un’altra droga che ha definito lo strapotere dell’Impero Britannico agli albori della globalizzazione, fra il ‘600 e l‘800. In nome di quella sostanza, la corona inglese colonizza paesi e isole tropicali, escogitando anche un curioso sistema di reclutamento della manodopera per le sue piantagioni: la prima tratta degli schiavi. Oggi, a secoli di distanza, gli schiavi non ci sono più. Ma non è finita la conquista di nuove terre per coltivare estensivamente quella stessa risorsa: lo zucchero. Continua a leggere

Violenza e non-violenza

La non-violenza non serve a far cadere i governi corrotti, reazionari. Una dittatura può anche ridurre il proprio arbitrio, ma lo farà solo per continuare a governare. La non-violenza non spaventa nessuno. In Sudafrica il governo razzista ha ammesso la sconfitta non perché c’era la non-violenza di Mandela, ma perché esistevano forti pressioni internazionali. Lo stesso accadde nell’India di Gandhi. I paesi capitalisti han bisogno dei mercati mondiali: non possono restare isolati, basandosi sull’autoconsumo.

Tuttavia, senza una rivoluzione vera e propria, i conflitti al massimo si attenuano, ma non si superano. È assurdo pensare che una dittatura accetti di lasciarsi superare dalla non-violenza. Anzi, in genere, accade il contrario: se all’arbitrio non si reagisce con fermezza, il potere non avrà motivo di non continuare a usarlo. La non-violenza va bene non per abbattere le dittature, ma per costruire l’alternativa dopo averle abbattute, e solo a condizione che tutti siano disarmati e che le contraddizioni fondamentali siano state risorte.

In tal senso è stato un errore gravissimo dello stalinismo sostenere che quanto più si edifica il socialismo, tanto più forte è la reazione negativa dei fautori del capitalismo. Dicendo questo, non si faceva altro che istituzionalizzare l’uso della violenza da parte del governo.

Quando si preparano le rivoluzioni armate, la non-violenza serve per dimostrare che la violenza è unicamente dalla parte del potere corrotto e autoritario. La non-violenza serve per acquisire consenso, non come criterio di strategia generale. Infatti essa è relativa: le masse rivoluzionarie non useranno violenza finché questa non verrà usata da chi le domina.

La violenza non può essere gratuita, ma solo una forma di legittima difesa. Una non-violenza ad oltranza viene predicata solo dei poteri dominanti e solo per convincere i ceti oppressi a non ribellarsi. L’ideologia della non-violenza ad oltranza impedisce qualunque rivoluzione, poiché ipostatizza un atteggiamento, prescindendo da qualunque svolgimento dei fatti. È soltanto una posizione schematica, ideologica, finalizzata a difendere i poteri costituiti.

La differenza tra rivoluzione violenta e non-violenta sta unicamente nel fatto che la prima non considera le persone individualmente responsabili del sistema che difendono. La lotta infatti è contro un sistema, non contro le persone: è una lotta di idee. Eliminare singole persone di governo significa fare del terrorismo.

Chi domina deve avere terrore di chi patisce ed è pronto a ribellarsi, ma proprio perché sa che la ribellione sarà di massa. È evidente che quando si ottiene un consenso di massa attorno a una determinata idea di società alternativa, l’esigenza di usare la violenza, da parte di chi cerca un’alternativa, sarà minore, poiché si spera sempre che tra le persone di governo vi sia qualcuna riluttante a buttarsi in una repressione di massa, il cui esito potrebbe essere molto incerto.

Ma questo non vuole affatto dire che chi ha organizzato una rivoluzione di massa, non debba essere pronto a difenderla anche con le armi. Una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla. E il potere deve capire che è giunta la sua ora: nel momento culminante dell’azione rivoluzionaria di massa non vi possono essere titubanze, tentennamenti. Sarebbe da irresponsabili indugiare nei momenti decisivi.

Non si può giocare a fare i rivoluzionari. Non si possono consegnare nelle mani della reazione migliaia o decine di migliaia di persone, nella convinzione che una grande repressione scuoterà le coscienze e indurrà gli incerti ad aderire alla rivoluzione. Sono piuttosto i dittatori ad affermare di aver bisogno di almeno mezzo milione di morti per poter sedere al tavolo delle trattative di pace.

Questi calcoli cinici e meschini, che non tengono in alcuna considerazione la vita umana, non si giustificano neanche di fronte alla peggiore dittatura e non potranno certo costituire la base su cui costruire una valida alternativa. In nessun momento l’azione rivoluzionaria può porsi in maniera contraddittoria ai fini che vuole realizzare. Il fine certamente giustifica i mezzi, ma non fino al punto da sacrificare i valori umani. Non abbiamo bisogno né di gesuiti né di machiavellici.

Parmenide, Eraclito e l’occupazione delle fabbriche

Che la filosofia sia cosa astratta e quindi inutile ai fini pratici, è dimostrato anche dal fatto che un’affermazione del genere: “L’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere” (che, come noto, è di Parmenide), pur essendo altamente dogmatica e quindi povera di contenuto, può anche pescare nel vero se si fa coincidere l’essere con la realtà e il non essere col desiderio. Le parole della filosofia son come la sabbia che, quando scende da un pugno chiuso, va dove tira il vento.

Parmenide era un fanatico (oggi diremmo “talebano”) che credeva nell’autoevidenza della verità e che quindi rifiutava l’unità degli opposti che si attraggono e si respingono. La verità, per lui, non può essere data da un libero e democratico confronto tra opinioni diverse, ma può essere solo imposta da chi pensa di avere più ragione degli altri. È una verità aristocratica. Solo i credenti si mettono dalla parte di Parmenide, ovviamente non prima d’aver equiparato la sua concezione di “essere” con quella di “dio”.

Nondimeno se Parmenide avesse fatto coincidere l’essere con la realtà (sociale, umana) e quindi con l’esistenza, inevitabilmente carica di problemi da risolvere, gli si sarebbe anche potuto dar ragione quando diceva che il non essere non esiste. In tal caso infatti il non essere sarebbero i sogni, i desideri astratti, la confusione che uno fa tra la realtà e i propri desideri.

Dunque, in tal caso, sarebbe stato vero: solo l’essere è, con tutte le sue contraddizioni, mentre il non essere, con tutte le sue fantasie, non è, non ha sostanza e chi lo predica s’illude di poter cambiare le cose. Il non essere rappresenterebbe la visione onirica, utopistica, quella di chi vorrebbe cambiare tutto e subito, senza rendersi conto delle vere contraddizioni sociali, per il cui affronto occorre un consenso di massa. Cosa di cui i filosofi non si preoccupano affatto, poiché in genere sono degli individualisti, tant’è che quando si mettono a fare politica in senso vero e proprio, tutta la loro filosofia non vale assolutamente nulla. I filosofi sono degli idealisti che non amano sporcarsi le mani.

Resta comunque difficile spezzare una lancia a favore di Parmenide, proprio perché egli vedeva la realtà come qualcosa da superare grazie appunto alla sua concezione astratta dell’essere, con cui rifiutava l’idea dell’opposizione, cioè appunto l’idea del non essere, che quell’idea meravigliosa per cui, davanti agli orrori dell’essere, bisogna sempre essere capaci di offrire all’uomo una nuova possibilità. Dobbiamo infatti esser grati al non essere se riusciamo ancora oggi a credere nella possibilità di cambiare l’esistente.

Questa cosa era già stata capita dall’avversario n. 1 di Parmenide: Eraclito, per il quale l’opposizione di contrari costituiva il senso della vita. Tuttavia, siccome anche lui era un filosofo astratto, quel che di buono aveva detto rischia sempre di trasformarsi nel suo contrario. Nel senso che se da un lato è vero che essere e non essere devono perennemente coesistere, è anche vero che non tutte le opposizioni meritano di sopravvivere.

Tutti noi ricordiamo, dai banchi di scuola, il famoso apologo di Menenio Agrippa, quando, per convincere i plebei a tornare alle loro case, rinunciando alla lotta di classe, disse che un giorno tutte le membra del corpo s’erano rifiutate di lavorare per non ingrassare lo stomaco, che, a parere loro, non faceva nulla. Ma, dopo qualche tempo, le membra s’erano accorte che anche loro illanguidivano, proprio come lo stomaco; ed allora compresero che, se non avessero nutrito lo stomaco, si sarebbero indebolite sempre di più, fino a morire.

Ecco a cosa può portare un’interpretazione sbagliata della filosofia dialettica di Eraclito: a credere che il capitale sia necessario al lavoro. Imprenditori privati, che dispongono di capitali e non lavorano, e operai salariati, che lavorano senza avere mai dei profitti, non sono due poli opposti che devono cercare di coesistere pacificamente. Essi rappresentano la contraddizione irriducibile di questo sistema, che all’interno di esso non può in alcun modo essere risolta.

Gli operai devono prendere coscienza che quando le aziende chiudono, per un motivo o per un altro, esse vanno occupate ed eventualmente riconvertite. I lavoratori devono iniziare a chiedersi non come fare per sopportare la crisi del sistema, ma come cercare un’alternativa radicale, che anzitutto vuol dire riprendersi il proprio territorio, recuperandone le risorse naturali e le radici culturali. Vuol dire sondare ciò di cui i suoi abitanti possono aver bisogno e iniziare quindi a produrre per soddisfare finalmente le necessità concrete e non le mere esigenze di profitto.

Se la proprietà dei mezzi produttivi non passa dalle mani di chi gestisce i capitali a quelle di chi gestisce il lavoro, si continuerà a parlare di crisi del sistema in eterno. Il non essere non è tenuto a convivere con un essere che di umano e di naturale non ha proprio nulla.