L’apartheid in Israele

Il rapporto dell’ong Human Rights Watch, “A threshold crossed” (Una soglia oltrepassata), uscito il 27 aprile, sostiene che lo Stato israeliano è colpevole di crimini contro l’umanità, nello specifico di crimini di apartheid. Il nuovo studio si aggiunge alla denuncia della più importante organizzazione per i diritti umani israeliana, B’Tselem, che a gennaio ha definito l’occupazione israeliana in questi stessi termini nel suo rapporto.

Human Rights Watch è, insieme ad Amnesty International, la voce più autorevole in campo di diritti umani a livello internazionale. Il suo giudizio legale è stato redatto in un rapporto di 213 pagine, in cui dimostra che “le violazioni dei diritti dei palestinesi nei territori occupati da Israele corrispondono a crimini contro l’umanità di apartheid”.

D’altra parte il concetto di “apartheid” è da tempo slegato dal sistema politico un tempo applicato in Sudafrica. Ai sensi della Convenzione sull’apartheid e dello Statuto di Roma che fonda la Corte Penale Internazionale, l’apartheid costituisce un crimine che comporta atti inumani “nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altri gruppi razziali, al fine di perpetuare tale regime”.

Tra gli atti disumani identificati nella Convenzione e nello Statuto di Roma sono inclusi il trasferimento forzato, l’espropriazione della proprietà fondiaria, la creazione di riserve e ghetti, la negazione del diritto di partire e di tornare nel proprio Paese e il diritto a una nazionalità.

Uno dei principali elementi legali che crea in Israele le circostanze per un “regime istituzionalizzato di oppressione” è la legge sullo Stato-Nazione del 2018, che definisce Israele come lo “Stato-Nazione del popolo ebraico”, Gerusalemme la sua “capitale unita”, e l’ebraico la sola lingua ufficiale. Nessun riferimento a palestinesi, cristiani o musulmani. Questo costituisce una chiara base giuridica di discriminazione a favore degli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi d’Israele, che rappresentano peraltro il 21% della popolazione.

E non si può continuare a sostenere che chiunque faccia delle critiche ai governi israeliani, ha intenzione di mettere in discussione il diritto dello Stato di Israele di esistere come Stato-Nazione del popolo ebraico.

Dall’inizio del Ramadan, a metà aprile, Gerusalemme è sull’orlo dell’esplosione. Durante il mese sacro per l’islam, i palestinesi di Gerusalemme hanno l’abitudine di ritrovarsi la sera nei pressi della porta di Damasco, uno degli accessi alla moschea Al Aqsa, nella città vecchia. Non si fa nulla di eversivo. Eppure le autorità israeliane han chiuso l’area ai palestinesi, senza dare nessuna spiegazione. Ciò ha provocato le loro proteste, represse puntualmente dalla polizia israeliana.

Dopo giorni di tensioni, il 22 aprile un gruppo ebraico di estrema destra, Lehava (La fiamma), che sostiene il divieto di matrimoni misti e vuole “espellere gli arabi della terra santa”, ha organizzato un rastrellamento nella città vecchia di Gerusalemme. Al grido di “morte agli arabi”, circa 300 militanti del gruppo sono andati nei centri commerciali e per strada a caccia di palestinesi. Negli scontri che sono seguiti almeno 110 palestinesi sono stati feriti, mentre oltre 50 persone sono state arrestate.

Le difficoltà di Benjamin Netanyahu a creare una maggioranza di governo stabile l’hanno spinto a reclutare anche le frange più estreme, fasciste e razziste, nonché omofobe. In particolare il kahanismo, l’ideologia ebraica ispirata al rabbino Meir Kahane, che propone il trasferimento di tutti gli arabi nei paesi musulmani o in occidente, sta ottenendo sempre più consensi a livello governativo. I kahanisti hanno ora sei seggi in parlamento. La soluzione dei due Stati non è stata mai così lontana.

Dopo gli accordi di Abramo, che hanno determinato varie intese tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi sono a un punto morto a livello politico. E la comunità internazionale non sembra preoccuparsi minimamente che ogni giorno una persona nasca nella prigione a cielo aperto di Gaza, o senza diritti civili in Cisgiordania, o con uno status inferiore per legge in Israele, o condannato allo status di rifugiato permanente nei Paesi vicini, come i suoi genitori e nonni prima di lui, e questo perché è palestinese e non ebreo.

Prima che la Corte Penale Internazionale entri in possesso del dossier e lanci un’indagine per crimine di apartheid – che significherebbe per molti responsabili israeliani essere indagati e anche arrestati non appena varcano il territorio di uno dei 122 Paesi firmatari dello Statuto di Roma – è nell’interesse di tutti (i 6,8 milioni di israeliani ebrei e i 6,8 milioni di palestinesi che vivono tra Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza) costruire un futuro di diritto. E in questo futuro il nuovo governo americano non sembra avere alcuna parte positiva. Biden, infatti, pur avendo rinnovato i finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (sospesi da Trump), ha chiarito che non intende revocare il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, né il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan.

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