L’Occidente e il mondo arabo: cambiare tutto per non cambiare niente? Per la Libia abbiamo parlato subito di “genocidio”, di “interi quartieri civili bombardati” e di “fosse comuni”, ma a sproposito. Guarda caso, gli stessi termini, peraltro meno inappropriati, il cui uso è stato accuratamente evitato per la mattanza israeliana a Gaza

Ciò che accade in Libia è senza dubbio grave e apre spiragli verso un futuro migliore, sia per la Libia che di conseguenza per il resto del mondo arabo e non solo. Ma ci sono fatti che denotano con chiarezza mire occidentali perché “tutto cambi senza cambiare niente”, senza cioè che cambi in fatto di petrolio. Fa pensare al solito gattopardismo anche quanto accade nelle ultime ore in Tunisia e in Egitto. La rivolta popolare pareva avesse scacciato definitivamente gli ostacoli a una democrazia degna di questo nome. Ora invece pare che il potere preesistente non voglia uscire di scena dopo essersi rifatto una verginità cacciando i rispettivi capi di Stato e di governo, supportati docilmente per decenni, quando ormai non erano più difendibili. Ma veniamo alla Libia.
I mass media occidentali, e italiani in particolare, hanno cominciato a parlare immediatamente di “genocidio” quando le vittime della reazione di Gheddafy erano ancora solo decine o centinaia e venivano comunque indicate dai nostri giornali in “mille morti”. Mille morti su una popolazione di oltre sei milioni di abitanti chiaramente NON sono un genocidio. NON sarebbe un genocidio neppure se i morti fossero diecimila, come per prima hanno ipotizzato – ma NON affermato – le emittenti arabe Al Arabiya e Al Jazeera, di colpo prese per oro colato quando fino al giorno prima le deridevamo o guardavamo con sospetto. La nostra interessata ipocrisia, e annessa sporcizia morale, risulta in tutta la sua gravità se ci si ricorda dell’accanimento con in quale abbiamo rifiutato il termine “genocidio” quando l’esercito israeliano ha invaso Gaza provocando una mattanza di (altri) più o meno 1.500 morti (oltre 400 dei quali bambini!) su un totale di appena 1,5 milioni di abitanti. Un termine, “genocidio”, che ci rifiutiamo con accanimento di ammettere anche quando si contano le vittime totali palestinesi della repressione israeliana, che ormai ammontano a svariate migliaia di esseri umani. La nostra interessata ipocrisia, e annessa sporcizia morale, arriva al punto di rifiutarci anche di parlare di “pulizia etnica” per definire il continuo esproprio – cioè furto – di terra palestinese per far largo ai coloni, avanzo velenoso del colonialismo sconfitto dalla Storia. Ci rifiutiamo cioè di chiamare pulizia etnica quella che è una pulizia etnica. Continua a leggere

Arte e cinematografia

In un film americano, essendo improntato al calvinismo, il bene non può realizzarsi col pentimento del criminale. Se il criminale si pente, sicuramente muore, come se non si pentisse. Deve infatti morire perché è stato criminale: o per espiare una colpa, oppure per non ricadervi. La morte è vista o come punizione giuridica o come riscatto morale.

D’altra parte è l’esigenza dello stesso mezzo comunicativo che lo impone. Il film, di qualsivoglia genere sia, è sempre una forma d’intrattenimento destinata a durare, al massimo, un paio d’ore. Deve per forza esserci un inizio e una fine. Generalmente il regista dedica poco tempo sia a motivare l’insorgere di una situazione criminale che a concluderla. Tra l’inizio e la fine di una storia criminale vi sono solo incidenti di percorso, diversivi, colpi di scena che, in ultima analisi, non possono modificare un finale scontato, che è appunto quello della morte come punizione giuridica o come riscatto morale.

La società non può tollerare che il finale si concluda col trionfo del male, anche perché i film servono per illudere, per far sognare, non per intristire, altrimenti non andrebbe nessuno a vederli. Se un film è troppo identico alla realtà, diventa sufficiente guardare la realtà: è anche più “realistica”.

I film americani sono un’enorme semplificazione della realtà, proprio perché non vogliono essere dei documentari, ma appunto dei film in cui l’avventura gioca un ruolo decisivo, avente un inizio e una fine ben determinati, come un fumetto per bambini. Non devono aiutare a “capire” la realtà, a come migliorarla, ma semplicemente a evaderla, a sognarne una che abbia un lieto fine, nella maniera più astratta possibile (astratta non nel senso di “intellettualistico”, ma nel senso che non si vuole offrire una capacità di coinvolgimento che vada al di là della mera emozione).

Un film americano non offre mai i mezzi per realizzare i sogni di cui si viene fatti oggetto. Sotto questo aspetto esso è come una droga: solo nel momento in cui lo si visiona, produce effetti allucinogeni, di estraniamento. Subito dopo averlo visto si è infatti consapevoli che tutto è rimasto come prima.

Per avere una valenza un minimo educativa, un film dovrebbe essere presentato e discusso. Ai partecipanti bisognerebbe distribuire una scheda con delle domande cui rispondere alla fine del film (se non addirittura nell’intervallo tra un tempo e l’altro, proprio per predisporre a una certa visione del secondo tempo, ipotizzando vari svolgimenti della trama, finali di diverso tipo).

Agli spettatori bisognerebbe distribuire all’ingresso una scheda con delle domande cui rispondere già durante l’intervallo: in questo modo verrebbero abituati a guardare le cose con impegno, senza distrazioni. L’ideale sarebbe che alla fine del film si potesse discutere con qualcuno che l’ha realizzato, oppure con un esperto di cinematografia, in grado di mettere in rilievo tutti gli aspetti di un film, da quelli tecnici a quelli di contenuto.

Teoricamente un film dovrebbe essere considerato un’opera d’arte e non solo di artigianato, sia perché vi concorrono molte professioni: regia, sceneggiatura, recitazione, fotografia, trucco, effetti speciali ecc., sia perché si trasmettono contenuti significativi, coinvolgenti. E, come tutte le opere d’arte, andrebbe presentato da un esperto in modo tale che gli spettatori diventino un “pubblico intenditore”.

La gente comune sa apprezzare un buon film ma mai sino in fondo, se non viene addestrata a farlo. Sarebbe incredibilmente istruttivo se, oltre a discutere sul valore di un film, lo spettatore potesse anche apprendere delle nozioni specifiche di cinematografia (p.es. su come realizzare una certa inquadratura per ottenere un particolare effetto).

Di fronte a uno schermo non si può mai restare passivi, anche perché su quello schermo bianco è possibile proiettare qualunque cosa, soprattutto oggi, caratterizzati come siamo dall’uso delle manipolazioni digitali. Chiunque veda qualcosa sullo schermo, deve essere messo in grado di capire come poterla riprodurre.

Il backstage è fondamentale per capire un film. Non ci si può limitare a osservare una mummia senza sapere nulla di mummificazione. Non aiuta a sviluppare la scienza limitarsi a dire “che bello” o “interessante”. Che democrazia può esserci in una società se non si sviluppa il giudizio critico? Non si può offrire qualcosa a qualcuno se questo qualcuno non è in grado di apprezzarne sino in fondo il valore.

I film devono uscire dal puro e semplice circuito commerciale delle merci che si vendono e si comprano. Chi fa arte, non dovrebbe farla per realizzare semplicemente un guadagno. L’arte è un prodotto di cultura e, come tale, dovrebbe essere fruita liberamente da chiunque, e apprezzata fin nei suoi dettagli. Anzi, dovrebbe essere considerato un grave crimine introdurre elementi di pubblicità all’interno di un film.

L’arte va insegnata, in tutti i suoi aspetti, a quanta più gente possibile. L’intera vita dovrebbe diventare un’opera d’arte.

Perché Obama e la signora Clinton quando ci sono le manifestazioni antigovernative a Teheran fanno la voce grossa a favore della “libertà di manifestazione in tutto il Medio Oriente”, ma come sempre se ne fottono della mancanza di libertà di manifestazione dei palestinesi (sotto occupazione militare da troppi decenni)?

Il carro armato è israeliano. Il bambino invece è palestinese. Come sono palestinesi le centinaia di uccisi dai militari israeliani nel corso di manifestazioni pacifiche. L’ultima vittima è stata Jawaher Abu Rahme, la donna palestinese di 36 anni uccisa a Bi’lin dai gas lacrimogeni lanciati sui manifestanti dall’esercito israeliano il 31 dicembre nel corso di una manifestazione pacifica. A volte vi partecipano anche turisti europei, si tratta della manifestazione che avviene ormai da anni ogni venerdì per protestare contro l’enorme e continuo furto delle loro terre per espandere la sempre più gigantesca colonia israeliana di fronte a Bi’lin. Colonia illegale, se non vero e proprio crimine di guerra, come tutti i furti di terra e le colonie costruite provocatoriamente in territorio palestinese fregandosene altamente anche dell’Onu oltre che dell’Europa, che da sempre in questi casi si limita a qualche litania ipocrita e scientemente complice dei soprusi israeliani.  Jawaher Abu Rahme era la sorella di Bassem, attivista del comitato popolare, ucciso da un’altra granata lacrimogena sparatagli in pieno petto il 17 aprile 2009. L’anno scorso ho partecipato a una delle manifestazioni del venerdì di Bi’lin e, come forse ricorderete, sono testimone della specifica pericolosità dei gas lacrimogeni usati contro i palestinesi dagli israeliani. I quali, come documenta in modo ineccepibile il libro “Distruggere la Palestina”, della giornalista ebrea e israeliana Tania Reinhart, usano sparare spesso i lacrimogeni direttamente addosso ai manifestanti, che colpiscono anche con fucilate dirette agli occhi o alle ginocchia in modo da provocare il più possibile danni anche sociali, perché un invalido diventa inevitabilmente un peso per l’intera famiglia in una società povera e stremata come quella palestinese.

La violenza contro le manifestazioni palestinesi è tale che 30 associazioni di donne israeliane dopo l’assassinio di Jawaher Abu Rahme hanno condannato “l’uso di ogni tipo di arma e violenza utilizzate per la dispersione delle manifestazioni popolari in Cisgiordania”. L’israeliana Dalit Baum, della  Coalition of Women for Peace, ha dichiarato che “l’omicidio di Abu Rahme è una forma di violenza contro le donne”, ma le balde femministe e filofemministe nostrane, a partire da Hilary Clinton e a finire alla signora Selma Dal’Olio, se ne sono ovviamente strafregate. Mica si tratta di vittime israeliane di apparteneza ebraica….. Il problema non è solo della difesa delle donne a senso unico, ma dell’insopportabile ipocrisia della Casa Bianca, che fa la voce grossa per “la libertà di manifestazione in tutto il Medio Oriente” dopo le grandi manifestazioni di protesta de Il Cairo e dopo quelle che sembra siano manifestazioni di protesta anche a Teheran. Dico “sembra” perché l’intera informazione dall’Iran, e spesso dall’intero Medio Oriente, è falsata o comunque taroccata, in particolare dalla nota agenzia di stampa MEMRI, fondata da un ex (?) agente del Mossad israeliano.

Senza contare l’orrore documentato dai cosiddetti “Palestinian Papers” pubblicati da Al Jazeera, che hanno rivelato la corruzione (arte nella quale l’Occidente eccelle) della dirigenza palestinese dell’Anp venduta agli Usa e a Israele, il razzismo degli Usa arrivato al punto da proporre in segreto il “trasferimento” dei palestinesi nella foresta amazonica e la fetida ipocrisia europea. Che gli israeliani – parlo del loro governo e dei suoi sopporter – siano sprofondati in un tale abisso pare impossibile: a suo tempo infatti gli ebrei hanno dovuto subire a lungo la minaccia non solo dell'”opzione Uganda”, cioè del progetto di creare lo stato ebraico in tale Paese africano con annesso trasferimento anche forzato, ma anche la minaccia proprio dell'”opzione Amazonia”, vale a dire il progetto di creare lo Stato di Israele nella grande foresta sudamericana. Ora una bella fetta di dirigenti israeliani e dei fanatici che li hanno votati vorrebbe “trasferire”, cioè deportare, i palestinesi… E’ il solito vizio della smemoratezza a comando, la famosa memoria a senso unico. Ma che si potesse arrivare a tanto non lo avrebbe creduto nessuno, neppure gli “antisemiti” più incalliti, veri o presunti o inventati dai soliti noti maestri del terrorismo psicologico.

Guardando la foto del bambino che lancia sassi contro il carro armato israeliano – usato, si noti bene, contro la popolazione civile! – è evidente che in Israele troppi hanno dimenticato perfino la “sacra” leggenda di Davide e Golia. Male, molto male…

Domanda (inutile): perché Obama e la signora Clinton quando ci sono le manifestazioni antigovernative a Teheran fanno la voce grossa a favore, giustamente, della “liberta di manifestazione in tutto il Medio Oriente”, ma sempre fottendosene della mancanza di libertà di manifestazione dei palestinesi (sotto occupazione militare da troppi decenni)? La Palestina e Israele non sono forse in Medio Oriente?

Se ti baciassi la pianta del piede: poesia, musica e immagini

Vi giro una breve poesia in formato video, protagonista l’attore e autore Vasco Mirandola. Poesia, immagini e musica per vivere in un altro mondo, anche se solo per poco più di un minuto. E tornare lì quando vuoi, basta chiudere gli occhi e aprire il cuore…..
Molte volte guardi quello che succede e non ne capisci il senso poi inaspettata arriva una rivelazione, un’epifania, e tutto quello che hai visto e vedrai prenderà significato.Questo è la poesia e questo è quello che vogliamo provare a fare: dare un senso a quello che un senso non ha. Se e ti baciassi la pianta del piede.

Le donne ci sono e hanno battuto un colpo. La sinistra invece non c’è. E Berlusconi con i suoi congiurati per ora da avanspettacolo diventa davvero pericoloso

Gli avvenimenti e i fatti significativi si accavallano, a ritmo sempre più serrato. Da dove cominciare?

1) – Cominciamo dalla manifestazione delle donne. A parte le chiacchiere demenziali della povera Gelmini, chissà perché e per quali meriti berlusconi messa a sedere sulla poltrona di ministro addirittura della Pubblica (d) istruzione, la manifestazione è stata un successo. Ero in piazza del Popolo a Roma, sbalordito per il pienone che straripava anche nelle piazze e nelle vie circostanti, pienone nonostante la scorrettezza e la disonestà politica del sindaco Alemanno e di chi per lui di decidere di non deviare il traffico. Non credevo alle mie orecchie quando ha parlato una religiosa, suor  Eugenia Bonetti, il cui intervento vi propongo per intero:
http://tv.repubblica.it/copertina/suor-eugenia-bonetti-riprendiamoci-dignita/61991?video=&ref=HREA-1

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Umano e Politico, tra Camus e Sartre

La famosa querelle tra Camus e Sartre (1), di quasi sessant’anni fa, riproposta in circa 40 pagine dalla rivista “Il piede e l’orma”, alla fine del 2010, in un numero monografico quasi interamente dedicato a Camus, ridiventa incredibilmente attuale ogni volta che qualche area del pianeta vuole liberarsi dal fardello dell’imperialismo borghese. Quella volta era l’Algeria a volerlo fare nei confronti della Francia.

Ora, siccome la tentazione è quella di mettersi dalla parte di una posizione come quella di Camus, vivendo noi oggi un periodo in cui si tende a far prevalere l’umano sul politico, condizionati, in questo, dalla sconfitta del socialismo reale, che, come noto, faceva il contrario, cerchiamo di capire se davvero una posizione opposta, che quella volta s’incarnò nella figura di Sartre, sia destinata ad avere tutti i torti o se invece possa offrire ancora oggi un valido contributo per affrontare al meglio le contraddizioni del nostro tempo.

Perché qui, in fondo, si tratta di fare una scelta di campo, cioè si tratta di capire se è necessario azzerare tutti i tentativi rivoluzionari che nel passato hanno posto la politica al di sopra della morale, oppure se conservarli, previo debito filtraggio, nella convinzione che in essi vi sia un fondo di verità, utile ancora per il presente. In soldoni si tratta di capire se nei confronti delle contraddizioni del sistema borghese sia più efficace, nel lungo periodo, un atteggiamento di resistenza non-violenta, ispirato a Gandhi e fatto proprio da Camus, o se sia ancora da preferire, nonostante gli esiti catastrofici dello stalinismo, l’idea leninista di organizzare una strategia rivoluzionaria (che ad un certo punto dovrebbe diventare armata) per la conquista del potere.

Parteggiare per Camus, considerando che la posizione di Sartre è stata sconfitta dalla storia, è un’operazione troppo semplice per essere vera. D’altra parte è impossibile parteggiare per Sartre senza tener conto degli enormi progressi che, proprio intorno alla sconfitta “politica” del socialismo reale, si sono fatti in direzione dell’approfondimento dei valori umani.

Tuttavia si può qui far notare una cosa, che forse può servire per cercare una terza soluzione tra le due in campo. Tutti gli approfondimenti più significativi in direzione dell’umanesimo etico (si pensi solo ai documenti di Charta 77) non sono venuti fuori dalla cultura borghese, ma proprio da parte di chi, vivendo nel socialismo reale, lo contestava democraticamente. Un regime, quest’ultimo, che da quando è crollato sembra aver tolto alla cultura borghese il desiderio di approfondire proprio i valori della democrazia e dell’umanesimo laico, sembra aver indotto questa cultura a illudersi di possedere la quintessenza dei valori umani. Il che lascia pensare che l’uso da parte della borghesia di teorie etiche e democratiche, con cui s’appoggiava la resistenza al regime comunista, sia stata soltanto una forma strumentale all’apologia del proprio potere.

Fino a quando l’opposizione umanistica al socialismo reale non s’è imposta con l’evidenza delle sue argomentazioni, era comunque difficile contestare il valore delle accuse politiche che quel regime rivolgeva alle democrazie borghesi, secondo cui l’affermazione teorica della democrazia era del tutto contraddetta dalla dittatura del capitale. Non dimentichiamo infatti che se oggi in occidente esistono gli “Stati sociali” e, nelle nostre Costituzioni, le sezioni riguardanti i “diritti sociali ed economici”, lo si deve proprio all’ideologia socialista e non certo a quella liberale, che portò invece alle due guerre mondiali.

Ora però ci chiediamo: possiamo con sicurezza dire che dai tempi di Gandhi ad oggi l’India abbia fatto dei progressi significativi in direzione dell’acquisizione dei diritti sociali ed economici? O li abbia fatti il Sudafrica grazie a uno dei discepoli gandhiani, Nelson Mandela? Fino a che punto, in nome della sola etica, si può arrivare a trasformare una società nei suoi livelli concreti dell’economia?

La politica di Gandhi e di Mandela è sempre stata subordinata al principio della non-violenza, ma possiamo dire con certezza ch’essa abbia risolto il problema fondamentale dell’antagonismo tra capitale e lavoro? La resistenza umana contro lo stalinismo, che ha portato al crollo del socialismo reale nel 1991, ha forse fatto nascere un socialismo davvero democratico?

Queste semplici domande sono sufficienti per capire che l’etica da sola non basta, ci vuole anche la politica rivoluzionaria. Gli uomini e le donne che soffrono ingiustizie sono inevitabilmente tentati dal pensare che il loro sacrificio sia sufficiente per cambiare radicalmente le cose, ma non è così. Quando la resistenza umana è di massa, si può anche arrivare ad abbattere una dittatura (lo vediamo anche oggi in Egitto, Tunisia ecc.), ma se non si risolve la questione fondamentale della proprietà dei mezzi produttivi (vero nodo cruciale di qualunque democrazia), la situazione, presto o tardi, tornerà come prima, inevitabilmente; anzi, potrà anche peggiorare, in quanto i poteri forti sapranno prendere contromisure per non farsi abbattere come i precedenti, e useranno proprio le idee dei “riformatori morali” per sostenere che la “rivoluzione” è già stata fatta.

Chi lavora solo sul piano etico o umanistico, senza pensare a darsi delle strategie politiche rivoluzionarie, che intervengano direttamente sull’economia, s’illude che sia sufficiente il proprio esempio perché le cose s’aggiustino da sole, grazie a nuovi politici illuminati, che si pensa non avranno il coraggio di tradire chi, col proprio sacrificio e perfino col proprio martirio, li ha mandati al potere per rinnovare le cose. Ma questi politici, immancabilmente, tradiranno, perché sarà il sistema stesso, con le sue contraddizioni irrisolte di fondo, che li spingerà a farlo.

Ecco perché mettersi dalla parte della sola etica o della sola politica oggi non ha più senso. Camus avrà sempre una ragione in più contro Sartre, ma anche Sartre ne avrà una in più contro Camus. Bisogna uscire da questo circolo vizioso, chiedendosi cos’è che c’impedisce di non ripetere gli errori del passato, di non ricadere in quelle situazioni in cui si ha l’impressione, ad un certo punto, che tutti i sacrifici siano stati vani.

Per poter uscire da questo meccanismo perverso della storia, che ci induce periodicamente, a prezzo di grandi spargimenti di sangue, a ricominciare tutto da capo, occorre solo una cosa, che gli esseri umani siano davvero in grado di gestire autonomamente le risorse del territorio in cui vivono. Solo in questa maniera potranno addebitare a se stessi il fallimento della loro etica e della loro politica.

Finché non si affermerà l’autogestione delle proprie risorse territoriali all’interno di comunità in cui sia possibile la democrazia diretta, saremo continuamente indotti ad attribuire alle istituzioni statali la causa dei tradimenti dei nostri valori e dei nostri sacrifici.

Ma per affermare questa autogestione occorre non solo eliminare la proprietà privata di quei fondamentali mezzi produttivi che possono far sussistere una comunità locale; occorre anche eliminare qualunque forma di dipendenza organica dai mercati e dalle borse finanziarie: occorre affermare l’autoconsumo. Ci vogliono comunità locali che siano padrone dei loro mezzi produttivi, in grado di autogestire le risorse dei loro propri territori, capaci di democrazia diretta (e non solo delegata), in cui valori come uguaglianza sociale e libertà di coscienza non possano essere concepiti in alternativa tra loro.

Quando si vogliono realizzare cose del genere e si è disposti a difenderle, anche con le armi, diventa inutile porsi il problema se sono più importanti i valori etici o quelli politici: gli uni senza gli altri, separatamente, non resisteranno alla controffensiva del nemico.

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(1) La querelle scoppiò nel 1952, quando la rivista “Les Temps modernes”, fondata da Sartre, pubblicò una recensione molto critica, firmata da F. Jeanson, sul libro di Camus, L’uomo in rivolta. Camus rispose, con non meno durezza, direttamente a Sartre, che ovviamente replicò sulla stessa rivista. I rapporti tra i due cessarono improvvisamente.
Nel suo romanzo, dell’anno prima, Camus aveva infatti sanzionato definitivamente il suo distacco dalle teorie del comunismo politico, inaugurato coi romanzi Lo straniero e Mito di Sisifo, entrambi del 1942.
Il suo ideale di vita erano diventati i paesi scandinavi, che avevano raggiunto una certa democraticità senza alcuna violenza rivoluzionaria. E, per quanto riguardava l’Algeria colonizzata (sua patria d’origine), egli aveva in mente una soluzione collaborativa con la Francia, antitetica quindi a quella del Fronte di Liberazione Nazionale, che lottava per la piena indipendenza.
L’uomo doveva essere sì in “rivolta” – secondo Camus -, ma senza centralismi di sorta, senza intruppamenti partitici, che sempre fagocitano le libertà individuali. Ed egli prendeva come esempio Gandhi, ch’era riuscito a vincere il più grande impero coloniale del mondo con la sola non-violenza.
Camus aveva aderito al Partito comunista d’Algeria nel 1934, ma già nel 1937 ne era uscito, con la convinzione che i metodi della lotta di classe non servissero a risolvere i problemi ma ad acuirli. Politicamente preferiva gli anarchici, anche se ideologicamente si mantenne sempre vicino alle posizioni del materialismo ateo.
La rottura del 1937 non ebbe però particolari ripercussioni sulla sua vita e sui suoi rapporti con la sinistra semplicemente perché, con l’inizio della guerra mondiale, egli s’era trovato comunque coinvolto attivamente nella Resistenza francese (collaborava come partigiano col gruppo “Combat”). Sarà solo dopo la fine della guerra e in riferimento soprattutto alla situazione algerina che il suo interesse per i conflitti interiori, esistenziali, assumerà chiaramente un risvolto anticomunista.
Camus in sostanza s’era persuaso, osservando anche la degenerazione dello stalinismo, che, senza umanesimo, il comunismo rivoluzionario era destinato a trasformarsi in una dittatura: la giustezza degli ideali politici non era di per sé sufficiente a garantire la democrazia. Anche Sartre arriverà alle stesse conclusioni, ma vent’anni dopo.

La Storia a volte si ripete, prima come tragedia poi come farsa. In Italia siamo alla pochade postribolare, con il nostro patetico Mu(tande)barack d’Arcore che pur di non uscire di scena e finire dove merita cerca furiosamente le barricate

Dopo la nostra Anita dagli Usa, me l’ha spedita via e-nail anche un mio collega da Nairobi, segno che questa vignetta circola con insistenza ormai ovunque nel mondo. Non so se sia già stata pubblicata in Italia, ma in ogni caso esprime molto bene la situazione. Che pur essendo una farsa, una miserabile pochade postribolare, è comunque molto pericolosa. Il Berluscao Meravigliao pur di scampare alle sentenze, che lui sa bene di meritare non assolutorie, arde dalla voglia di scontro frontale per far crollare se non la Repubblica almeno le sue fondamenta, vale a dire la Costituzione e la distinzione e l’autonomia tra i poteri. Questo Mu(tande)barack che non vuole uscire di scena, non potendo mandare in piazza i carri armati manda nella piazza mediatica vecchi e “nuovi” arnesi come Giuliano Ferrara, l’ex agente della Cia più grasso che intelligente (per dirla con una metafora usata dal suo amatissimo Chiavaliere),  Vittorio Sgarbi, Augusto Scodinzolini, Alfonsino Signorini, ecc. Il tutto mentre “grandi firme” del Corriere della Sera per leccargli i piedi hanno velocemente dimenticato come e perché chiedevano le dimissioni “subito” di Marrazzo quando era governatire del Lazio e si scoprì che andava  a travestiti, peraltro tutti maggiorenni.

Lo schifo mi consiglia di non scrivere oltre. Lo farò domani. Intanto metto in rete questa vignetta, come piccolo contributo alla manifestazione delle donne che, sia pure molto tardivamente, pare si siano svegliate. E accorte del guano nel quale il berlusconismo televisionaro, iperconsumista, stramodaiolo, mignottocratico, blateratore, mitomane e mentecatto ha cacciato soprattutto loro. A partire dalle più giovani.

Macchinismo, natura e guerre

Se ci sono soltanto macchine avanzate che possono sostituirsi agli operai, che possono cioè fare a meno di molti operai manuali, pur non potendo fare a meno di operai intellettuali, in grado di far lavorare queste macchine attraverso un computer, il capitalismo non funziona. Un capitalismo del genere produce merci che costano di più rispetto a quel capitalismo che ha macchine meno avanzate ma più operai da sfruttare.

Marx aveva già individuato che esiste una caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta al rinnovo periodico del capitale fisso. L’impresa guadagna all’inizio, appena ha introdotto le nuove macchine, e a condizione di poter vendere in maniera costante, ma poi le macchine vengono acquisite da altre aziende concorrenti e le stesse macchine diventano col tempo obsolete, proprio perché la produzione ha ritmi frenetici nel sistema capitalistico.

Gli investimenti per ristrutturare (resi sempre più necessari dalla competizione globale) non sortiscono gli effetti sperati, anche perché: 1. gli operai dei paesi occidentali non possono essere pagati come quelli dei paesi che iniziano adesso a industrializzarsi; 2. se, in forza dell’innovazione tecnologica, vi sono meno operai che producono e che quindi acquistano meno merci, queste rischiano di restare invendute.

La conseguenza inevitabile è, paradossalmente, che quanto più si rinnova il capitale fisso, tanto più si rischia la sovrapproduzione. Alla faccia della cosiddetta “qualità totale”. Se non fosse crollato il socialismo reale, sarebbe crollato il capitalismo, ovvero sarebbe scoppiata una nuova guerra mondiale per ripristinare le regole dell’imperialismo delle due guerre precedenti.

Tuttavia è impossibile, in presenza di una competizione mondiale, non innovare il macchinario. Se il capitale non si autovalorizza costantemente, s’impoverisce: non riesce a rimanere invariato, proprio perché esiste competizione. L’alternativa, se non si vuole delocalizzare l’impresa, è quella di chiuderla, investendo finanziariamente i propri capitali.

Volendo crescere a tutti i costi, il capitale preferisce il settore finanziario, che è meno esposto ai rischi della competizione, meno stressato dall’esigenze di rinnovare gli impianti e di collocare le merci, di contrattare con la forza-lavoro. Nei paesi avanzati la ricchezza tende a smaterializzarsi completamente.

I paesi che una volta definivamo del “Terzo Mondo” ci stanno facendo capire, a nostre spese, che, sotto il capitalismo, la capacità di fare profitto non dipende affatto dal grado di perfezione delle macchine. Quando gli imprenditori occidentali dicono che, per competere sulla scena mondiale, dobbiamo produrre cose di più alta qualità, lo dicono solo perché in questa maniera possono ricattare i loro lavoratori, ma essi sanno bene che lo sviluppo ineguale del capitalismo permette loro di ottenere più alti profitti anche con macchinari obsoleti, a condizione che la manodopera sia molto meno costosa.

Al capitale interessa vendere, non tanto produrre cose di alta qualità, e per vendere ci vogliono ampi mercati. Quelli occidentali sono mercati saturi, anche se con la pubblicità si fa di tutto per indurre l’acquirente a cambiare elettrodomestici, mezzi di trasporto e mezzi di comunicazione con molta frequenza.

Quando si delocalizza in un paese che fino a ieri era povero perché colonizzato o perché comunista, dove i salari mensili sono, rispetto ai nostri, incredibilmente bassi, non ha senso produrre cose di alta qualità, che nessuno, peraltro, sarebbe in grado di acquistare. E’ sufficiente produrre cose di media qualità, alla portata di un mercato significativo, che escluda soprattutto il rischio della sovrapproduzione, vera bestia nera del capitale.

E’ noto che l’imprenditore usa la macchina contro l’operaio, per poter avere meno operai possibili, ma poi la macchina si rivolta contro lo stesso imprenditore, poiché lo obbliga a vendere più di quanto vendeva prima. Per poter sopravvivere sfruttandola al massimo, il capitalista deve porre condizioni ricattatorie ai propri operai o minacciare di delocalizzare gli impianti in aree geografiche dove sicuramente non avrebbe problemi sindacali con la manodopera, anzi, avrebbe incentivi fiscali da parte degli Stati che vogliono modernizzarsi in senso borghese.

In occidente il capitalismo è destinato a morire, a meno che i lavoratori non vengano ridotti in schiavitù (pur conservando le formali libertà giuridiche), non venga smantellato lo Stato sociale (e quindi privatizzata la scuola, la sanità, la previdenza ecc.) e non vi sia concorrenza tra imprenditori. Tutte condizioni che non hanno senso sotto il capitalismo cosiddetto “avanzato”, che è quello delle società uscite dalla seconda guerra mondiale.

Condizioni del genere potrebbero verificarsi se invece di società “democratiche” avessimo società “autoritarie”, dittatoriali, che facessero esclusivamente gli interessi degli imprenditori, i quali non avrebbero bisogno di competere tra loro, in quanto sarebbero protetti dalle istituzioni. Ma uno Stato del genere non può esistere in un paese occidentale (Europa, Usa, Canada…), dove una qualunque istituzione viene sempre vista in funzione dell’interesse privato dell’imprenditore.

Da noi gli Stati sono in funzione dei singoli imprenditori privati, materialmente (nel senso che ricevono benefit da parte degli Stati) e anche come logica di sistema (nel senso che lo Stato, pur vigendo l’idea formale dell’equidistanza delle istituzioni rispetto agli interessi in gioco, non si pone mai contro gli imprenditori). Sono semmai i lavoratori che cercano di strappare diritti sia allo Stato che all’imprenditoria privata.

Il capitalismo euroamericano deve per forza lasciare il testimone ad altre nazioni, dove la politica abbia un peso maggiore rispetto a quello che ha da noi, e dove l’economia produttiva abbia la sua ragion d’essere e la ricchezza non sia solo finanziaria.

I grandi Stati in grado di ereditare il testimone sono la Russia, per l’enorme quantità delle sue risorse, la Cina e l’India, per l’enorme quantità di manodopera disponibile a basso costo. Di questi Stati l’unico in grado di ereditare velocemente la formale democrazia borghese è la Russia, che ha radici cristiane e che già nel passato si lasciava influenzare dalla cultura europea.

Il problema è che la Russia ha un territorio assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della propria popolazione. Quindi inevitabilmente il futuro, nell’ambito del capitalismo, non è russo ma cinese: sarà la Cina ad appropriarsi delle immense ricchezze della Siberia. Solo che la Cina deve ancora imparare l’abc della democrazia formale borghese. Anzi, sotto questo aspetto, tra i paesi asiatici è molto più avanti l’India, che però ancora non ha risolto il problema delle caste e che resta ancora troppo “religiosa” per poter diventare pienamente “borghese”.

Il capitalismo, così com’è, può solo peggiorare, può soltanto trasformarsi in una dittatura poliziesca, in cui il ruolo di un partito di governo molto disciplinato, di uno Stato centralizzato, di un numero spropositato di militari, di un vasto consenso sociale faccia la differenza tra un vecchio Stato capitalista e uno nuovo. Difficile pensare che un ruolo del genere possa essere giocato, nei secoli a venire, dall’Europa, dalla Russia o dagli Stati Uniti. Nessuno di loro possiede tutte queste cose messe insieme.

L’alternativa a tutto ciò è la costruzione di una nuova civiltà, che potrebbe mettere radici adesso, ipotizzando il proprio sviluppo nell’arco dei prossimi cinquecento anni. Una civiltà che anzitutto deve superare il concetto di “macchinismo”. L’uomo infatti nasce “artigiano” non “operaio”, anche perché se la macchina lavora per lui, lui perde interesse al lavoro, anche nel caso in cui la macchina sia di sua proprietà.

L’operaio non è “alienato” solo perché il suo lavoro è “separato” dai suoi mezzi di produzione e quindi dai beni che produce, che giuridicamente non gli appartengono, ma è “alienato” anche perché ha a che fare con una macchina che lo disumanizza, che rende il lavoro monotono e ripetitivo.

Un qualunque oggetto prodotto deve poter essere ristrutturato per scopi diversi. Oggi questo è impossibile. Gli oggetti sono così complessi che per essere riutilizzati vanno prima completamente smontati, dopodiché si riutilizzano pochissimi singoli pezzi per lo stesso scopo per cui erano nati. Di un’auto si fa un cubo pressato: non la si manda neppure in fonderia per recuperare il metallo usato. Spesso non conviene neppure disassemblare, in quanto il costo del lavoro è superiore al valore dei pezzi da riciclare.

Oggi, quando un oggetto non serve più (si pensi p.es. a una semplice penna a sfera), perché usato da molto tempo, perché ha finito il suo ciclo produttivo, perché superato dal progresso, perché non più funzionante come all’inizio, ecc., noi non cerchiamo di ripararlo, di sostituire quel pezzo che gli permette ancora all’oggetto di funzionare, ma semplicemente lo buttiamo, inquinando irreparabilmente l’ambiente. Così ci è stato insegnato: noi anzitutto dobbiamo essere “consumatori”. Un qualunque elettrodomestico non può durare più di dieci anni: lo sappiamo sin dal momento in cui lo acquistiamo.

La nostra civiltà della produzione illimitata di oggetti tecnologici sta diventando un’enorme civiltà di rifiuti, i cui costi di smaltimento o di riciclaggio sono superiori al loro stesso valore.

Ecco perché una civiltà davvero democratica dovrà limitarsi a produrre soltanto quegli oggetti che abbiamo un impatto minimo, irrisorio, sulla natura. La trasformazione delle risorse naturali ha un limite oltre il quale non è possibile andare, ed è appunto quello della riproducibilità della stessa natura, che va garantita sopra ogni cosa.

Senza inversione di rotta ci attende solo la desertificazione, anche in assenza di guerre mondiali. E in ogni caso le guerre diventano inevitabili quando nei periodi di pace non s’intravvedono i modi per risolvere i problemi sociali e ambientali. Le guerre vengono fatte proprio quando si pensa ch’esse possano costituire una soluzione estrema.

Che cos’è il benessere?

Noi non riusciamo a capire (perché condizionati da una cultura che va in direzione opposta) che il “benessere” non sta tanto nelle comodità in cui e con cui si fanno le cose, ma nella soddisfazione che si ottiene facendole.

Quando un’azione è troppo determinata dalla tecnologia, il cui uso sfugge a un nostro vero controllo (basta vedere come ci troviamo di fronte a dei guasti che, sulla base delle nostre conoscenze personali, giudichiamo irreparabili), si perde interesse a cercare soluzioni alla nostra portata.

Noi abbiamo continuamente a che fare con una tecnologia frutto di anni di studi e di applicazioni specialistiche. Ma noi, avendo soltanto una cultura generale, non siamo in grado di capire l’esatto funzionamento di ciò che usiamo.

La conoscenza specialistica ci schiaccia, vuole imporsi alla nostra creatività, ci offre l’illusione di poter quasi fare a meno di noi stessi. Pur essendo frutto di un’alta specializzazione scientifica, la moderna tecnologia sembra fatta apposta per ridurre al minimo le capacità di astrazione di chi la usa.

Diventiamo soltanto dei fruitori passivi di mezzi artificiali, e perdiamo il gusto della vita, il senso della creatività, la soddisfazione di poter risolvere problemi alla nostra portata. Proprio ciò che è nato dalla pretesa di voler diventare padroni della terra, ci sta inducendo sentimenti d’impotenza.

La tecnologia sofisticata sta riducendo la nostra capacità di pensare. E’ incredibile come non ci si sia ancora accorti di questo pericolo. Anzi, al contrario, siamo continuamente alla ricerca di mezzi sempre più perfezionati, anche a costo di sostituire quelli ancora sufficientemente funzionanti.

Questa rincorsa spasmodica agli oggetti di ultima generazione è diventata come una droga e non conosce flessioni commerciali, neppure nei periodi di crisi economica generale.

Le relazioni umane reali vengono sempre più sostituite da quelle virtuali che la moderna tecnologia è in grado di offrire. La nostra civiltà è malata. Spendiamo moltissime risorse, umane e materiali, in prodotti che invece di migliorare la nostra vita la peggiorano.

Paghiamo profumatamente gli ideatori e i creatori di tecnologia affinché si possa stare umanamente peggio. Questa è pura follia. E non siamo solo noi umani che ne paghiamo il prezzo, ma anche la natura, che non è in grado di smaltire in tempo utile dei prodotti così complessi, né noi pensiamo di riciclarli se ciò non ci conviene economicamente.

Noi pratichiamo il riutilizzo delle cose non per un sentimento ecologista, ma perché siamo costretti dalle circostanze; solo che invece di chiederci se possano esservi stili di vita alternativi, preferiamo aumentare gli oneri per lo smaltimento dei rifiuti.

Preferiamo far finta che il problema non sia grave, preferiamo pensare che una soluzione, grazie proprio alla tecnologia, in qualche modo si troverà o la troveranno le generazioni future.

Noi produciamo cose che peseranno sui destini dei nostri figli e non li lasceremo liberi di scegliere come vivere la loro vita.

In attesa del 2012. Intervista crepuscolare

- Che cosa vorresti che ti dicessero per ricominciare?
– Mi basterebbero due cose: se abbiamo davvero un’altra possibilità per rimediare ai nostri errori.
– Questo è scontato, altrimenti a che pro ricominciare?
– Il fatto è che anche sulla terra di tanto in tanto dobbiamo ricominciare, ma lo facciamo per ripetere sempre gli stessi errori del passato, magari in forme diverse.
– Sta tranquillo, la possibilità di avere una consapevolezza matura vi permetterà di fare scelte più ponderate. Ma qual è la seconda cosa?
– E’ appunto questo, che ognuno possa rendersi conto da sé, autonomamente, dei limiti insuperabili non solo della propria civiltà di appartenenza, ma anche di quelli delle civiltà che lo hanno preceduto o che sono venute dopo.
– La memoria che avrete sarà di lunghissima durata. Potrete rivedere, come su uno schermo, tutto quanto è accaduto prima e dopo la vostra civiltà, potrete fare tutti i confronti che vorrete.
– Ti dico questo perché la cosa che più m’interessa è quella di essere messo in grado di distinguere quando una civiltà è conforme ai valori umani e quando non lo è.
– Che cosa intendi di preciso per “conformità ai valori umani”? Mi pare una richiesta ovvia.
– Lo sarà per te. Io invece devo ricostruirmi come “persona umana”. Di ogni cosa per esempio ho bisogno di sapere quale possa essere l’impatto ambientale.
– Cioè vorresti far dipendere l’umanità dalla naturalità?
– Esattamente. Vorrei sapere se avrò la possibilità di stabilire un criterio generale che mi permetta di scegliere la soluzione migliore; anzi vorrei che questo criterio mi venisse offerto dalla stessa natura. E’ possibile?
– Far dipendere l’umanità dal rispetto della natura a molti può apparire limitativo.
– Mi rendo conto, ma noi dobbiamo stabilire quale civiltà, di tutte quelle storiche che si sono succedute, merita d’essere riprodotta nell’universo. Non possiamo compiere errori di cui ci pentiremmo amaramente. Abbiamo già sofferto abbastanza sul nostro pianeta.
– Non è facile poter trovare dei criteri obiettivi. Si rischia sempre la demagogia, il fanatismo.
– Allora diciamo questo: la cartina di tornasole che attesta uno squilibrio nei rapporti tra uomo e natura è offerta dal formarsi di una disuguaglianza di genere sempre più marcata. La donna viene discriminata dall’uomo, ovvero viene accettata solo se assume i criteri del maschilismo. Là dove si usa la differenza per affermare un arbitrio, una superiorità ipostatizzata di qualsivoglia natura, lì si compie una violazione non solo dell’umanità ma anche della naturalità dell’essere umano.
– E come pensi che la gente possa capire queste cose?
– Sviluppando dei princìpi naturali, il primo e più importante dei quali è la libertà di coscienza, che è la vera legge che regola l’intero universo.
– E come farai ad affermare un principio del genere quando le modalità con cui s’è cercato di viverlo sulla terra sono state diversissime?
– Secondo me c’è solo un modo: offrire la possibilità di ricostruire un ambiente analogo a quello in cui la libertà di coscienza è stata vissuta al meglio, con minori condizionamenti.
– Cioè vuoi dire che il futuro nell’universo non sarà altro che la realizzazione, su scala infinita, del meglio già ottenuto sulla terra e che col tempo s’era dimenticato o addirittura rimosso? Nel senso che se non si ricostruisce quello stesso ambiente, sarà impossibile provare di nuovo le stesse sensazioni emozioni impressioni percezioni?
– Sì, praticamente sì. I credenti parlano di “giudizio universale”, come se ci fosse qualcuno che dall’alto o dall’esterno fosse preposto a giudicare tutte le loro azioni. Invece dovrebbe esserci soltanto la possibilità di un obiettivo confronto di civiltà.
– Ho capito. E quindi da questo confronto si dovrebbe poi arrivare a compiere una scelta in tutta libertà.
– Proprio così. La libertà di coscienza dovrebbe essere considerata la prima cosa da rispettare. Nessuno può essere costretto a fare cose contro la propria volontà. Non deve scomparire il problema da risolvere, ma la percezione che non possa essere risolto a causa della volontà di qualcuno.

Per una transizione ad altro

Perché uno diventa “borghese”? Perché si dà così tanta importanza al denaro? Sembra una domanda banale, eppure se consideriamo che le antiche civiltà mediterranee, prima di entrare nella fase medievale, erano state caratterizzate per almeno duemila anni da una forte presenza di scambi commerciali, si rimane stupefatti al vedere che le tribù cosiddette “barbariche”, provenienti da est, non proseguirono affatto questo stile di vita, se non dopo altri cinquecento anni di contatto con ciò ch’era rimasto di quelle civiltà.

Soltanto verso il Mille gli ex-barbari, ora perfettamente latinizzati e cattolicizzati, cominciarono a diventare mercanti. E ci son voluti altri cinquecento anni prima che i commerci potessero diventare un sistema capitalistico vero e proprio, che viene fatto iniziare appunto nel XVI secolo. E ci sono voluti altri cinquecento anni prima che questo sistema s’imponesse in tutto il mondo, senza incontrare ostacoli insormontabili. Infatti tutti i tentativi compiuti per arginare questo fiume in piena sono clamorosamente falliti. Migliaia e migliaia di anni ci sono quindi voluti per rendere naturale una figura sociale che di naturale non ha nulla: il borghese.

Una figura che ha creato imponenti apparati statali, burocratici, giudiziari, parlamentari, polizieschi e militari per difendere il proprio esclusivo interesse, fatto passare per un “bene comune”. Una figura che ha saputo sostituire qualunque valore umano e religioso con un valore materiale avente funzione di equivalente universale: il denaro. Una figura che è stata capace di far passare per “democratico” uno stile di vita basato sullo sfruttamento del lavoro altrui.

Com’è stato possibile che una figura del genere, che ha letteralmente sconvolto i rapporti umani e naturali, trasformando ogni cosa in una sorta di compravendita, non abbia incontrato, sul suo cammino, un’opposizione che la obbligasse a invertire la marcia? Che cosa ha reso gli uomini così ciechi da non far accorgere loro che anche il più piccolo cedimento nei confronti di questa mentalità avrebbe avuto conseguenze letali per la loro stessa sopravvivenza?

Lo schiavismo romano venne abbattuto da forze che provenivano, seppur in forma disgregata, da ambienti clanico-tribali. Ma dov’è oggi la forza in grado di abbattere lo schiavismo salariato? La mentalità borghese ha fatto così breccia nell’umanità che persino l’ideologia che per prima chiese l’abolizione della proprietà privata, e cioè il socialismo, non è riuscita a restare coerente con se stessa. Per quale motivo qualunque azione venga compiuta contro il capitale finisce col tradire i presupposti di partenza?

Qui le ragioni sono due:

– la prima è che manca ancora una vera alternativa laica e umanistica al cristianesimo;
– la seconda è che manca ancora una definizione autenticamente “democratica” del socialismo.

L’affronto di questi due aspetti o procede in maniera parallela, oppure rischia di non approdare a nulla di davvero significativo per una transizione ad altro. Ma se è così, le premesse per affrontarli non possono che essere due:

– sviluppare al massimo la libertà di coscienza;
– garantire al massimo la gestione collettiva delle risorse di un determinato territorio.

Se non si è padroni del proprio territorio, non si è padroni della propria coscienza. Se non si usa la propria coscienza per impadronirsi del proprio territorio, non si è padroni di nulla.

La maggioranza del parlamento sostiene dunque, con regolare votazione, che Berlusconi è un imbecille. Solo un imbecille crede infatti senza esitazione alle sparate di una poveraccia come Ruby capitata “a cena”. Egitto e non solo: da Napoleone a Mubarak, due secoli di fallimenti e delitti dell’Europa e dell’intero Occidente. Con l’incubo che vadano al governo non solo i Fratelli Musulmani, ma anche el Baradei, l’ex ispettore capo dell’Onu fatto fuori dalla Casa Bianca che nel 2003 ha voluto a tutti i costi l’invasione dell’Iraq

L’idea che in Egitto possano diventare personaggi di governo non solo i Fratelli Musulmani, ma anche el Baradei, vale a dire l’ex capo degli ispettori dell’Onu che sa benissimo con quali balle nel 2003 la Casa Bianca e i suoi alleati hanno voluto a tutti i costi invadere l’Iraq, toglie il sonno a molti con la coscienza non proprio immacolata. “Achtung Egitto!”: Netanyahu chiama, Henry Bernard Levy e Berlusconi rispondono, pronti a cianciare con l’usuale razzismo di masse islamiche come orde assetate di sangue occidentale e desiderose di abbracciare quanto prima un nuovo nazismo… Il centesimo nazismo arabo, paventato ad arte da decenni nel Vicino e nel Medio Oriente dai nostri allucinati ma non disinteressati profeti, spesso bugiardi patentati. Mubarak è un “uomo saggio” dichiara a petto in fuori e tacchi alti Berlusconi, il quale evita anche lui di nominare el Baradei e ci tiene invece a precisare che segue la crisi egiziana non tanto facendo il bunga bunga con la “nipote di Mubarak” quanto invece stando “in contatto con i dirigenti israeliani dei quali sono amico da 30 anni”, nel caso ci fosse chi non ha ancora capito chi comanda nel giro berluscone e in quello della Farnesina in mano al minestrello degli Esteri Franco Frattini. Per non dire del giro della vicepresidente della Commissione Esteri del senato, quella Fiamma Nirenstein che oltre a vivere in una colonia israeliana è nota nella comunità ebraica nostrana come ex comunista che spinge all’odio verso tutto ciò che è di sinistra.  Ma andiamo per ordine.

Il lato comico è che ad aizzare contro il “pericolo islamico”, sia che si tratti dell’Iran “che vuole l’atomica per distruggere Israele” (!) sia che si tratti dell’Egitto che vuole solo togliersi di dosso la camicia di forza Mubarak, in particolare è quello stesso Bernard Levy che, oltre a raccontar panzane sul caso Sakineh, è stato uno degli animatori della campagna a favore di Cesare Battisti. A favore, vale a dire, di quello che, stando alle sentenze, è un pluriassassino, rifugiato prima in Francia e poi in Brasile, il cui governo ha deciso di non estradarlo in Italia alla faccia non solo del Chiavaliere. Che strana situazione: tutti a dare addosso a Battisti evitando di notare che il suo lord protettore è il “nuovo filosofo” francese Henry Bernard Levy. Il quale, poiché fa il tifo per lo “scontro di civiltà” e loda qualunque cosa di Israele, tiene banco in Italia anche allagando di “penzose” articolesse il Corriere della Sera senza che nessuno lo prenda a pernacchie. E dire che già nel ’79 il “nuovo filosofo” parigino, noto fighetto che nel ’77 si era molto illustrato nella famosa “tre giorni” dell’Autonomia Operaia all’Università di Bologna, disegnava per autorevoli riviste di politica estera soprattutto inglesi una serie di nuovi confini non solo per il Medio Oriente, ma anche per l’intera Asia centrale! Insomma, in quanto ad allucinazioni pro talebani monsieur Levy è stato un pioniere. Idem in fatto di protezione per gente come Battisti, della quale si deve esere innamorato nella disastrosa, stado ai risultati successivi, tre giorni di Bologna. Strano strabismo, quello non solo berluscone, nevvero? Sbraitare contro i protettori di Battisti e far finta di non sapere che il suo principale protettore è quello stesso Bernard Levy al quale diamo retta quando straparla di Iran e mondo musulmano in generale. Strano caso di schizofrenia… Continua a leggere

Jimi Hendrix, santo subito!

Su Jimi Hendrix si è scritto di tutto e di più, scrittori e giornalisti hanno rincarato la dose l’anno scorso per celebrare il quarantennale della morte. Tra tutti merita una segnalazione Enzo Gentile con il suo “Jimi santo subito” (Shake edizioni). Confesso subito che non l’ho ancora letto, ma che non vedo l’ora di farlo. Ho avuto  la fortuna di avere sue notizie dallo stesso autore, fan compulsivo e consenziente, protagonista di una presentazione dal vivo ricca di foto, filmati, aneddoti. Un piccolo, ma gustoso assaggio di quanto si potrebbe raccontare e ascoltare. Mi limito a citare solo un numero, noto a tutti ma che dice più di tante parole (tra l’altro Jimi era un appassionato di numerologia: “If 6 was 9”….): 4. Quattro gli anni di “carriera”, dopo una gavetta rhythm’n’blues e soul come sideman: pochissimi, eppure hanno stravolto il rock. E nessuno negli ultimi quarant’anni ha saputo fare né meglio né come lui.