Il G8 a caccia solo di illusioni

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**
La decisione finale del Summit del G8 di Lough Erne in Nord Irlanda di individuare nel commercio, nella tassazione e nella trasparenza le sue massime priorità riflette pienamente l’orientamento degli Stati Uniti e degli altri Paesi occidentali. I forti interessi in gioco sono in verità soprattutto di natura geopolitica. Lo dimostra anche la volontà di mettere al centro delle discussioni la crisi in Siria e la sicurezza in Africa, che è grande fornitrice di materie prime.
I leader del G8, che rappresentano la metà dell’economia mondiale, hanno voluto, pur riconoscendo  una “protratta incertezza economica”, identificare nel commercio “il motore chiave della crescita economica globale”. Di conseguenza hanno elencato, in quanto decisivi e strategici, i vari trattati di libero scambio che saranno a breve ratificati: quello tra gli Usa e l’Ue, quello del Trans Pacific Parternship, che coinvolge 12 Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico,  quello tra l’Ue e il Giappone e quello tra l’Ue e il Canada. Sono state menzionate anche l’Unione doganale e l’integrazione della Russia con altri Paesi dell’Eurasia che, però, devono essere sottoposte ai vincoli dell’Organizzazione del Commercio Mondiale. Continua a leggere

Presto un’inversione nelle politiche monetarie troppo accomodanti non solo dagli USA.

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea annuncia che a breve potrebbe esserci un virata nelle politiche monetarie delle banche centrali. Si porrebbe fine ai tassi di interesse vicini allo zero. A Londra recentemente, il direttore generale della Bri, Jaime Caruana, ha affermato che, sebbene siano trascorsi cinque anni dallo scoppio della crisi, la ripresa non c’è ancora e l’attività economica complessivamente è ancora inferiore rispetto al livello pre crisi. In questo periodo le banche centrali dei paesi del G20 hanno abbandonato il fondamentale criterio del controllo dei prezzi instaurato dopo le ondate inflative degli anni settanta. Esse invece hanno adottato politiche non convenzionali ma “accomodanti” con la immissione di una quantità impressionante di nuova liquidità. Il direttore Caruana, sa che ciò “ha impedito che il sistema finanziario implodesse trascinando con sé anche l’economia reale”, ma ciò ha anche “ridotto grandemente la percezione del rischio finanziario”.

Dal 2007 ad oggi il debito totale, pubblico e privato, del settore non finanziario dei Paesi del G20 è aumentato di oltre 30 trilioni di dollari! Questo dato contraddice in modo eclatante i tanti impegni e le tante promesse di ridurre (deleveraging) il livello del debito. Inoltre nello stesso periodo le attività e i bilanci delle banche centrali del G20 sono aumentati di ben 10 trilioni di dollari! Esse hanno comprato obbligazioni e una montagna di derivati e di altri titoli tossici! Lo hanno fatto, secondo noi irresponsabilmente, stampando moneta. Continua a leggere

La pubblicità del serpente ingannatore

Di ogni parola possiamo dire che esiste una qualche corrispondenza, reale o virtuale. Ecco perché, astrattamente, nessuna parola in sé è “falsa”. Le parole sono false quando non corrispondono alla realtà, ma per poterlo dire bisogna prima intendersi sul concetto di “realtà”. Sappiamo soltanto che la falsità può essere incidentale o voluta, cioè dovuta a ignoranza o malafede.

Non si può sostenere che sono vere solo le parole di cui possiamo “dimostrare” la corrispondenza alla realtà. Non esiste la possibilità di una dimostrazione del genere. E, se esiste, ha un valore molto relativo, cioè circoscritto solo a determinate condizioni ambientali di spazio e di tempo. Non c’è nessun cartello stradale che non possa essere trasgredito sulla base di qualche eccezione. Non c’è nessuna rilevazione statistica che non possa essere interpretata in maniera opposta.

Se io dicessi: sto scrivendo queste righe con una penna a sfera e non con una stilografica, potrei facilmente dimostrarlo. Chiunque, da solo, saprebbe farlo, anche osservando la scrittura degli altri. Ma in tal caso avremmo determinato una verità poverissima di contenuto, che non va a incidere minimamente sul significato dei nostri testi, che peraltro sarebbe identico usando qualunque mezzo.

Dunque, su certe forme di corrispondenza delle parole alla realtà e viceversa, non val neppure la pena soffermarsi. Non sono queste forme empiriche di verità che ci aiutano a cambiare la vita, anche se indubbiamente con una biro posso scrivere più velocemente e senza timore di macchiare il foglio o le dita. E con questo non voglio affatto dire che la penna a sfera sia stata un “progresso” rispetto alla stilografica, poiché se guardassimo l’impatto ambientale che ha la plastica di queste penne, dovremmo invece pensare a un regresso, senza poi considerare che il costo economico finale di tale operazione di scrittura è di molto aumentato da quando abbiamo iniziato a usare le penne inventate dal giornalista ungherese Bíró nel 1938.

Quindi se io dicessi che una qualunque parola è più vera di un’altra, subito mi si dovrebbero porre una serie di domande: in che senso? in rapporto a cosa? da quale punto di vista? E’ solo rispondendo a queste domande che posso dimostrare (ma sarebbe meglio dire “mostrare”) quanto una parola sia più vera di un’altra.

Prendiamo p. es. la parola “dio”. Gli atei ritengono che non abbia alcun senso, in quanto indimostrabile. Eppure, in nome di questa parola quante storie e quante guerre si sono fatte? quante esistenze sono state cambiate? Una parola è vera nella misura in cui ci si crede. Anche nei confronti dell’ippogrifo o del minotauro possiamo dire che non sono mai esistiti, eppure essi hanno fatto sognare gli uomini e le donne del passato, li hanno fatti divertire, incuriosire: anche oggi ascoltiamo volentieri i loro miti, che ci inducono a fare riflessioni su quelle lontane epoche. Ci piace pensare che, anche se sono frutto di fantasia, potrebbero essere stati veri.

L’essere umano ha un modo di ragionare unico nel suo genere, in quanto è disposto a credere in qualunque cosa, anche in quelle che non si vedono, non si sentono, non si possono toccare. Vien quasi da pensare che non sia stato l’uomo ad avere inventato il linguaggio, ma il contrario. Noi siamo determinati, anzi immersi in un linguaggio che ci precede nel tempo e ci sovrasta con la sua infinita possibilità di sensi e di significati, espressi in un altrettanto infinità di segni e di simboli.

Il linguaggio è la forma più espressiva dell’universo, e la sua grandezza sta proprio nel fatto che si rinnova di continuo. Se c’è una cosa che non può essere definita in maniera chiara e univoca è proprio l’espressione linguistica degli umani. La sua bellezza sta proprio nell’ambiguità, la cui evidenza è in fondo soltanto un atto di fede.

Una cosa ci appare vera solo se ci crediamo. Non è la “dimostrazione” che ci fa credere nella verità di una cosa, ma il modo come essa si mostra. Quanti divieti sono più efficaci se non si pongono in maniera tassativa, senza possibilità di discussione? Ecco perché, in definitiva, le parole in sé non contano: conta di più il modo in cui vengono dette.

Saremmo però degli ingenui se continuassimo a ritenere vere quelle parole che ci hanno incantato per il modo con cui sono state dette, quando sappiamo benissimo che il loro contenuto è falso. Siamo stanchi di credere nel serpente tentatore e nella sua continua pubblicità.

L’Iran recupera il tempo perso per responsabilità di Bush figlio? Lo speriamo.

Dopo l’elezione al primo colpo di Hassan Rohani a presidente dell’Iran, viene in mente questo scambio di domande e risposte, che qualche lettore ricorderà per averle già lette nei miei reportage dall’Iran del 2009.
Chi sarà eletto Presidente della Repubblica Islamica dell’ Iran, inshallah?
“Chi verrà scelto dal popolo”.
Certo, ma – chiunque vinca – lei non crede sia comunque auspicabile un cambiamento?
“Il cambiamento ci sarà e sarà molto grande. L’opinione pubblica mondiale ne sarà sorpresa”.
E quali saranno i temi del cambiamento? Per esempio, quali sono i punti centrali del suo programma?
“Lo sviluppo economico, la politica estera, i diritti civili e i diritti delle donne”.
Questo il botta e risposta nel 2009 poco prima delle elezioni presidenziali iraniane con il candidato riformista Mehdi Kharroubi, ex presidente del parlamento, incontrato per caso in strada a Esfahan vicino la cattedrale cristiana armena di S.Gregorio, nota anche come cattedrale di Vank.
Le elezioni purtroppo ebbero un esito diverso da quello sperato da Kharroubi e dai riformisti, Ahmadinejad venne confermato e ci furono anche gravi disordini e manifestazioni di piazza, con Kharroubi agli arresti domiciliari.
Questa volta invece senza neppure un timido accenno di manifestazione studentesca o comunque del mondo giovanile, che morde il freno perché ansioso di riforme e sviluppo, ha vinto al primo turno Hassan Rohani, che può essere considerato il Kharroubi di oggi. Rohani è buon amico di Khatami, il leader riformista che si vide soffiare la vittoria elettorale e stroncare il suo ambizioso programma di modernizzazioni dall’infelice idea di Bush figlio di inventarsi l’Asse del Male, composto dai Paesi che gli Usa vedono come il fumo negli occhi compreso l’Iran. L’orgoglio nazionalista e annessa vittoria elettorale della destra fu la risposta dell’elettorato iraniano a Bush, con l’era di Amadinejad che oggi pare finalmente al tramonto.
Rohani appare sicuro di sé e affabile come Kharroubi, e nonostante sia un religioso con il turbante a mo’ di galloni ricorda da vicino sia i nostri migliori leader democristiani di una volta che quelli socialisti: molto abile, paziente ma molto deciso, del tipo che punta al cambiamento vero senza esagerare nella retorica e conciliando tra loro temi apparentemente inconciliabili. Continua a leggere

Economia e finanza: Papa Francesco, pensaci tu! Politiche monetarie troppo accomodanti? Negli Usa spinte al protezionismo.

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** * Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Papa Francesco, pensaci tu!

Mentre il mondo dell’economia si “perde in chiacchiere” sulla necessità di rivedere il sistema della finanza globale, papa Francesco ha ripreso il suo lungo percorso di riflessione per stimolare i dirigenti politici a ”realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti”.

Giovedì 16 maggio, parlando ad un gruppo di nuovi ambasciatori presso il Vaticano, ha ricordato che “mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune”.

Papa Bergoglio stigmatizza il consumismo fine a se stesso, il dominio e l’adorazione del denaro, la dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano. Denuncia “la nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, del mercato che impone unilateralmente le sue leggi e le sue regole”. Egli vi contrappone la solidarietà, l’etica, il bene comune, la convivenza e la lotta dei popoli contro la povertà.

Non si tratta di un appello moralista. E’ invece un vero e proprio manifesto che pone al centro della società e dell’economia l’uomo con i suoi valori e i suoi bisogni. Continua a leggere

Uscire dalla dittatura del sistema

Gli umani possono davvero fare quello che vogliono? Se un singolo cerca di opporsi a delle forze collettive, assolutamente no. E non dimostrerebbe d’essere più libero neppure se si desse fuoco, nella speranza di suscitare un generale risentimento verso i poteri costituiti.

Le proteste individuali possono valere appunto come proteste, ma valgono assai poco come proposte: sia perché vengono col tempo riassorbite dal sistema, sia perché tendono a sgonfiarsi da sole, in quanto il singolo, obiettivamente, più di tanto non può fare.

Quindi, se è lecito protestare da individui isolati, è inutile continuare a farlo senza associarsi ad altre persone. Le cose, se davvero si vuole che cambino, possono cambiare solo se si sta insieme. È l’unione fa la forza. E il numero rende l’unità ancora più forte. Quanto più si è, tanto più si ha la possibilità di cambiare le cose. L’unica differenza tra una riunione condominiale e uno sciopero generale nazionale sta soltanto nell’obiettivo che ci si pone.

Ma se queste cose le sappiamo, perché siamo così refrattari a organizzarci in partiti, movimenti e sindacati? Il motivo è semplice: gli italiani, per secoli, han vissuto in maniera frustrante e oppressiva la politica in senso lato, quella intesa come “partecipazione attiva al bene comune”. Sono stati per troppo tempo abituati a obbedire. E anche quando han cercato di alzare la testa, han pagato duramente questa pretesa.

Son duemila anni che andiamo avanti così. Abbiamo iniziato coi senatori romani latifondisti, poi con gli imperatori militari, poi coi re barbarici, poi coi papi teocratici, poi coi principati dinastici, infine con lo Stato centralizzato. Non abbiamo mai smesso di obbedire. L’unico modo di fare politica è sempre stato quello di conformarsi ai poteri dominanti, eventualmente fingendo di assecondarli. Tutte le varie forme di opposizione al sistema sono servite soltanto per passare da una dittatura all’altra: oggi, p. es., abbiamo la dittatura della democrazia parlamentare.

Sono cambiate le forme dell’oppressione, non la sostanza. E così gli italiani si trovano ad essere schierati in due campi relativamente avversi: i conformisti, che lottano per spartirsi fette sempre più grandi di potere, disposti a compiere qualunque abuso; e gli insofferenti, che non sopportano regole troppo rigide, non amano la burocrazia, non accettano la disciplina del partito o del sindacato, sopportano con un certo fastidio le riunioni formali o dovute e, al massimo, si riconoscono nel valore di una piccola comunità o della famiglia e di pochi amici e colleghi.

Gli insofferenti sono individualisti come i conformisti, solo che questi, per fare carriera, hanno messo la moralità sotto i piedi. Tuttavia in entrambi i casi è il sistema che vince. Cioè quello che manca agli insofferenti è la capacità di aggregarsi, ponendosi come obiettivo il superamento della logica dominante. Vivono rassegnati, illudendosi che basti firmare qualche petizione di protesta o votare un partito in luogo di un altro o non votare affatto.

Noi dobbiamo creare un sistema in cui la libertà di ognuno non si debba sentire coartata ma potenziata dalla libertà degli altri. Cioè un sistema in cui, pur sapendo di doversi esprimere entro determinati condizionamenti, si sia convinti di poter ottenere di più in questa maniera che agendo individualmente.

Ma un sistema del genere presume una cosa di fondamentale importanza: il controllo reciproco. Una qualunque democrazia non ha alcun senso se non è localmente autogestita, in cui i controlli siano effettivamente possibili e non puramente teorici.

I poteri che si conferiscono alle persone dovrebbero essere inversamente proporzionali alla distanza che le separa dalle comunità locali di riferimento o di appartenenza. Cioè tanto meno forti quanto più si è lontani.

L’unica strada per abbattere il sistema è quella di ampliare progressivamente le prerogative delle comunità locali, riducendo al minimo le forme di dipendenza dai poteri centralizzati, siano essi politici o economici. Dobbiamo trovare un’alternativa per cui valga la pena vivere e, se necessario, anche morire.

Mettere la retromarcia

Dovremmo chiederci il motivo per cui il nostro pianeta ha avuto bisogno di 4 miliardi di anni prima di poter essere abitato da noi. Supponiamo infatti di dover popolare l’universo. Se per rendere abitabile un pianeta, ci volesse un tempo così lungo, la cosa sarebbe impossibile o comunque non avrebbe senso tentarla.

In questo momento noi stiamo cercando dei pianeti che abbiano almeno l’acqua, dalla quale si potrebbe ricavare l’ossigeno, cioè la vita. Ma sappiamo bene che la vita non ha bisogno solo di ossigeno. Bisogna porre le condizioni perché essa si possa riprodurre automaticamente, senza intervento umano. La natura ha proprio la caratteristica d’essere indipendente dalla nostra volontà.

In realtà noi siamo lontanissimi dal poter porre le condizioni perché nell’universo si possa formare, su qualche pianeta, una natura del tutto autonoma. Tutto quello che potremmo fare, al di fuori del nostro pianeta, sarebbe di tipo artificiale. Persino sulla Terra non siamo in grado di garantire alla natura una sua riproducibilità del tutto naturale.

Chi pensa, in questo momento, di poter popolare l’universo, nelle condizioni artificiali in cui ci troviamo, perde solo il suo tempo. Occorre prima che la sostanza del nostro essere assuma una nuova forma, adatta a vivere nell’universo.

Al momento possiamo soltanto chiederci come salvaguardare integralmente la natura del globo terracqueo, poiché questo, per permettere a noi di esistere, ha avuto bisogno di una gestazione incredibilmente lunga, tanto che ci vien quasi da pensare a una sorta di unicità in questo “esperimento” dell’universo. Non è possibile pensare che, una volta che il genere umano avrà acquisito la capacità di abitare il cosmo intero, ci voglia un tempo altrettanto lungo per costruire altri pianeti abitabili.

Noi, quando facciamo scienza, possiamo facilmente constatare di non aver bisogno di ripetere tutto il percorso di chi ci ha preceduto. Siamo abbastanza intelligenti da capire che possiamo partire dalle ultime cose che sono già state compiute. Grazie al fatto che abbiamo, in qualunque momento, la possibilità di posizionarci, come nani, sulle spalle dei giganti, possiamo esportare facilmente scienza e tecnica là dove si è ancora all’età della pietra. Il progresso, grazie all’uomo, diventa molto veloce. Può darsi quindi che, quando dovremo realizzare l’obiettivo di popolare l’universo, potremo fare la stessa cosa.

Il problema semmai è un altro. È il criterio di trasmissione del nostro progresso scientifico che andrebbe messo in discussione. Noi abbiamo fatto della scienza e della tecnica l’occasione per distruggere la natura, ponendoci fuori dalle condizioni di spazio-tempo in cui ci è stato chiesto di vivere. Cioè abbiamo voluto dimostrare una nostra capacità di trasformazione che è andata ben oltre i limiti di agibilità che la natura ci aveva consentito.

La natura infatti non può sopportare elementi che minaccino la sua esistenza, tanto più che questa ha avuto bisogno di oltre 4 miliardi di anni per assestarsi e consolidarsi in maniera definitiva. I delicati equilibri che in questo lunghissimo tempo si sono creati, non possono essere violati impunemente, meno che mai se lo vengono oltre un certo limite di estensione o d’intensità.

Quindi dobbiamo aspettarci una sorta di gigantesco meccanismo di autodifesa, che sicuramente ci coglierà impreparati, in quanto non siamo abituati a rispettare l’ambiente in cui viviamo. Scatterà in maniera automatica un allarme rosso, che noi stessi usiamo quando si supera una certa soglia di pericolo. Considerando che abbiamo devastato l’intero pianeta, le conseguenze dovranno per forza essere planetarie.

Se si guardano p. es. i deserti, si ha l’impressione che, piuttosto che permettere all’uomo di continuare a esistere, la natura preferisce, in un certo senso, mutilarsi, cioè tagliarsi il piede incancrenito per salvare la gamba, nella speranza che su quel che resta l’uomo si comporti con più attenzioni e premure.

Noi dunque dobbiamo aspettarci una reazione a catena prodotta da una arbitraria antropizzazione artificiale della natura. Ed è molto probabile che ciò avverrà contemporaneamente su più livelli, come p. es. l’innalzamento dei mari in seguito allo scioglimento dei ghiacciai, artici e non, causato dal surriscaldamento del clima, che provoca temperature e fenomeni atmosferici sempre più fuori norma e che rende l’aria sempre più nociva e irrespirabile; senza poi considerare che l’allargamento del buco dell’ozono può farci ammalare tutti di melanoma.

Se la natura inizia a collassare su aree molto vaste, il genere umano dovrà ridursi sensibilmente di numero. Ma questo, nelle attuali condizioni di particolare antagonismo sociale planetario, può voler dire soltanto portare il livello di conflittualità ai limiti di una nuova guerra mondiale. Noi stiamo andando in quinta, a tutta velocità, quando invece dovremmo mettere la retromarcia.

Se siamo preoccupati per Israele, non possiamo più restare in silenzio. Un aiuto per il Freedom Theatre di Jenin

http://www.hakeillah.com/2_13_13.htm

Appello da Israele agli ebrei progressisti nel mondo

Pubblichiamo una lettera-appello rivolta da israeliani agli ebrei progressisti nel mondo perché agiscano nel sostenere la battaglia di quegli israeliani che difendono un Israele etico e democratico contro il degrado  che da tempo lo scuote.

L’appello è firmato da scrittori fra i quali Sami Michael, David Grossman, Yoram Kaniuk, lo psicologo Daniel Kahneman, Premio Nobel per l’economia, molti accademici insigniti del Premio Israele, ex deputati del Meretz e del Partito laburista – fra questi Yael Dayan, Nomi Chazan, Mossi Raz e Abu Vilan – e tanta gente comune (l’elenco dei firmatari è disponibile cliccando su questo link).

L’appello è affiancato da un lungo e articolato documento (disponibile qui) che denuncia i guasti dell’occupazione e il degrado dei valori democratici in Israele e contiene proposte di azione nella Diaspora (descritte qui).

E’ raro che lo schieramento pacifista e d’opposizione in Israele faccia appello agli ebrei della Diaspora perché si schierino e si impegnino in difesa di un Israele fedele ai suoi ideali. Questa petizione dimostra la gravità della situazione e l’urgenza di un impegno della Diaspora. Il documento di cui sopra, in sintesi, sottolinea come il persistere dell’occupazione della Cisgiordania e l’espansione degli insediamenti ebraici violino i diritti umani e collettivi dei Palestinesi e compromettano il tessuto democratico ed etico di Israele.

L’annessione implicita e strisciante di territori densamente abitati da palestinesi renderà impossibile una soluzione basata sul principio di “due stati per due popoli”. Il sistema di discriminazione, che comprende l’esclusione dei palestinesi dall’accesso a risorse economiche e ad alcune aree di residenza, ha portato al formarsi di un sistema legale differenziato per 5 diversi gruppi di popolazione: 1) i coloni ebrei che vivono nei territori occupati e che godono di diritti maggiori, privilegiati rispetto agli stessi ebrei israeliani che vivono al di qua della Linea verde (i confini di Israele prima del 1967);  2) gli ebrei che vivono al di qua della Linea verde con pieni diritti civili;  3)  gli arabi cittadini di Israele che godono di pieni diritti civili ma soffrono di discriminazioni socio-economiche;  4) gli arabi residenti a Gerusalemme est con lo status di residenti permanenti e limitazioni nei diritti civili;  5) i palestinesi abitanti nei territori occupati privi di diritti civili, soggetti a un  regime militare e discriminati rispetto agli ebrei che abitano in quegli stessi territori. Con questa sua condotta il governo di Israele non solo viola il diritto internazionale, ma infrange anche leggi dello Stato di Israele, mettendo in forse le stesse fondamenta della democrazia in Israele. Lo testimoniano continui, sistematici tentativi di approvare leggi che contraddicono il principio democratico dello status di eguaglianza delle minoranze. Il governo scorso ha varato politiche educative che tendono a erodere valori umani e democratici nel sistema dell’istruzione, promuovendo invece i valori del nazionalismo e dell’intolleranza. Vi sono poi tentativi sistematici di reprimere il dissenso sui media, nell’accademia e nel mondo delle ONG, nonché di controllare il sistema giuridico attaccando la Corte Suprema e mirando a limitarne l’ indipendenza. Continua a leggere

L’evidenza è solo un’abitudine

Non c’è nessuna evidenza, di nessun tipo. Per milioni di anni s’è creduto al sole che ci girava intorno, per poi scoprire ch’era il contrario. Neanche dio in persona, se ci si presentasse, potremmo considerarlo un’evidenza. E presumere di dimostrarlo, come facevano gli Scolastici con le loro prove logiche, è ridicolo, anzi patetico.

Ci può essere soltanto l’abitudine a considerare evidenti quelle cose che si ripetono costantemente, come diceva Hume. Ma proprio sul cambiamento delle abitudini Darwin ha posto le fondamenta del suo evoluzionismo.

Una qualunque abitudine può sempre essere smentita, magari non immediatamente o non in qualunque momento, ma se pretende di non esserlo mai, di sicuro – scriveva Popper – è falsa, non è scientifica. In effetti è la vita stessa che c’insegna ad essere elastici duttili flessibili. Dobbiamo abituarci a non avere abitudini tassative.

La gravitazione universale non ha alcuna forza per l’astronauta e, per questa ragione, quello è costretto a fare ginnastica anche quando non ne ha voglia, se non vuole che si decalcifichino le ossa e s’atrofizzino i muscoli.

Per cambiare abitudine bisogna solo avere il coraggio, la volontà e poi la costanza di farlo: ne sanno qualcosa gli obesi o gli accaniti fumatori, per i quali il vizio è un’evidenza che devono cercare di smentire, se vogliono star bene con se stessi e continuare a vivere in società come persone normali. E certamente le abitudini sociali, quando sbagliate, si superano solo collettivamente. Gli sforzi individuali servono a poco se non si fa una campagna pubblica contro una cattiva abitudine. In tal senso tutta la pubblicità dovrebbe essere “progresso”: i refrain giovano moltissimo; a volte si dà retta a quel che dicono proprio per non doverli più sentire.

Se ci fossero delle evidenze indiscutibili, ne subirebbe un danno la libertà umana: oggi abbiamo dei dubbi persino sul significato dell’appartenenza a un orientamento sessuale. Abbiamo infatti capito che non è una certezza del genere che, di per sé, ci rende eticamente migliori. Non lo diceva forse anche san Paolo ai Galati che nel regno dei cieli non solo non ci sarà né schiavo né libero, ma neppure né uomo né donna?

La libertà si sente davvero realizzata soltanto quando è libera di scegliere, e non una tantum ma ogni volta che lo desidera. Scegliere cioè di credere o di non credere in un determinato fatto evento fenomeno, o anche un semplice oggetto segno simbolo, una parola o una frase, persino un sentimento. Sappiamo che gli attori recitano, però quando ci commuovono ci piace credere che siano sinceri.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che se mettessimo in dubbio che i segnali stradali sono un’evidenza, poveri noi. Ma l’evidenza di quei simboli è puramente convenzionale: l’abbiamo decisa a tavolino e nulla c’impedisce di modificarla. L’importante è che tutti lo sappiano. In tal senso anzi dovremmo chiederci se non sia sbagliato pensare che, una volta presa la patente, l’automobilista non possa non ricordarsi tutti i segnali appresi quando andava a scuola-guida.

Insomma non ci piace essere “abituati” a credere o a non credere, e neppure ad amare o ad essere amati. Preferiamo, almeno di tanto in tanto, rimetterci in gioco: la scontatezza logora. Per questo dovremmo desiderare ardentemente la rotazione delle cariche, dei ruoli, delle funzioni. A scuola ci limitiamo a quella dei banchi, ma di tanto in tanto sarebbe bene che lo studente salisse in cattedra e tenesse la sua lezione.

Di fronte a qualunque cosa ci si dovrebbe sentire liberi di credere in maniera personale, non perché qualcuno ci obbliga o ci induce. Quelli che considerano la coerenza un valore assoluto, non si rendono conto che anche un qualunque elettrodomestico è coerente.

Noi possiamo anche accettare d’essere condizionati o persuasi da qualcuno, ma, in ultima istanza, vogliamo sempre poter dire che il fatto di credere o meno in una determinata cosa o persona dipende da una nostra libera decisione. Non vogliamo apparire plagiati o suggestionati. Le dittature nascono così, da quelle mega di Hitler e Stalin, che finirono con l’ammazzare milioni di propri connazionali, a quelle mini dei mariti violenti o dei santoni fanatici che, come Jim Jones, pur di non riconoscere la libertà di coscienza ai propri seguaci, preferiscono eliminarli tutti.

Ci piace apprezzare la libertà e, per questa ragione, non sopportiamo le cose o le persone che pretendono d’imporsi. Anzi, se siamo abbastanza esperti nelle cose del mondo, preferiamo insospettirci proprio di fronte a tutto ciò che pretende d’essere evidente, lapalissiano. Per questo non sopportiamo chi urla, chi non ascolta, chi non dialoga, chi si sottrae alle domande, chi presume d’avere la verità in tasca, chi pilota i dibattiti secondo uno schema precostituito, chi interpreta qualunque cosa secondo una sua determinata pre-comprensione. Non sopportiamo né la troppa luce né il troppo buio, né il silenzio assoluto né il rumore assordante.

L’evidenza è soltanto un pregiudizio, un infantile schema mentale, il difetto di una mancanza di dialettica. Una verità evidente è la più povera del mondo, è una banale tautologia, è la meno adatta a ulteriori sviluppi, è la morte del pensiero. La verità evidente è quella sbandierata dalle dittature, di destra e di sinistra, laiche e clericali. È l’idolatria del dogma, la morte della democrazia, del libero confronto delle opinioni.

La storia è piena di queste dittature del pensiero, che hanno avuto la presunzione di abbattere le evidenze con altre evidenze. “Stato” e “mercato”, p. es., sono due evidenze insopportabili, che ci legano mani e piedi. È non meno evidente che dobbiamo liberarcene.