Specie umana e animale

E’ ridicolo pensare che la coscienza sia un prodotto evolutivo della materia o della natura, poiché, se ciò fosse vero, non si capirebbe il motivo per cui essa non sia presente in alcun animale.

Noi possiamo soltanto fingere di poter parlare con gli animali o ci illudiamo di poterlo fare, ma non c’è assolutamente modo ch’essi apprendano qualcosa che vada al di là dell’istinto o dell’abitudine. Gli animali si adattano all’ambiente per abitudine e, se lo modificano, lo fanno sulla base di certi istinti, ma sono lontani dall’essere davvero creativi. A noi paiono versatili semplicemente perché le specie sono illimitate, ma ogni specie, in realtà, non ha fatto altro che specializzarsi in qualcosa di particolare.

Solo noi abbiamo la possibilità di riprodurre, in qualche modo, tutte queste particolarità. L’essere umano sembra essere la sommatoria di tutte le specie viventi, incluse quelle estinte. Quindi questa nostra prerogativa ci porta inevitabilmente a pensare che all’origine di ogni specie animale vi sia stata una sorta di essenza umana, da cui, per sottrazione, tutte le specie si sono formate.

Le specie animali non hanno fatto che specializzarsi in una delle infinite caratteristiche dell’essenza umana universale. Non siamo stati noi a ereditare il meglio degli animali, ma sono stati gli animali a trovarsi, per così dire, specializzati in una o più qualità già presenti in tale essenza. Tant’è che noi, volendo, possiamo riprodurre qualunque peculiarità del mondo animale, mentre gli animali non sono in grado d’imitare, se non in misura molto ridotta, le caratteristiche umane e, di queste, solo alcune.

Le specie animali sono così specializzate nelle loro particolarità che provano non poche difficoltà a imitarsi persino tra loro. Se lo facessero, sarebbe, per loro, come andare contro natura. Un carnivoro che non mangiasse un erbivoro, quanto tempo durerebbe? Formiche e api vivono solo in grandi collettivi, ma con regole del tutto diverse e non arriveranno mai a modificarle osservandosi a vicenda.

Noi in realtà non abbiamo nulla da imparare dagli animali. Ci diciamo il contrario soltanto perché noi stessi non ci comportiamo in maniera umana. È evidente, infatti, che la disumanità ci rende peggiori degli animali e quando ci accusiamo di comportarci come animali, in realtà stiamo dicendo una cosa senza senso, in quanto nessun animale fa per istinto ciò che noi facciamo in libertà. Dovremmo limitarci a dire che siamo peggio delle bestie, ma anche questa espressione è ingenerosa nei confronti degli animali. La realtà è che una libertà usata negativamente è infinitamente peggiore, proprio per le sue enormi possibilità, di qualunque istinto e, sotto questo aspetto, gli animalisti avranno tutte le ragioni di questo mondo a preferire gli animali agli esseri umani.

Anzi, questo forse spiega il motivo per cui tutte le specie animali, appena hanno modo di conoscerlo, hanno terrore dell’essere umano. È da almeno 6000 anni che gli animali sono abituati a vederci come il loro nemico n. 1. E non sarebbe strano se essi si fossero trasmessi questa paura anche per via genetica. Non è affatto vero, parlando per assurdo, che i dinosauri sono scomparsi per far posto all’uomo: se ci avessero dato fastidio, avremmo sicuramente trovato il modo di farli fuori. I dinosauri rappresentano soltanto l’infanzia dell’umanità, quando, da piccoli, ci piaceva giocare coi mostri, coi giganti dalla forza spaventosa. I dinosauri sono scomparsi perché noi siamo diventati adulti e abbiamo capito che più importante della forza è l’astuzia e più importante dell’astuzia è la capacità di voler bene, cosa che solo con una coscienza matura sappiamo esercitare.

Come faremo a gestire l’universo?

In uno spazio e in un tempo infiniti non ci si può mai fermare. Cioè quando si ha consapevolezza dell’infinità delle cose, il rischio che si corre non può certo essere quello della rassegnazione. Sulla terra, se uno sbaglia, può anche pagare tutta la vita: dipende da ciò che ha fatto. Spesso anzi siamo così intolleranti che infliggiamo pene di molto superiori al torto compiuto. Ma nell’universo avremmo il problema opposto, quello cioè di capire e far capire che uno non può affrontare con superficialità i valori umani soltanto perché sa di avere sempre a disposizione la possibilità di ricominciare da capo.

Di fronte a un proprio errore, la pena va comunque avvertita, altrimenti non c’è maturazione e la pedagogia diventa una scienza inutile. Certo è che la pena non potrà essere la stessa. Avendo la consapevolezza dell’infinità, la pena dovrà per forza essere qualcosa in grado di toccare l’interiorità della coscienza. Se si approfondisce la consapevolezza dell’estensione, relativa a un tempo e a uno spazio infiniti, deve per forza aumentare di molto la consapevolezza della profondità della coscienza.

L’essenza umana dovrà potersi salvaguardare anche in un mutamento radicale delle forme della sua vivibilità. Tuttavia una qualunque forma di esperienza, nell’infinità dello spazio e del tempo, non potrà mai prescindere dalla responsabilità del qui ed ora. Anche perché il principale compito dell’essenza umana è quello di approfondire se stessa, e questo è possibile solo in uno stretto contatto con altre essenze umane. Vivere rapporti superficiali, nella dimensione dell’universo, sarà la cosa più stupida che potremo fare.

Noi siamo soltanto destinati ad approfondire le cose, cioè a trovare i modi e le forme in cui l’essenza umana possa esprimersi al meglio. Il vero problema da affrontare sarà quello di far sì che a ognuno venga data questa possibilità. La democrazia non potrà certo essere un valore formale, come lo è oggi sulla terra. Una democrazia che prescinde totalmente dalle condizioni effettive della sua realizzazione, non vale nulla. Noi abbiamo bisogno di porre le condizioni per le quali ognuno si senta investito di una certa responsabilità personale. E questo è possibile soltanto se uno può constatare coi propri occhi gli effetti di tale responsabilità.

Sulla terra la democrazia non è mai qualcosa di autogestito, ma qualcosa di imposto o di eterodiretto, cioè amministrato dall’alto. Questo perché non si riconosce alcuna autonomia all’ambito locale: tutto deve dipendere da qualcosa che gli è superiore. La democrazia è fagocitata, svuotata di contenuto, tant’è che nei momenti di crisi può facilmente trasformarsi in una dittatura, scatenando persino guerre mondiali, come già visto nel Novecento.

Dunque la prima regola della democrazia, da attuare già sul nostro pianeta, sarebbe quella di ridurre progressivamente e costantemente i poteri delle istituzioni centrali, trasferendoli alle realtà locali, in maniera tale che gli spazi dell’autonomia vengano gestiti non in maniera evasiva, ma con responsabilità, cioè non per sottrarsi il più possibile alle forme di controllo dall’alto, ma per realizzare nuove forme di controllo reciproco, in cui ognuno è responsabile di chi gli sta vicino. Se non riusciamo a capire questo principio elementare della convivenza umana, una gestione democratica dell’universo sarà impossibile.

INCREDIBILE MA VERO: IL LUCROSO BUSINESS DELLA BANCHE CHE FINANZIANO LA PRODUZIONE DI BOMBE ATOMICHE

http://www.unimondo.org/Notizie/BNP-Paribas-e-Deutsche-Bank-le-banche-UE-che-piu-finanziano-le-bombe-nucleari-142877

di Giorgio Beretta

Sono sempre loro: BNP ParibasDeutsche Bank. Già ai vertici delle operazioni a sostegno dell’export militare italiano, figurano anche tra i gruppi bancari europei più attivi nel finanziare l’industria degli armamenti nucleari. Sono preceduti solo dalla britannica Royal Bank of Scotland nella lista delle banche europee “most heavily involved” (più pesantemente coinvolte) nel supporto ai produttori di armi nucleari. Lo documenta il rapporto Don’t Bank on the bomb (qui in .pdf) diffuso ieri a livello mondiale dalla campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) di cui la Rete Disarmo è partner italiano.

Il quadro internazionale: primeggiano le banche USA

La ricerca – che è stata sviluppata da IKV Pax Christi Olanda e la società di ricerche Profundo per la coalizione internazionale ICAN – fa seguito ad un’analoga ricerca pubblicata lo scorso anno: riporta le 298 istituzioni finanziarie pubbliche e private(soprattutto banche, assicurazioni, fondi pensione ecc.) che nell’ultimo quadriennio hanno investito circa 314 miliardi di dollari a favore di 27 compagnie ed industrie internazionali coinvolte nella produzione, manutenzione e modernizzazione delle armi nucleari.

La componete più consistente è rappresentata dalle istituzioni finanziarie con sede negliStati Uniti (ben 165 su 298) che sommate alle 9 del Canada hanno movimentato quasi 223 miliardi di dollari. Quelle basate in Europa sono 65 con finanziamenti complessivi per oltre 73 miliardi di dollari; 47 quelle in Asia e Oceania con movimentazioni di oltre 17 miliardi di dollari; le 10 con sede in Medio Oriente hanno operato per 958 milioni di dollari e una in Africa per circa 6,2 milione di dollari. “In altri paesi dotati di armi nucleari – come la Russia, la Cina, il Pakistan e la Corea del Nord – la modernizzazione delle forze nucleari è svolta principalmente o esclusivamente da agenzie governative” – avverte il rapporto (p. 29) e pertanto le istituzioni finanziarie di questi paesi non sono prese in considerazione. Continua a leggere

Il rapporto di dipendenza personale

Che cosa voleva dire nel Medioevo avere un rapporto di dipendenza di tipo “personale”? Un rapporto personale era quello che intercorreva fra colui che concedeva un feudo (simbolo principale della ricchezza medievale) e colui che lo riceveva, in virtù del quale quest’ultimo dichiarava la propria sottomissione (omaggio di tipo vassallatico), offrendo la propria fedeltà fino a quando restava salda la concessione. (Se non era un feudo, era comunque un titolo o una funzione che dava diritto a un qualche privilegio o a una rendita).

Cioè chi disponeva di proprietà privata, che nell’alto Medioevo i barbari avevano ottenuto eliminando o sottomettendo militarmente i latifondisti romani, la metteva in parte a disposizione, a mo’ d’usufrutto temporaneo o anche vitalizio, a favore di chi era in grado di farla fruttare. I benefici ottenuti da questa proprietà tornavano comodo, indirettamente, alla stessa persona che l’aveva concessa (senior). La proprietà o la carica onorifica poteva essere concessa anche come forma di riconoscimento di un valore militare o per qualche opera compiuta di particolare significato: spesso il beneficiario era un parente del signore che concedeva il feudo o il titolo, ma non necessariamente.

Una parte della proprietà privata veniva alienata, cioè concessa in comodato d’uso, chiedendo in cambio determinati favori: p. es. tasse, rendite, uomini armati, servizi giuridici o logistici… Era appunto il fatto di possedere una proprietà privata (in genere quella della terra) che permetteva, nel Medioevo, di realizzare dei rapporti di dipendenza personale. Non c’era un vero contratto, con diritti e doveri da parte di entrambi i contraenti, come accade oggi a livello aziendale o sindacale, ma anche notarile, giuspolitico ecc., dove è prevalente l’aspetto funzionale o strutturale su quello psicologico-esistenziale.

Un contratto può sempre essere rescisso, senza che ciò comporti delle limitazioni alla libertà giuridica, che ognuno formalmente gode. Nel Medioevo si riteneva il giuramento o la parola data o la promessa fatta infinitamente superiore a qualunque contratto: era una sorta di patto di fedeltà in cui veniva messa in gioco la coscienza o comunque l’etica. Di qui la sua sacralità. Cosa che invece non si poteva riscontrare negli statuti dei Comuni borghesi, dove si aveva la pretesa di affermare una certa uguaglianza formale, almeno nel momento della costituzione del Comune.

La persona libera si sottoponevano volontariamente a un rapporto di tipo vassallatico. Non era costretta a farlo, ma gli serviva per ottenere un certo potere o anche solo una certa protezione militare o politica. Era una forma di umiliazione personale, in quanto si giurava d’essere fedele a una persona, a prescindere da quello che in futuro essa avrebbe potuto fare o chiedere di fare.

Non succedeva mai che il vassallo restituisse il feudo dopo aver giudicato di indegnità il sovrano o il signore che glielo aveva concesso. La tendenza semmai era un’altra: fare in modo di poter trasformare il feudo da “concesso temporaneamente” a “definitivamente acquisito”. La tendenza cioè era quella di sottrarsi a un rapporto di dipendenza giudicato stressante, fagocitante, oneroso.

Un rapporto personale basato sul potere della proprietà privata era quasi una forma di schiavitù, nel senso che la persona libera, anche se diventava relativamente potente o comunque temuta, stimata…, in virtù della concessione ottenuta si trasformava in un servo di qualcuno, “un uomo di un altro uomo”, come allora si diceva.

Un rapporto di dipendenza personale di questo genere avrebbe potuto trovare un proprio senso etico soltanto a due condizioni: 1) che il concessionario non disponesse di proprietà privata o comunque che il beneficiario non fosse un nullatenente, 2) che il rapporto fosse finalizzato a uno scopo preciso temporaneo.

P.es. se la terra appartiene a una collettività e questa decide di entrare in guerra, si può accettare l’idea che qualcuno dichiari la propria dipendenza personale nei confronti di un altro. Raggiunto tuttavia lo scopo, tutti tornano ad essere liberi come prima. Là dove esiste proprietà privata della terra, non può esistere alcuna vera reciprocità nel rapporto di dipendenza personale, poiché chi fruisce del feudo in concessione è costantemente ricattabile, almeno finché la concessione non si trasformi in proprietà privata. Cosa che in Europa occidentale e avvenuta, nel Medioevo, due volte: col Capitolare di Quierzy, nell’877, per i feudi maggiori, e nel 1037 con la Constitutio de feudis, per i feudi minori. In entrambi i casi gli imperatori si illusero che, facendolo, avrebbero potuto trarne un beneficio, ma non fu così.

Infatti, ogniqualvolta gli imperatori ricevevano una scomunica, i feudatari, che disponevano della proprietà dei loro feudi, si mettevano dalla parte del papa, proprio allo scopo di poter svolgere il ruolo del “piccolo imperatore” nei loro stessi feudi, senza dover rendere conto più a nessuno. Fu in questa maniera che l’idea d’impero venne scardinata dall’anarchia feudale, la quale, a sua volta, rese anche molto difficoltosa la realizzazione delle nazioni.

Oggi rapporti di questo genere, che implicano l’assenza dello Stato o comunque della sua consapevolezza, in quanto lo si avverte come inutile o addirittura come un nemico, sono presenti in Italia negli ambienti della criminalità organizzata, dove si sono conservati persino certi rituali simbolici medievali. Ed è difficile pensare che in assenza di uno Stato o in presenza di uno Stato inefficiente, incapace di far valere la propria autorità, e in presenza, contestualmente, di una forte proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi e di sostentamento, non si arrivi a riproporre e a generalizzare la prassi medievale della dipendenza personale.

Le alternative non sono molte: o si elimina la proprietà privata, e allora il patto tra i proprietari comuni, collettivi, diventa per così dire implicito, nel senso che tutti sono dipendenti da tutti; oppure si rende talmente forte il potere dello Stato da impedire che la sfera politica sia determinata da vincoli di tipo personalistico. Tuttavia, in questo secondo caso resta sempre da chiedersi se un siffatto Stato sia davvero in grado di garantire libertà e democrazia per tutti, in quanto è notorio che un ente esterno, avente pretese del genere, finisce con l’imporre una sorta di dittatura.

Una collettività è davvero libera soltanto quando si autogoverna, senza alcuno Stato. Non a caso anche gli Stati che arrivano a nazionalizzare la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi, riproducono, nei loro centri di potere, gli stessi meccanismi feudali di dipendenza personale, nel senso che l’unico vero merito che viene premiato è la capacità di assicurare la propria assoluta fedeltà al potere dominante, alla ragione di Stato, all’ideologia del partito di governo, e altre cose che abbiamo già visto nelle dittature staliniste e maoiste.

Costello + Roots, ben ritrovato!

Finalmente Elvis Costello abbandona il country e (almeno musicalmente parlando) quella scosciata di sua moglie per regalarci un disco stupendo, in accoppiata con i Roots. L’idea sarebbe nata da un incontro durante una trasmissione televisiva (sai cosa potrebbe mai succedere alla Rai o su Mediaset….), alcuni critici sottolineano che si sente troppo il distacco tra l’uno e gli altri, che manca una fusione che dia vita ad una musica “altra”, ma va bene così. Da aggiungere che le autocitazioni di Elvis non mancano: si potrebbe lanciare una sfida online a chi ne azzecca di più!

L’economia Usa è malata. Con rischio di collasso

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Lo “shutdown”, che è scattato all’inizio di ottobre con la chiusura di settori importanti della pubblica amministrazione, è la più evidente dimostrazione della patologica crisi sistemica dell’economia e della finanza degli Stati Uniti. Il governo di Washington è senza soldi in quanto ha utilizzato tutte le disponibilità di bilancio approvate dal Congresso. Per continuare con l’attuale ritmo di spesa previsto dovrebbe “sfondare” il tetto del debito pubblico prestabilito. Come è noto, ogni anno e da tempo si ripete lo sfondamento del limite massimo del debito, un’operazione che richiede però l’approvazione del potere legislativo.

Nel frattempo oltre 800.000 dipendenti federali che lavorano in alcuni settori amministrativi, nella gestione del territorio e dei parchi e perfino nel settore spaziale e dell’intelligence sono da giorni a casa e senza stipendio. Naturalmente la sospensione dal lavoro di centinaia di migliaia di impiegati comporta una perdita di reddito pari a circa 200 milioni di dollari al giorno che inevitabilmente genera una riduzione dei consumi mettendo in crisi anche settori del commercio. Continua a leggere

Bambini che nascono col piede sbagliato. Ma che si possono curare con successo.

Si parla sempre molto di bambini e sempre mostrando per loro grande amore o comunque interesse: dal notissimo “Lasciate che i fanciulli vengano a me” al (mi si perdoni l’accostamento) diluvio di spot pubblicitari per prodotti per l’infanzia. Però quando si parla di bambini malati, handicappati o malformati il discorso cambia, se ne parla meno. Forse è la logica conseguenza della gara al fisico in gran forma ed efficiente anche in tarda età perfetto. Come per le merci difettose, si viene scartati o tenuti in disparte. E’ il caso della malformazione chiamata “Piede torto congenito”, o anche PTC in sigla per gli addetti ai lavori (  www.piedetorto.it ). Ogni anno in Italia di bambini affetti da PTC ne nascono 500, la media mondiale pare sia di 1-2 casi ogni mille nati. Eppure è una della patologie meno conosciute, nonostante esista fin dagli anni ’40 un ottimo modo, semplice, economico e non invasivo. per curarla. Grazie a Internet solo di recente si è diffusa la conoscenza  dell’esistenza di cure semplici ed efficaci, che prendono il nome dal loro ideatore: metodo Ponseti. E l’exploit è tale che il 12 ottobre a Milano  si terrà la prima edizione della Giornata Internazionale del Piede Torto Congenito. La parte del leone la farà il metodo Ponseti, la cui efficacia sarà efficacissimamente illustrata dalla prima Italian Ponseti Race, vale a dire dalla prima corsa a piedi dei bambini italiani curati con il metodo citato. Ma andiamo per ordine.

In cosa consiste esattamente la malformazione del “piede storto congenito”? E’ presto detto: alla nascita uno o entrambi i piedi presentano le ossa in posizione scorretta e appaiono ruotati verso l’interno. Se non è ben trattata, la patologia è gravemente invalidante, con forti ricadute sulla qualità della vita del paziente e costi sociali salati. Quando invece il bambino è ben curato, si ottiene un piede esteticamente e funzionalmente “normale”, con la possibilità di camminare, correre e svolgere qualsiasi attività fisica senza dolori né limitazioni.
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LA CONGIURA DEL SILENZIO SUGLI ISRAELIANI CHE DICONO LA VERITA’. ED ECCO COSA C’E’ DA SAPERE PER NON RESTARNE VITTIME

Come ho scritto ieri nel forum del blog sull’argomento precedente, sono andato ad ascoltare nella Sala Verde della chiesa di S. Carlo, a Milano, il giornalista israeliano Gideon Levy, arrivato apposta per il convegno di studio intitolato “Gli accordi di Oslo – 20 anni dopo”. Convegno già tenuto il giorno prima a Roma e reiterato oggi a Torino con altri partecipanti di rango, quali i palestinesi Wasim Dahmash, Jamil Hilal, Joseph Massad. Il convegno è stato organizzato dalla sezione italiana dell’International Solidarity Movement (ISM),  generosamente animata soprattutto dal torinese Alfredo Tradarti.

L’eccezionale statura morale e professionale di Gideon Levy è ben nota: redattore del quotidiano Ha’aretz, è diventato un punto di riferimento internazionale per chi non si accontenta delle verità ufficiali israeliane. I suoi articoli decisamente contro corrente, assieme a quelli della collega Amira Hass, anche lei di Ha’aretz, hanno tra l’altro messo a nudo le malefatte dell’esercito israeliano durante l’invasione di Gaza del 2008-2009 e denunciano puntualemnte gli abusi dei coloni,  le complicità politico militari e la conseguente condizione sempre più invivibile nella quale sono costretti i palestinesi.

Di Levy (spesso scritto Levi), che i suoi estimatori vogliono candidare al Premio Nobel paer la Pace,  mi ha colpito il suo raccontare come il tuo entusiasmo per la nascita dello Stato di Israele sia stato man mano ucciso dalla scoperta della vera politica dei governi israeliani, che con l’alibi della Shoà hanno adottato comportamenti talmente prepotenti e spesso violenti nei confronti dei palestinesi e degli arabi in generale da avere ricevuto oltre 80 condanne e ammonimenti dall’Onu, peraltro sempre totalmente ignorate con disprezzo dai destinatari. La parabola dall’entusiasmo alla scopertà e denuncia dell’amara verità da parte di Levy è la stessa che hanno avuto in molti tra gli ebrei e i non ebrei inizialmente ammiratori della “rinascita dello Stato della Sacra Bibbia”. Amara verità ormai ben nota e così riassumibile:

- i governi israeliani finora succedutisi dicono a parole di volere la pace, ma in realtà per loro la pace è una continua guerra, militare, politica, economica, poliziesca, coloniale, contro i palestinesi avente come fine la loro totale espulsione dalla Palestina storica, cioè da casa loro e dalle loro terre;

- Israele è di fatto uno Stato che nei confronti dei palestinesi pratica l’apartheid esattamente come in Sud Africa i bianchi lo esercitavano sui neri finché la realtà non li ha costretti a cambiare registro;

- tutto ciò ha distrutto la possibilità della nascita di uno Stato palestinese, che non sia una nuova riserva indiana o un nuovo bantustan, e comporterà, esattamente come in Sud Africa, la nascita di uno Stato unico con pari diritti e doveri per ebrei e non ebrei. Proprio quello che volebano gli ebrei sionisti come Judah Magnes, purtroppo battuti dai fanatici, dai terroristi e dagli estremisti andati e succedutisi al governo La fine cioè del monopolito sionista sul potere politico dello Stato di Israele, che forse sceglierà di chiamarsi Israele Palestina.

Delle parole di Levy mi ha colpito un particolare: il racconto di come gli israeliani abbiano accolto da una parte con grande dolore, spazio commosso sulle prima pagine e aperture dei mass media e perfino con funerali, l’uccisione di due cani dell’esercito quando nel 2008-2009 i militari ha invaso Gaza, e dall’altra la mattanza di palestinesi, bambini compresi, con notizie “brevi e relegate con indifferenza a pagina 15”.

Ho scritto ieri nel forum del blog e lo ripeto oggi che il silenzio stampa sulla presenza di Gideon Levy e sul convegno è una grande vergogna. Una vergogna in particolare per la comunità ebraica milanese e per il Corriere della Sera, che affida sempre i suoi servizi su Israele/Palestina e spesso sul Medio Oriente al giornalista milanese Lorenzo Cremonesi, membro della comunità, laureato in Israele, autore di un libro sul sionismo e mi dicono – non so se sia vero – responsabile o ex responsabile della stampa della comunità milanese (ciononostante, all’interno della comunità i suoi servizi giornalistici sono spesso molto criticati perché non aprioristicamente schierati).

La partecipazione al convegno, sia pure solo come spettatore, mi ha fruttato una serie di notizie, che reputo utili riportare qui in modo che chi vuole possa documentarsi sull’altro lato della medaglia israeliana: il lato della ormai 70ennale prepotenza coloniale contro i palestinesi tenuta accuratamente nascosto da chi predica invece l’odio verso gli “altri” e ovviamente lo “scontro di civiltà”. Ho quindi elencato una serie di link dei principali dossier giornalistici sull’argomento, a partireda alcuni articoli di Levy, e scelto 11 titoli di libri per saperne di più. Letture utili per disintossicandosi dalle propagande. Continua a leggere