1) – Com’è in realtà amaro lo zucchero! 2) – La JP Morgan Chase della condanna se ne frega: business as usual!

1) – Il baccano che facciamo in Occidente su tragedie che facciamo finta di voler risolvere serve anche a coprire tragedie delle quali non sospettiamo neppure l’esistenza e che fanno da base per i nostri piaceri quotidiani. A malapena sappiamo che la benzina per le nostre auto e il petrolio delle nostre centrali elettriche, senza il quale creperemmo di freddo e paralisi varie, ha origini piuttosto violente. Abbiamo saputo, e presto dimenticato, che troppo spesso i giocattoli per i nostri bambini sono prodotti da masse di altri bambini trattati come schiavi in altre parti del mondo. Nulla sappiamo del fatto che la produzione di tè, caffè, cioccolata, banane e altre delizie che da secoli rendono “superiore” la nostra qualità della vita e dei consumi comporta nei luoghi di produzione danni a fronte dei quali la nostra inarrestabile emorragia italiana di morti e malati per il lavoro è poca cosa.
La cosa che ignoriamo del tutto è quanto sia in realtà amaro lo zucchero che ci addolcisce in mille modi il palato e soddisfa la gola, da quello nel caffè a quello per i dolci, le torte nuziali e di compleanno e mille altri usi ancora. Ecco perché questa volta pubblico un bell’articolo comparso su L’Espresso a firma del collega Marco Magrini, tratto dal sul seguente link:
DOSSIER
“Zucchero amaro”: la battaglia in difesa della terra.

Un business che vale 47 miliardi di dollari l’anno. Il rapporto Oxfam rivela una sorta di colonialismo per il land grabbing: sfratti ed espropri, omicidi e conflitti, popolazioni sfollate. Disastri causati dalla nuova corsa all’oro: la caccia ai terreni. Ma le Ong si sono schierate contro le multinazionali

di Marco Magrini
Oltre all’oppio, al whisky e al tabacco, c’è un’altra droga che ha definito lo strapotere dell’Impero Britannico agli albori della globalizzazione, fra il ‘600 e l‘800. In nome di quella sostanza, la corona inglese colonizza paesi e isole tropicali, escogitando anche un curioso sistema di reclutamento della manodopera per le sue piantagioni: la prima tratta degli schiavi. Oggi, a secoli di distanza, gli schiavi non ci sono più. Ma non è finita la conquista di nuove terre per coltivare estensivamente quella stessa risorsa: lo zucchero. Continua a leggere

Violenza e non-violenza

La non-violenza non serve a far cadere i governi corrotti, reazionari. Una dittatura può anche ridurre il proprio arbitrio, ma lo farà solo per continuare a governare. La non-violenza non spaventa nessuno. In Sudafrica il governo razzista ha ammesso la sconfitta non perché c’era la non-violenza di Mandela, ma perché esistevano forti pressioni internazionali. Lo stesso accadde nell’India di Gandhi. I paesi capitalisti han bisogno dei mercati mondiali: non possono restare isolati, basandosi sull’autoconsumo.

Tuttavia, senza una rivoluzione vera e propria, i conflitti al massimo si attenuano, ma non si superano. È assurdo pensare che una dittatura accetti di lasciarsi superare dalla non-violenza. Anzi, in genere, accade il contrario: se all’arbitrio non si reagisce con fermezza, il potere non avrà motivo di non continuare a usarlo. La non-violenza va bene non per abbattere le dittature, ma per costruire l’alternativa dopo averle abbattute, e solo a condizione che tutti siano disarmati e che le contraddizioni fondamentali siano state risorte.

In tal senso è stato un errore gravissimo dello stalinismo sostenere che quanto più si edifica il socialismo, tanto più forte è la reazione negativa dei fautori del capitalismo. Dicendo questo, non si faceva altro che istituzionalizzare l’uso della violenza da parte del governo.

Quando si preparano le rivoluzioni armate, la non-violenza serve per dimostrare che la violenza è unicamente dalla parte del potere corrotto e autoritario. La non-violenza serve per acquisire consenso, non come criterio di strategia generale. Infatti essa è relativa: le masse rivoluzionarie non useranno violenza finché questa non verrà usata da chi le domina.

La violenza non può essere gratuita, ma solo una forma di legittima difesa. Una non-violenza ad oltranza viene predicata solo dei poteri dominanti e solo per convincere i ceti oppressi a non ribellarsi. L’ideologia della non-violenza ad oltranza impedisce qualunque rivoluzione, poiché ipostatizza un atteggiamento, prescindendo da qualunque svolgimento dei fatti. È soltanto una posizione schematica, ideologica, finalizzata a difendere i poteri costituiti.

La differenza tra rivoluzione violenta e non-violenta sta unicamente nel fatto che la prima non considera le persone individualmente responsabili del sistema che difendono. La lotta infatti è contro un sistema, non contro le persone: è una lotta di idee. Eliminare singole persone di governo significa fare del terrorismo.

Chi domina deve avere terrore di chi patisce ed è pronto a ribellarsi, ma proprio perché sa che la ribellione sarà di massa. È evidente che quando si ottiene un consenso di massa attorno a una determinata idea di società alternativa, l’esigenza di usare la violenza, da parte di chi cerca un’alternativa, sarà minore, poiché si spera sempre che tra le persone di governo vi sia qualcuna riluttante a buttarsi in una repressione di massa, il cui esito potrebbe essere molto incerto.

Ma questo non vuole affatto dire che chi ha organizzato una rivoluzione di massa, non debba essere pronto a difenderla anche con le armi. Una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla. E il potere deve capire che è giunta la sua ora: nel momento culminante dell’azione rivoluzionaria di massa non vi possono essere titubanze, tentennamenti. Sarebbe da irresponsabili indugiare nei momenti decisivi.

Non si può giocare a fare i rivoluzionari. Non si possono consegnare nelle mani della reazione migliaia o decine di migliaia di persone, nella convinzione che una grande repressione scuoterà le coscienze e indurrà gli incerti ad aderire alla rivoluzione. Sono piuttosto i dittatori ad affermare di aver bisogno di almeno mezzo milione di morti per poter sedere al tavolo delle trattative di pace.

Questi calcoli cinici e meschini, che non tengono in alcuna considerazione la vita umana, non si giustificano neanche di fronte alla peggiore dittatura e non potranno certo costituire la base su cui costruire una valida alternativa. In nessun momento l’azione rivoluzionaria può porsi in maniera contraddittoria ai fini che vuole realizzare. Il fine certamente giustifica i mezzi, ma non fino al punto da sacrificare i valori umani. Non abbiamo bisogno né di gesuiti né di machiavellici.

Parmenide, Eraclito e l’occupazione delle fabbriche

Che la filosofia sia cosa astratta e quindi inutile ai fini pratici, è dimostrato anche dal fatto che un’affermazione del genere: “L’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere” (che, come noto, è di Parmenide), pur essendo altamente dogmatica e quindi povera di contenuto, può anche pescare nel vero se si fa coincidere l’essere con la realtà e il non essere col desiderio. Le parole della filosofia son come la sabbia che, quando scende da un pugno chiuso, va dove tira il vento.

Parmenide era un fanatico (oggi diremmo “talebano”) che credeva nell’autoevidenza della verità e che quindi rifiutava l’unità degli opposti che si attraggono e si respingono. La verità, per lui, non può essere data da un libero e democratico confronto tra opinioni diverse, ma può essere solo imposta da chi pensa di avere più ragione degli altri. È una verità aristocratica. Solo i credenti si mettono dalla parte di Parmenide, ovviamente non prima d’aver equiparato la sua concezione di “essere” con quella di “dio”.

Nondimeno se Parmenide avesse fatto coincidere l’essere con la realtà (sociale, umana) e quindi con l’esistenza, inevitabilmente carica di problemi da risolvere, gli si sarebbe anche potuto dar ragione quando diceva che il non essere non esiste. In tal caso infatti il non essere sarebbero i sogni, i desideri astratti, la confusione che uno fa tra la realtà e i propri desideri.

Dunque, in tal caso, sarebbe stato vero: solo l’essere è, con tutte le sue contraddizioni, mentre il non essere, con tutte le sue fantasie, non è, non ha sostanza e chi lo predica s’illude di poter cambiare le cose. Il non essere rappresenterebbe la visione onirica, utopistica, quella di chi vorrebbe cambiare tutto e subito, senza rendersi conto delle vere contraddizioni sociali, per il cui affronto occorre un consenso di massa. Cosa di cui i filosofi non si preoccupano affatto, poiché in genere sono degli individualisti, tant’è che quando si mettono a fare politica in senso vero e proprio, tutta la loro filosofia non vale assolutamente nulla. I filosofi sono degli idealisti che non amano sporcarsi le mani.

Resta comunque difficile spezzare una lancia a favore di Parmenide, proprio perché egli vedeva la realtà come qualcosa da superare grazie appunto alla sua concezione astratta dell’essere, con cui rifiutava l’idea dell’opposizione, cioè appunto l’idea del non essere, che quell’idea meravigliosa per cui, davanti agli orrori dell’essere, bisogna sempre essere capaci di offrire all’uomo una nuova possibilità. Dobbiamo infatti esser grati al non essere se riusciamo ancora oggi a credere nella possibilità di cambiare l’esistente.

Questa cosa era già stata capita dall’avversario n. 1 di Parmenide: Eraclito, per il quale l’opposizione di contrari costituiva il senso della vita. Tuttavia, siccome anche lui era un filosofo astratto, quel che di buono aveva detto rischia sempre di trasformarsi nel suo contrario. Nel senso che se da un lato è vero che essere e non essere devono perennemente coesistere, è anche vero che non tutte le opposizioni meritano di sopravvivere.

Tutti noi ricordiamo, dai banchi di scuola, il famoso apologo di Menenio Agrippa, quando, per convincere i plebei a tornare alle loro case, rinunciando alla lotta di classe, disse che un giorno tutte le membra del corpo s’erano rifiutate di lavorare per non ingrassare lo stomaco, che, a parere loro, non faceva nulla. Ma, dopo qualche tempo, le membra s’erano accorte che anche loro illanguidivano, proprio come lo stomaco; ed allora compresero che, se non avessero nutrito lo stomaco, si sarebbero indebolite sempre di più, fino a morire.

Ecco a cosa può portare un’interpretazione sbagliata della filosofia dialettica di Eraclito: a credere che il capitale sia necessario al lavoro. Imprenditori privati, che dispongono di capitali e non lavorano, e operai salariati, che lavorano senza avere mai dei profitti, non sono due poli opposti che devono cercare di coesistere pacificamente. Essi rappresentano la contraddizione irriducibile di questo sistema, che all’interno di esso non può in alcun modo essere risolta.

Gli operai devono prendere coscienza che quando le aziende chiudono, per un motivo o per un altro, esse vanno occupate ed eventualmente riconvertite. I lavoratori devono iniziare a chiedersi non come fare per sopportare la crisi del sistema, ma come cercare un’alternativa radicale, che anzitutto vuol dire riprendersi il proprio territorio, recuperandone le risorse naturali e le radici culturali. Vuol dire sondare ciò di cui i suoi abitanti possono aver bisogno e iniziare quindi a produrre per soddisfare finalmente le necessità concrete e non le mere esigenze di profitto.

Se la proprietà dei mezzi produttivi non passa dalle mani di chi gestisce i capitali a quelle di chi gestisce il lavoro, si continuerà a parlare di crisi del sistema in eterno. Il non essere non è tenuto a convivere con un essere che di umano e di naturale non ha proprio nulla.