1) – Affondiamo nel ridicolo per il petrolio in mani poco chiare. 2) – Le grandi banche diventano corporation industriali

Per capire meglio come mai i diplomatici kazaki se la facciano quasi da padroni nel Belpaese, obbediti a bacchetta perfino dal ministero dell’Interno, è utile leggersi l’agile e documentatissimo libro “Extra virgin oil”, edito dalla casa editrice Aracne, specializzata in testi universitari, scritto dal docente universitario Aldo Ferrara e dal giornalista Filippo Bellantoni. Ferrara era tra i consulenti di Dario Fo all’epoca della sua candidatura a sindaco di Milano e aveva preparato un programma per abbattere l’inquinamento della città.  “Extra virgin oil” documenta gli intrecci  e gli enormi interessi, compresi quelli italiani, che stanno dando vita alla rete dei giganteschi oleodotti e gasdotti che trasporteranno in Europa il gas e il petrolio dell’Asia Centrale. Tra i protagonisti non mancano gli italiani, compresi Silvio Berlusconi e uomini di sua stretta fiducia.

Ferrara riassume così le odierne perplessità per il caso della signora Shalabeyeva e figlia:
” L’Eurasia è scenario di affari petroliferi. Un tempo Enrico Mattei cercava il greggio al minore costo possibile nell’interesse del consumatore, adesso numerosi imprenditori italiani, politici e dirigenti di Aziende Statali fanno affari con le nuove pipeline come South e North Stream, Nabucco etc. Questi oleodotti passano quasi tutti dal Kazakhastan. E’ possibile non esaudire le “minime” richieste” politiche di Nursultan Nazarbayev?”. Continua a leggere

La fine di un’illusione

Per quale motivo il capitalismo del secondo dopoguerra ha trovato negli Usa il suo terreno più favorevole? L’America aveva già subito il crac del 1929, cui fece seguito una dura recessione: come poteva diventare la nazione più importante del mondo? I nazisti erano stati sconfitti grazie soprattutto ai russi, non agli americani, che avevano invece contribuito a sconfiggere soprattutto i giapponesi, impadronendosi di tutte le loro colonie.

Eppure fu l’America a trarre i vantaggi più grandi dalla fine del conflitto. È vero che gli Usa non poterono far nulla contro l’Urss, se non sganciando due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, giusto per far capire chi era il più forte, ma poterono fare qualunque cosa sia nei confronti dello stesso Giappone che nei confronti degli europei, loro alleati, usciti completamente distrutti dalla guerra, che pur avevano vinto. Il piano Marshall fu la principale arma di ricatto, quella che permise agli Usa di considerare l’Europa occidentale una propria colonia.

Francia e Inghilterra smisero addirittura d’essere le prime potenze mondiali. Come avrebbero potuto, finita la guerra, ridare credibilità al capitalismo? Con le due guerre mondiali il capitalismo europeo l’aveva persa del tutto: nel corso della prima era nata infatti la rivoluzione bolscevica e nel corso della seconda il nazismo era stato sconfitto dal socialismo statale. Se non ci fossero stati gli Usa a sbarcare in Normandia e in Sicilia, le sorti dell’Europa occidentale sarebbero state segnate, nel senso che sarebbe diventata un continente socialista. Troppo dolore avevano procurato le dittature nazi-fasciste. Forse soltanto l’Inghilterra sarebbe rimasta capitalistica.

Invece dagli Usa venne una nuova ventata di ottimismo, un nuovo sogno in cui credere, l’unica vera alternativa al socialismo statale. Ecco perché gli Usa hanno dovuto costruire una gigantesca fabbrica dei sogni. Con loro il capitalismo è diventato davvero un fenomeno di massa, strettamente associato alla democrazia politica, dove l’individualismo è il fondamentale criterio di vita per avere successo, dove si premia il merito di chiunque, senza guardare la sua provenienza etnica o sociale o il suo credo religioso, dove tutte le religioni sono uguali davanti allo Stato, dove l’emancipazione sessuale è sicuramente più forte che in Europa.

La mentalità consumistica è entrata a far parte dello stile di vita europeo. Gli elettrodomestici hanno invaso le nostre abitazioni e il cinema hollywoodiano ha legittimato questa svolta epocale. La nuova democrazia veniva basata sulla capacità di spendere. In cambio gli Usa chiedevano all’Europa d’essere profondamente anticomunista. E l’Europa, nel complesso, obbedì, anche se, per impedire lo sviluppo del socialismo, dovette dotarsi di uno strumento poco usato in America: lo Stato sociale.

Dopo quarant’anni di guerra fredda è però avvenuto un fatto del tutto inaspettato: il socialismo statale è crollato per motivi endogeni, in quanto la giustizia sociale che garantiva veniva pagata dalla mancanza della libertà personale (di parola, di associazione e persino di coscienza). Sembrava fatta. Invece il capitalismo americano, dopo neppure un ventennio da quel crollo, ha subìto un grave disastro finanziario, che ha avuto ripercussioni sul mondo intero. Il sogno pareva finito. I debiti erano talmente grandi che s’è rischiato un crac analogo a quello del 1929.

Cioè proprio mentre i paesi del cosiddetto “socialismo reale” capivano che una società massificata, se non vuole finire in una guerra civile, ha bisogno del capitalismo, gli Stati Uniti sono stati invece i primi a rendersi conto, dalla fine della guerra, che, lasciando il capitalismo a se stesso, si rischiava la bancarotta, cioè di morire a causa delle sue intrinseche contraddizioni. Anche loro, quindi, erano arrivati alle stesse conclusioni cui era giunta l’Europa nel corso delle due guerre mondiali.

Agli effetti disastrosi della deregulation, iniziata negli anni ’80 col reaganismo, si è ad un certo punto dovuto supplire, con l’amministrazione Obama, potenziando lo Stato sociale (almeno nel campo della sanità), benché non sia mai mancata una legislazione sociale negli Usa (la prima risale al 1935, grazie al presidente F. D. Roosevelt).

Tuttavia i nodi stanno venendo al pettine. Le differenze sociali, legate al reddito, sono aumentati a dismisura nell’area dell’ex socialismo reale; le casse degli Stati capitalisti non hanno più soldi per rimediare ai guasti del loro sistema economico. Tutti i paesi capitalisti avanzati sono enormemente indebitati, e anche il Terzo mondo, che loro sfruttano da almeno mezzo millennio, non ne può più: questo gigantesco limone arriverà a un punto che non si potrà più spremere, anche perché vi sono paesi (come Cina, India, Brasile…) che vogliono decisamente far parte del Primo mondo.

Siamo seduti su una pentola a pressione: sentiamo il fischio uscire dalla valvola di sicurezza, ma nessuno è capace di abbassare il fuoco e, tanto meno, di spegnerlo. La politica non sa trovare alcun vero rimedio ai guasti dell’economia. Invece di ipotizzare sin da adesso una via d’uscita, praticabile per tutti, continuiamo a ballare sul Titanic.

Altra vergogna senza limite in Israele contro un bambino di 5 anni. Protagonista lo stesso esercito che protegge sempre e comunque ogni sopruso e atto di teppismo dei coloni.

Tanto più grave, greve e incivile il comportamento della soldataglia israeliana contro il bambino di 5 anni Waadi Maswada, accusato e di avere lanciato un sasso contro l’auto di alcuni coloni a Hebron, sia perché non si tratta di un’eccezione sia perché si tratta della stessa soldataglia che a Hebron protegge i coloni teppisti qualunque atto di prepotenza facciano contro i palestinesi sia infine perché MAI i soldati sono intervenuti contro gli infiniti casi di pietre lanciate addosso a persone fisiche palestinesi. Lanci, quest’ultimi, documentati da una marea di video. A Hebron, ricordiamolo, oltre 100 mila palestinesi cono costretti a vivere sopportando soprusi di ogni genere, compresa la vergognosa chiusura di molte strade e centinaia di negozi, perché Israele ha voluto e vuole far spazio alle poche centinaia di coloni di una vicina colonia. Abitata da una tale gentaglia che venera ancora la tomba del pluriassassino Baruch Goldstein che qualche anno fa abitava proprio in quella colonia e una mattina andò a far strage con il suo mitra di palestiensi in preghiera nella moschea di Abramo. Sulla tomba, che fa bella mostra di sé all’interno della colonia, ancora oggi si legge che Goldstein era un uomo giusto e santo e che quella mattima compì una buona azione…

L’unica nota positiva di questo obbrobbrio incivile contro un (altro) bambino palestinese è che l’intero episodio è stato ripreso e denunciato da attivisti di una organizzazione pacifista che riunisce sia israeliani che palestinesi. Altra nota positiva è che a dar spazio alla denuncia in Italia sono i giornali di Carlo De Benedetti che a volte ci tiene a far sapere che lui è ebreo. Queste due note positive sono la miglioare dimostrazione che si può essere israeliani e filoisraeliani senza per questo essere fascisti o avere posizioni repellenti come quella di chi si affanna vergognosamente perfino a giustificare il nuovo sopruso consumato a Hebron prima contro un bimbo di 5 anni e poi anche contro suo padre.

Altra nota comunque positiva è che in Israele documenti come questi filmati non vengono sequestrati e possono circolare, almeno quando sono prodotti da organismi che comprendono anche israeliani.

http://www.youtube.com/watch?v=0LKhQS5f9oo

http://www.youtube.com/watch?v=TxA3oI9PZRc

https://triskel182.wordpress.com/2013/07/12/quel-bambino-palestinese-arrestato-per-un-sasso-adriano-sofri/

Quel bambino palestinese “arrestato” per un sasso (Adriano Sofri).

TRATTARE un bambino di cinque anni e nove mesi, che piange spaventato, come se fosse un pericoloso nemico adulto, e umiliare suo padre davanti a lui e a causa di lui, non è solo un’infamia: vuol dire fare di quello e di tanti altri bambini, asciugate le lacrime, irriducibili e temibili nemici. Continua a leggere

Le banche centrali hanno fallito. Non si può penalizzare il lavoro e le imprese.

Le banche centrali hanno fallito. Non si può penalizzare lavoro e imprese

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le recenti stime della Banca dei Regolamenti Internazionali ci dicono che dal 2007 al 2012 il debito aggregato globale, comprendente non solo quello del settore pubblico degli Stati ma anche quello delle famiglie e delle imprese non finanziarie, è cresciuto del 20% in rapporto al Pil, cioè di ben 33  trilioni di dollari! E’ cresciuto di circa il 40% negli Usa, di oltre il 50% in Francia e di circa il 65% nel Regno Unito. In Italia è aumentato del 25%. Pur se nel mezzo di un reale sviluppo economico, anche la Cina ha registrato una crescita di oltre il 50% del proprio debito aggregato in rapporto al Pil che, però, riguarda esclusivamente le famiglie e il settore delle imprese non finanziarie.

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Imputato e colpa

Quando nei processi si giudica qualcuno e ci si attiene esclusivamente alla legge si ha più possibilità di sbagliare che non attenendosi esclusivamente all’etica. Applicare la legge ai casi umani, che sono sempre infinitamente complessi, anche quando appaiono semplici, non ha molto senso. Anche se i giudici avessero in mano migliaia di codici e migliaia di riferimenti a casi analoghi a quello che devono giudicare, non sarebbero per questo più agevolati. La realtà è che gli esseri umani non possono essere “giudicati” da altri esseri umani. Possono solo essere capiti.

Di fronte a qualcuno accusato di qualcosa, noi non dovremmo mai né giustificare né condannare, proprio perché non possiamo farlo. E i motivi sono tanti: p. es. perché conosciamo troppo o troppo poco l’imputato. In un caso possiamo avere dei conflitti di interesse; nell’altro rischiamo di fidarci troppo delle apparenze, delle impressioni, delle opinioni o testimonianze altrui. Per non parlare del fatto che ci portiamo sempre dietro i nostri pregiudizi, le nostre concezioni di vita.

Noi non siamo mai nelle condizioni migliori per poter giudicare in maniera adeguata qualcuno: o siamo troppo coinvolti nelle sue vicende (e allora è come se, in realtà, dovessimo giudicare noi stessi, e nessuno è così obiettivo da poterlo fare), oppure il caso ci appare troppo estraneo (e allora il nostro giudizio può essere condizionato da altri fattori: p. es. la fretta di concludere il processo o il timore di subire conseguenze a seconda di come ci si pone nei confronti dell’accusato).

L’idea che esistano delle “prove schiaccianti” non aiuta assolutamente a definire la colpevolezza di un imputato. Per poter capire davvero un reato non abbiamo bisogno né di prove né di testimonianze. Il fatto che un crimine venga individuato con certezza non significa, di per sé, che si sia anche in grado di capirlo adeguatamente. Si pensi solo al fatto che chi subisce un torto è generalmente convinto, solo per questo, di avere tutte le ragioni di questo mondo. E qui non stiamo neppure a discutere se davvero possa esistere il concetto di “prova inconfutabile”: se esistesse un concetto del genere, non si darebbe così tanto peso al concetto di “alibi”, né si cercherebbe di produrre falsi indizi o di deviare le indagini o di cercare false testimonianze o di manipolare i reperti.

Uno può pensare che tutto ciò viene fatto proprio perché esistono “prove inconfutabili”, ma chi è disonesto sa bene che tutto può essere “falsificato” e che operazioni del genere possono dare anche i loro frutti nei processi. Quanto alle testimonianze oculari, da tempo è noto che uno vede solo ciò che vuol vedere o che “pensa” di aver visto. L’evidenza della verità è solo un’illusione. E quando si fa giurare qualcuno di dirla, si è soltanto ridicoli. Uno la verità non potrebbe dirla neanche se lo volesse, proprio perché con certezza non può saperla.

Neppure un’esplicita ammissione di colpa potrebbe risultare sufficiente. Non serve a nulla, sul piano etico, pentirsi per avere uno sconto della pena, tanto più che non è detto che un imputato possa avere piena consapevolezza di ciò che ha fatto solo perché l’ha fatto. Probabilmente se uno potesse avere una consapevolezza del genere, non farebbe alcun crimine (almeno così la pensava Socrate, il più grande filosofo dell’antichità).

I giudici, la giuria, gli avvocati, la pubblica accusa, i parenti dell’imputato, quelli della vittima, le forze dell’ordine che assistono al processo, ma anche i giornalisti, il pubblico curioso o interessato…, insomma tutta la società ha bisogno di sapere le motivazioni di fondo che hanno indotto a compiere un determinato reato o crimine. Cioè le circostanze che le hanno generate e le eventuali attenuanti o aggravanti, correlate al fatto, che si possono far valere: non a titolo di mera curiosità, ma nella speranza che la cosa non si ripeta.

Le circostanze sono sempre quelle socio-ambientali, in cui può maturare un reato o un crimine. Chiunque infatti è in grado di notare che, a parità di circostanze, uno delinque, l’altro no. Per quale motivo? Uno dovrebbe essere giudicato dai suoi pari, cioè da quelli che, pur vivendo medesime circostanze, han deciso di comportarsi diversamente. Nei processi dovrebbero essere presenti solo le persone che, in un modo o nell’altro, conoscevano l’imputato e potevano accedere, in un modo o nell’altro, ai suoi ambienti. E tutti dovrebbero essere interpellati, per poter avere un quadro sufficientemente chiaro della personalità e della vita dell’accusato.

Il processo dovrebbe soltanto avere lo scopo di far capire all’accusato fino a che punto avrebbe potuto comportarsi diversamente, sulla base delle testimonianze raccolte. Le quali appunto non dovrebbero essere utilizzate a suo carico, ma proprio per fargli capire che esiste sempre la possibilità di agire diversamente. Dovrebbero essere testimonianze aventi una finalità pedagogica. Occorre cioè far capire a tutti, e non solo all’imputato, il valore delle opzioni, delle possibilità di scelta. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi compie un reato o un crimine sostiene che non aveva scelta. Ma se davvero mancasse la libertà di decidere, dove starebbe la colpa? A che pro giudicare uno destinato a delinquere? Dovrebbe anzi essere la società a chiedersi il motivo per cui, in certe situazioni, non esiste possibilità di scelta.

Noi diciamo che le persone non vanno giudicate per le loro idee ma per quello che fanno. Eppure il più delle volte le cose si compiono sulla base di certe idee o convinzioni. Dunque dovrebbe vertere su queste idee il dibattimento processuale. Uno dovrebbe arrivare a convincersi d’aver sbagliato, a prescindere dalla pena prevista. La quale, comunque, non può certamente basarsi sul carcere, cioè su una reclusione meramente punitiva. Chi ha sbagliato deve essere recuperato, altrimenti sarà indotto a ripetere il crimine o anche a far di peggio. La pena deve essere rieducativa. Quando uno si convince d’aver sbagliato, è già punito: a partire da quel momento gli deve esser data la speranza di reintegrarsi, proprio perché una persona non va mai condannata, ma recuperata.

Lo stesso criminale che, dopo essersi pentito, subisce un torto, deve dimostrare una maturità sufficiente a comportarsi diversamente da come avrebbe fatto prima del pentimento. Gli sbagli che nella vita si compiono devono servire per non ripeterli. Bisogna guardarli con fiducia, non con pessimismo, anche perché la perfezione non esiste: non è forse vero che spesso facciamo sbagli senza neppure accorgercene?

Le leggi esistenti, i codici, i casi analoghi, accaduti in precedenza, dovrebbero servire soltanto come spunto di riflessione, giusto per far capire all’imputato che non è un caso speciale, mai accaduto prima. Uno deve togliersi di testa l’idea di dover essere sottoposto, per una qualche ragione, a un trattamento di favore. L’etica è terribilmente più importante del diritto.

Italia-Germania: ecco l’alleanza ideale!

L’alleanza produttiva tra Italia e Germania

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Finalmente Italia e Germania cominciano a dialogare in modo serio sul come superare la crisi economica e la debilitante debolezza politica dell’Unione europea. E’ tempo infatti di mettere da parte stantii luoghi comuni, polemiche e pregiudizi. ’occasione è stata offerta dal primo Forum economico italo-tedesco tenutosi recentemente a Francoforte. Come è stato evidenziato nell’incontro, nel 2012 la produzione industriale italiana si è ridotta del 7% e, contestualmente, anche le prospettive di crescita della Germania sono scese dal 3,6% allo 0,3%. Si ricordi che il 60% dell’export tedesco è orientato verso il mercato europeo e soltanto il 6% verso la Cina. In questo contesto gli scambi commerciali italo-tedeschi ammontano a 100 miliardi di euro.

Perciò anche al Forum si è preso atto che se l’Italia e altre parti dell’Europa non vanno bene ne soffre anche la Germania. Ciò è stato esplicitamente sottolineato dal socialdemocratico Walter Steinmaier, l’ex ministro degli esteri della passata Grosse Koalition. Egli ha anche criticato la gestione della crisi economica basata soprattutto su politiche di austerità che ha determinato una crescita della disoccupazione in Europa fino a superare il livello di 25 milioni. Continua a leggere