I magnifici 9 per Wyatt a Modena

Canterbury, cittadina (45.000 abitanti circa) nel sud dell’Inghilterra. Nessuno di noi ci è mai stato, ma ci piace (a noi devoti) immaginarla come una località gentile e bizzarra, abitata da discepoli del Cappellaio Matto di Alice. Eppure, da questo paesone è arrivata, dai tardi anni ’60, una “famiglia” di musicisti che – come pochi – ha creato un cult following delle loro opere. In ordine sparso, questa specie di Modena (o Mantova, o Rovigo, o Ravenna) ci ha regalato gruppi come i Caravan, Hatfield & the North (che prendono il loro nome da un’indicazione stradale), i Camel, gli Henry Cow e –primi inter pares- i Soft Machine. Il batterista di questi ultimi era Robert Wyatt. Il quale però, dal 1973, non fu più un batterista a causa di una rovinosa e misteriosa caduta dal terzo piano durante un party, in seguito alla quale rimase paraplegico e –da batterista assai bravo, ma nulla di più- diventò una delle voci più devotamente amate da connoisseurs di tutto il globo. Wyatt, sia da batterista che da cantante e pure nella fase intermedia, ha avuto amici importanti: Jimi Hendrix, Phil Manzanera, Mike Oldfield, Elvis Costello (per il quale ha scritto la meravigliosa Shipbuilding), Brian Eno e soprattutto il batterista dei Pink Floyd Nick Mason che supportò in vari modi Wyatt nella realizzazione del suo masterpiece Rock Bottom del 1973. Wyatt, diciamolo subito, raccoglie nel mondo un enorme rispetto e un enorme amore per la sua figura e la sua musica, ma non ha mai venduto molti dischi (è anche uno dei due o tre inglesi pervicacemente comunisti) e quindi viene visto un po’ come il Panda, da proteggere ad ogni costo, nella sua ingenuità (nonostante i suoi 65 anni!) e nella sua unicità.

La voce di Wyatt è la voce più triste del mondo, punto.Il suo unico successo fu, nel 1974, una cover di I’m a believer di Neil Diamond (aka Sono bugiarda, di Caterina Caselli), una canzone allegrotta e stupidotta, precedentemente incisa dal gruppo allegrotto e stupidotto per eccellenza, i Monkees. Ebbene, la voce di Robert Wyatt riusciva a trasformare questa canzoncina easy-beat in qualcosa di doloroso e sofferente. Una sofferenza dolce, insopportabilmente bella, intima, come tutte le canzoni che hanno avuto la fortuna di passare dalla sua laringe. Lunedi’ 1 marzo, in prima assoluta, al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena, debutta “Comicoperando. La musica di Robert Wyatt“: nove eccellenti musicisti riuniti, con la benedizione dello stesso Wyatt, per un omaggio alla sua musica, dagli esordi coi Soft Machine fino al recente Comicopera.I Magnifici 9 sono Dagmar Krause (cantante che esordì negli Henry Cow, diventando in seguito una delle migliori interpreti della musica di Kurt Weill), Richard Sinclair (bassista e cantante, la cui voce baritonale abbiamo ascoltato in alcuni suoi bellissimi album solisti, oltre che nei Caravan, nei Camel e negli Hatfield & the North), Gilad Atzmon (ance e flauti), Annie Whitehead (storica trombinista del jazz inglese), Michel Delville (chitarra synth), Alex Maguire (pianoforte e tastiere), John Edwards (contrabbasso), Chris Cutler (batteria) e Cristiano Calcagnile (percussioni). Il concerto e’ promosso dall’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena e dal Comune di Modena. Io ci sarò.

Teatro degli orrori, un abbraccio vale tutta la canzone

Ultimamente me li son ritrovati un po’ dappertutto, toni entusiastici sempre: Il Teatro degli orrori, a forza di dai, me li son dovuti andare a cercare in rete per vedere se almeno stavolta i giornali avevano ragione. Non mi fido più. E così sono incappata nel video di “Direzioni diverse”. Musica e sound da flash-back, mi han riportata di forza negli anni Ottanta. Sono cresciuta nutrendomi anche di quel tipo di dark-rock, oggi mi sa tanto di già dato, ma tocca anche se non voglio qualche corda del mio dna musicale che non mi lascia indifferente e mi commuove. Il bello però è tutto nel finale del video: chi mi vedo sbucare dal nulla, ad abbracciare Pier Paolo? Carlo Casale dei Frigidaire Tango! Ma allora volete proprio farmi piangere, tornare indietro di vent’anni e più. Carlo, che forza, allora quand’era così figo e oggi, senza aprir bocca. Un abbraccio in cui vorrei potermi intrufolare anch’io…

IL GIORNALISTA GIDEON LEVY PARLA DI ISRAELE, DELLA PALESTINA E DEL “CAMPO DI CONCENTRAMENTO CHIAMATO GAZA”, LA CUI POPOLAZIONE AMMIRA E LODA. ANCHE LEVY VEDE ARRIVARE ALTRA GUERRA, A CAUSA DELLA POLITICA DI NETANYAHU, DEL DISINTERESSE DI OBAMA E DEL MENEFREGHISNO DELL’EUROPA

Colloquio con Gideon Lévy di Françoise Germain-Robin

Nato nel 1955, a Tel-Aviv, giornalista israeliano e membro della direzione del quotidiano Haaretz, Gideon Levy denuncia implacabilmente le violazioni commesse contro i Palestinesi e il ricorso sistematico ad una violenza che disumanizza i popoli, aizzati l’uno contro l’altro. Gideon Levy occupa un posto particolare nella stampa israeliana, quello dell’imprecatore. I suoi editoriali e le sue cronache nel quotidiano Haaretz sono altrettanti atti d’accusa contro la politica di occupazione e colonizzazione del suo paese, Israele, contro i territori palestinesi. E’ uno dei pochi giornalisti che si sono espressi contro la guerra a Gaza.
Di passaggio a Parigi, dove presentava la raccolta di suoi articoli pubblicata da Éric Hazan [1], ha dedicato un ampio spazio di tempo a L’Humanité.

- Quando leggiamo i suoi articoli, ci diciamo che lei va giù pesante nella critica ad Israele, molto più di quanto non possa permettersi la maggior parte dei giornalisti francesi [aggiunta di Nicotri: “Per non parlare di quelli italiani!”.]

Lo so, una volta ho rilasciato un’intervista a TF1 e dopo il giornalista mi ha telefonato per scusarsi di non poter diffondere i miei discorsi perché se lo avesse fatto sarebbe stato accusato di antisemitismo e avrebbe avuto delle noie. Io ho la fortuna di essere in un giornale che mi lascia piena libertà e mi ha sempre sostenuto, anche se capita spesso che dei lettori protestino e anche disdicano l’abbonamento a causa dei miei articoli. Continua a leggere

Siamo giornalisti o Minzo Scondinzolini? Uomini o caporali berluschini piegati in preghiera verso Arcore più delle 5 volte al giorno verso La Mecca dei musulmani? La svolta contro l’Iran di Papino il Breve costerà all’Eni, e all’Italia, la perdita degli impianti di Darkhuin e quindi la proprietà di 100 mila barili di petrolio al giorno più una penale e un danno globale di una marea di miliardi di euro. Una stangata di cui approfitterà la Cina, oltre al governo Netanyahu (accusato anche di assassinio in Oman). Intanto il papalinato incassa dai nostri capi di Stato e di governo il silenzio sul silenzio protettore della pedofilia del clero e altri quattrini per la scuola cattolica

Non posso dire, per educazione e rispetto del codice civile e penale, che il direttore del Tguno Augusto Minzolini mi fa augustamente schifo, percò posso dire che il suo giornalismo è ormai davvero esecrabile, servile, se non proprio schifoso. Anzi, è ridicolo. Continuare a battere il chiodo della “giustizia ad orologeria” affermando che le inchiesta giudiziarie arrivano sempre “guarda caso prima delle elezioni” è un argomento da manus habeas o da disonesti in mala fede o da disinformati, tutte cose gravi per un giornalista che per giunta dirige un telegiornale di una tv pubblica anziché del rione Scassanapoli o Spaccamilano. Di elezioni in Italia ce ne sono a getto continuo, tra elezioni per il parlamento europeo, elezioni politiche, cioè per il parlamento italiano, elezioni regionali, cioè per il parlamento regionale, elezioni provinciali, elezioni regionali…. più non di rado qualche referendum. Stando così le cose, egregi Minzolini dello Strapaese, quando lor signori i magistrati potrebbero fare le inchieste ed emettere gli avvisi di reato e gli eventuali mandati di cattura senza venire accusati di “fare politica con l’uso della giustizia ad orologeria”?
Queste cialtronerie accuse minzolinesche sono a ben vedere un boomerang, che dobbiamo far tornare sulla faccia di bronzo, se non peggio, di chi l’ha lanciato. E infatti: di chi è la responsabilità se nello Strapaese ci sono elezioni a getto continuo? Dei magistrati? O piuttosto di una classe politica sempre più gelatinosa, sfaldata, sfaldante, scollata dall’interesse generale, vale a dire berluscona? Il rincorrersi di elezioni anche regionali è responsabilità dei magistrati o dei politici di stampo leghista, localista, “territorialista” cioè affarista?
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La forza della coscienza (in rapporto a pena e pentimento)

Nessuno potrà mai dire a qualcuno: “Toglimi la coscienza”. La coscienza può essere manipolata, ingannata, circuita, sedotta, ma non può essere in alcun modo eliminata. Neppure la morte, che è solo trasformazione della materia in altra materia, lo può.
La coscienza è l’autoconsapevolezza della materia. Il luogo in cui può esprimersi è appunto quello della materia, e può farlo in infiniti modi: coi sensi, i sentimenti, l’istinto, la ragione…
Noi siamo destinati a sviluppare la nostra coscienza, per cui, anche nel caso in cui avessimo commesso delitti orrendi, i più spaventosi che si possano immaginare, l’unico modo per stare in pace con la propria coscienza, è pentirsene.
Non è vero che l’angoscia viene quando si prende coscienza della propria colpa, quando ci viene chiesto di ammetterla pubblicamente, quando ci si pente del delitto, del crimine, del reato compiuto. Al contrario, l’angoscia è tanto più forte quanto più sale il livello di coscienza pubblica del senso di umanità che si deve rispettare. Tardare l’autocritica, il proprio pentimento, al cospetto di una società in cui il livello di moralità è in costante aumento, significa soltanto illudersi di poterla fare franca, significa perdere tempo con lo sviluppo della propria coscienza, significa rischiare inutilmente la propria emarginazione.
Se il livello di moralità cresce, la società saprà perdonare i propri carnefici. Se i carnefici non si pentono, non trovano motivo per farlo, significa che il livello di moralità è ancora molto basso. E se è molto basso, non vi è poi tanta differenza tra vittime e carnefici. Sono le vittime, i loro parenti e i loro figli che, rinunciando alla vendetta, al rancore, all’odio personale, devono alzare il livello di moralità di una società, proprio per indurre i colpevoli a pentirsi.
Se un colpevole avverte che la società sarà in grado di perdonarlo, più facilmente egli sarà indotto a pentirsi, a dire la verità delle cose. Chi si pente può risparmiarsi la punizione prevista dalle leggi, che è sempre irrisoria a confronto di quella che il colpevole dà alla propria coscienza non pentendosi. Le punizioni andrebbero date soltanto a chi non si pente, ma contestualmente ai tentativi, reiterati, di indurlo a pentirsi, proprio per risparmiargli il carcere o altre pene.
Bisogna anzi fare attenzione a non esagerare con le pene, quelle troppo dure o che si protraggono eccessivamente nel tempo, poiché possono diventare un alibi per non pentirsi. Stando in isolamento carcerario, il detenuto non si sente più colpevole ma vittima di un sistema che vuole esercitare la sua vendetta su di lui. Dunque perché pentirsi quando il carceriere non manifesta alcuna umanità?
Il carcere dovrebbe avere una funzione transitoria, momentanea, da utilizzarsi per impedire al colpevole di ripetere nell’immediato i propri crimini. In realtà il detenuto va reintegrato nel contesto sociale, invitandolo a pentirsi pubblicamente, a testimoniare le ragioni del suo comportamento, a spiegare le motivazioni, gli impulsi, i ragionamenti che vennero fatti in occasione del reato o del delitto compiuto.
Non ci potrà mai essere alcun pentimento se non si permetterà al colpevole di chiarire il proprio comportamento. E in ogni caso, anche se il colpevole non volesse pentirsi, è necessario ugualmente offrirgli la possibilità di un reinserimento sociale. In fondo nessuno può sapere quando uno in coscienza è davvero pentito di quello che ha fatto. L’importante è metterlo in condizione di nuocere il meno possibile, cioè di privarlo di tutti i poteri oppressivi che aveva al momento di delinquere.
La cittadinanza dovrebbe essere disponibile alla reintegrazione del colpevole, ma va comunque tutelata e in tal senso essa deve fidarsi che il colpevole, una volta scarcerato, non ripeterà il proprio crimine. Ovviamente non può esistere al 100% una certezza del genere, ma d’altra parte anche il colpevole deve fidarsi che la società voglia davvero reintegrarlo.
A partire dal momento in cui un colpevole viene catturato e imprigionato, e gli si fa il vuoto attorno, per impedirgli di continuare a delinquere per mezzo di altri che stanno fuori del carcere, la società diventa più forte di lui e smette, almeno indicativamente, di avere paura. Ebbene, quello è il momento in cui la società deve fare il primo passo per avvicinare il detenuto con l’intenzione di reintegrarlo. E il modo migliore di farlo è organizzare dibattiti pubblici in cui egli possa avere la possibilità di chiarire la propria posizione, la possibilità di spiegare la causa della propria delinquenza, la sua volontà di pentirsi e la sua disponibilità a cambiare vita.
La collettività deve potersi fidare di uno che si espone pubblicamente e si assume delle responsabilità. Essa deve anche manifestare una certa disponibilità ad accettare l’idea che tra le cause della delinquenza di quel colpevole, vi possano essere dei concorsi di colpa da parte di qualcuno (inclusa la stessa vittima). Le colpe, in genere, non stanno mai solo da una parte, ma sono sempre frutto di circostanze complicate, i cui protagonisti sono molteplici.
Se un detenuto prende coscienza che, in mezzo alla società, qualcuno è disposto ad assumersi le proprie responsabilità in relazione alla di lui colpevolezza, il detenuto ne trarrà giovamento, sarà più disposto a pentirsi, a non ripetere il proprio reato o delitto o crimine.
Se poi il colpevole non avverte alcuna necessità di pentirsi, e la società non avverte alcuna necessità di reintegrarlo, preferendo punirlo col carcere, i reati e i delitti saranno destinati ad aumentare, sino al punto in cui qualcuno chiederà di esercitare la pena di morte, che nel passato venne abolita proprio perché considerata inutile come deterrente, semplicemente perché di fronte ad essa il colpevole non si ha più nulla da perdere (non a caso là dove esiste per un omicidio, l’assassino ne può fare indifferentemente molti di più). Un colpevole riterrà lo Stato un nemico istituzionale e cercherà di combatterlo in tutti i modi.
Quanto più si userà la forza per punire, tanto più la userà chi vorrà delinquere. Chi è più forte: la società o il singolo? la società o il gruppo? Se i gruppi vogliono distruggere la società, questa deve armarsi e difendersi, con o senza l’intervento dello Stato, il quale generalmente viene avvertito dalla società come un corpo estraneo, inutile, se non nocivo. Ma appena ottenuta la vittoria, la società deve organizzarsi in maniera tale che i delitti e i reati non si ripetano, e questo è un compito che deve svolgere il più forte, usando solo la forza della coscienza.
Non ha alcun senso lottare e vincere se poi non si pongono le condizioni per smettere di lottare.

L’identità di sé e la torre di Babele

L’identità sembra esserci data, ma di sicuro non sappiamo quale sia. Le nostre sembianze mutano di continuo, e spesso anche le idee, i comportamenti, i gusti… Se guardiamo le foto di quando avevamo pochi anni, ci riconosciamo solo perché siamo abituati a guardarle, ma chi ci rivede a distanza di tanti anni, stenta a credere che siamo proprio noi. Cos’è dunque che fa la nostra identità? Che cosa ci caratterizza in modo permanente? Che cosa, propriamente parlando, permette quel “riconoscimento” che non dipende da luoghi e circostanze?
Ogni volta che ci guardiamo allo specchio, vediamo qualcosa di diverso: aumentano le rughe, i capelli bianchi, gli occhi si appesantiscono… La “persona” è la stessa, diciamo, ma cosa vuol dire “persona”? Il cristianesimo dice che la l’identità è personale, ma se le fattezze cambiano di continuo, che cosa rende uguali a se stessi? che cosa ci fa unici e irripetibili? Davvero c’è qualcosa di immutevole in noi? Oppure siamo destinati a subire eterni cambiamenti? “Eterni” davvero o è soltanto un modo di dire? Noi p.es. avvertiamo con disagio la vecchiaia, la debolezza che ne consegue, la lentezza dei movimenti, l’incertezza o la fatica con cui facciamo le cose.
Nel corpo umano deve esistere un momento in cui lo sviluppo è massimo, dopodiché inizia il declino. Perché non riusciamo a fermarci in quel preciso punto? Se esiste una prosecuzione di questa vita terrena, chi non desidererebbe poter tornare ad essere com’era da giovane? Chi non vorrebbe avere la maturità di un adulto, come solo l’esperienza può dare, con la forza e la bellezza della gioventù, come solo la natura può permettere? E chi non vorrebbe poter modificare (in meglio ovviamente) ciò che anche da giovane non gli soddisfaceva?
Non potrebbe essere che l’identità sia soltanto il frutto di vari desideri che maturano col tempo? Ma se è così, cioè se, in definitiva, i desideri hanno un’importanza fondamentale per la realizzazione di sé, allora dovrebbero averla anche per il nostro aspetto fisico, per le sembianze carnali che noi vogliamo ci caratterizzino (se io sono nato cieco non voglio soltanto avere la vista, ma anche nuovi occhi, p.es. scuri come quelli di un bambino africano, e voglio che tu sia messo in grado di riconoscermi con questi nuovi occhi).
Tutti noi sappiamo che la realizzazione dei desideri incide molto sulla nostra psicologia, sul modo che abbiamo di esprimerci, di relazionarci… Qualcuno potrebbe anche desiderare d’essere più diplomatico, meno diretto, proprio perché, per quanti sforzi faccia, su questa terra non vi riesce, se non in minima parte. Ma per quale ragione dovremmo rinunciare alla materialità della vita fisica nella definizione della nostra futura identità? L’invecchiamento dovrebbe essere soltanto una cosa dello spirito, non del corpo. Se uno si sente giovane e ha ancora voglia di vivere, di lavorare, di produrre, di riprodursi… perché deve invecchiare nel fisico? La vecchiaia dovrebbe soltanto essere la conseguenza del rifiuto dei nostri migliori desideri, quelli conformi a natura.
Probabilmente l’origine di tutte queste domande dipende dal fatto di non rendersi conto di quanto sia sbagliata la parola “identità”, che di per sé, purtroppo, tende a escludere la “diversità”. La persona è fatta di desideri e di libertà; la libertà è il modo e lo strumento per realizzarli, nella consapevolezza che le cose col tempo possono cambiare e che quanto si realizza non può essere ottenuto a scapito dei desideri altrui.
“Essere se stessi” in fondo non vuol dire nulla, se non si è capaci di essere “altro da sé”, o quanto meno se non si è capaci di cogliere l’altro come “diversità”. Siamo identici e diversi, siamo e non-siamo, siamo essere e siamo nulla, o meglio siamo soltanto qualcosa, poiché nulla è creato e nulla distrutto, ma tutto trasformato.
E’ l’aut-aut che va abolito. La libertà, coi suoi desideri, non può accettare l’identità senza la diversità. Gli omosessuali spesso accusano gli eterosessuali di non accettare la diversità; eppure, se ci pensiamo, l’omosessualità appare come un rifiuto istituzionalizzato della diversità di genere nel rapporto di coppia. Il concetto di “diversità” o di “alterità” non può mai essere ipostatizzato.
Ognuno di noi è nello stesso tempo “sé” e “altro”. Definire una volta per tutte chi è “emittente” e chi “ricevente” significa impoverire al massimo la dialettica nel rapporto umano. Noi siamo fatti anzitutto e soprattutto di libertà, la quale rende possibile ogni cosa.
La libertà deve soltanto capire quando i desideri sono umani e naturali. Noi dunque siamo una tabula rasa che viene modificata dall’esperienza, e la natura ci permette di capire quali di queste esperienze possono davvero giovarci e quali no. Solo che per poterlo capire occorre che i desideri siano sani e che la libertà venga usata nel migliore dei modi: cosa che non può certo essere definita a priori e tanto meno una volta per tutte.
Per poter capire al meglio il significato di tutto ciò, occorre vivere un’esperienza sociale in cui i desideri e la libertà di un individuo non siano antitetici (almeno non in maniera irreparabile) a quelli di un altro, cioè non siano così contraddittori da determinare, ad un certo punto, la rottura del collettivo, la crisi traumatica dei suoi interessi generali.
L’identità ci è data, ma a condizione di viverla in un’esperienza i cui valori siano condivisi, altrimenti è solo un’astrazione. Tutti parlano di identità, ma riferendosi a cose completamente diverse, come se vivessimo sulla torre di Babele.

Iran: Berlusconi semina, Ahmadinejad raccoglie. Caro Ratzinger, ma lei l’ordine che ha inviato nel 2001 a tutti i vescovi del mondo di tacere alle autorità civili qualunque caso di pedofilia del clero lo ha ritirato sì o no? A giudicare dal nuovo scandalo e annesso silenzio della curia di Bologna, si direbbe proprio di no. Dalla Milano da bere alla Lombardia, e non solo, da spolpare: il nostro capo del governo spiega che i peggiori sono per lui “i migliori”

A Teheran stanno facendo il gioco di Silvio Berlusconi e dei suoi manovratori. Così è più facile ricominciare il tiro al piccione contro l’Iran, con l'”informazione” giornalistica che ci dà fulmineamente conto non solo di ciò che accade, ma anche di ciò che si vorrebbe accadesse ma non è ancora accaduto. Una domanda: come mai invece della Palestina non si ha MAI una altrettanto fulminea informazione? Per l’Iran diamo retta anche a twitter e affini, senza uno straccio di verifica, in Palestina invece diamo retta solo al portavoce del governo israeliano. Vi accadono soprusi a volte degni dell’Iran, ma NON se ne parla. Ahmadinejad gioca chiaramente la carta dell’esasperazione della tensione politica internazionale, in modo da poter dare meglio un giro di vite interno, e arriva a dichiarazioni provocatorie anche demenziali, però ha dichiarato chiaro e tondo in piazza che l’arricchimento dell’uranio per la famosa bomba atomica non interessa l’Iran. Concetti del resto già detti più volte, ma in quei casi ha fatto cilecca non solo twitter…

La rinuncia alle atomiche da parte di Ahmadinejad  sa di volpe che non arriva all’uva e dice che è acerba, visto che a parte le chiacchiere soprattutto made in Usa e Israele – remake delle balle sulla “bomba” irachena – l’Iran non ha nessuna possibilità di arrivare a costruirla. Però il gioco al massacro, per ora a parole in attesa di poterlo trasformare in carne e sangue dei vinti, continuiamo a giocarlo. Il capo del governo o il capo dello Stato iraniano gridano che in Israele “collasserà” il sionismo – solo il sionismo, si badi bene, non Israele – ma i giornali traducono che ha gridato “Israele sarà “schiacciato”. Israele, non il sionismo. Che è chiaramente cosa diversa da Israele, così come un qualunque regime politico di uno Stato è cosa diversa dallo Stato con quel regime. Gli Usa e Israele e l’Europa vogliono far crollare il regime teocratico dell’Iran, ma questo NON significa che vogliano schiacciare l’Iran. O no? Di ritorno dal mio viaggio in Iran scrissi che il regime teocratico era condannato a crollare, perché la società civile è molto più avanti del regime, e nessuno s’è sognato di accusarmi di volere che l’Iran venisse “schiacciato”. O no? Sono molti i Paesi che sperano che in Italia crolli il “regime berlusconiano”, cosa sperata da un buon terzo degli stessi italiani, ma a nessun furfante verrebbe in mente di dire che tutti costoro vogliono che a crollare o ad essere “schiacciata” sia l’Italia. O no? Continua a leggere

Berlusconi e Travaglio uniti: contro i palestinesi. Papino il Breve seppellisce Obama del Cairo e medita di comprarsi l’Eni spendendo però il meno possibile. Ecco perché gli serve danneggiarla con il demenziale ordine di abbandonare l’Iran, il nostro maggiore fornitore di petrolio: per far calare il prezzo dell’oro nero in Borsa. E se in Italia ci scappasse l’attentato sarebbe l’occasione buona per passare dalle leggi ad personam alle leggi speciali. E’ il Partito dell’Amore, bellezza!

In Israele il nostro capo del governo Silvio Berlusconi ha dato il meglio di sé, cioè a dire il peggio in assoluto. Sulla spinta verso il cielo dei suoi fenomenali tacchi non ha saputo resistere alla tentazione di sentirsi più vicino al Dio della bibbia aggiungendo di getto al testo del discorso scritto l’infelice e indecente frase “La reazione di Israele a Gaza è stata giusta”. Oltre che l’ONU, una bella fetta della stessa popolazione israeliana, compreso un bel gruppo di militari che a Gaza c’erano, tutti sanno che la reazione contro Gaza non è stata affatto “giusta”. Ho dimostrato in una precedente puntata del blog che massacrare in due settimane 1.400 persone su un totale di 1.400.000 abitanti equivale a massacrare l’1 per mille dell’intera popolazione. In appena due settimane! E ho dimostrato che neppure l’intera campagna angloamericana di bombardamenti incendiari sulle città tedesche è arrivata a tanto, e in un periodo 50 volte più lungo. Con la sua bella improvvisata il Chiavalier Papino il Breve ha sotterrato Obama e il suo discorso de Il Cairo, peraltro cadavere già sotterrato da Netanyahu. Diciamo che Berlusconi ne ha sigillato la tomba.
Non vorrei essere nei panni di Marco Travaglio, o del Paolo Guzzanti riciclato nè di altri maestrini “di sinistra”, antiberlusconisti a tutto volume, ma per quanto riguarda Gaza berlusconissimi e filo mattanza anche loro. Travaglio col suo solito tono professorin-ieratico ha subito messo in chiaro nel suo blog, non appena i carri armati e i bombardamenti si sono messi in moto, che quella di Israele non era una guerra offensiva, ma una giusta operazione difensiva. Capisco che oggi è ormai impossibile non dico fare carriera ma anche solo non essere soffocati se non ci si inchina verso chi ha in mano gli assi, però certi eccessi andrebbero evitati. Guzzanti nel suo blog modestamente intitolato “Rivoluzione italiana” ha addirittura augurato a Israele  “buona guerra” contro Gaza, festeggiandola o supportandola con pacifiste del calibro di Fiamma Nierenstein, la vera vincitrice di questa fase politica.
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Altro che premio Nobel per la pace: Obama prende a schiaffi la Cina sia a sudest che a nordovest. Mentre Berlusconi e il suo Partito dell’Amore grondano odio anche nella trasferta in Israele

Ci risiamo. Con i due pesi e due misure, intendo. E comincio a pensare che il presidente Usa e premio Nobel per la pace mister Obama finirà con l’essere forse peggio di Bush, se non di Nixon. Mentre infatti sorride alla Cina e pare voglia cercare con essa la nuova partnership mondiale, con una mano fornisce nuove armi all’Isola di Taiwan-Formosa, chiaramente un pezzo di Cina anche se ancora un avanzo del criminale Chang Kai-shek diventato di fatto un protettorato Usa, e dall’altra e con l’altra riceve il Dalai Lama. Ovvero, tradotto in italiano: una pedata nel sedere a sudest, con le armi a Taiwan, e un pugno in faccia a nord ovest, con il Dalai Lama irredentista del Tibet. Della serie “abbiamo sempre e comunque ragione noi”. Se questa è distensione….

Poi c’è il nuovo atto della ormai ventennale piece berluscona. E’ andato in scena un nuovo attacco del capo del governo contro la magistratura italiana, attacco più adatto a una repubblica delle banane con sapori golpisti: “Con la magistratura dobbiamo usare la mano dura”, frase che ha il pregio di essere quanto mai esplicita e di fare anche rima. Ora è in scena il viaggio in Israele. O meglio: i baci in bocca con il suo governo sfacciatamente di destra, dove ricopre la carica di ministro degli Esteri un amante della pulizia etnica risolutiva finale come Avigdor Lieberman, che ha anche il pregio di essere un baro. Continua a leggere

Calciatore argentino del Napoli posa per una rivista gay

Che il calcio nostrano – o fors’anche quello mondiale – non ami commistionare omosessualità e pallone è cosa risaputa. C’è di meglio (o di peggio) da noi nel far sapere che il machismo la fa da padrone; che i calciatori omosessuali non se ne vedono e quindi non esistono; che sì, la curva è omofoba ma che volete, in fondo vale il risultato e la passione degli uni e degli altri per il pallone.

Il discorso vale così tanto che qualche tempo fa un calciatore parecchio osannato da noi, tale Gattuso  si mise di traverso sulla matrimonialità gay e i diritti alle coppie di fatto volute dal governo Zapatero.  «Per me le nozze sono tra un uomo e una donna, quelle tra omosessuali mi scandalizzano perché sono uno che crede nella famiglia da quando sono bambino e per chi crede nella religione una cosa del genere è molto strana», disse l’osannato.

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