Conflitto finito tra Gaza e Israele? Per ora

Dopo 11 giorni di guerra i palestinesi morti a Gaza sotto i bombardamenti israeliani sono stati 243, inclusi 66 bambini e 39 donne. I feriti sono 1910. Gli sfollati 60.000. Israele ha avuto 12 morti e centinaia di feriti. Le reazioni dei sionisti sono sempre sproporzionate.

Il cessate il fuoco reciproco e senza condizioni è avvenuto tramite la mediazione di Egitto e ONU. Netanyahu ha ringraziato Biden per l’appoggio dato al diritto di difendersi. Come noto gli USA rifiutano di considerare il partito Hamas un interlocutore.

I razzi lanciati da Gaza contro Israele sono stati 3.440, intercettati al 85-90% dal sistema di protezione Iron Dome: circa 500 sono ricaduti all’interno della stessa Striscia. Sotto i raid aerei sono finiti non solo i tunnel e i bunker di Hamas, ma anche l’unico laboratorio in funzione per l’analisi Covid dei tamponi (il virus ha già ucciso più di 930 persone a Gaza), un orfanotrofio, un liceo femminile, gli uffici del ministero della Salute e la torre che ospitava Al Jazeera, la Associated Press e altri uffici di media internazionali. I soliti effetti collaterali, che Netanyahu giustifica ribadendo che Hamas “piazza deliberatamente obiettivi militari dentro la popolazione civile”.

Nella UE l’unica a non chiedere la fine delle ostilità è stata l’Ungheria di Viktor Orbán.

Intanto sul fronte dell’Autorità Palestinese la leadership del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che guida il partito di al-Fatah e che è al governo in Cisgiordania dal 2005, si sta sgretolando sempre più, anche a seguito del recente conflitto. Questo per dire che i palestinesi non vogliono sentirsi delle pecore nei confronti di Israele. Non a caso Abu Mazen viene additato di “collaborazionismo” con Israele, anche perché il 29 aprile ha deciso di rinviare a data da destinarsi le elezioni generali per il Parlamento palestinese, il presidente dell’Autorità palestinese e il Parlamento dell’Olp, che si sarebbero dovute tenere in questo mese e a giugno dopo oltre 15 anni. Il presidente aveva giustificato il rinvio, dicendo che “gli israeliani non hanno concesso il permesso di votare nel distretto di Gerusalemme Est”. Ma non è escluso che Abu Mazen tema la fine della sua carriera a tutto vantaggio di Hamas.

Questo per dire che il conflitto non ha favorito gli elementi moderati della politica palestinesi ma quelli radicali, che l’occidente definisce con la parola “estremisti”, se non addirittura “terroristi”, come se la democrazia esistesse solo in Israele, e come se solo Israele abbia il diritto di difendersi, mentre i palestinesi hanno solo il dovere di subire la progressiva espropriazione delle terre da parte dei coloni.

Perché il sistema di difesa israeliano è così forte?

Israele è difeso da una cupola di ferro. Lo spiega bene il sito “Analisi Difesa” www.analisidifesa.it.

Grande protagonista degli scontri di questo mese, come in precedenti occasioni, si è confermato il sistema antibalistico israeliano a breve raggio, chiamato Iron Dome, cioè “cupola di ferro”, realizzato dal colosso dell’industria militare israeliana Rafael, ed entrato in servizio nel 2011. È attualmente efficiente per l’85-90%, cioè da 10 a 15 ordigni nemici ogni 100 presi di mira dal sistema possono raggiungere città e installazioni ebraiche. Senza poi considerare che il sistema prende di mira solo i missili lanciati su obiettivi sensibili ed è posizionato solo per colpire i missili provenienti da Gaza.

Ovviamente Israele non ha solo questo tipo di difesa, anche perché Iron Dome si limita a intercettare oggetti volanti di piccole dimensioni e anche di limitato sviluppo di volo (da un minimo di 4 e un massimo di 70-72 km dalla posizione della batteria). È cioè rivolto a razzi, missili o anche granate di mortaio. Non è in grado d’intercettare ordigni che provengano da una distanza inferiore a 4 km e che abbiano un tempo di volo inferiore a 28 secondi.

Il grosso della sua realizzazione è stato finanziato dal più potente alleato d’Israele, gli Stati Uniti, per un totale calcolato in un miliardo di dollari, secondo dati ufficiali. Tutta la difesa israeliana è finanziata soprattutto dagli USA. Anche perché costa l’ira di Jahvè: ogni missile dell’Iron Dome va dai 40.000 ai 100.000 dollari, laddove il prezzo di ogni razzo sparato dai gruppi palestinesi si aggira sui 1.000-5.000 dollari.

Ma la cosa più curiosa è che gli americani vogliono testare proprio attraverso le guerre d’Israele (che dal 1948 non sono mai finite) l’effettiva efficacia della cupola di ferro, onde verificare se un analogo sistema può funzionare nel proprio territorio, che però ha un’estensione colossale. Ecco perché una prima batteria di Iron Dome è già stata consegnata agli USA e attivata alla base di Fort Bliss alla fine del 2020, e nei prossimi mesi dovrebbe essere consegnata una seconda batteria.

Per combattere i palestinesi Israele non ha altre armi che l’uso delle armi. 4000 anni di cultura ebraica buttati nella Geenna.

L’appello di papa Francesco per regolamentare la finanza

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Che di fronte al dilagare incontrollato della finanza speculativa sia necessario “rivolgersi alla preghiera”, è uno schiaffo morale ai governi e alle istituzioni economiche internazionali preposte al controllo e alla regolamentazione dell’economia, della moneta e dei settori finanziari. E’, però, l’ammissione della loro incapacità d’intervento e della sottomissione al “mercato senza leggi” e al laissez faire più spregiudicato. Dinanzi all’intollerabilità della situazione, papa Francesco si è sentito in dovere di richiamare i credenti e i laici con un video dedicato alla preghiera per una “finanza giusta, inclusiva e sostenibile”.

 Egli afferma che “mentre l’economia reale, quella che crea lavoro, è in crisi – quanta gente è senza lavoro! – i mercati finanziari non sono mai stati così ipertrofici come sono ora. Quanto è lontano il mondo della grande finanza dalla vita della maggior parte delle persone! La finanza, se non viene regolamentata, diventa pura speculazione animata da politiche monetarie. Questa situazione è insostenibile. È pericolosa. Per evitare che i poveri tornino a pagarne le conseguenze, bisogna regolamentare in modo rigido la speculazione finanziaria.”.

 Ricorda che la finanza deve essere uno strumento per servire le persone e per prendersi cura della casa comune e fa un appello “perché i responsabili della finanza collaborino con i governi, per regolamentare i mercati finanziari e proteggere i cittadini in pericolo.”

 In pratica riprende il discorso avviato nel 2015 con l’enciclica” Laudato sii” in cui si afferma che “la finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale”. Secondo Francesco non è una questione di teorie economiche ma della loro applicazione fattuale nell’economia. Il mercato da solo non può garantire lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale, né la protezione dell’ambiente e dei diritti delle generazioni future.  

 Nell’enciclica citata si sostiene: “La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia… Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura”.

 Secondo noi la crisi finanziaria del 2007-2008 ne è la prova: sarebbe stata l’occasione per sviluppare una nuova economia, non solo più attenta ai principi etici, ma, soprattutto, per regolamentare l’attività finanziaria speculativa e la ricchezza virtuale. Purtroppo non è stato così.

 Certo, sono concetti che papa Francesco ripete ormai costantemente. Lo ha fatto anche recentemente nell’enciclica “Fratelli tutti” e con molto coraggio anche nella lettera inviata al meeting della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, svoltosi lo scorso aprile. Egli afferma che “è ora di riconoscere che i mercati — specialmente quelli finanziari — non si governano da soli. I mercati devono essere sorretti da leggi e regolamentazioni che assicurino che operano per il bene comune, garantendo che la finanza – invece di essere meramente speculativa o finanziare solo sé stessa – operi per gli obiettivi sociali tanto necessari nel contesto dell’attuale emergenza sanitaria globale”.

 Ci preme sottolineare che la preghiera del papa ha avuto anche qualche orecchio attento. La Federcasse, la Federazione italiana delle Banche di Credito Cooperativo, una rete di 250 banche cooperative di comunità con un milione e 350 mila soci, l’ha fatta sua. Del resto essa fa della vicinanza al territorio, alle famiglie e ai piccoli imprenditori e artigiani la sua mission. In merito, il direttore generale Sergio Galli ha ribadito che “occorre elaborare nuove forme di economia e finanza realmente orientate al bene comune e rispettose della dignità umana”.

 Naturalmente le tematiche affrontate da papa Francesco sono tali che oggettivamente impongono ai governi decisioni rapide e stringenti. In questi giorni da più parti si sollecita il superamento dei brevetti sui vaccini. Tema che va affrontato. Si consideri che, mentre nei paesi industrializzati una persona su 4 ha già ricevuto almeno una dose di vaccino, nei paesi poveri, invece, l’ha avuta una su 500. Il caso più odioso è sicuramente quello dell’India, dove si produce il 70% dei vaccini mondiali, ma non per i propri cittadini, bensì per l’export.

 *già sottosegretario all’Economia  **economista

La politica genocidaria di Israele dipende da noi occidentali

Perché i politici (che non siano proprio quelli della sinistra radicale) si schierano subito dalla parte di Israele, ogni volta che nella Palestina scoppia un conflitto bellico tra le parti avverse, appartenenti a religioni ufficialmente opposte?

La motivazione va cercata nell’immaginario collettivo, che è più forte di qualunque motivazione reale della guerra in corso.

Quando si parla di terrorismo internazionale, qual è la religione cui l’occidente fa sempre riferimento? L’islam.

Quando si parla di flussi migratori verso l’Unione Europea, qual è la religione prevalente di appartenenza dei migranti? L’islam.

Quando nel Mediterraneo si vedono Paesi con governi autoritari che minacciano la stabilità dei Paesi confinanti, gestiti da governi democratici, a quale religione si attribuisce questa nuova e per noi occidentali fastidiosa proiezione di potenza? L’islam.

Quando mettiamo a confronto un Paese capitalisticamente avanzato come Israele e un altro economicamente piuttosto arretrato come quello palestinese, a quale religione attribuiamo tale arretratezza? L’islam.

Quando sul piano internazionale vediamo che Israele è in grado di muoversi agevolmente con una propria leadership politica e diplomatica, mentre i palestinesi non hanno niente che possa reggere il confronto, a quale religione attribuiamo questo deficit di rappresentanza? L’islam.

Quando l’intero occidente si chiede quale sia una radice culturale che ha determinato la propria civiltà, a quale religione fa riferimento? Ebraico-cristiana.

Quando l’occidente ricorda i tempi del proprio passato colonialismo, ha mai nutrito dubbi sulla necessità di “civilizzare” completamente e radicalmente le popolazioni appartenenti alla religione islamica? Nessun dubbio.

Quando sul piano demografico l’occidente cristiano teme il diffondersi di una religione concorrente, a quale fa subito riferimento? L’islam.

Quando l’occidente pensa all’idea di genocidio, a quale religione associa immediatamente questo crimine? L’ebraismo.

Quando in forza di questo genocidio abbiamo ritenuto che gli ebrei dovessero essere risarciti con un proprio territorio, perché ci è sembrato giusto che dovessero rimetterci i palestinesi? Perché erano islamici.

Dunque, quando Israele si comporta in maniera razzistica, colonialistica, genocidaria nei confronti dei palestinesi, che cos’è che le dà la sicurezza di potersi comportare così in tutta tranquillità? È l’immaginario collettivo che in occidente essa stessa ha contribuito a creare.

Giustizia è fatta! O no? Cerchiamo di capire.

Dopo oltre 20 anni di attesa il giornalista e scrittore di lungo corso Beppe Lopez, cronista di politica interna dell’esordio di Repubblica e man mano detentore di un curriculum di tutto rispetto  (  http://infodem.it/iniziative.asp?id=2977  ), s’è visto negare dal tribunale di Potenza tutti i suoi diritti economico professionali nonostante risultassero nero su bianco da regolari contratti di lavoro. Come se non bastasse, di recente è stato condannato non solo a pagare 30 mila euro di spese processuali e parcelle alla controparte, ma anche a cominciare a pagarle subito senza aspettare l’esito dei  sui ricorsi in appello. Insomma, come si suol dire, cornuto e mazziato.

Il tutto in un tribunale il cui bar, dal 2017 ufficialmente gestito dalla società “Bar del Tribunale Srl”, secondo la Direzione Distrettuale Antimafia sarebbe in realtà gestito da prestanomi e affiliati di un’organizzazione mafiosa colpita il 27 aprile da 17 mandati di cattura. Ma torniamo a Beppe Lopez.

Dal 1989 al 1997 il collega è ancora a Roma a dirigere la Quotidiani Associati, la più importante agenzia italiana di servizi giornalistici,  forniti a una 30ina di testate locali. Poi nel 1998 Lopez cede alle sirene dell’editore lucano, cioè della Basilicata, Donato Macchia, titolare della tv privata Teleregione, desideroso di varare con la sua società Alice Idea Multimediale anche un quotidiano che vada in edicola, visto che la sua è l’unica regione che ne è ancora sprovvista. Contratto da direttore garantito dall’azienda editrice per dieci anni e per tre anni dall’editore in persona.

E così Lopez lascia Roma per andare a progettare e realizzare a Potenza il quotidiano regionale La Nuova Basilicata, rifornita di pubblicità dalla Manzoni e di articoli e inchieste nazionali dell’Agenzia dei Giornali Locali (AGL), entrambe del Gruppo L’Espresso. Successo oltre le previsioni. Ed entusiasmo del manipolo di pionieri raccolti da Lopez. Due cose che però non piacciono a tutti, specie a chi era abituato a condurre affari e politica senza avere ficcanaso tra i piedi, specie in un periodo in cui vengono scoperti il settore eolico e i ricchi contributi pubblici. Sta di fatto che Macchia, in seguito imprenditore anche del settore eolico, dopo meno di un anno dal varo del giornale licenzia quattro redattori. E poiché Lopez si oppone e protesta Macchia licenzia anche lui

E i dieci anni di contratto garantito dall’azienda? E i tre anni garantiti dall’editore in persona? Svaporati. Alice Idea Multimediale dichiara fallimento, la Nuova Basilicata chiude i battenti e il suo posto viene preso da La Nuova del Sud. Il magistrato nega a Lopez anche la possibilità di inserirsi nel fallimento nonostante fosse un “creditore privilegiato” in quanto ex dipendente della società fallita.

Dopo un palleggio tra Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI, sindacato nazionale dei giornalisti)  e l’Associazione Regionale della Stampa (ARS, sindacato regionale dei giornalisti) su chi dovesse prendere l’iniziativa, nel 2019, cioè a 20 anni dai fatti e dopo una decina di rinvii delle udienze, la FNSI s’è decisa a  denunciare entrambe le vicende al  Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Che ha chiesto chiarimenti al Tribunale di Potenza.

Risultati? Nel giugno 2020 i magistrati di Potenza hanno rigettato come inammissibili ambedue le vertenze intentate da Lopez. E lo hanno condannato al pagamento delle spese processuali, per un totale di 30 mila euro. Da cominciare a prelevare subito a rate dalla sua pensione: Lopez ha infatti sì chiesto i processi d’appello, ma i magistrati hanno respinto anche la sua domanda di sospensione della riscossione in attesa delle nuove sentenze. E sì, cornuto e mazziato.

Nelle loro sentenze  vengono negati a Lopez in particolare i seguenti diritti:

- la partecipazione al fallimento, 

- il riconoscimento del contratto garantito per dieci anni, 

- il riconoscimento dei contratto garantito di persona dall’editore,

- il pagamento delle mensilità dei nove anni “saltati”,

- il pagamento della liquidazione (detta anche TFR, Trattamento di Fine Rapporto),

- i risarcimenti per demansionamento, 

- il risarcimento da mancato preavviso del licenziamento, 

- il credito per spese connesse ai procedimenti penali.

Sarebbe utile pubblicare la sentenza per renderla di pubblico dominio, e poter così leggere le motivazioni addotte dai magistrati.

Il botto del bar del tribunale a quanto pare gestito per interposta persona da malavitosi, sfacciato trofeo del loro asserito avere le mani in pasta ovunque, ha dato la stura a una serie di voci che è meglio non raccogliere. 

Una battaglia mondiale per un chip

Il commissario europeo Thierry Breton responsabile della politica industriale della UE, ha detto al quotidiano economico francese “Les Echos”: “Da diverse settimane si registra una penuria di semiconduttori [minuscoli prodotti di silicio che troviamo ormai ovunque] sul mercato mondiale, e questo ha costretto a interrompere l’attività di alcune fabbriche di automobili [dove i chip sono in media 800!] e perfino impianti per la produzione di tostapane. In questa industria l’Europa si è lasciata distanziare per mancanza d’investimenti. La produzione di semiconduttori di ultima generazione si effettua principalmente in Asia, e in particolare a Taiwan, che non può più venderli alla Cina. Soprattutto l’azienda TSMC detiene un quasi monopolio sui semiconduttori di alta gamma. L’azienda statunitense Intel, dominante fino a 10 anni fa, è stata soppiantata. Oggi TSMC produce l’80% dei semiconduttori più sofisticati e si prepara a commercializzare semiconduttori di 3 se non addirittura 2 nanometri [l’unità di misura del settore che corrisponde allo spessore di un capello]. A parte la Corea del Sud nessuno riesce a tenere il passo, neanche la Cina, che oggi è priva dell’accesso all’industria a causa delle sanzioni americane”.

A dir il vero per quanto riguarda la ricerca e progettazione (che non c’entra niente con la fase della fonderia, dell’assemblaggio e imballaggio) gli USA detengono ancora una leadership mondiale, in virtù della quale possono controllare circa la metà delle vendite globali di semiconduttori, contro il 10% della UE e il 5% della Cina. Ben 8 delle 15 più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono negli USA, con Intel prima per vendite annue.

Un quadro radicalmente opposto si delinea invece per quanto riguarda l’attività di fonderia, dominata effettivamente da Taiwan e dalla Corea del Sud, con rispettivamente il 23% e 26% della capacità produttiva del settore. Complessivamente in Asia orientale è concentrato circa l’80% della produzione mondiale di chip. All’interno di questa quota la Cina ricopre il 12%, con una crescita di 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni.

La TSMC ha inoltre investito più di 20 miliardi di dollari per la costruzione, nell’area meridionale di Taiwan, di una nuova fabbrica delle dimensioni di 22 campi da calcio, capace di sviluppare le tecnologie a 3nm e 2nm, rispettivamente previste per il 2022 e il 2024.

Parallelamente, USA e UE hanno invece assistito al crollo, negli ultimi tre decenni, della loro quota nella capacità produttiva globale di semiconduttori, da quasi il 40% a rispettivamente il 12% e il 10% circa.

In particolare la UE ha perso la sfida tecnologica per almeno il prossimo decennio, poiché gli investimenti necessari sono colossali. La sola TSMC si prepara a investire 100 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni, mentre l’Europa può mettere sul piatto solo una decina di miliardi, più altrettanti di contributi da parte degli industriali. Troppo pochi.

Trump aveva indotto TSMC a costruire una fabbrica in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari, per colpire soprattutto il colosso Huawei, accusato dagli USA di collaborare con le autorità cinesi a fini spionistici. I lavori di costruzione (con 1.600 addetti e migliaia di altri nell’indotto) dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione di 20.000 chip al mese a 5 nanometri dovrebbe essere avviata nel 2024. L’impianto sarà la seconda fabbrica della TSMC negli USA. Nel 2017 un’altra big taiwanese, Foxconn, ha annunciato piani per costruire un impianto nel Wisconsin. Anche Intel ha già annunciato un investimento da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. L’Arizona dovrebbe inoltre accogliere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics. Tutte cose che nella UE ci sogniamo.

Ora Breton vorrebbe convincere i taiwanesi a investire anche in Europa, ma ha già ricevuto un rifiuto: TSMC vuole mantenere l’essenziale della produzione a Taiwan, che però è un’isola rivendicata da Pechino, e l’industria cinese, dopo l’embargo americano sui dazi, ha assolutamente bisogno di quei semiconduttori, anche perché in questo settore patisce diversi anni di ritardo. Infatti ne ha ammassato le scorte prima del blocco e sta investendo nella propria autosufficienza. Poi è venuta la pandemia che ha provocato un incremento nell’uso di materiale informatico.

Insomma ce n’è abbastanza per far scoppiare una guerra, anche perché questo settore tecnologico vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021). Infatti i semiconduttori sono una componente cruciale per smartphone e computer, che insieme costituiscono i 3/5 degli acquisti globali di chip, ma anche per l’industria automobilistica (10% del mercato). In campo militare, poi, sono assolutamente necessari per modellare le traiettorie di missili e droni da combattimento.

Washington mette in pericolo la sopravvivenza di Huawei, orgoglio dell’economia cinese, numero uno al mondo nei dispositivi telefonici e pioniere nella tecnologia 5G, con un giro d’affari globale di oltre 100 miliardi di euro e circa 200.000 dipendenti. E Huawei, già costretta a vendere il suo marchio di smartphone Honor per evitarne il fallimento, è solo la punta dell’iceberg di quella che è ormai una guerra aperta in campo tecnologico. Ricordiamo che un anno e mezzo fa gli USA han fatto arrestare a Vancouver la direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore, con l’accusa d’aver violato le sanzioni contro l’Iran.

Pechino infatti sta già prendendo misure ritorsive: bloccherà o rallenterà le esportazioni di terre rare, la famiglia di 17 minerali usati in settori strategici, a cominciare da quello degli armamenti. Servono 435 grammi di questi minerali per fabbricare un aereo da combattimento statunitense F-35. E si può facilmente prevedere che Pechino troverà il modo per piegare Taiwan alle proprie esigenze, anche perché l’isola non può fare a meno del mercato cinese,

Ricordiamo che nel 2010, durante un periodo di tensioni, la Cina aveva già privato il Giappone delle terre rare. All’epoca ne controllava il 95% del mercato; oggi ne controlla ancora l’80%. Ma questa volta sono gli occidentali che stanno cercando di ridurre la loro dipendenza.

L’apartheid in Israele

Il rapporto dell’ong Human Rights Watch, “A threshold crossed” (Una soglia oltrepassata), uscito il 27 aprile, sostiene che lo Stato israeliano è colpevole di crimini contro l’umanità, nello specifico di crimini di apartheid. Il nuovo studio si aggiunge alla denuncia della più importante organizzazione per i diritti umani israeliana, B’Tselem, che a gennaio ha definito l’occupazione israeliana in questi stessi termini nel suo rapporto.

Human Rights Watch è, insieme ad Amnesty International, la voce più autorevole in campo di diritti umani a livello internazionale. Il suo giudizio legale è stato redatto in un rapporto di 213 pagine, in cui dimostra che “le violazioni dei diritti dei palestinesi nei territori occupati da Israele corrispondono a crimini contro l’umanità di apartheid”.

D’altra parte il concetto di “apartheid” è da tempo slegato dal sistema politico un tempo applicato in Sudafrica. Ai sensi della Convenzione sull’apartheid e dello Statuto di Roma che fonda la Corte Penale Internazionale, l’apartheid costituisce un crimine che comporta atti inumani “nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altri gruppi razziali, al fine di perpetuare tale regime”.

Tra gli atti disumani identificati nella Convenzione e nello Statuto di Roma sono inclusi il trasferimento forzato, l’espropriazione della proprietà fondiaria, la creazione di riserve e ghetti, la negazione del diritto di partire e di tornare nel proprio Paese e il diritto a una nazionalità.

Uno dei principali elementi legali che crea in Israele le circostanze per un “regime istituzionalizzato di oppressione” è la legge sullo Stato-Nazione del 2018, che definisce Israele come lo “Stato-Nazione del popolo ebraico”, Gerusalemme la sua “capitale unita”, e l’ebraico la sola lingua ufficiale. Nessun riferimento a palestinesi, cristiani o musulmani. Questo costituisce una chiara base giuridica di discriminazione a favore degli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi d’Israele, che rappresentano peraltro il 21% della popolazione.

E non si può continuare a sostenere che chiunque faccia delle critiche ai governi israeliani, ha intenzione di mettere in discussione il diritto dello Stato di Israele di esistere come Stato-Nazione del popolo ebraico.

Dall’inizio del Ramadan, a metà aprile, Gerusalemme è sull’orlo dell’esplosione. Durante il mese sacro per l’islam, i palestinesi di Gerusalemme hanno l’abitudine di ritrovarsi la sera nei pressi della porta di Damasco, uno degli accessi alla moschea Al Aqsa, nella città vecchia. Non si fa nulla di eversivo. Eppure le autorità israeliane han chiuso l’area ai palestinesi, senza dare nessuna spiegazione. Ciò ha provocato le loro proteste, represse puntualmente dalla polizia israeliana.

Dopo giorni di tensioni, il 22 aprile un gruppo ebraico di estrema destra, Lehava (La fiamma), che sostiene il divieto di matrimoni misti e vuole “espellere gli arabi della terra santa”, ha organizzato un rastrellamento nella città vecchia di Gerusalemme. Al grido di “morte agli arabi”, circa 300 militanti del gruppo sono andati nei centri commerciali e per strada a caccia di palestinesi. Negli scontri che sono seguiti almeno 110 palestinesi sono stati feriti, mentre oltre 50 persone sono state arrestate.

Le difficoltà di Benjamin Netanyahu a creare una maggioranza di governo stabile l’hanno spinto a reclutare anche le frange più estreme, fasciste e razziste, nonché omofobe. In particolare il kahanismo, l’ideologia ebraica ispirata al rabbino Meir Kahane, che propone il trasferimento di tutti gli arabi nei paesi musulmani o in occidente, sta ottenendo sempre più consensi a livello governativo. I kahanisti hanno ora sei seggi in parlamento. La soluzione dei due Stati non è stata mai così lontana.

Dopo gli accordi di Abramo, che hanno determinato varie intese tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi sono a un punto morto a livello politico. E la comunità internazionale non sembra preoccuparsi minimamente che ogni giorno una persona nasca nella prigione a cielo aperto di Gaza, o senza diritti civili in Cisgiordania, o con uno status inferiore per legge in Israele, o condannato allo status di rifugiato permanente nei Paesi vicini, come i suoi genitori e nonni prima di lui, e questo perché è palestinese e non ebreo.

Prima che la Corte Penale Internazionale entri in possesso del dossier e lanci un’indagine per crimine di apartheid – che significherebbe per molti responsabili israeliani essere indagati e anche arrestati non appena varcano il territorio di uno dei 122 Paesi firmatari dello Statuto di Roma – è nell’interesse di tutti (i 6,8 milioni di israeliani ebrei e i 6,8 milioni di palestinesi che vivono tra Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza) costruire un futuro di diritto. E in questo futuro il nuovo governo americano non sembra avere alcuna parte positiva. Biden, infatti, pur avendo rinnovato i finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (sospesi da Trump), ha chiarito che non intende revocare il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, né il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan.